Questo libro è dedicato alla memoria di Helge Kleivan (1924-1983), fondatore dell'IWGIA, difensore serio ed appassionato di tutti i popoli indigeni
Attorno alla fine degli anni Ottanta la questione indigena
è tornata alla ribalta, prima in sordina, poi con forza
sempre maggiore. Basti pensare all'Amazzonia, alla lotta dei
popoli polinesiani contro gli esperimenti nucleari, oppure a
quella degli Apache per la difesa del Monte Graham.
Inoltre, com'è noto, buona parte dei conflitti che
travagliano il pianeta vedono coinvolti proprio dei popoli
originari: dai Tuareg agli Apache, dagli Ogoni della Nigeria ai
Maya del Chiapas, dalla tragedia timorese a quella tibetana. Un
fenomeno la cui rilevanza viene confermata dai numerosi Premi
Nobel che negli ultimi sette anni sono stati conferiti a
rappresentanti di popoli autoctoni: il Dalai Lama (1989),
Rigoberta Menchù (1992), Monsignor Carlos Felipe Ximenes
Belo e José Ramos Horta (1996).
A tutto questo si aggiunge il rinnovato interesse del mondo
artistico e culturale, come testimoniano il cinema (da Balla coi
lupi a Once were warriors), la crescente attenzione del mondo
editoriale e lo stesso fenomeno della world music, che ha dato
fama inattesa ad artisti africani e kurdi, siberiani e lapponi.
La conferma più recente viene dall'ultima Biennale di
Venezia, dove il padiglione australiano era dedicato a tre
pittrici aborigene.
In questo fermento si inserisce con particolare autorità
il Decennio Internazionale dei Popoli Indigeni, inaugurato a New
York il 10 dicembre 1994. L'ambiziosa iniziativa promossa
dall'ONU ha l'obiettivo di contribuire a risolvere almeno i
più urgenti problemi dei 300.000.000 di indigeni che
vivono oggi sul nostro pianeta. Un'iniziativa importante ma
ancora sostanzialmente ignota in Italia. E' proprio per questo
che l'Associazione per i Popoli Minacciati ha proposto alla
Commissione per la pace del Comune di Firenze la realizzazione di
questo volume.
Un ringraziamento particolare va al Presidente della Commissione
suddetta, Sandro Targetti, al Presidente del Quartiere 5, Dr.
Domenico Antonio Stumpo, ed al dr. Salvatore Quarta, componente
del medesimo Consiglio di Quartiere, che hanno sostenuto questo
progetto e si sono adoperati affinchè potesse tradursi in
realtà.
Alessandro Michelucci
Associazione per i Popoli Minacciati
"Dovremmo finalmente vedere nella difesa dei popoli
indigeni non un atto di compassione, ma un atto di
autoconservazione, perché tutto ciò che ci è
stato tolto dall'era industriale fra loro sopravvive almeno a
livello di tracce. Se vogliamo definirci uomini avremo bisogno
dell'aiuto di coloro che nella nostra sciocca arroganza chiamiamo
sottosviluppati".
Robert Jungk
L'atteggiamento dell'europeo medio nei confronti dei popoli
indigeni è spesso venato di disprezzo o comunque di scarso
rispetto. Ancora oggi, nonostante tutto quello che viene detto e
scritto sulla società multiculturale o multietnica,
rimangono dei grossi nodi irrisolti: i popoli autoctoni vengono
spesso considerati dei selvaggi da convertire al consumismo
oppure graziosi oggetti colorati che "fanno folklore", ma in ogni
caso ruderi viventi.
Naturalmente non ha senso pretendere che tutti si trasformino
ipso facto in ardenti sostenitori delle cause indigene: è
importante, invece, che ognuno cerchi di sbarazzarsi degli
stereotipi eurocentrici e coltivi un approccio fondato sul
rispetto. Solo in questo modo sarà possibile cogliere la
ricchezza culturale dei popoli in questione.
Ma cosa intendiamo, oggi, quando parliamo di popoli indigeni? In
senso lato, è indigeno qualunque abitante originario di un
dato luogo. In senso stretto, ed è quello che generalmente
si preferisce, il termine è riferito agli abitanti
autoctoni e precoloniali di un paese.
In molte parti della Terra i popoli indigeni sono minoranze
etniche, ma anche là dove superano il 50% della
popolazione, come in Bolivia o Guatemala, sono comunque ridotti a
minoranze di fatto.
Nel mondo vivono oggi circa 300.000.000 di indigeni. Fra questi,
per esempio, troviamo gli Indiani del Nordamerica, gli aborigeni
australiani, i popoli della Siberia, gli Hawaiiani, i Maori della
Nuova Zelanda, i Tuareg, i Penan della Malesia, i Sami della
Scandinavia (in Italia meglio noti come Lapponi). In alcuni casi
si tratta di etnie che contano diversi milioni, come i Quechua od
i Maya, mentre più spesso abbiamo davanti popoli che
arrivano a poche decine o centinaia di migliaia. Altri ancora,
purtroppo, sono spaventosamente vicini all'estinzione (si pensi a
certi popoli del Pacifico, della Siberia o dell'Amazzonia).
Pur essendo naturalmente diversissimi fra loro per storia,
cultura e modo di vivere, questi popoli hanno in comune qualcosa
di sostanziale: un particolare rapporto col territorio e con
l'ambiente, un rapporto che ha come obiettivo la conservazione.
Si considerano parte della natura (la Madre Terra), la cui
distruzione minaccerebbe quindi la loro stessa
sopravvivenza.
Il territorio non è soltanto la base della loro vita
fisica, ma anche di quella spirituale. Nelle culture indigene le
sorgenti, i fiumi, i luoghi di sepoltura e le montagne rivestono
infatti un ruolo centrale. Basta pensare al Monte Graham per gli
Apache o ad Ayers Rock per gli aborigeni australiani.
Questo stretto legame fra terra e religione spiega perchè
la devastazione ambientale o la migrazione forzata possono
causare la disgregazione delle società autoctone. Problemi
di tragica attualità, che le cronache degli ultimi anni
documentano con frequenza sempre maggiore: la deforestazione
dell'Amazzonia, delle foreste malesi, della taiga.
Questo porta con sè lo sradicamento culturale (etnocidio),
che laddove viene contrastato spesso si trasforma in massacri ed
altri metodi di sterminio (genocidio), come l'avvelenamento dei
fiumi o degli alberi. In altre parole, vengono violati i loro
diritti umani, civili, politici.
Ma la loro resistenza non è stata ancora piegata: pur
avendo già perso molto in termini culturali ed ambientali,
i popoli indigeni della Terra sono oggi raccolti in movimenti
locali ed internazionali per portare avanti una lotta in sintonia
coi tempi, in costante contatto con l'ONU e gli altri organismi
sovranazionali.
