In: Home > DOSSIER > Tuareg, Mapuche, Penan: Grandi dighe e fame di materie prime minacciano i popoli indigeni in tutto il mondo
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Pogrom bedrohte Völker n. 261, 4/2010
Bolzano, novembre 2010
Index
Editoriale, Mauro di Vieste | Centrali idroelettriche a scapito delle popolazioni
mapuche | Brasile: dal São Francisco
allo Xingú | Le attività
minerarie minacciano le comunità Maya-Mam in Guatemala
| Perù: il paradiso dei Cocama rischia di
scomparire | I popoli indigeni del Costa Rica
chiedono l'autonomia | India: l'estrazione
intensiva dell'uranio a spese degli Adivasi | Intervista: Adivasi minacciati dalle miniere di uranio
| Dighe e cambio climatico minacciano il Tibet
| Birmania: la costruzione eccessiva di dighe
spazzerà via i Kachin | Indonesia:
disboscamento e megaprogetti minacciano i popoli indigeni |
Penan a Sarawak / Malesia: dighe che cancellano la
memoria culturale | Tuareg: l'uranio
dall'Africa per l'industria atomica francese | Oromo in Etiopia | Deserto del
Kalahari: l'industria farmaceutica vuole brevettare le piante di
Hoodia
Di Mauro di Vieste
Tuareg, Mapuche, Penan: Grandi dighe e fame di materie prime minacciano i popoli indigeni in tutto il mondo, pogrom / bedrohte Völker 261 (4/2010).
Care lettrici, cari lettori,
sono passati ormai tre anni da quando, nel settembre 2007,
l'Assemblea generale dell'ONU ha promulgato "La dichiarazione
universale dei diritti dei popoli indigeni". Una incredibile
maggioranza di stati si dichiarò a favore del
riconoscimento di questi diritti fondamentali per i popoli
indigeni. Solamente 4 stati si erano opposti all'approvazione:
Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda. La posizione
dell'Australia e della Nuova Zelanda è cambiata di recente
e anche questi due stati si sono dichiarati disposti a sostenere
i principi contenuti della Dichiarazione.
Nonostante il clamore e l'insperato successo legato
all'approvazione di questa pietra miliare nel diritto dei popoli
indigeni, la situazione si presenta oggi molto meno rosea dei
principi ispiratori della dichiarazione.
Lo sfruttamento selvaggio e la depredazione delle risorse
naturali presenti in abbondanza sui territori dei popoli indigeni
continua a ritmi sempre più intensi: miniere, coltivazioni
intensive, deforestazione, grandi dighe, continuano a causare la
perdita di territorio e di identità oltre che della base
vitale di centinaia di migliaia di persone appartenenti spesso a
popolazioni indigene. Queste persone vengono trasformate in mano
d'opera a basso costo per la realizzazione di grandi opere se non
addirittura ridotte in schiavitù, ma la distruzione del
territorio e delle loro basi vitali li condanna alla definitiva
scomparsa come popolo. Con loro spariscono lingue, tradizioni e
conoscenze uniche.
Questa tendenza a livello globale sembra proprio non arrestarsi.
In tutto il mondo continua ad aumentare la pressione su popoli
indigeni e altre minoranze etniche: sono ormai borsa e finanza
che dettano legge. E non sono più solo aziende e
istituzioni finanziarie occidentali a intervenire nel mercato
globale delle materie prime, ma anche Cina ed India ormai che
finanziano i mega progetti che violano pesantemente i diritti
umani dei popoli indigeni oltre ad aumentare la corruzione nei
paesi in cui vivono. Il fabbisogno energetico e di materie prime
sta letteralmente "consumando" i territori vitali di molti popoli
indigeni.
La situazione in pratica non è cambiata, lo sfruttamento
purtroppo continua e a farne le spese sono i popoli indigeni
prima di tutto: la perdita di territorio e ambiente di vita,
significa sempre la perdita delle proprie tradizioni e della
propria identità. Ma la scomparsa di un popolo è
sempre una perdita grave per l'intera umanità.
Probabilmente i tempi sono maturi perché le Nazioni Unite
e la comunità internazionale passino dalle belle parole ai
fatti concreti, per garantire un futuro a tutti: non dobbiamo
dimenticare che garantire un futuro ai popoli indigeni significa
garantire un futuro a tutto il pianeta. Abbiamo solo da
guadagnarci!
Mauro di Vieste
Sabrina Bussani
Nella zona di Panguipulli, nel Cile meridionale, sono in progetto sei centrali idroelettriche che sfrutterebbero i laghi Pirihueico e Neltume, il fiume CuaCua, la cascata di Huilo-Huilo, il fiume Enco, il lago Riñihue e il fiume San Pedro; posti unici che finora ancora incantano per le loro acque cristalline e la foresta vergine. In difesa dell'ecosistema e del loro habitat si sono mobilitate le comunità mapuche della zona e le organizzazioni ambientaliste.
Celebrazione festiva dei Mapuche. Foto: Massimo Falqui Massidda.
L'acqua è, non solo in Cile, un affare miliardario. Nel
1981, durante la dittatura del generale Augusto Pinochet, il
governo militare cileno promulgò il "Codice generale
dell'Acqua" (Código General del Agua) grazie al quale
l'acqua smise di essere un bene comune e divenne una merce in
mano di chi se ne poteva permettere la gestione. Il Codice
dell'Acqua infatti separò i diritti sull'acqua dalla
proprietà della terra, spogliando così sia gli
agricoltori che le comunità rurali e indigene del
controllo delle acque presenti sul loro territorio. Strettamente
legati al Codice dell'Acqua sono i diritti sull'acqua non
consumabile, cioè su quella porzione di acqua che non
può essere utilizzata per usi comuni (uso domestico,
irrigazione, imbottigliamento, etc.) ma che, una volta usata o
"trasformata", deve essere restituita alla fonte. Si tratta
insomma di quella porzione di acqua destinata alla generazione di
energia idroelettrica e che attualmente comprende circa il 78%
dell'acqua dolce cilena. I
Le imprese che si contendono il controllo dell'industria
idroelettrica sono circa 26, ma il grosso del mercato è
controllato da solo tre grandi imprese: Endesa Chile (controllata
attraverso il consorzio Enersis da Endesa Spagna che a sua volta
è di proprietà dell'italiana Enel), Colbún e
AES Gener.
Delle molte centrali idroelettriche presenti in Cile qualcuna
sfrutta la caduta naturale dei corsi d'acqua per la produzione di
energia ma molte richiedono la costruzione di enormi dighe e
bacini con l'inondazione di grandi fette di territorio - molte
delle dighe si trovano su territorio ancestrale delle popolazioni
Mapuche.
Kul Kul, corno, strumento musicale dei Mapuche. Foto: Massimo Falqui Massidda.
La prima grande ondata di proteste contro le centrali
idroelettriche era stata provocata dalla costruzione della
centrale di Ralco-Endesa sul fiume Bío Bío. La diga
era stata inaugurata nel settembre 2004 dopo quasi dieci anni di
conflitto tra le comunità Mapuche Pehuenche, lo stato
cileno e l'impresa Endesa e l'opposizione di gruppi
ambientalisti, organizzazioni per i diritti umani e diverse
agenzie statali. Per la realizzazione della centrale è
stato costruito un muro di contenimento dell'invaso di 370 metri
di larghezza e 155 di altezza, sono stati inondati oltre 3.000
ettari di terreno boschivo impiegato per le attività di
pastorizia ed agricoltura, ed è stato irrimediabilmente
danneggiato l'ecosistema della valle dell'Alto Bío
Bío. Gli insediamenti Mapuche Pehuenche direttamente
interessati dal progetto sono stati quasi 100, per un totale di
oltre 250 nuclei familiari, con 1.200 persone coinvolte delle
quali circa 700 sfollate e trasferite altrove. Per queste persone
la perdita del loro territorio e il trasferimento coatto ha
significato la graduale disintegrazione sociale e culturale, la
radicale modificazione delle tradizionali attività
lavorative e una frattura irreversibile nel loro stile di vita
ancestrale.
Nel caso della centrale di Ralco, l'agenzia statale per lo
sviluppo indigeno (CONADI - Corporación Nacional de
Desarrollo Indígena) ha parlato chiaramente di "etnocidio"
e il Relatore Speciale dell'ONU per i Diritti dei Popoli Indigeni
Rodolfo Stavenhagen ha dichiarato nel 2003: "...il caso Ralco
illustra chiaramente le tensioni sociali che sorgono tra un
modello di sviluppo "modernizzatore" e i costi sociali,
ambientali e culturali che deve sopportare il popolo caricato del
peso di questa trasformazione economica."
Attualmente le autorità competenti stanno valutando i
progetti per la costruzione di otto nuove centrali
idroelettriche, tutte su territorio ancestrale Mapuche. Osorno,
Neltume, Choshuenco, Pellaifa, Liqueñe, Reyehueico, Maqueo
e Angostura, questi i nomi delle future centrali, rischiano di
trasformarsi in altrettanti conflitti. Ancora una volta si tratta
di inondare ettari di territorio, mettere sott'acqua terreno
agricolo, siti sacri e cerimoniali, dislocare comunità e/o
famiglie, sottrarre acqua alle comunità adiacenti,
modificare profondamente se non distruggere ecosistemi e ambienti
unici per la loro biodiversità. Particolarmente drammatico
appare il caso di 5 famiglie Mapuche Pewenche già sfollate
e ricollocate in seguito alla realizzazione di una centrale
idroelettrica e che ora rischiano di dover nuovamente lasciare
tutto per fare posto alla centrale di Angostura.