Naturalmente lo spazio a nostra disposizione non ci consente di
tracciare una panoramica esaustiva delle lotte indigene che
costellano il pianeta. Non bisogna però dimenticare, fra
le altre cose, che a mezzo secolo dalla Dichiarazione Universale
dei Diritti dell'Uomo (1948) sono ancora molti i popoli che
vivono in colonie o in territori permanentemente occupati. Sei
paesi europei, tutti membri dell'Unione Europea (Danimarca,
Francia, Gran Bretagna, Olanda, Portogallo e Spagna) conservano
ancora una trentina di colonie nell'emisfero meridionale del
pianeta, anche se spesso sono camuffate dietro una terminologia
pudica come territori d'oltre mare o simili . Ma anche numerosi
paesi extraeuropei, spesso ex-colonie europee, hanno tradito lo
spirito anticolonialista del non-allineamento. L'Indonesia occupa
la parte occidentale di Papua dal 1963 e quella orientale di
Timor dal 1975. Il Marocco si oppone alla creazione di una
repubblica saharawi nei territori dell'ex Sahara spagnolo. La
Cina ha annesso il Tibet negli anni Cinquanta, con conseguenze
culturali ed ambientali disastrose.
Nella gran parte dei casi i popoli indigeni non aspirano ad un
proprio stato, almeno che non ne avessero già uno in
precedenza. Il loro obiettivo è quasi sempre l'autonomia,
con particolare attenzione per i diritti territoriali: è
il caso degli Indiani d'America, dei Maori o dei popoli
artici.
In altri casi, specie in Asia e in Africa, è invece la
religione che assume un ruolo di primo piano nelle loro
rivendicazioni. Pensiamo ai Nuba del Sudan, che lottano contro
l'islamizzazione promossa dal governo; agli Uiguri, musulmani
dello Xinjang (Cina nord-occidentale); al politeismo ed allo
sciamanesimo, che con buona pace del dialogo interreligioso
vengono ancor oggi repressi in nome della
cristianizzazione.
Terre, uomini, culture al centro di una tragedia umana che
purtroppo beneficia di un'attenzione ancora molto scarsa.
Elisabeth Kumi, Alessandro Michelucci
Negli anni Cinquanta vari popoli indigeni sono già
organizzati a livello locale: fra questi, gli Indiani del
Nordamerica con il Congresso Nazionale degli Indiani d'America
(NCAI) ed i Sami (Lapponi) con l'Associazione dei Sami Svedesi
(SSR).
Bisogna però attendere gli anni Settanta perchè si
formino le prime organizzazioni a livello regionale ed
internazionale. Nel 1973 si tiene a Copenaghen la Prima
Conferenza dei Popoli Artici, che riunisce Inuit, Sami ed Indiani
d'America. L'anno successivo viene fondato il Consiglio
Internazionale dei Trattati Indiani (IITC), attraverso il quale
le lotte dei nativi nordamericani otterranno dignità
giuridica e rilievo internazionale.
Gli avvenimenti si succedono ormai con ritmo febbrile: nel 1975
nasce a Port Alberni (Columbia Britannica/Canada) il Consiglio
Mondiale dei Popoli Indigeni, che vede fra i fondatori George
Manuel, indiano shuswap autore del libro The Fourth World,
l'artista lappone Nils- Aslak Valkeapaä ed Helge Kleivan, il
grande antropologo norvegese che nel 1968 ha già fondato
il prestigioso IWGIA. Per la prima volta Maori ed Eschimesi,
Indiani e aborigeni australiani cercano di definire una politica
comune. La creazione del nuovo organismo segna una tappa
fondamentale, e negli anni successivi altri popoli, come gli Ainu
del Giappone e gli indios sudamericani, vanno ad ingrossarne le
fila.
Nel frattempo cambia rotta anche l'ONU, finora sorda al problema
indigeno, che organizza a Ginevra una conferenza internazionale
sulla discriminazione dei popoli amerindiani (1977). Proprio
nello stesso periodo nasce a Barrow (Alaska) la Conferenza
Circumpolare Inuit, che promuoverà le istanze eschimesi a
livello internazionale.
Dal canto loro, i popoli del Pacifico meridionale si uniscono per
opporsi al colonialismo nucleare di cui si parla diffusamente
altrove: nel 1980 vede la luce il Movimento per un Pacifico
Denuclearizzato ed Indipendente (NCIP). Pochi anni più
tardi nasce in Australia il Servizio Legale Aborigeno (NAAILS),
che intende portare avanti le rivendicazioni indigene avvalendosi
di un robusto retroterra giuridico.
Il Gruppo di Lavoro dell'ONU sui Popoli Indigeni (UNWGIP), che si
inaugura nel 1982, conferma il crescente interesse delle Nazioni
Unite per la questione indigena. La riunione del nuovo organismo,
che inizia a tenersi regolarmente ogni estate a Ginevra, diventa
un forum internazionale al quale partecipano rappresentanti
indigeni, attivisti ed esponenti governativi.
Nel corso degli anni Ottanta il Gruppo di Lavoro è
impegnato nell'elaborazione di una Carta dei Diritti Indigeni. Un
precedente è rappresentato dalla Convenzione 107
dell'Ufficio Internazionale del Lavoro (ILO), stilata nel 1957 e
rivista nel 1989, anche se diversi esponenti indigeni continuano
a dichiararsi insoddisfatti da questo documento.
La fine ormai prossima dell'Unione Sovietica favorisce i primi
contatti fra i popoli indigeni della Siberia, che si uniscono per
dar vita all'Associazione dei Piccoli Popoli del Nord.
Attorno all'avvocato Michael van Walt van Praag, già
consulente del Dalai Lama, nasce nel 1991 all'Aia
l'Organizzazione delle Nazioni e dei Popoli Non Riconosciuti
(UNPO). Si tratta del primo organismo che riunisce i popoli
minacciati senza limiti geografici - dai Mapuche ai Timoresi, dai
Kurdi agli Ungheresi della Transilvania. Esistevano già
diversi organismi analoghi, ma le minoranze europee ed i popoli
indigeni rimanevano comunque ben distinti e rappresentati da
organismi quasi impermeabili fra loro.
L'UNPO non accetta movimenti terroristici o che comunque facciano
uso della violenza. Il suo scopo principale è quello di
fornire alle minoranze un valido supporto giuridico per
l'affermazione dei loro diritti.
Sempre all'inizio degli anni Novanta si intensificano le
iniziative che cercano di dare spazio ad un aspetto molto
particolare della questione indigena: quello che riguarda il
continente africano. Si segnalano in particolare la conferenza di
Dar es Salam (Tanzania, 1992) e quella di Copenaghen (1993),
quest'ultima organizzata dal prestigioso IWGIA. Nel luglio 1997,
durante la quindicesima sessione del Gruppo di Lavoro dell'ONU
sui Popoli Indigeni (UNWGIP), si delinea la costituzione di
un'associazione che riunisca i popoli indigeni del continente
nero.
Negli ultimi anni anche l'Europa inizia a giocare un ruolo
attivo, che si sostanzia nella creazione dell'Alleanza Europea
per i Popoli Indigeni (EAIP), un organismo di coordinamento che
raccoglie le principali associazioni continentali. L'impegno
europeo prosegue fra il 1995 ed il 1996 con le conferenze
organizzate dal Centro Olandese per i Popoli Indigeni (NCIV),
nelle quali le organizzazioni per la difesa dei popoli autoctoni
cercano di individuare una strategia più incisiva nei
confronti delle istituzioni comunitarie.
Alessandro Michelucci
Gli strumenti che l'ONU offre per la tutela dei diritti
indigeni sono essenzialmente quelli riportati di seguito:
1948: Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (articoli 1,
2, 4, 7, 17, 26, 27)
1951: Convenzione per l'Eliminazione del Genocidio (articolo
2)
1957: Convenzione n. 107 dell'ILO (Ufficio Internazionale del
Lavoro)
sulla Protezione e l'Integrazione dei Popoli Indigeni, Trbali e
Semitribali nei Paesi Indipendenti
1969: Convenzione per l'Eliminazione della Discriminazione
Razziale (articolo 1.1)
1976: Trattato Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e
Culturali (articoli 1, 2, 3, 13, 15, 25)
1976: Trattato Internazionale sui Diritti Civili e Politici
(articoli 1, 27)
1976: Protocollo Aggiuntivo al Trattato Internazionale sui
Diritti Civili e Politici (Preambolo, articolo 1)
1981: UNESCO - Dichiarazione di San José sull'Etnocidio e
l'Etnosviluppo
Maggio 1982: Creazione dell'United Nations Working Group on
Indigenous Populations (UNWGIP)
1985: L'UNWGIP inizia a lavorare alla Dichiarazione Universale
dei Diritti dei Popoli Indigeni
1989: Convenzione n. 169 dell'ILO sui popoli indigeni (revisione
della Convenzione n. 107 del 1957)
1993: Anno Internazionale dei Popoli Indigeni
10 dicembre 1994: Inaugurazione del Decennio Internazionale dei
Popoli Indigeni (1995-2004)
Il 27 giugno 1989, l'Ufficio Internazionale del Lavoro (ILO)
ha adottato la Convenzione n. 169, relativa ai popoli indigeni e
tribali nei paesi indipendenti. Questa, finora recepita solo da
pochi stati, costituisce oggi l'unica norma di diritto
internazionale che riconosca i diritti dei popoli indigeni nei
confronti degli stati in cui vivono.
Fra questi diritti val la pena di ricordare:
- il diritto al proprio territorio;
- il diritto ad essere consultati se si discutono provvedimenti
legislativi od esecutivi che li concernono;
- il diritto allo sviluppo ed al controllo delle proprie
risorse;
- il diritto alla tutela della propria identità culturale,
lingui-stica e religiosa;
- il diritto di chiamarsi con il loro nome e di esprimere
liberamente la propria identità etnica;
- il diritto di formare propri organismi rappresentativi dotati
di uno statuto ufficiale;
- il diritto di conservare la propria struttura economica ed i
tradizionali modi di vita; questo non dovrebbe però
contrastare il diritto di partecipare liberamente e in condizioni
paritarie allo sviluppo economico, sociale e politico del
paese;
- il diritto di di conservare e utilizzare la propria lingua
nell'ambito dell'amministrazione e dell'insegnamento;
- il diritto di liberta' religiosa;
- il diritto di avere accesso alla terra e alle sue risorse
naturali, tenuto conto in particolare dell'importanza
fondamentale che tali diritti hanno nelle loro tradizioni e
aspirazioni;
- il diritto di organizzare, dirigere e controllare il proprio
sistema educativo.
Wolfgang Mayr
Se è vero che fra le varie parti del mondo esiste una
crescente interdipendenza, perché questa non dovrebbe
riflettersi anche in una solidarietà europea verso le
lotte indigene? E perché questa solidarietà non
dovrebbe venire anche dai popoli minoritari del nostro
continente, come i Corsi, i Sardi o i Bretoni?
Certo, la situazione dei Baschi non è quella dei Maori:
ovviamente si tratta di problemi diversi ai quali deve
corrispondere un differente approccio. Però è
altrettanto vero che in quasi tutti i popoli minacciati è
innato un internazionalismo che li porta a cercare dei "fratelli"
nei posti più impensati: i Corsi coi Kanak della Nuova
Caledonia, gli Occitani coi Berberi, gli Alsaziani con i Maohi
della Polinesia francese, i Sudtirolesi con i popoli indigeni
della Siberia, e l'elenco potrebbe continuare a lungo. Non si
tratta, è bene ripeterlo, di situazioni che i diretti
interessati mettono sullo stesso piano, ma solo di cause che
determinati avvenimenti hanno indotto a sposare in modo
preferenziale.
Si tratta di una solidarietà che funziona anche in senso
inverso, vale a dire dagli indigeni verso le minoranze europee,
come testimonia l'intensa attività del prestigioso Center
for World Indigenous Studies di Olympia (California). Sempre sul
fronte europeo, infine, è necessario ricordare la Prima
conferenza sulla cooperazione e sui popoli indigeni, organizzata
a Vitoria-Gasteiz (Paesi Baschi/Spagna) dal 21 al 24 novembre
1994, con la presenza di vari esponenti indigeni dell'America
centrale e meridionale.
Giovanna Marconi
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Suisse
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tel. +31-70-3603318, fax +31-70-3346
E-mail: unponl@antenna.nl
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Pubblicazioni: UNPO News; UNPO Yearbook
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ALTRE PUBBLICAZIONI
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Il continente africano è l'unico dove tutti - ad
eccezione dei bianchi sudafricani - sono indigeni: nessun popolo
è stato ridotto in condizione di minoranza in seguito alle
massicce immigrazioni europee, come in America od in Oceania, ma
si è verificato un processo di europeizzazione veicolato
dalle stesse élites postcoloniali.
I popoli che hanno resistito a questo processo sono così
divenuti minoranze nei nuovi stati nati dopo la fine del
colonialismo europeo. Stati artificiali e proprio per questo
instabili, che hanno modellato un continente di popoli ignoti.
Infatti l'uomo della strada percepisce, talvolta con una punta di
inconsapevole razzismo, un insieme indistinto di persone dalla
pelle nera, dalla Somalia al Sudafrica. Ignora i Diola e gli
Oromo, gli Ibo ed i Masai: al loro posto conosce solo i Ruandesi,
i Liberiani o gli Ugandesi, termini vuoti che cancellano
identità culturali secolari sostituendole con un paesaggio
umano uniforme. Una delle più tragiche e misconosciute
eredità del colonialismo è proprio questa desolante
uniformità: la stessa che si avverte osservando i confini
di molti stati africani, che formano una linea retta
perché sono stati tracciati con la riga.