Le comunità Mapuche accusano autorità e
imprenditori di non rispettare le convenzioni internazionali
firmate e ratificate dal Cile. La legge cilena 19.300
sull'Ambiente (Bases de Medio Ambiente) prevede che le
organizzazioni con personalità giuridica e le persone
naturali abbiano a disposizione 90 giorni dopo la consegna dello
studio di impatto ambientale per presentare le proprie
osservazioni che comunque non hanno carattere vincolante. Anche
la legge indigena cilena (legge 19.253) stabilisce il diritto di
consultazione delle organizzazioni indigene. Le comunità
indigene e le loro rappresentanze non necessariamente
costituiscono però né un'organizzazione con
personalità giuridica né sono persone naturali e
sono quindi generalmente escluse dalle consultazioni sui
megaprogetti. Le autorità cilene di fatto riconoscono solo
organizzazioni create dalla stessa legge indigena e la
comunità ancestrale dei soli Mapuche Williche. Ciò
contraddice però l'articolo 6 della Convenzione ILO 169,
ratificata dal Cile nel 2008, secondo cui le istituzioni
rappresentative proprie delle popolazioni indigene devono essere
riconosciute come interlocutori ufficiali. Resta infine da
menzionare che anche quando le comunità indigene vengono
consultate a proposito di nuovi progetti sulla loro terra,
secondo la legge indigena la loro opinione non è comunque
vincolante.
Informazioni ulteriori: La sezione di Bolzano dell'Associazione per i popoli minacciati ha organizzato la mostra "Mapuche - Viaggio tra la gente della terra". Il fotografo Massimo Falqui Massidda ha documentato la situazione dei Mapuche trascorrendo un periodo di 4 mesi nel sud del Cile. Per informazioni sulle prossime esposizioni e sulla brochure che accompagna la mostra: info@gfbv.it.
Sabrina Bussani
Porto di Altamira / Brasile. Foto: Rebecca Sommer.
Il piano di accelerazione della crescita (PAC) avviato dal
governo brasiliano di Luiz Inácio Lula da Silva è
un classico piano di sviluppo: infrastrutture idroelettriche,
costruzione di strade, sviluppo tradizionale nelle aree vergini
della foresta. Circa 420 dei progetti finanziati grazie al PAC
dovrebbero essere realizzati in terre indigene. Si tratta di
progetti a forte impatto ambientale, che andranno a modificare in
modo irreversibile ecosistemi delicati, la diffusione di specie e
ovviamente la vita di coloro che abitano le regioni interessate
dai progetti. Nonostante il Brasile abbia firmato e ratificato
nel 2002 la Convenzione internazionale ILO 169 che fissa in modo
vincolante una miriade di diritti dei popoli indigeni tra cui il
diritto al coinvolgimento e alla consensualità nella
progettazione e nella realizzazione di progetti previsti sulle
loro terre, le indicazioni contenute nella Convenzione non sono
state rispettate dal governo. E così, man mano che il
governo procede con la realizzazione dei molti mega-progetti, si
ampliano le proteste delle popolazioni indigene colpite,
affiancate dalle organizzazioni per i diritti umani e dalle
associazioni ambientaliste.
Due dei cavalli di battaglia del PAC sono il progetto di
trasposizione delle acque del fiume São Francisco e la
mega-diga di Belo Monte sul fiume Xingú.
Il fiume São Francisco attraversa sei stati brasiliani e
con un'estensione di 3.160 km è il terzo bacino
idrografico del Brasile. Opará - il "fiume-mare", come lo
chiamano gli indigeni, è di vitale importanza per la
sopravvivenza fisica e culturale dei 33 popoli indigeni e delle
diverse comunità afro-brasiliane (quilombolas) che vivono
lungo le sue sponde. Circa 70.000 persone vivono e sopravvivono
grazie al fiume: dalle sue acque dipende l'agricoltura che
sfrutta il ciclo delle maree, la pesca, l'allevamento e sempre
alle acque del fiume sono legati i rituali, le credenze
spirituali e religiose, la cultura dei popoli nativi.
Pajé Mureyra, Kuipiuna Asurini. Foto: Rebecca Sommer.
Ora il São Francisco così come lo conosciamo
rischia di scomparire inghiottito dal cemento. La
Transposição, come il progetto viene chiamato in
Brasile è un mega-progetto di ingegneria idraulica dal
costo approssimativo di 2,5 miliardi di Euro che prevede la
costruzione di due canali di deviazione delle acque di più
di 600 km di lunghezza, 2 dighe idroelettriche oltre alle sette
già esistenti, 9 stazioni di pompaggio, 27 acquedotti, 8
tunnel, 35 dighe di contenimento e riserva dell'acqua. Secondo il
governo la Transposição dovrebbe essere la
soluzione definitiva all'approvvigionamento di acqua nelle zone
semi-aride del nordest brasiliano. Di altro avviso sono gli
oppositori al progetto che fanno notare come nel testo del
progetto si possa leggere che solo il 4% delle acque trasposte
sarà destinato alla popolazione rurale, cioè alla
parte di popolazione maggiormente colpita dalla siccità,
il 26% delle acque sarà destinato ad uso urbano e
industriale mentre il 70% andrà a soddisfare i bisogni dei
progetti a irrigazione intensiva, ossia delle monoculture legate
alle multinazionali dell'agrobusiness e degli allevamenti di
gamberi. Le organizzazioni della società civile e le
comunità di pescatori e indigeni che vivono lungo le
sponde del fiume hanno trovato nel vescovo dom Luiz Flavio Cappio
e nel premio Nobel Adolfo Pérez Esquivel due illustri
sostenitori nella lotta contro il mega-progetto. Noto per i suoi
due scioperi della fame in difesa del fiume São Francisco,
dom Cappio non usa mezzi termini per spiegare la sua opposizione
al progetto: "... è ingiusto dal punto di vista sociale,
perché avvantaggerà solo un piccolo gruppo di
potere, insostenibile sul piano ambientale perché
danneggerà irreversibilmente il fiume, antieconomico e
fondato sulla menzogna perché opere alternative
costerebbero la metà e garantirebbero l'acqua al quadruplo
delle persone."
Un altro grande progetto attorno a cui si concentra la
mobilitazione delle comunità indigene e delle
organizzazioni sia ambientaliste sia di difesa dei diritti umani
è la diga e centrale idroelettrica di Belo Monte sul fiume
Xingú in piena foresta amazzonica.
Fiume Xingù. Foto: Rebecca Sommer.
La centrale idroelettrica di Belo Monte dovrà essere la
terza più grande al mondo con un costo di circa 20
miliardi di dollari USA e secondo diverse organizzazioni
ambientaliste sarà inutile. Una ricerca realizzata dal WWF
Brasile infatti dimostra che un investimento mirato a
modernizzare secondo criteri di efficienza l'obsoleta rete di
distribuzione energetica brasiliana comporterebbe un risparmio
del 40% del consumo energetico brasiliano, il che equivarrebbe
alla produzione elettrica di 14 centrali come quella di Belo
Monte. Non convince nemmeno l'argomento del governo secondo cui
la centrale fornirà energia elettrica a 23 milioni di case
poiché secondo il progetto l'energia prodotta andrà
ad alimentare soprattutto vecchi e nuovi impianti per la
lavorazione dell'alluminio.
Ciò nonostante e proprio alla chiusura del "Primo Incontro
dei Popoli e delle Comunità colpite e minacciate dai
grandi progetti di infrastrutture", tenuto nella cittadina di
Itaituba nello stato brasiliano del Pará dal 25 al 27
agosto 2010, arriva la firma dell'allora presidente brasiliano
Luiz Inacio Lula da Silva che da' il via definitivo alla
costruzione della mega-diga e centrale idroelettrica.
All'incontro di Itaituba hanno partecipato 600 rappresentanti di
popoli indigeni e di organizzazioni ambientaliste e per i diritti
umani per manifestare e organizzare la loro opposizione alla
politica dei mega-progetti, approvati e realizzati in aperta
violazione della Convenzione ILO 169 e a spese delle popolazioni
indigene, dei piccoli agricoltori e pescatori e
dell'ambiente.
La costruzione della diga e della centrale idroelettrica di Belo
Monte infatti comporterà l'allagamento di una vastissima
area, tra cui parte della cittadina di Altamira, e il
prosciugamento di alcuni tratti del fiume Xingú. Circa
20.000 persone in prevalenza indigeni, piccoli agricoltori e
pescatori e abitanti dei quartieri poveri della città di
Altamira saranno evacuate. Oltre alle promesse generiche di
risarcimenti, nuove scuole e servizi sanitari e maggiore
"sicurezza territoriale", finora non è stato reso pubblico
alcun programma di sostegno del governo per far fronte alla
risistemazione delle migliaia di persone che tuttora non sanno se
otterranno nuovi spazi, e, in caso affermativo, dove e a quali
condizioni. Non si sa inoltre quante siano le persone che
complessivamente subiranno le conseguenze dirette e indirette del
mega-progetto.
Secondo un gruppo di scienziati brasiliani, gli effetti
ambientali della diga saranno disastrosi. La diga avrà un
pesante impatto sulla fauna ittica dello Xingú e
sull'ecosistema della foresta per almeno 100 chilometri di rive
abitate da popoli indigeni. Si estinguerebbero circa 100 specie
di pesci di acqua dolce, mentre è impossibile calcolare il
danno per le specie presenti di anfibi, rettili, uccelli e
insetti. Per le popolazioni della regione ciò comporta una
drastica riduzione delle risorse ittiche da cui dipendono per la
loro sopravvivenza.
Noi, i popoli indigeni [...], comunichiamo all'opinione pubblica che:
Kazique Raoni Kajapó, Altamira/Brasile, 12 agosto 2010
Tutta la dichiarazione (in portoghese): www.cimi.org.br/?system=news&action=read&id=4876&eid=354
Nicole Hantzsche
Protesta contro la miniera Marlin di San Miguel Ixtahuacan nel giugno 2010. Foto: Tracy Barnett.