I popoli "indigeni" dell'Africa, marginalizzati e discriminati,
chiedono quindi che vengano riconosciute le loro
specificità storiche, etniche e culturali, in altre
parole, quel diritto alla differenza che Thierry Verhelst,
fondatore del South-North Network, ha difeso in modo convincente
nel suo libro Des racines pour vivre.
Negli ultimi anni questi popoli hanno iniziato a far sentire la
propria voce nei consessi internazionali dove si discute della
questione indigena. Un problema che a trent'anni dalla guerra del
Biafra è ancora di tragica attualità, come
confermano quotidianamente le notizie che ci arrivano dalla
Nigeria, dalla Liberia, dal Ruanda.
Alessandro Michelucci
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
AA. VV., Storia e popoli dell'Africa nera, Rizzoli, Milano
1985.
AA. VV., Africa. Atlante storico-geografico, EMI, Bologna
1991.
A. Arecchi, Popoli d'Africa, EMI, Bologna 1992.
J.-P. Chrétien - G. Prunier (a cura di), Les ethnies ont
une histoire, Karthala, Paris 1989.
IWGIA Newsletter, n. 2, April-May-June 1993 (numero interamente
dedicato ai popoli indigeni dell'Africa).
D. Murumbi, "The Concept of Indigenous Peoples in Africa",
Indigenous Affairs, n. 1, January-February-March 1994, pp.
52-57.
J. S. Olson, The Peoples of Africa: An Ethnohistorical
Dictionary, Greenwood Press, Westport, Connecticut - London,
1996.
W. Soyinka, "The National Question in Africa: Internal
Imperatives", Development and Change, XXVII, n. 27, 1996, pp.
279-300.
H. Veber - J. Dahl - F. Wilson - Espen Waehle (a cura di), "Never
drink from the same cup". Proceedings of the conference on
Indigenous Peoples in Africa. Tune, Denmark, 1993, IWGIA - Centre
for Development Research, Copenhagen 1993 (Document n. 74).
INDIRIZZI UTILI
AFRICAN RIGHTS
11 Marshalsea Road
London SE1 1EP, Great Britain
tel. +44-171-7171224, fax +44-171-7171240
E-mail: afrights@gn.apc.org
Web: http://www.freeworld.it/afrights/homepage.html
INDIGENOUS PEOPLES OF AFRICA CO-ORDINATING COMMITTEE
Roger Shennells, South African San Institute
5 Long Street, Mowbray 7700, Cape Town, South Africa
E-mail: sasi@iafrica.com
I Berberi (o Masiri) sono gli abitanti originari del litorale
nord-africano. Il Sahara li divide dal resto del continente. La
loro origine è molto antica ma oggi, a causa delle
migrazioni e delle invasioni provenienti dall'Asia minore e
dall'Africa centrale, non presentano più una comune
origine. La grande famiglia berbera, alla quale appartengono
anche i Tuareg, vive attualmente divisa in otto paesi: Algeria,
Burkina Faso, Libia, Mali, Marocco, Niger e Tunisia. Le
comunità più numerose si trovano in Marocco ed in
Algeria, dove costituiscono minoranze molto consistenti.
Le tribù berbere, pur essendo molto ricettive nei
confronti degli apporti culturali esterni, riuscirono a mantenere
la propria identità, fino a chè, con le invasioni
del settimo secolo, l'influenza araba si radicò
definitivamente nell'Africa settentrionale. Questo portò
anche l'introduzione della religione islamica, che i Berberi
accettarono senza grandi resistenze. L'islamismo, comunque, non
soppiantò del tutto il cristianesimo e l'ebraismo, che si
erano già diffusi nei secoli precedenti. Nelle campagne
l'influenza araba fu avvertita abbastanza poco. Fu al contrario
nelle città che la lingua, la cultura e le leggi tribali
berbere venivano a poco a poco sostituite da quelle arabe.
Quando i Francesi occuparono il Nordafrica (l'Algeria nel 1839,
la Tunisia nel 1881 ed il Marocco nel 1912), non fecero altro che
identificare le differenze etnoculturali secondo una divisione
schematica fra abitanti degli altipiani e delle città e
popoli montanari. I primi vennero ritenuti arabi ed i secondi
berberi. Inoltre, dato che i popoli delle zone montagnose
apparivano musulmani meno ortodossi, i Francesi credettero che
questi fossero etnicamente diversi ed al tempo stesso più
ricettivi nei confronti della cultura europea. Fu così che
le regioni "arabe" e quelle "berbere" ebbero due diverse
amministrazioni, e che i colonizzatori, soprattutto in Marocco,
cercarono di incoraggiare lo sviluppo della cultura
berbera.
Questo generò una duplice reazione. Da una parte il
processo di arabizzazione fu volontariamente accelerato: nelle
zone dove prima si parlava solo il berbero, l'arabo lo
sostituì del tutto o in parte. Dall'altra, i Berberi
cercarono di sfruttare le nuove opportunità economiche
offerte dal colonialismo. Così iniziarono a migrare nella
regione di Orano (Algeria nord-occidentale), dove presero a
lavorare per i coloni francesi, oppure si inurbarono a Casablanca
e ad Algeri.
Durante le lotte per l'indipendenza, i Berberi giocarono un ruolo
di primo piano: la rivoluzione partì infatti dalla
Kabylia, la regione dell'Algeria settentrionale abitata in larga
maggioranza da Berberi. Di conseguenza questi ebbero un certo
peso nell'esercito dei nuovi stati. La loro presenza nei
rispettivi governi, tuttavia, era minima, ed uno dei principali
problemi che i Berberi del Marocco e dell'Algeria dovettero
affrontare fu quello della loro integrazione in uno stato
unitario ed arabofono. I Berberi non tardarono a capire che il
colonialismo era finito solo in apparenza: a quello francese era
subentrato quello arabo. "La cultura berbera si insegna nelle
università di Parigi, Vienna, Utrecht, Praga, Tokyo, a Los
Angeles, ma non in quella che è la sua patria: l'Algeria"
disse nel 1980 Ait Ahmed, il leader berbero che aveva combattuto
i Francesi accanto a Ben Bella.
A questo si è aggiunto nell'ultimo decennio l'odio degli
integralisti islamici, che non tollerano una certa
ricettività dei Berberi nei confronti della cultura
europea: nel settembre del 1994, ad Orano, i terroristi del GIA
(Gruppo Islamico Armato) uccidono a sangue freddo il cantante
Cheb Hasni, idolo della gioventù berbera.
Un altro fenomeno importante degli ultimi anni è la
rinnovata attualità del problema linguistico. Come misura
concreta per evitare l'assimilazione, il MCB (Movimento Culturale
Berbero) ed altre associazioni ripropongono il bilinguismo: il
tamazight è parlato da oltre 15.000.000 di persone (di cui
8.000.000 in Marocco e 4.000.000 in Algeria). In questa lotta
nonviolenta ma molto decisa sono sostenuti da varie minoranze
europee, prime fra tutte i Bretoni e gli Occitani. Purtroppo,
però, ogni tentativo teso a raggiungere l'autonomia
linguistica continua ad essere bollato come "separatismo":
l'ideologia dello stato nazionale, "uno ed indivisibile" sul
modello francese, è l'eredità sgradita che Parigi
ha lasciato alle ex-colonie del Nord-Africa.
In Europa, comunque, gli ultimi anni vedono nascere diverse
associazioni che cercano di dare eco internazionale alla
questione berbera. La più importante è il
Congrés Mondial Amazigh, che nell'agosto 1997 organizza il
Primo Congresso Mondiale Berbero, un avvenimento che pone salde
basi per l'azione dei prossimi anni.
Giovanna Marconi
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
G. Camps, I Berberi, Jaca Book, Milano 1996.
A. Caruso, "L'incognita berbera nel futuro del Maghreb",
Limes, n. 2, aprile-giugno 1994, pp. 93-102.
S. Chaker, Berbères aujourd'hui, L'Harmattan, Paris
1989.
M. Tilmatine, "I Berberi fra rinascita culturale ed impegno
politico", Pogrom (Firenze), II, n. 1, gennaio-aprile
1995, pp. 33-38.
J, Servier, Les Berbéres, Presses Universitaires de
France, Paris 1994.
K. Tissas, "Truly Indigenous: The Berbers of North Africa",
IWGIA Newsletter, n. 2, April-May-June 1993, pp.
14-18.
INDIRIZZI UTILI
ASSOCIAZIONE CULTURALE BERBERA IN ITALIA
Via Savoia Cavalleria 10
20145 Milano
tel. +39-02-4817185, fax +39-02-58315453
E-mail: cuscus@imiucca.cisi.unimi.it
Web: www.bab-levante.net/berberi/wel_berberi.htm
CONSEIL MONDIAL AMAZIGH
47, rue Bénard
F-75014 Paris, France
tel. +33-1-45457978, fax +33-1-45433525
E-mail: cma.ferkal@wanadoo.fr
Web: http://www.tamurt-imazighen.com/tamazgha/agraw/agraw.html
MOUVEMENT CULTUREL BERBERE
Avenue de Chailly 34
CH-1012 Lausanne, Suisse
tel-fax +41-21-6525641
E-mail: babdenou@worldcom.ch
Pubblicazioni: Espoir
TIFINAGH [rivista]
Una leggenda racconta che Maasinda, il mitico progenitore dei
Maasai, costruì una grande scala con la quale portò
il suo popolo dal bacino del lago Turkana all'altipiano Uasin
Gischu. Gli storici sostengono che attorno al 1500 gruppi di
pastori maasai lasciarono la regione del lago Turkana, nel nord
dell'odierno Kenya, diretti verso sud. Nei due secoli successivi
conquistarono vaste regioni delle savane dell'Africa occidentale,
soprattutto nel Rift Valley. Vennero in contatto con antichi
popoli di lingua cuscita, come i Chagga ed i Bantu, che avevano
raggiunto quelle regioni in epoca posteriore. Da una parte la
superiorità militare dei Maasai, armati di giavellotti,
scudi e spade, li rendeva invincibili, ma dall'altra svilupparono
relazioni commerciali con gli altri popoli, in particolare con i
Bantu, dediti all'agricoltura.
Anche oggi come allora la base economica dei Maasai è
costituita dalle mandrie: più bovini uno ha, maggiore
è la stima di cui gode, e tutta la vita ruota attorno
all'allevamento del bestiame. Le mandrie hanno una tale
importanza per la loro identità culturale che un maasai
senza bestiame cessa praticamente di essere considerato uno di
loro. In passato anche l'alimentazione era costituita in larga
parte da proteine animali; solo negli ultimi decenni la dieta
tipica dei pastori (latte, carne, sangue bovino, mais e miglio)
è stata integrata da altri alimenti.
Originariamente il sistema economico dei Maasai era consono alle
condizioni climatiche ed ecologiche del loro territorio. Nella
pianura del Rift Valley piove poco, mentre sulle montagne
circostanti, che raggiungono i 2000 metri, ci sono abbondanti
pascoli per tutto l'anno. E' così che nella stagione secca
(da dicembre a febbraio e da luglio a settembre), quando il Rift
Valley è arso dal sole, i Maasai vivono in regioni
più alte, dove le mandrie possono trovare abbondanti
pascoli. Appena le piogge hanno fatto germogliare l'erba a valle,
gli indigeni lasciano i monti e ritornano in pianura.
Anche se non esiste libro, conferenza o documentario sulle
bellezze naturali dell'Africa orientale che non tratti dei
longilinei pastori nomadi, in realtà i Maasai sono ormai
un popolo di scarsa consistenza numerica. Quelli che vivono in
Tanzania sono 150.000, mentre in Kenya sono circa 220.000;
entrambi i gruppi sono divisi in una decina di sottogruppi, i
cosidetti il-oshon. L'unità sociopolitica più
importante è rapppresentata dagli in-kutoi, gruppi locali
che hanno diritto d'uso sui pascoli e sulle sorgenti. I Maasai
sono organizzati in gruppi divisi secondo l'età. Fra i
quattordici ed i diciotto anni, per esempio, i giovani vengono
circoncisi ed attraverso varie cerimonie vengono iniziati
all'arte della guerra. Ancor oggi gruppi di giovani maasai
passano il confine fra Kenya e Tanzania per fare razzia di
bestiame: per la loro cultura si tratta di furti pienamente
giustificati, perché credono che tutto il bestiame
appartenga a loro per volontà divina.
Nel secolo dicinannovesimo le potenze europee si sono
impossessate dell'Africa e se la sono spartita senza alcun
riguardo per i suoi equilibri ecologici, culturali ed
umani.
I Maasai, fino ad allora padroni indiscussi della savana, hanno
dovuto però fronteggiare anche altre difficoltà,
come la peste bovina che nel 1890 decimò le loro mandrie e
la successiva epidemia di vaiolo che uccise migliaia di persone.
Nei primi anni del nostro secolo si aggiunse a tutto questo anche
la fame di terre dei coloni: parti delle zone abitate dai maasai,
divise fra Germania e Gran Bretagna, furono dichiarate "terre
senza proprietario" e date ai coloni. Nella sola Africa orientale
tedesca la deportazione dei Maasai causò la perdita di
40.000 kmq di terre da pascolo.
All'inizio degli anni Sessanta Kenya e Tanzania divennero
independenti, ma per i pastori nomadi questo non portò
alcun miglioramento. Anzi, si aggiunsero lotte accanite per le
poche riserve naturali rimaste. Se è vero che i parchi
naturali proteggono la preziosa fauna africana, è
però altrettanto vero che privano i Maasai dei pascoli.