Il 20 maggio 2010 la Commissione Interamericana per i Diritti
Umani (CIDH) ha decretato la sospensione dell'attività
mineraria nella miniera d'oro di Marlin nello stato federale
guatemalteco di San Marcos. Per le 18 comunità indigene
dei Maya-Mam della regione la decisione ha acceso nuove speranze.
Nel 2007 le comunità Maya-Mam si erano rivolte al CIDH nel
tentativo di porre un freno all'inquinamento dell'acqua potabile
causato dall'attività mineraria e ai conseguenti rischi
per la salute. L'alto consumo di acqua da parte dell'impresa
mineraria causa infine scarsità d'acqua nei
villaggi.
Il 18 giugno 2005 la popolazione dei villaggi indigeni
dell'altipiano occidentale guatemalteco ha votato a grande
maggioranza contro l'avvio di progetti minerari nella regione.
Ciò nonostante l'impresa Montana Explorada della
multinazionale canadese Goldcorp. Inc. gestisce da ottobre 2005
la miniera di oro Marlin.
Le autorità guatemalteche violano in questo modo il
diritto internazionale dei popoli, e in particolare la
Convenzione ILO 169 ratificata dal paese centroamericano nel
1996. Secondo la Convenzione qualunque progetto che si intenda
realizzare in territorio indigeno può essere avviato solo
dopo aver fornito un'ampia ed esaustiva informazione relativa al
progetto stesso alla popolazione interessata e solo in seguito
all'accordo concesso dalla popolazione. All'inizio del 2010 sia
l'inviato speciale per gli affari indigeni dell'ONU James Anaya
sia i collaboratori della ILO hanno confermato che il Guatemala
contravviene agli obblighi assunti con la firma della Convenzione
e rilascia le licenze per l'attività mineraria senza alcun
accordo da parte della popolazione dei Maya-Mam.
In questo senso la CIDH ha decretato alcuni provvedimenti
temporanei, tra cui la sospensione dell'attività
mineraria, la bonifica delle fonti di acqua inquinate e la cura
dei problemi di salute arrecati dall'acqua contaminata. Inoltre
le autorità devono garantire la protezione e la tutela
delle persone che si oppongono all'attività mineraria a
possibili aggressioni e tentativi di intimidazione.
Si tratta di misure di fondamentale importanza per la
sopravvivenza e la salute dei Maya-Mam. In tutta la regione
infatti è a rischio l'approvvigionamento di acqua
potabile. La cattiva gestione delle acque reflue
dell'attività mineraria permette a sostanze chimiche
altamente inquinanti come il cianuro, usato per separare l'oro
dal pietrame, di disperdersi nelle acque del sottosuolo e di
contaminare così l'acqua potabile. Residui di metalli
pesanti sono già stati trovati nei campioni di sangue e di
urina delle persone che abitano nelle immediate vicinanze della
miniera.
Allo stesso tempo i risultati delle indagini condotte dalla
Commissione per l'Ambiente della Diocesi di San Marcos dimostrano
che i fiumi della regione sono contaminati da metalli pesanti e
che la ricorrente scarsità di acqua nelle comunità
indigene è da imputare all'enorme fabbisogno di acqua
dell'impresa mineraria. Mentre l'impresa Goldcorp Inc. sostiene
di consumare 45.000 litri di acqua all'ora, gli oppositori al
progetto minerario calcolano che l'attività estrattiva
consumi circa 150.000 litri di acqua all'ora. L'estrazione
dell'oro avviene infine su una vasta area, sia sotto terra sia in
superficie con la conseguente distruzione di territori naturali.
Le esplosioni e il passaggio dei camion pesanti comportano
frequenti scosse di cui molte case portano evidenti segni.
Negli anni l'insieme di questi fattori ha creato un clima di
crescente tensione. Le proteste della popolazione sono state
violentemente soppresse e lo scorso 7 luglio 2010 degli
sconosciuti hanno gravemente ferito Diodora Antonia
Hernández, sparando alla leader del movimento contro la
miniera mentre si trovava nella propria casa.
Il 23 giugno 2010 il governo del Guatemala ha promesso che
avrebbe attuato i provvedimenti richiesti dal CIDH, ma l'impresa
canadese Goldcorp Inc. ha già annunciato che non intende
fermare i lavori. Attualmente l'estrazione dell'oro a spese
dell'uomo e dell'ambiente continua.
Joachim Hoffmann
L'inquinamento dell’acqua è uno dei principali problemi dei Cocama. Foto: Joachim Hoffmann.
Nell'odierno Perù sopravvivono ancora circa 10.100
Indigeni Cocama in difficilissime condizioni di vita. Vivono
lungo i fiumi Huallaga, Marañon, Ucalyali, Nanay e il Rio
delle Amazzoni, in un'area che con i suoi 40.000 km2 è
grande quasi quanto la Svizzera. I Cocama sono sopravvissuti a
secoli di dominio coloniale, di schiavitù e di nuove
epidemie. Ora però rischiano di soccombere alla mancanza
di cibo e di acqua potabile, alle precarie condizioni igieniche e
alle malattie che ne conseguono.
Con i suoi 580 abitanti, San Martin de Tipishca è il
maggiore villaggio dei Cocama. Situato all'interno della riserva
naturale "Reserva Nacional Pacaya Samiria" presso la Cocha
Calzón di un braccio perlopiù secco del río
Marañon, il villaggio è raggiungibile solo via
fiume. Per arrivarci bisogna affrontare due giorni di navigazione
in vaporetto da Iquitos e poi altre sei ore di viaggio su una
piccola barca.
I Cocama però non sono estranei al mondo esterno. Vestono
come noi magliette e jeans, la maggior parte parla sia lo
spagnolo sia la propria lingua, il Cocama, che appartiene alla
famiglia delle lingue Tupi-Guaraní. I Cocama hanno avviato
un progetto di ecoturismo per piccoli gruppi con cui garantirsi
la propria base esistenziale nonché lo sviluppo del
villaggio. Hanno fondato l'Asociación indígena en
defensa de la ecología Samiria (Asiendes, Associazione
indigena per la difesa dell'ecologia in Samiria) e gestiscono i
due ostelli "Casa Lupuna" e "Asiendes". Complessivamente dodici
persone possono trovare ospitalità negli ostelli e nelle
famiglie cocama. Il ricavato viene suddiviso tra tutta la
comunità e serve a soddisfare fabbisogni comuni.
Il territorio dei Cocama si caratterizza per un'incredibile
varietà di specie. Qui si trova la maggiore varietà
di alberi, ma anche il tapiro, il giaguaro, la lontra gigante e
tante altre specie animali. La sera con un po' di fortuna si
possono osservare i delfini rosa.
La comunità Cocama vive in modo relativamente autarchico.
La pesca e la coltivazione di riso, yucca e banane forniscono la
base della loro alimentazione ma a periodi la comunità
soffre di scarsità alimentare a causa delle rigide norme
sulla caccia e la raccolta vigenti nel parco naturale. Inoltre si
fanno sentire le conseguenze del cambio climatico con inondazioni
più intense e lunghe del solito. Un'altra
difficoltà è rappresentata dai tagliatori illegali
di legna e dai pescatori di frodo.
Le condizioni igieniche nel villaggio sono catastrofiche. Le
acque nere finiscono senza essere filtrate nel suolo della
foresta e durante il periodo delle piogge direttamente nelle
acque del braccio del Marañon da cui vengono presi anche
l'acqua potabile e di uso comune. Per mancanza di legna da
ardere, spesso l'acqua non viene bollita prima del consumo. Nel
villaggio manca anche l'assistenza medica. La mortalità
infantile è del 19% e i malati gravi devono essere
trasportati a Iquitos. Alcuni missionari evangelici statunitensi
sfruttano la situazione per presentarsi periodicamente presso la
comunità con medici, attrezzature mediche e farmaci le cui
cure vengono dispensate solo a coloro che si affiliano alla loro
setta religiosa.
Il Gruppo regionale di Amburgo dell'Associazione per i popoli
minacciati (APM) sostiene la comunità dei Cocama fornendo
assistenza medica, e contribuendo all'istituzione di un sistema
di tubature per l'acqua potabile e per il filtraggio delle acque
nere e infine per l'installazione di un sistema di fornitura
elettrica tramite pannelli fotovoltaici.
L'autore: Joachim Hoffmann segue
il progetto Cocama insieme al Gruppo regionale di Amburgo
dell'APM. Visita regolarmente i Cocama.
Offerte: Förderverein für bedrohte
Völker e.V., Postbank Hamburg
IBAN: DE89 201 0020 0007 4002 01, BIC: PBNKDEFF
Causale: Cocama in Peru
La Förderverein für bedrohte Völker e.V. è
un'associazione che realizza i propri progetti umanitari in
stretta collaborazione con l'Associazione per i popoli
minacciati.
Jelena Bellmer
Nonostante manchi ancora uno studio di sostenibilità ambientale, le fasi preliminari per la costruzione della diga sono già in corso. Foto: Tilman Massa.
In Costa Rica vivono otto diversi popoli indigeni che
costituiscono però solo un 1,7% della popolazione. Il
Costa Rica ha così la più bassa percentuale di
popolazione indigena sul totale della popolazione del
Centro-America.
Uno dei popoli nativi del Costa Rica sono i Teribe a cui
appartengono ca. 800 persone. Da decenni i Teribe sono costretti
a lottare per la propria terra e per la propria sopravvivenza.
Nonostante nel 1939 abbiano ricevuto un proprio territorio
"Térraba" e una legge del 1977 abbia rafforzato il
principio per cui i diritti sulle terre indigene sono
"inalienabili, non cadono in prescrizione, non possono essere
ceduti e sono riservati a coloro che abitano le terre", oggi i
Teribe posseggono solo il 15% dell'originaria Térraba.
Durante gli anni '80 infatti molta terra è stata venduta a
coloni mentre la popolazione nativa è stata sempre
più spinta ai margini.