Gli indigeni, pur non essendo cacciatori e non cibandosi di
selvaggina, vengono cacciati dai parchi nazionali. Con la scusa
di tutelare il patrimonio forestale, inoltre, viene loro vietato
l'accesso ai pascoli di montagna, alle pendici del Kilimangiaro.
Oggi questo divieto viene aspramente criticato, perché
sembra che l'uso dei pascoli di montagna sia perfettamente
compatibile con la conservazzione dei boschi.
Sul piano strettamente politico, è all'inizio degli anni
Novanta che i Maasai cominciano ad organizzarsi. La Prima
Conferenza dei Maasai sulla Cultura e lo Sviluppo (Arusha, 1991)
e la fondazione del Pastoralist Network (1992) sono le tappe
più importanti di una strategia che include anche una
presenza regolare alle riunioni i organizzate dall'ONU per
discutere la Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli
Indigeni. Ed è proprio in una di queste riunioni (ottobre
1996) che i Maasai del Kenya, insieme ad altri popoli, denunciano
senza mezzi termini che gli anni spesi per elaborare l'ambizioso
documento "sono stati perfettamente inutili".
GfbV-Österreich
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
K. Århem, The Maasai and the State, IWGIA,
Copenhagen 1985 (Document n. 52).
C. Bentsen, La loro Africa. Vita tra i Masai, Sperling
& Kupfer, Milano 1993.
L. Fiocco - G. Sivini, Allevamento tradizionale e progetti di
sviluppo in Africa. La riproduzione sociale dei Maasai, ASAL,
Roma 1988.
V. Neckerbrouck, Resistant Peoples. The Case of the Pastoral
Maasai of East Africa, Pontificia Università
Gregoriana, Roma 1993.
INDIRIZZI UTILI
KORONGORO INTEGRATED PEOPLES ORIENTED TO CONSERVATION
(KIPOC)
PO Box 94
Loliondo, Ngorongoro District, Tanzania
fax +255-51-46607
MAA DEVELOPMENT AND WELFARE ASSOCIATION
PO Box 231
Nairobi, Kenya
tel. +254-2-335457, fax +254-2-219022
La storia vuole che la Nigeria, il più popoloso dei
paesi africani, debba cadere sotto i riflettori
dell'attualità raramente e sempre in occasione di
avvenimenti tragici per le sue minoranze. Nel 1967, la secessione
del popolo ibo sfocia nella la guerra del Biafra, uno dei
conflitti più sanguinosi dell'Africa post-coloniale, che
si conclude tre anni dopo col tragico bilancio di oltre 1.000.000
di morti.
Negli anni Novanta, dopo un quarto di secolo, il triste primato
della cronaca tocca ad un altro popolo della repubblica africana,
che per una sinistra coincidenza abita proprio in una parte
dell'ex-Biafra: gli Ogoni.
Questo popolo di 500.000 persone vive appunto nel Rivers State -
sulla carta la Nigeria è una federazione di 30 stati - che
sorge nel sud-est, sul delta del Niger, ed è grande quanto
la Toscana.
La Nigeria raggiunge l'indipendenza nel 1960, dopo essere stata
una colonia britannica. Fra il 1966 ed il 1979 è scossa da
quattro putsch militari e da una lunga guerra civile, quella del
Biafra a cui si accennava prima. Da allora è governata dai
militari, responsabili di un regime repressivo ed oscurantista
che ha pochi eguali nel continente.
Nel paese vivono circa 250 gruppi etnici, ma i tre principali
(Haussa, Yoruba e Ibo) costituiscono insieme quasi i due terzi
della popolazione.
Il 95% delle esportazioni è costituito dal petrolio, che
viene trovato ancora prima dell'indipendenza (1958) e da allora
svolge un ruolo centrale nell'economia del paese.
Molti giacimenti si trovano nel Rivers State, ed in particolare
nella regione abitata dagli Ogoni. Ed è proprio da questo
che nascerà la loro tragedia.
Lo sfruttamento selvaggio del suolo produce mutamenti ambientali
profondi: i fiumi e l'aria sono avvelenati dall'ossido di
carbonio, le perdite di petrolio producono inquinamenti ovunque.
La terra degli Ogoni è un gugantesco acquitrino di fango e
petrolio.
A questo si aggiunge che la regione degli Ogoni viene sempre
stata considerata un limone da spremere senza che gli indigeni ne
traggano il minimo vantaggio economico - ammesso e non concesso
che questo possa in qualche modo compensarli dei gravi danni
ambientali e fisici. Lo stesso destino che tocca a molti popoli
indigeni sparsi per il globo.
Negli anni Ottanta il malcontento diviene vera e propria
resistenza civile fino a coagularsi nel Movement for the Survival
of the Ogoni People (MOSOP), fondato nel 1990 dallo scrittore Ken
Saro-Wiwa, che si impone velocemente come la voce della
resistenza ogoni.
Il bersaglio della lotta non-violenta e radicale di Saro-Wiwa
sono le multinazionali petrolifere, prime fra tutte la Shell,
responsabili dell'ecocidio che si sta consumando nella terra
della minoranza africana. L'impegno dello scrittore ogoni e del
suo movimento guadagnano l'attenzione mondiale anche grazie al
sostegno di un altro scrittore nigeriano, il Nobel Wole Soyinka,
che nei primi anni Novanta denuncia la "pulizia etnica"
realizzata dal regime militare contro gli Ogoni. La Shell e le
altre compagnie petrolifere hanno infatti richiesto l'intervento
dell'esercito affinchè neutralizzasse la resistenza
locale: una richiesta che il governo militare soddisfa con la
massima solerzia.
Intanto Saro-Wiwa scrive, parla, viaggia per far conoscere al
mondo la tragedia del suo popolo. Nel 1992 esce il suo libro
Genocide in Nigeria: The Ogoni Tragedy, e lo scrittore entra
così nel mirino dei generali. Pochi mesi dopo presenta al
governo nigeriano l'Ogoni Bill of Rights, un documento politico
che chiede l'autonomia regionale ed un parziale controllo delle
risorse naturali.
In Europa, intanto, Saro-Wiwa ha trovato l'appoggio dei movimenti
ambientalisti, Greenpeace in testa, e delle associazioni per la
difesa delle minoranze, in particolare della Gesellschaft
für bedrohte Völker (Associazione per i Popoli
Minacciati) e dell'UNPO (Unrepresented Nations and Peoples
Organization).
Nella primavera del 1995 viene imprigionato insieme ad altri otto
ambientalisti. A nulla valgono le iniziative e le pressioni
internazionali per salvarli: il 10 novembre, dopo un
processo-farsa, Saro-Wiwa e gli altri vengono impiccati.
Lo sdegno mondiale esplode prontamente, ma al posto delle solite
condanne formali e di tanti paroloni ad effetto sarebbe forse
meglio fare una riflessione. Ken Saro-Wiwa è morto
perchè era e voleva restare un ogoni. Non voleva essere un
nigeriano, perchè questo non significa niente. Lottava per
una terra, una lingua, una cultura: in una parola, per
un'identità. I generali nigeriani l'hanno ucciso proprio
per questo.