La costruzione di una nuova diga rischia ora di inondare parte di
quel che resta della loro terra. La diga "El Diquís" che
ironicamente in lingua teribe significa "grande fiume che
scorre", dovrebbe essere costruita sul fiume Río Grande de
Térraba che, con un bacino artificiale di 7.000 ettari,
dovrebbe diventare la più grande centrale idroelettrica
dell'America centrale.
Secondo l'istituto Costaricense di Elettricità (ICE -
Instituto Costarricense de Electricidad), la costruzione di "El
Díque" costituisce un'enorme possibilità di
sviluppo per le regioni meridionali del paese; per i Teribe
però il fiume è la più importante fonte di
alimentazione nonché un importante elemento della loro
cultura. Nella parte di terra che dovrebbe essere inondata si
trovano cimiteri e altri luoghi sacri dei Teribe. Secondo le
leggende, molti dei luoghi interessati sono popolati di esseri
magici che proteggono le gole, le colline e le fonti di acqua
potabile.
Il progetto per la costruzione della diga viola la Convenzione
ILO 169 che determina il diritto dei popoli indigeni a essere
consultati e coinvolti nei processi decisionali su ogni progetto
nella loro terra. Il Costa Rica ha firmato la Convenzione ILO 169
nel 1992 ma finora non ha adattato la propria legislazione alle
indicazioni della convenzione né sono state presentate
proposte per l'autonomia dei popoli indigeni.
In risposta a questa lunga assenza delle autorità, lo
scorso 9 agosto, giornata mondiale dei popoli indigeni, 21
rappresentanti delle popolazioni indigene del Costa Rica hanno
occupato una sala del Parlamento nazionale a San José per
ricordare ai partiti politici la legge sull'autonomia promessa
durante campagna elettorale. "In tutti questi anni ci hanno
sempre raccontato che ci sono progetti più importanti
[...] Abbiamo visto emanare leggi commerciali, fiscali, sociali e
sull'ambiente, ma la nostra legge non è mai stata
menzionata." Ora i popoli indigeni chiedono ai politici di
mantenere le promesse: "Abbiamo aspettato tutta la vita", dicono,
"ora basta!" Durante l'occupazione pacifica nessun membro del
Parlamento ha voluto parlare con i rappresentanti indigeni e alle
due di notte la polizia ha sgomberato con la violenza la
sala.
La presidente del Costa Rica Laura Chinchilla ha spiegato che
"una legge che tutela una minoranza non può mettere in
pericolo lo sviluppo dell'intera nazione". Il ministro per
l'ambiente Teófilo de la Torre ha poi dichiarato che una
legge per l'autonomia potrebbe rallentare o addirittura mettere
in pericolo la realizzazione di progetti come quello di El
Díque poiché darebbe agli indigeni la
possibilità di co-decisione nella propria terra, e
ciò "potrebbe comportare per il paese la perdita di
risorse importanti".
I Teribe temono che senza legge sull'autonomia non avranno alcuno
strumento per difendersi, e pare che abbiano ragione: nonostante
manchi ancora uno studio di sostenibilità ambientale, le
fasi preliminari per la costruzione della diga sono già in
corso ...
I popoli indigeni del Costa Rica
Il 42% degli otto popoli indigeni del Costa Rica vivono in
riserve e sono così composti (censimento 2000):
Fonte: www.inec.go.cr
Ulteriori informazioni: www.museoterraba.x2.to
Ulrich Delius
Famiglia Adivasi in un campo profughi (Foto: Dr. James Albert, GfbV).
A Jadugoda, nello stato indiano di Jharkhand, la percentuale
di bambini nati con malformazioni fisiche o con la sindrome di
Down è particolarmente alta. La percentuale degli aborti e
dei bambini nati morti è ancora più alta,
così come la mortalità infantile è
decisamente sopra la media nazionale. Gli adulti soffrono spesso
di malattie respiratorie, sterilità, tumore ai polmoni,
anemia, malattie del sistema nervoso e della pelle. Anche il
mondo animale e la fauna sembrano malati. I vitelli nascono
perlopiù senza coda, i pesci presentano strane escrescenze
e la mutazione nelle piante produce nuove varianti senza
semi.
I sintomi che si osservano a Jadugoda sono i classici sintomi da
danni da radiazione. Qui infatti si trova la zona di estrazione
dell'uranio più importante dell'India. Qui vivono
però anche i popoli nativi (Adivasi) Ho e Santhal. Il 24
dicembre 2006 nel vicino villaggio di Dungridih migliaia di litri
di acque reflue radioattive sono fuoriuscite per nove ore
dall'impianto di preparazione dell'uranio contaminando
così un piccolo fiume che scorre nelle vicinanze
nonché tutto l'ambiente circostante. La zona è
abitata da famiglie Adivasi che sono state dislocate là
proprio a causa dell'impianto. Lo scarico radioattivo ha formato
una coltre tossica che ha contaminato le riserve di acqua
potabile di molte delle comunità Adivasi che vivono lungo
il fiume e ha ucciso buona parte della vita animale del fiume e
lungo i suoi argini.
I liquidi che confluiscono nelle vasche di raccolta degli
scarichi contengono ancora ca. l'80% della radioattività
iniziale. Inoltre contengono i residui degli acidi con cui
l'uranio viene lavato e i metalli pesanti contenuti nell'uranio,
quali lo zinco, il piombo, il manganese, cadmio e il semimetallo
arsenico. Il bacino di raccolta degli scarichi non è
né coperto né recintato. Durante la stagione secca
i liquidi velenosi raccolti evaporano liberando le loro
particelle tossiche nell'aria. Durante la stagione delle piogge
monsoniche il bacino invece straripa e il suo contenuto altamente
contaminante finisce nel suolo e nell'acqua freatica. Il bacino
degli scarichi di Jadugoda per molto tempo è stato usato
anche come deposito illegale per i rifiuti radioattivi di altri
impianti di produzione, di centri di ricerca e di molti ospedali
del paese.
Secondo la legislazione indiana non è permessa la presenza
di villaggi entro una raggio di 5 km attorno a depositi di scorie
radioattive e a bacini di raccolta di liquame radioattivo.
Ciò nonostante nelle immediate vicinanze dell'impianto di
Jadugoda vivono circa 30.000 persone. Sette villaggi si trovano a
meno di 1,5 km dall'impianto e il villaggio di Digrith si trova a
soli 40 m dalla vasca di raccolta. Per diversi anni il bestiame
ha pascolato sulle dighe dell'enorme bacino di raccolta e accanto
vi giocavano i bambini. Attorno al bacino stesso viene tuttora
coltivato il grano. Camion aperti trasportano l'uranio dalla
miniera all'impianto di lavorazione, passando attraverso i
villaggi. Non è raro che pezzi del minerale cadano dal
camion. Bidoni contenenti materiale radioattivo vengono spesso
stoccati in luoghi pubblicamente accessibili e spesso si trovano
partite di rifiuti radioattivi utilizzati come materiale da
costruzione.
Solo in seguito alla campagna di informazione e formazione
organizzata nel 1991 dalla Jharkhandi's Organisation Against
Radiation (JOAR - Organizzazione di Jharkhandi contro le
radiazioni) la maggioranza della popolazione ha saputo che le
malattie di cui soffre non sono state inviate dagli dei ma sono
la conseguenza delle radiazioni a cui è esposta. Nel 2004
il lavoro fatto dalla JOAR è stato premiato con il Nuclear
Free Award. L'organizzazione si impegna per il miglioramento
delle misure di sicurezza e dell'assistenza medica, ma
soprattutto per un adeguato risarcimento delle persone dislocate
dalla loro terra a causa della costruzione dell'impianto di
lavorazione dell'uranio.
Da leggere: Johar Jharkhand. Appunti di ricerca sul campo tra gli Adivasi del Jhurkhand raccolte nell'ambito del Progetto Campo scuola promosso dall'Associazione Yatra Onlus. A cura di Daniela Bezzi. 2010 - www.yatraweb.it
Punit Minz appartiene agli Adivasi Uraon, un popolo nativo dell'India. Fino a poco tempo fa era segretario generale del sindacato dei minatori JMACC (Jharkhand Mines Area Coordination Committee) dello Stato federale orientale di Jharkhand, ora è coordinatore delle campagne dell'organizzazione BIRSA (Bindrai Institute for Research Study and Action). A fine agosto 2010 è stato invitato dall'APM al Congresso Mondiale Sacred Land - Poisoned People a Basilea durante il quale diversi rappresentanti di popoli indigeni si sono rivolti all'opinione pubblica europea. Fino a metà settembre è stato accompagnato da rappresentanti dell'APM in un viaggio attraverso la Germania per informare l'opinione pubblica sulla situazione degli Adivasi cacciati dalle loro terre per fare posto alle miniere di uranio.
APM: Cosa Le è rimasto del congresso
mondiale a Basilea?
Minz: Non avrei mai pensato che un giorno sarei
venuto in Europa per partecipare a un congresso mondiale
sull'uranio. Ho imparato molto su questo minerale e sui
procedimenti tecnici. La gente come me non ne sa molto. Sappiamo
unicamente che l'uranio emette radiazioni che fanno ammalare le
persone.
APM: Come pensa di utilizzare le nuove
conoscenze nel suo lavoro?
Minz: Se dovessi avere bisogno di queste
conoscenze per salvare il mio popolo allora mi metterò a
studiare ancora. Penso però che ognuno abbia i suoi
compiti nella lotta per i diritti dei popoli indigeni. Uno
scienziato può aiutare con le sue conoscenze, un
giornalista aiuta informando la società. Secondo me il mio
compito sta nel riuscire a mobilitare quanta più gente
possibile. Ognuno deve contribuire con la sua parte e se
collaboriamo tutti, allora possiamo ottenere qualcosa.
APM: Quali sono le difficoltà con cui
combattono gli abitanti nativi di Jharkhand?