Ma la sua lotta continua: oggi esistono sedi del MOSOP in Gran
Bretagna, negli Stati Uniti ed anche in Italia, a Roma, dove
Komene Famaa ha ottenuto asilo politico e cerca di mobilitare
l'opinione pubblica su questa tragedia dimenticata.
Alessandro Michelucci
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
D. Nwiado, "Militarizing Commerce in Africa. The Example of Shell
in Ogoniland", Indigenous Affairs, n. 2, April-May-June
1996, pp. 40-43.
Ogoni. Report of the UNPO Mission to Investigate the Situation
of the Ogoni of Nigeria, February 17-26, 1996, UNPO, The
Hague 1995.
A. Rowell, "Oil, Shell and Nigeria: Ken Saro-Wiwa Calls for a
Boycott", The
Ecologist, XV, n.6, November-December 1995, pp. 210-213.
K. Saro-Wiwa, Genocide in Nigeria: The Ogoni Tragedy,
Saros International Nigeria, Port Harcourt 1992.
INDIRIZZI UTILI
OGONI FREEDOM CAMPAIGN
37 - 39 Great Guildford Street
London SE1 0ES, Great Britain
tel. +44-171-2619060, fax +44-171-2619590
E-mail: ofc@gn.apc.org
Web: http://www.ecdpm/mosop
Molti film e romanzi hanno dipinto un'immagine romantica dei
Tuareg, quella di "orgogliosi cavalieri del Sahara", quasi
l'equivalente africano dei cowboys. In realtà il loro
mondo non ha niente a che vedere con tutto questo.
I Tuareg (oggi circa 1.500.000) sono un popolo nomade di ceppo
berbero, molto probabilmente discendente degli antichi Garamanti
ed abitano un territorio che si estende per circa 2.500.000 kmq
(8 volte l'Italia) attraverso 5 paesi dell'Africa
nordoccidentale: Algeria, Burkina Faso, Libia, Mali e Niger. In
questi ultimi due paesi si trovano le comunità più
numerose. Parlano una lingua propria ed hanno un proprio
alfabeto.
Il nome col quale sono conosciuti deriva dall'arabo tawariq
("senza cammino"). Il loro vero nome è Imezir e sono
divisi in confederazioni territoriali. Il classico appellativo di
"uomini blu" deriva dall'indaco naturale col quale tingono le
vesti.
I primi a parlare di loro sono i viaggiatori arabi (secolo nono)
che li definiscono "uomini velati". Fra il 1300 ed il 1700
conducono molte guerre , spesso vittoriose, con popoli contigui
come i Peul o i Songai.
Grazie a questo guadagnano vasti territori nel Sahara.
I primi contatti con gli Europei - in genere viaggiatori o
missionari - avvengono solo nell'Ottocento. Alla fine del secolo
il colonialismo francese che si sta radicando nel Maghreb porta a
ripetuti scontri con i nomadi. Ma paradossalmente i Tuareg
dovranno rimpiangerlo, perchè i gli stati che nascono in
seguito alla decolonizzazione portano confini più rigidi e
governi più dispotici.
Negli anni Settanta la grande siccità che colpisce il
Sahel costringe i Tuareg ad emigrare verso il nord, in Libia ed
Algeria. Gheddafi è l'unico capo di stato che li aiuta
concretamente, ed alcuni di loro si arruolano nell'esercito
libico. Altri si uniscono al Fronte Polisario, l'organizzazione
dei Saharawi che dal 1975 si batte per l'indipendenza
dell'ex-Sahara spagnolo dal Marocco.
Nel 1986 la loro situazione peggiora: il governo algerino espelle
centinaia di famiglie rifugiate. Più tardi, nel Mali e nel
Niger, la situazione precipita evolvendo negli scontri armati fra
Tuareg ed i rispettivi eserciti governativi.
Nel 1991 i quattro principali movimenti tuareg si uniscono nel
Fronte Unito per la Difesa dell'Azawad, una zona grande come
l'Europa occidentale che si estende dal Mali fino alle montagne
dell'Air in Niger.
Dopo duri scontri si arriva finalmente al "patto nazionale",
siglato col governo maliano nel 1992, ma due anni dopo l'esercito
di Bamako riprende le operazioni contro i guerriglieri nomadi. Il
futuro degli "uomini blu", migliaia dei quali sono oggi profughi
nei paesi vicini, rimane pieno di incognite. Questo anche a causa
dei conflitti esistenti fra i vari movimenti tuareg, espressione
di quelle alleanze e rivalità tribali nate nel periodo
coloniale.
Alcuni reclamano varie forme di autonomia, come quella che
potrebbe realizzarsi se il Niger fosse riformato in senso
federalista. Altri, sicuramente minoritari, aspirano invece ad un
utopistico stato indipendente.
Giovanna Marconi
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
V. Beltrami - M. S. Baistrocchi (a cura di), I Tuareg tra
esilio, resistenza e integrazione, Vecchio Faggio, Chieti
1994.
E. Bernous,Chronique de l'Azawad, Plume, Paris 1991.
V. Brugnatelli (a cura di), Fiabe del popolo tuareg, 2
voll., Mondadori, Milano 1994.
H. Claudot-Hawad - Hawad (a cura di), "Touaregs. Voix solitaires
sous l'horizon confisqué", numero monografico di
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INDIRIZZI UTILI
ASSOCIAZIONE TRANSAFRICA
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50127 Firenze
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I popoli amazzonici sono senza dubbio i più gravemente
minacciati dell'intero continente americano. Anche se sono molte
centinaia, il loro numero complessivo si aggira sui 200.000:
molti contano infatti poche migliaia e talvolta poche centinaia
di persone. Com'è noto, si tratta di popoli che conducono
una lotta quotidiana contro l'estinzione, spesso senza alcuna
speranza. La loro condizione è quindi ben diversa da
quella degli Indiani degli Stati Uniti o delle Ande, che vantano
comunità numerose.
Il bacino del Rio delle Amazzoni, meglio noto come Amazzonia,
è la più grande foresta tropicale del
pianeta.
E' un tesoro biologico di valore inestimabile, habitat di
un'incredibile varietà di piante ed animali. La regione
sconfinata (grande quanto l'Australia) è suddivisa fra
otto paesi, ma circa due terzi appartengono al Brasile.
Lo sfruttamento delle grandi risorse naturali (oro, stagno,
diamanti, uranio, titanio) iniziò nel secondo dopoguerra.
Negli anni Sessanta il governo brasiliano varò un progetto
che aveva per obiettivo la costruzione di una rete autostradale
nella foresta (la Transamazzonica). In tal modo si voleva dotare
le imprese esportatrici di legname di una base nel cuore della
foresta. Questo aprì le porte al disboscamento ed alla
colonizzazione selvaggia.