Minz: Noi Adivasi in origine eravamo
principalmente piccoli contadini. L'estrazione di uranio ha
cacciato molte persone dalle loro terre costringendole ad
abbandonare il loro stile di vita tradizionale. La nostra gente
è stata ingannata, non ha ricevuto alcun risarcimento per
aver sacrificato la propria terra. Da parte del governo non
c'è stato alcun progetto su ciò che sarebbe
accaduto con gli Adivasi una volta dislocati. Essi non hanno
avuto né una terra nuova né lavoro.
APM: Come aiutate le vittime?
Minz: Ci battiamo per ottenere giustizia e
lottiamo contro la distruzione delle terre indigene e la
dislocazione degli Indigeni. Chiediamo migliori condizioni di
lavoro per i minatori, salari minimi garantiti e istruzione per i
figli dei minatori. Sono tutte cose che secondo la legislazione
indiana dovrebbero essere garantite dal ministero indiano per
l'energia atomica.
APM: Avete provato ad andare in tribunale per
ottenere i vostri diritti?
Minz: Sì, ma non abbiamo ottenuto
granché. La maggior parte delle persone che sono al potere
hanno anche interessi economici. Da loro non possiamo aspettarci
alcuna giustizia. Dobbiamo impegnarci noi stessi per ottenere i
nostri diritti.
APM: Nel 2000 il Jharkhand è stato
separato dallo stato indiano di Bihar e forma ora uno stato
federale nuovo.
Minz: Sì, ma il governo federale è
comunque composto principalmente da persone a cui non interessano
gli Adivasi. Da quando il Jharkhand è uno stato federale a
sé stante sono stati approvati 101 nuovi progetti per
l'estrazione di uranio. Se dovessero essere realizzati tutti non
esiterà più alcuna terra indigena in
Jharkhand.
APM: Qual'è la composizione della
popolazione di questo nuovo stato federale?
Minz: Dei 26,9 milioni di abitanti, oltre il 50%
sono Adivasi. Purtroppo non esistono dati precisi. I censimenti
vengono effettuati soprattutto nella capitale Ranchi, dove gli
Adivasi costituiscono però solo il 20% della popolazione.
In campagna, dove gli Adivasi sono la maggioranza, non vengono
fatti censimenti. I dati vengono anche falsificati per ridurre la
percentuale di popolazione indigena, altrimenti bisognerebbe
aumentare le quote riservate a loro nei posti di lavoro e nelle
università.
APM: Quanti Adivasi sono colpiti dai
dislocamenti forzati?
Minz: Di fatto tutti gli Indigeni del Jharkhand
sono minacciati. Il BIRSA attualmente assiste circa 50.000
persone dislocate.
APM: Come è nata l'organizzazione
BIRSA?
Minz: L'organizzazione è il risultato di
un movimento popolare che a partire dal 1978 si è battuto
per migliorare le condizioni di lavoro degli Adivasi. In seguito
abbiamo iniziato a occuparci dei diritti alla terra perché
la terra degli Adivasi veniva sempre più usurpata dalle
imprese. Oggi i temi centrali di cui ci occupiamo sono il diritto
del lavoro, i diritti umani, le questioni femminili e la tutela
dei boschi.
APM: In cosa esattamente consiste il vostro
lavoro?
Minz: Come ex segretario generale del sindacato
ora aiuto il nuovo segretario generale e il segretario regionale
ad orientarsi nel loro lavoro. Uso la mia esperienza per
consigliarli e sostenerli. Aiuto nell'elaborazione delle
informazioni, ma soprattutto lavoro con la base, vado a trovare
le vittime, ascolto i loro problemi e le loro preoccupazioni e
organizzo attività politica.
APM: Nel suo ambiente ci sono molte persone
ammalate in seguito all'esposizione a radiazioni?
Minz: Io mi impegno a favore di queste persone,
vi lavoro a stretto contatto e quindi ho visto moltissime persone
ammalate o con deformazioni. Provo una fortissima compassione per
queste persone che hanno sacrificato la loro terra e tutto
ciò che hanno ottenuto in cambio sono le malattie. Ai miei
amici minatori dico di sposarsi e fare figli e solo dopo iniziare
a lavorare in miniera perché altrimenti i loro figli
potrebbero nascere malati. Sacrificare la propria terra per
questa gente significa sacrificare sé stessi.
APM: I medici come trattano le malattie da
radiazione?
Minz: La maggior parte dei medici non sa molto
delle conseguenze da radiazione. Coloro che invece ne sono ben
informati solitamente non si impegnano per gli Adivasi. Sono
più preoccupati della propria salute che non vogliono
mettere a repentaglio. E comunque è difficile che gli
Adivasi abbiano abbastanza soldi per poter pagare un
medico.
APM: Avete mai pensato di formare dei medici
vostri?
Minz: E' difficile. La formazione è
troppo cara. Qualcuno, una volta finiti gli studi, non torna da
noi. Ovviamente preferiscono guadagnare dei soldi.
APM: I mezzi di informazione locali parlano
degli Adivasi?
Minz: Sono molti ad approfittare
dell'usurpazione della terra e dei dislocamenti forzati degli
Adivasi, come per esempio i co-proprietari ma anche i semplici
lavoratori di imprese che vengono installate su terreni
espropriati agli Adivasi. I dislocamenti forzati fanno calare la
percentuale di Adivasi sulla popolazione totale e quindi cala la
quota dei posti di lavoro e dei posti universitari che viene loro
riservata. Non c'è quindi alcun interesse da parte dei
proprietari di giornali o emittenti radiofoniche a parlare degli
Adivasi. Ma JMACC pubblica la rivista mensile Mines, Minerals
& Rights (Miniere, minerali & diritti).
APM: Come valuta il successo della Sua
organizzazione?
Minz: Siamo riusciti a far sì che dal
2000 nessuna industria mineraria sia potuta entrare nella nostra
terra. Ma la lotta non è finita. E' come se avessimo una
capra nel nostro villaggio e appena fuori dal villaggio ci fosse
un leone che aspetta che la capra esca. Dobbiamo continuare a
combattere per proteggere la nostra capra.
APM: Che cosa si aspetta dalla visita in
Germania?
Minz: Incontrerò un collaboratore
dell'Ufficio federale per la protezione contro le radiazioni.
Questo sarà probabilmente il colloquio più
importante che avrò perché apprenderò quali
sono le norme di sicurezza per i lavoratori nelle centrali
atomiche tedesche e quali sono le misure che l'impresa deve
garantire. Con queste informazioni possiamo poi fare richieste
concrete al governo indiano e all'industria atomica in India.
Intervista: Karoline Schulz
Ulrich Delius
Il Canyon Jiacha, fiume Brahmaputra presso Zhangmu in Tibet.
Secondo l'ambizioso programma del governo cinese per
l'incremento dell'energia idroelettrica, questa forma di
produzione energetica dovrebbe crescere dall'attuale 33% al 60%
entro il 2020. La maggior parte dei grandi fiumi asiatici nasce
nell'altopiano tibetano. La sopravvivenza di oltre 1,5 miliardi
di persone lungo i fiumi Brahmaputra, Indo, Mekong, Yangtze,
Salween, Sutlej, Fiume Giallo e altri ancora dipende
dall'acqua.
Per coprire il suo enorme fabbisogno energetico la Cina punta
sull'energia idroelettrica. Finora circa il 23% (197 gigawatt)
del consumo energetico cinese proviene da fonti idroelettriche.
Entro il 2015 la produzione di energia idroelettrica dovrebbe
aumentare di 120 gigawatt anche grazie alla costruzione di 109
piccole e grandi dighe in Tibet.
Il fiume che maggiormente interessa gli ingegneri idraulici
cinesi è il Brahmaputra che scorre per 1.625 km attraverso
il Tibet prima di raggiungere l'India e il Bangladesh.
Quattordici piccole dighe sono già state costruite lungo
questo fiume, tre dighe sono in fase di costruzione e altre 22 in
fase in progettazione. La più grande delle dighe in
costruzione, nella parte superiore del Brahmaputra presso Zhangmu
(prefettura di Lhokha), a 140 km dalla capitale tibetana Lhasa,
è progettato per produrre 510 megawatt di energia per un
costo di 167 milioni di dollari USA.
Nel frattempo, una delle dighe programmate dalla Cina preoccupa
sia l'India sia il Bangladesh. Si tratta della mega-diga Motuo
che dovrebbe sorgere vicino alla frontiere con l'India e produrre
38 gigawatt di energia. "Il progetto cinese ci preoccupa
perché non sappiamo quanto grande sarà la diga
né quali saranno le conseguenze per le persone che vivono
nella parte bassa del fiume", ha dichiarato Jabron Gamlin,
ministro per l'energia dello stato federale indiano di Arunachal
Pradesh. Le preoccupazioni riguardano sia la quantità di
acqua disponibile per i contadini e i pescatori nella parte bassa
del fiume ma - nella regione a rischio sismico - sono anche
legate a questioni di sicurezza.
La Cina programma la costruzione di altre 76 dighe sui fiumi
Mekong, Yangtze (Fiume Azzurro) e Salween. I tre fiumi nascono
rispettivamente nella Regione autonoma del Tibet (TAR) e in
antiche zone residenziali tibetane nelle province di Qinghai,
Sichuan e Yunnan. Su ognuno dei tre fiumi sono già state
costruite due dighe che però sono solo una "anticipazione"
dei mega-progetti che le autorità cinesi hanno in mente, e
di cui finora nessuno può prevedere le conseguenze per la
popolazione tibetana né per le molte minoranze etniche che
vivono lungo il corso inferiore dei fiumi.
Le molte nuove dighe influenzeranno pesantemente l'economia
tradizionale e l'ambiente del Tibet. Molti Tibetani temono che la
costruzione delle dighe comporti l'immigrazione di centinaia di
migliaia di Cinesi Han, rendendo i Tibetani ulteriormente una
minoranza nella propria terra.
La situazione si aggrava ulteriormente a causa del cambio
climatico. Il rapido scioglimento dei ghiacciai, l'aumento delle
temperature e la diminuzione delle nevicate potrebbero presto
causare lotte per il controllo dell'acqua. I fiumi della regione
vengono alimentati in primo luogo dalle acque di disgelo e
diversi scienziati cinesi temono che nei prossimi dieci anni si
possa sciogliere il 30% dei ghiacciai della regione. Con la fine
del permafrost i terreni diventano più morbidi e vengono
semplicemente portati via dall'acqua. I terreni sempre più
sterili produrranno alimenti per un numero sempre più
basso di Tibetani.
La maggior parte degli abitanti della regione sono nomadi
tibetani. Da anni essi vengono accusati dalle autorità
cinesi di essere - con le loro mandrie - responsabili
dell'erosione della terra. Di fatto invece l'economia delle
popolazioni nomadi è perfettamente adatta alle condizioni
ambientali e integrata nell'equilibrio naturale dell'Himalaya.
Per le autorità cinese essi sono "arretrati" e viene usato
ogni mezzo per costringerli a una vita sedentaria come contadini,
operai o commercianti. Dal 2003 la Cina ha costretto oltre il 60%
dei 2,25 milioni di nomadi tibetani a insediarsi in villaggi o ai
margini delle città. In questo modo si distrugge
sistematicamente la loro economia e forma di vita tradizionale, e
quindi la loro identità.
Martina Hussmann
Il progetto della diga Myitsone.
Dal 2008 la giunta militare in Birmania costruisce 28 nuove
dighe e ne progetta un numero indefinito di altre ancora.
Ufficialmente tutti questi progetti hanno lo scopo di ridurre la
dipendenza del paese dalle importazioni di gas e arrivare a
coprire il fabbisogno energetico con l'energia idrica. Il fatto
che la realizzazione dei progetti sia però affidata
perlopiù a imprese straniere, prime tra tutte le ditte
cinesi, fa sospettare che l'energia prodotta sia destinata
all'esportazione, soprattutto in Cina.
Uno dei megaprogetti della giunta militare birmana è un
sistema di sette dighe sui fiumi Mali e N'Mai. I due fiumi
confluiscono per formare l'Irrawaddy che è anche il
più importante canale commerciale navigabile del paese. La
maggiore delle sette dighe previste, la diga Myitsone, che
andrebbe a collocarsi proprio alla confluenza dei due fiumi,
dovrebbe comportare profitti annui pari a 500 milioni di dollari
USA annui.
La costruzione della diga di Myitsone richiede il dislocamento di
10.000 persone, appartenenti al maggiore gruppo etnico
dell'omonima regione Kachin. Il bacino della diga inonderà
766 km2 di terreni agricoli e boschi - un'area pari alle
città di Arezzo e Ferrara messe insieme. L'inondazione di
47 villaggi priverà gli abitanti della loro base economica
ma anche del centro della loro cultura e della loro
identità. Per i Kachin il luogo in cui si origina
l'Irrawaddy è sacro e a testimoniare la sacralità
del fiume vi hanno costruito diversi luoghi di culto e di
pellegrinaggio. Sotto le acque del bacino finiranno anche una
pagoda buddista e un luogo di culto cristiano.
La diga di Myitsone è in costruzione già da
dicembre 2009 e dovrebbe essere terminata nel 2017. Da ottobre
2009 gli abitanti della regione devono lasciare la propria terra.
Per assicurarsi che ciò accada e rendere più
difficile l'accesso, il governo ha militarizzato e fatto minare
l'area. Da allora i Kachin sono costantemente esposti alle
aggressioni e alle confische di terreno da parte dell'esercito.
La violenza si abbatte in modo particolare sulle donne che sono
vittime di stupri e di prostituzione forzata. Come conseguenza
della violenza cresce l'incidenza dei problemi già
esistenti come la disoccupazione, la tossicodipendenza e le
infezioni di HIV. Sono in aumento anche le malattie come la
malaria e gli avvelenamenti dovuti all'attività di
estrazione dell'oro.
Non esistono misure di regolamentazione per la contrattazione con
le persone - per la maggior parte appartenenti a gruppi etnici
minoritari - colpite dalla costruzione delle dighe. Non vi
è modo di opporsi ai dislocamenti forzati, spesso la
popolazione viene a sapere del progetto di costruzione nello
stesso momento in cui riceve l'ordine di andarsene. La proposta
di alternative valide o il pagamento di un risarcimento
costituiscono una rara eccezione.
La costruzione della diga e del suo bacino di raccolta comporta
conseguenze ecologiche ed economiche incalcolabili. Sicuramente
diminuiranno le specie di pesci presenti nel fiume e si teme per
la sopravvivenza del delfino dell'Irrawaddy. Tre milioni di
persone sono direttamente colpite dalle conseguenze sul delta
dell'Irrawaddy: da un lato la riduzione del pesce metterà
in crisi i pescatori e dall'altro lato le mancate inondazioni
renderanno meno fertili i terreni creando così seri
problemi ai contadini.
Nel frattempo alcuni Kachin si sono uniti in un movimento di
resistenza. Le molte manifestazioni e lettere di protesta scritte
e inviate al capo del governo Than Shwe e al generale Ohn Myint,
incaricato di occuparsi della diga, finora sono rimaste senza
risposta.
"Ci appelliamo a Lei [Than Shwe], stimatissimo grande
fratello, affinché possa fermare la costruzione di questa
diga e cerchi invece altre vie per coprire il fabbisogno
energetico della regione e protegga noi popolo dei Kachin, la
nostra cultura, i nostri diritti e la nostra terra da questo
inimmaginabile orrore."
(da una lettera di protesta del villaggio Tanghpre al capo
del governo Than Shwe)
Appello on-line: www.gfbv.de/emailprot.php?id=252
Ulrich Delius
Per la produzione di olio di palma viene utilizzata sempre più terra per queste piantagioni.
L'8 luglio 2010 oltre 20.000 indigeni Papua hanno manifestato
nella città di Jayapura, nella parte occidentale
dell'isola di Nuova Guinea controllata dall'Indonesia, contro lo
sfruttamento selvaggio delle loro terre e contro il fallimento
dello statuto di autodeterminazione della Paupa-Nuova Guinea. Nel
2001 l'autonomia dell'ex colonia olandese, oggi suddivisa in due
regioni, era stata fissata per legge, ma le speranze dei Papua
non si sono mai realizzate. L'abuso di potere, la corruzione e i
lunghi iter burocratici hanno fatto confluire i soldi destinati
alla Papua occidentale nelle tasche sbagliate.
Al posto dei sostegni finanziari è arrivato lo
sfruttamento selvaggio delle risorse e dell'ambiente. Dalla
caduta del dittatore indonesiano Haji Mohamed Suharto nel maggio
1998 circa il 25% delle foreste pluviali della Papua Occidentale
è stato distrutto (Suara Pembaruan, 29.4.2010). Accanto ai
boschi del Congo in Africa centrale e la foresta amazzonica, le
foreste della Papua Occidentale sono considerate tra le
più estese foreste al mondo.
La ricchezza di risorse dell'isola evidentemente però
risveglia la bramosia di molti. Negli anni '90 il destino della
regione sembrava segnato: nonostante l'opposizione dei Papua
lungo il fiume Mamberano avrebbe dovuto sorgere un'enorme area
industriale alimentata da una apposita diga che inoltre avrebbe
dovuto fornire energia a tutto il sudest asiatico. Solo la crisi
finanziaria asiatica del 1998 riuscì a fermare il
mega-progetto.
La Papua Occidentale è grande circa 421.000 km2,
più o meno quanto la Svezia, e grazie alla sua ricchezza
di risorse naturali è il motore economico dell'Indonesia.
L'impresa PT Freeport Indonesia estrae oro e rame ed è il
maggiore contribuente privato in Indonesia. L'impresa che per il
90% appartiene alla statunitense Freeport McMoRan Copper& Gold
Inc. viola pesantemente i diritti umani e diritti alla terra
delle popolazioni Papua che vivono attorno alla sua miniera
Grasberg. Grazie alla protezione ottenuta dall'esercito,
l'impresa ha potuto continuare a espandere l'estrazione di
risorse mentre le proteste della popolazione indigena venivano
sedate nel sangue.
Nel Sudest asiatico cresce inesorabilmente la fame di terreni per
la realizzazione di progetti agricoli come p.es. la produzione di
olio di palma. L'Indonesia, la Malaysia e la Papua Nuova Guinea
coprono oggi circa l'85% della produzione mondiale di olio di
palma. Dal rossetto al cioccolato - quasi il 50% dell'intera
produzione mondiale di merci contiene olio di palma. Se nel 1985
in Indonesia si coltivavano 600.000 ettari a palme da olio, nel
2006 l'area coperta da queste piantagioni copriva 4 milioni di
ettari. Attualmente in Indonesia sono in corso 3.500 conflitti
per la terra innescati dalla realizzazione di piantagioni di
palme da olio. I circa 270 popoli indigeni a cui la terra
appartiene tradizionalmente non sono in grado di difenderla
efficacemente dall'invasione dell'economia agroalimentare.
Nella parte sudorientale della Papua occidentale si trova il
Merauke Integrated Food and Energy Estate Projekt (MIFEE) il cui
nuovo progetto riguarda l'occupazione di 16.000 km2 da coltivare
a riso, mais, canna da zucchero, soia e palma da olio. I Papua
protestano contro il progetto e temono l'arrivo di oltre 100.000
braccianti agricoli indonesiani. L'insediamento di coloni
indonesiani e la riduzione dei Papua a minoranza è
peraltro una tattica che il governo indonesiano utilizza per
ridurre la portata delle richieste per una forte e ampia
autonomia. I Papua però non temono semplicemente l'arrivo
dei molti braccianti, ma soprattutto la distruzione delle foreste
e quindi del loro stile di vita tradizionale e la perdita del
diritto alla consultazione e alla partecipazione
decisionale.
In agosto 2010 i Papua sembravano aver ottenuto il sostegno del
consigliere presidenziale Kuntoro Mangkusubroto il quale aveva
dichiarato che per tutelare l'ambiente MIFEE avrebbe dovuto
accontentarsi di un'area dai 3.500 ai 5.000 km2 (Reuters,
18.8.2010). Il segretario per l'agricoltura della provincia di
Papua Ricky Wowor però non vuole saperne di tali
limitazioni e insiste nel voler portare avanti il progetto
sull'area originariamente prevista di 16.000 km2.
Julia Beckel
La diga di Bakun dovrebbe diventare operativa già alla fine del 2010.
L'energia prodotta dalle nuove dighe dello stato federale del
Sarawak in Malesia non sarà destinata alla popolazione
locale ma all'esportazione. Molti esperti di diritti umani temono
però che le motivazioni per la costruzione delle dighe
siano ben altre.
I progetti del governo di Sarawak (Malesia) per la costruzione di
dodici nuove dighe sono stati scoperti per puro caso all'inizio
del 2008. La presentazione del progetto fatta dal consorzio
energetico Sarawak Energy Berhad era stata pubblicata per sbaglio
in Internet. Rimosso quasi subito, il documento restò
comunque visibile abbastanza a lungo affinché potesse
essere ripreso e pubblicato sul sito della Fondazione Bruno
Manser.
Le nuove dighe fanno parte del mega-progetto "Sarawak Corridor of
Renewable Energy" (SCORE) del Primo Ministro Abdul Taib Mahmud,
il cui scopo è la modernizzazione del Sarawak entro il
2020 grazie alla costruzione di centri industriali e produttivi
con particolare attenzione per la fornitura di energia.
Attualmente il Sarawak non ha però bisogno di ulteriore
energia. Il fabbisogno energetico sarà coperto oltre il
necessario dalla produzione della diga di Bakun che verrà
collegata alla rete a fine 2010. La produzione energetica
prevista per le dodici nuove dighe sarà quindi destinata
all'esportazione e dovrebbe attirare investitori stranieri: i
primi contratti in tal senso sono già stati firmati.
Il progetto minaccia i più deboli
Le foreste del Sarawak sono tra le più ricche al mondo in
biodiversità e sono patria di popoli indigeni appartenenti
a 40 gruppi etnici diversi. Per decenni hanno lottato in difesa
dei loro diritti alla terra contro il disboscamento delle foreste
e contro le piantagioni di palma da olio. Per migliaia di persone
ora si aggiunge una minaccia: l'inondazione dei loro villaggi e
delle loro terre tradizionali e il dislocamento forzato.
Solamente per la futura diga di Murum perderanno la loro casa
1.200 persone appartenenti ai popoli dei Penan occidentali e dei
Kenyah e verranno inondati sette villaggi.
I Penan costituiscono il popolo indigeno più debole
poiché la loro economia tradizionale si basa
sull'equilibrio intatto della foresta e su fiumi incontaminati.
Il governo promette loro una vita migliore ma è già
evidente che la promessa non sarà mantenuta. Una delle
maggiori imprese del legname sta infatti disboscando la foresta e
piantando palme da olio proprio nell'area destinata ad accogliere
chi perderà la propria casa. Inoltre sono già
iniziati i lavori di costruzione nonostante debba ancora essere
pubblicato lo studio di impatto socio-ambientale il cui contenuto
sembra costituire un grande segreto. I Penan non vogliono
abbandonare la terra dei loro avi, chiedono la pubblicazione
dello studio di impatto socio-ambientale e soprattutto di essere
coinvolti nei processi decisionali.
Le nuove dighe non minacciano solo i Penan occidentali nel
Sarawak centrale, ma anche i Kelabit nelle regioni orientali
dello stato federale. Lungo il fiume Limbang sono stati avviati
lavori di misurazione. Mutang Urud, attivista ed ex-collaboratore
di Bruno Manser che ora vive in esilio in Canada, è
preoccupato per il suo villaggio natale Long Napir: "Il progetto
è un chiaro attacco ai nostri diritti come abitanti nativi
della regione. Non solo cancellerà l'ambiente e la cultura
ma priverà le future generazioni della loro memoria
culturale."
Il pretesto delle dighe
Le popolazioni indigene interessate dalle nuove dighe temono di
rimanere vittime della stessa sorte subita 14 anni fa da 9.400
persone (tra cui indigeni Kayan, Kelabit e Penan occidentali)
dislocate a Sungai Asap per fare posto alla discussa diga di
Bakun. Costretti all'economia di mercato sconosciuta ai
più e per la quale non erano preparati, essi sopravvivono
in condizioni di estrema povertà, sono perlopiù
disoccupati e soffrono per la perdita delle radici culturali e
identitarie. Sono ancora in attesa dei risarcimenti e delle terre
agricole promesse e mai consegnate. Non hanno alcun titolo di
proprietà per le poche e insufficienti terre che sono
state loro assegnate, le quali sono comunque troppo lontane e
poco accessibili.
L'avvocato specializzato in diritti terrieri e rappresentante
dell'opposizione politica Baru Bian teme: "La costruzione delle
dighe nel nome dello sviluppo è un pretesto per cancellare
i diritti degli Indigeni nelle aree dei nostri maggiori fiumi.
Non c'è alcun bisogno di queste dighe".
Ulrich Delius
L'estrazione di uranio danneggia i diritti terrieri dei Tuareg distruggendo anche il loro ambiente vitale. Foto: Emilia Tjernström.
Il rapimento di sette dipendenti di imprese energetiche ed
edili francesi avvenuto lo scorso 16 settembre 2010 in Niger ha
evidenziato l'importanza che questo stato dell'Africa occidentale
ricopre per l'approvvigionamento energetico della Francia. Senza
l'uranio proveniente dal Niger i 58 impianti atomici della
Francia non potrebbero funzionare. L'impresa energetica francese
Areva ottiene circa un terzo del suo uranio dalle miniere nel
Niger settentrionale. Nel 2009 l'impresa ha estratto 8.600
tonnellate di questo prezioso minerale da miniere situate nella
regione di Arlit, e sempre in Niger l'impresa vorrebbe avviare
ancora nuove miniere.
Da anni l'impresa francese Areva è sotto i riflettori
delle organizzazioni ambientaliste e delle popolazioni Tuareg
locali. La terra in cui lavora Areva appartiene tradizionalmente
ai Tuareg - una popolazione che vive nella zona del Sahel, tra il
Niger, il Mali, l'Algeria, la Libia e il Burkina Faso. Nonostante
l'estrazione dell'uranio nel nord del Niger costituisca il 30%
delle entrate del paese, finora i Tuareg della regione non solo
hanno approfittato molto poco delle ingenti entrate ma hanno
anche subìto le pesanti conseguenze ecologiche e sanitarie
dell'attività mineraria.
In seguito alle richieste dei Tuareg, gli ambientalisti francesi
del laboratorio indipendente CRIIRAD 2003 hanno per la prima
volta analizzato i rischi per la salute che l'estrazione di
uranio comporta per la popolazione di Arlit. A causa della
mancata cooperazione da parte dell'impresa Areva, gli scienziati
si sono visti costretti a lavorare di nascosto. I risultati della
loro indagine documentano una vera e propria catastrofe
sanitaria. Le fonti d'acqua potabile sono contaminate da sostanze
radioattive e materiali contaminati sono stati utilizzati nella
costruzione delle strade. La violazione delle norme di tutela e
sicurezza internazionali è evidente. Diversi dipendenti
Tuareg hanno inoltre raccontato che l'impresa avrebbe regalato
loro attrezzi usati in miniera per l'estrazione dell'uranio - e
quindi contaminati - che in questo modo sono stati utilizzati
nella costruzione della propria casa, a portata dei bambini e/o
usati in cucina.
Da un'inchiesta condotta dall'organizzazione non governativa
francese Sherpa nel 2005 risulta che i minatori nel nord del
Niger non sono mai stati informati sui rischi e pericoli per la
propria salute legati al lavoro in una miniera di uranio. L'alto
tasso di tumori polmonari e di casi di leucemia non sono finora
bastati per convincere Areva ad assumersi le proprie
responsabilità e anzi, l'impresa continua a sostenere
l'innocuità dell'estrazione dell'uranio. A soffrire le
peggiori conseguenze per la salute sono soprattutto i minatori
Tuareg, solitamente assunti come lavoratori ausiliari e/o
precari.
La nuova inchiesta condotta nel 2010 dall'organizzazione
ambientalista Greenpeace ha ulteriormente confermato i dati
allarmanti già forniti dalle inchieste precedenti.
L'inchiesta di Greenpeace sottolinea in particolare le terribili
condizioni di lavoro nelle miniere di uranio e l'insufficiente
tutela delle popolazione Tuareg residente. Sempre più la
violazioni dei diritti delle popolazioni native della regione
sono causa di conflitti armati. Tra il 2007 e il 2009
l'organizzazione Tuareg "Movimento dei Nigerini per la Giustizia"
(MNJ), in lotta contro il governo del Niger, ha infatti chiesto
il miglioramento delle condizioni di lavoro nelle miniere,
l'effettiva tutela della popolazione e una giusta partecipazione
della popolazione locale agli introiti dell'attività
mineraria. Messa sotto pressione dalla Libia, nel 2009 il MNJ ha
deposto le armi, ma le richieste formulate continuano ad essere
valide.
La situazione dei Tuareg è particolarmente drammatica:
l'attività mineraria non solo viola i loro diritti
tradizionali alla terra ma a lungo termine distrugge la loro
patria e terra. E ora anche il vicino Mali ha iniziato a cercare
il prezioso minerale sulla terra dei Tuareg.
Ulrich Delius
Donna oromo al lavoro in una delle 85 piantagioni di rose dell'Etiopia.
Per attirare investitori stranieri e aumentare le esportazioni
agricole, il governo dell'Etiopia punta sulla vendita e l'affitto
a imprese straniere di enormi aree agricole. In India p.es. si
pubblicizza l'affitto di mezzo ettaro di terreno in Etiopia per
la modica somma di un dollaro USA all'anno (Hindu Business Line,
25.6.2010).
Nella regione di Gambela ora parte del popolo degli Anuak
protesta contro la svendita del proprio territorio a investitori
stranieri. In agosto 2010 si è infatti saputo che il
governo etiope ha affittato 27.000 ettari di terra nella regione
di Gambela all'impresa indiana BHO Agro Plc che
trasformerà la terra in piantagioni per la produzione di
biodiesel (addisvoice.com, 29.8.2010). Salgono così a tre
le grandi imprese indiane che affittano grandi porzioni di terra
nella regione di Gambela. All'inizio del 2010 il Ruchi Group si
era assicurato l'utilizzo di 25.000 ettari di terra per la
coltivazione di piante per la produzione di biodiesel, mentre
già dal 2008 l'impresa Karaturi Global Ltd coltiva 300.000
ettari di terreno etiope a grano destinato all'esportazione in
India. Contemporaneamente in Etiopia 13 milioni di persone
dipendono per la loro sopravvivenza dagli aiuti alimentari
internazionali.
Ciò nonostante il furto di terra continua così come
i dislocamenti forzati delle popolazioni locali. Nei prossimi
anni l'impresa saudita Saudi Star Company, che già coltiva
10.000 ettari a riso e ad altri alimenti esportati in Arabia
saudita, intende coltivare ulteriori 500.000 ettari (Anywaa
Survival Organisation, 8.9.2010). Per il popoli degli Anuak tutto
ciò equivale a una progressiva condanna a morte. La
perdita di terreno finora subito ha messo in crisi la loro
capacità di garantirsi la sopravvivenza, e ogni nuovo
compratore o affittuario straniero aggrava la situazione. Gli
Anuak hanno iniziato a difendersi dai nuovi arrivati. Le forze di
sicurezza etiopi hanno reagito all'aumento dei conflitti con
brutale violenza compiendo negli scorsi anni diversi massacri tra
gli Anuak.
Anche la regione centrale dell'Oromia è da anni teatro di
continui conflitti. Da decenni i membri degli Oromo - il gruppo
etnico più grande e discriminato dell'Etiopia - si battono
per l'indipendenza della loro regione. Tradizionalmente gli Oromo
vivono sulle terre vicine alla capitale Addis Abeba e sono quindi
particolarmente colpiti dagli espropri. La maggior parte delle 85
piantagioni di rose dell'Etiopia si trovano nelle immediate
vicinanze dell'aeroporto. A partire dall'avvio della produzione
di fiori da esportazione nel 2000 centinaia di contadini Oromo
sono stati letteralmente derubati della loro terra consegnata poi
ai proprietari delle piantagioni.
Gli Oromo non subiscono solo la crescente industria dei fiori ma
anche la svendita o la locazione di circa 2,7 milioni di ettari
di terreno destinati alla coltivazione di piante per la
produzione di biodiesel (jatropha, palme da olio, ricino, canna
da zucchero). In molti casi essi sono stati costretti da
impiegati statali a vendere a prezzi irrisori quella terra che
fino a quel momento alimentava un'intera famiglia allargata.
Tuttora circa l'85% della popolazione etiope coltiva e produce i
propri alimenti. Il governo aveva promesso ai contadini che
avrebbero avuto lavoro nelle piantagioni ma i salari, che si
aggirano attorno a un euro al giorno, non bastano certo a sfamare
l'intera famiglia. I contadini impiegati come braccianti nelle
piantagioni soffrono anche il massiccio utilizzo di pesticidi
contro i quali non sono adeguatamente protetti. Secondo una
recente ricerca della Banca Mondiale, i terreni venduti e/o
affittati a investitori stranieri hanno prodotto solo 0,005 posti
di lavoro per ettaro (1 posto ogni duecento ettari).
L'opposizione alla svendita dei terreni agricoli è stata
ribadita dagli Oromo e dalle organizzazioni per i diritti umani
durante una conferenza tenuta in luglio 2010 a Londra. Tutti
temono che il furto di terre non potrà che comportare
ulteriori dislocamenti forzati a cui seguirà
inevitabilmente un aumento dei conflitti e del numero di persone
ridotte alla fame.
Inse Geismar e Ulrich Delius
Boscimani San a Gope, Central Kalahari Game Reserve, Botswana.
Da secoli i San e i Nama dell'Africa meridionale conoscono gli
effetti curativi delle piante del deserto, come quelli della
Hoodia, una succulenta che si è adattata perfettamente al
clima secco del deserto del Kalahari. I San e i Nama,
tradizionalmente cacciatori e raccoglitori, usano la pianta per
sedare la fame e la sete durante la caccia. Ora l'industria
farmaceutica utilizza le conoscenze tradizionali delle
popolazioni indigene San e Nama e commercializza prodotti alla
Hoodia per dimagrire.
Le popolazioni indigene però si oppongono. "La nostra
conoscenza non è una merce", dichiarano ed esigono di
poter decidere esse stesse a quali scopi e con chi condividere la
loro millenaria conoscenza. La terra dei San e dei Nama è
talmente ricca di piante mediche da sembrare un supermercato del
naturale. Tutta questa biodiversità rischia però di
essere svenduta al miglior offerente se non vi sarà presto
una regolamentazione per l'utilizzo delle risorse e delle
conoscenze.
Con lo scopo di far brevettare e garantirsi l'utilizzo di piante
medicinali, le industrie farmaceutiche inviano scienziati in zone
remote, anche laddove vi sono popolazioni indigene che vivono in
isolamento. Piante mediche che fino ad ora venivano usate da
tutta la popolazione saranno d'ora in poi riservate solo a
determinate imprese - a quelle che se ne sono assicurate il
brevetto e che così possono commercializzarle.
La pianta di Hoodia.
Nel 1995 degli scienziati sudafricano fecero brevettare il
principio attivo della Hoodia senza che vi fosse alcun accordo
preventivo con le popolazioni native San e/o Nama. Quando in un
secondo momento vendettero i diritti a un'impresa farmaceutica
statunitense, i San e le loro organizzazioni di sostegno
protestarono e denunciarono il fatto. Nella denuncia i San si
richiamano anche alla "Convenzione sulla diversità
biologica" (CBD), approvata dopo lunghe trattative nel 1992
proprio per limitare la svendita delle risorse naturali. I San
ottennero che la loro conoscenza tradizionale fosse riconosciuta
e che quindi avessero diritto al 6% dei profitti sulla
commercializzazione dei prodotti alla Hoodia.
Si tratta però di procedimenti giudiziari lunghi e
costosi. Spesso le popolazioni indigene non hanno alcun contatto
con avvocati specializzati in materia che possono fornire una
consulenza appropriata e aiutarli nell'ottenere i loro diritti e
far valere i loro interessi. Inoltre le industrie farmaceutiche
sono perlopiù poco cooperative e tentano con ogni mezzo di
ostacolare la partecipazione ai profitti delle popolazioni
indigene detentrici delle conoscenze sfruttate.
Il successo ottenuto con il procedimento sulla pianta della
Hoodia ha incoraggiato le organizzazioni non governative africane
a impegnarsi per la salvaguardia delle conoscenze tradizionali
delle popolazioni native. Esse ora chiedono all'ufficio brevetti
europeo a Monaco di Baviera di annullare il brevetto per il noto
anti-influenzale Umckaloabo, le cui proprietà curative
sono da sempre conosciute dalle popolazioni native dell'Africa
meridionale. L'ufficio brevetti ha annullato cinque brevetti fino
a che nell'aprile 2010 il produttore farmaceutico tedesco non ha
capitolato e ha annunciato d non volere più fare ricorso
contro la decisione dell'ufficio europeo.
Nonostante la Convenzione sulla diversità biologica, la
biodiversità nei territori dei popoli indigeni non
è mai stata minacciata quanto oggi. Nel maggio 2010 le
Nazioni Unite hanno messo in guardia dalle conseguenze
drammatiche della distruzione della biodiversità e hanno
accusato la comunità internazionale di non impegnarsi
abbastanza per la tutela delle specie. Per le popolazioni
indigene la tutela delle specie è soprattutto una
questione di sopravvivenza. L'Associazione per i Popoli
Minacciati chiede quindi:
- la ratifica e applicazione della Convenzione sulla
diversità biologica da parte di tutti i paesi
firmatari
- l'utilizzo delle conoscenze tradizionali delle popolazioni
indigene solo con l'esplicito consenso della popolazione
interessata
- persecuzione delle violazioni della convenzione
- le conoscenze tradizionali delle popolazioni indigene devono
continuare ad essere liberamente utilizzabili dalle popolazioni
interessate senza che vi siano limiti e/o vincoli dati da
brevetti o da altri accordi.
Pogrom-bedrohte Völker 261 (4/2010)
Vedi anche in gfbv.it:
www.gfbv.it/2c-stampa/2010/101201ait.html
| www.gfbv.it/2c-stampa/2010/100831it.html
| www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/brasil-tras.html
| www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/global-it.html
| www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/dekade-it.html
| www.gfbv.it/3dossier/diritto/univ-indig-it.html
| www.gfbv.it/3dossier/diritto/ilo169-conv-it.html
| www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/konibo.html
in www: http://en.wikipedia.org/wiki/Indigenous_peoples
| www.ipcc.ch | www.ienearth.org | www.stopdamsamazon.org