Successivamente la foresta viene stravolta da nuovi progetti
faraonici - Polonoroeste e Gran Carajas, che oltre ad avere un
impatto ambientale devastante aprono la strada a migliaia di
nuovi colonizzatori. Al tempo stesso una grave minaccia per gli
indios è costituita dai garimpeiros (cercatori d'oro),
uomini avidi e senza scrupoli, che spesso sterminano intere
tribù col tacito assenso della FUNAI (Fundacion Nacional
do Indio), l'ente governativo affine al Bureau of Indian Affairs
operante negli Stati Uniti.
I pochi che non si piegano allr violenze dei latifondisti e dei
garimpeiros pagano spesso con la vita: è il caso di
Francisco (Chico) Mendes, pluriennale difensore degli indigeni,
che viene ucciso nel 1988. Il sindacalista dei seringueiros
(estrattori di caucciù) diventa così il simbolo
della lotta per salvare la foresta che continua ad essere
bruciata, devastata e sventrata nel nome dello "sviluppo".
La grande riunione indigena che si tiene ad Altamira nel 1989
segna l'inizio del "caso Amazzonia" che nei mesi successivi
monopolizza l'attenzione dei media. L'adesione dei movimenti
ecologisti salda definitivamente la questione indigena con quella
ambientale.
Dell'Amazzonia si parla e si scrive sui quotidiani, sulle riviste
universitarie, sui rotocalchi. In poco tempo diventano familiari
i nomi di popoli prima sconosciuti: Kaiowa, Bororo, Xavante,
Yanomami. Attorno a questi ultimi, in particolare, si forma un
movimento d'opinione che raccoglie cineasti e missionari,
ambientalisti ed uomini di cultura. Nascono varie proposte per la
delimitazione delle terre yanomami: degno di nota è
l'impegno instancabile di Claudia Andujar, che guida la CCPY
(Commissione per la Creazione del Parco Yanomami).
Verso la fine degli anni Ottanta si registrano dei cambiamenti
che fanno ben sperare: l'ecologista Josè Lutzemberger
diventa Ministro dell'Ambiente, mentre a capo della FUNAI arriva
Sidney Possuelo, un sincero sostenitore degli indios. Alla fine
del 1990 il presidente brasiliano Collor de Mello annuncia che
agli Yanomami vengono riconosciuti "diritti permanente" su un
territorio di oltre 90.000 kmq.
Oltre agli Yanomami, altri popoli meritano un accenno: fra questi
gli Xavante, che possono vantare il primo deputato indigeno nella
storia del Brasile, Mario Juruna, eletto nel 1982. I Kaiowa, dal
canto loro, sono afflitti nei primi anni Novanta da un'altissima
percentuale di suicidi: i giovani reagiscono in questo modo alla
grave crisi d'identità. I Waimiri-Atroari sono ormai
ridotti a poche centinaia, ed il loro territorio viene sfruttato
in modo selvaggio da una grande compagnia mineraria.
Ma l'Amazzonia non è solo Brasile. La Colombia, per
esempio, si distingue per un migliore approccio alla questione
indigena. Negli anni Ottanta il presidente Barco riconosce i
diritti territoriali indigeni su un'area di 12.000 kmq. Queste
terre divengono dei resguardos, qualcosa di sostanzialmente
diverso dalle riserve in quanto la terra è
proprietà collettiva delle comunità indigene ed
è inalienabile. Le tribù hanno quindi un territorio
che costituisce la base delle loro attività
produttive.
Purtroppo, però, questa è solo l'eccezione che
conferma la regola: solo una minima parte dell'Amazzonia si trova
in Colombia, e l'arbitro della situazione rimane in ogni caso il
Brasile.
Ed è proprio dal Brasile che arrivano fra il 1995 ed il
1996 notizie allarmanti: il Parlamento rivede in senso
peggiorativo le leggi che regolano i diritti territoriali.
Rischia così di andare in fumo il risultato di lotte che
spesso sono state pagate con la vita.
Alessandro Michelucci
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
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dell'Amazzonia, Fratelli Melita, La Spezia 1992.
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INDIRIZZI UTILI
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Pubblicazioni: Abya Yala News
Nata a Francoforte nel 1991, l'Alleanza per il Clima coinvolge
l'associazione indigena COICA (Coordinadora de las Organizaciones
Indìgenas de la Cuenca Amazonica) ed oltre 400
città, comuni e regioni di 10 paesi europei (Austria,
Danimarca, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Olanda,
Spagna, Svezia e Svizzera). Questi ultimi si sono assunti
l'impegno di attuare misure per la difesa dell'ambiente, aiutando
così i popoli indigeni dell'Amazzonia a difendere la loro
foresta.
Fra le altre cose, i partners europei dell'Alleanza si impegnano
a dimezzare le emissioni di CO2 entro il 2010 ed a proseguire
questa tendenza negli anni successivi. Viene inoltre assunto
l'impegno di ridurre il consumo energetico ed il traffico
motorizzato.
Fra le città italiane che aderiscono a questa iniziativa,
Bolzano, Bressanone (BZ), Città di Castello (PG) e Cortina
d'Ampezzo (BL).
Giovanna Marconi
I popoli rossi del Nord-America sono gli aborigeni più
familiari all'uomo della strada, che li ha conosciuti attraverso
il cinema, da Ombre rosse a Balla coi lupi. Questa fama è
stata però pagata con rappresentazioni retoriche e
distorte, oscillanti fra il buon selvaggio e la belva
sanguinaria. In realtà essi sono ben diversi da quelli che
abbiamo conosciuto sugli schermi: "Quanto più cerchiamo di
essere noi stessi, tanto più dobbiamo difenderci da
ciò che non siamo mai stati" scrive Vine Deloria junior,
militante lakota e docente universitario, nel suo classico Custer
è morto per i vostri peccati.
Per tracciare un quadro della storia recente degli Indiani
nordamericani è necessario partire dalla fine del secolo
scorso. Il 1890 segna la fine delle guerre indiane. Nel giro di
pochi giorni viene ucciso Toro Seduto ed ha luogo il massacro di
Wounded Knee: circa 300 indiani, fra cui molte donne e bambini,
vengono massacrati dai soldati di George Custer che li stanno
deportando verso altre riserve.
Con Wounded Knee, per l'uomo della strada cala il sipario sulla
questione indiana, ed i popoli in questione diventano
semplicemente quelli che vivono nelle riserve. Ma cosa accade in
realtà?
Nel 1924 il Congresso riconosce gli Indiani cittadini degli Stati
Uniti. Una decina d'anni più tardi viene emanata la Legge
per la riorganizzazione degli Indiani, promossa da John Collier,
l'unico Commissario degli Affari Indiani che viene ricordato come
un sincero difensore dei loro diritti. Collier promuove lo
sviluppo dell'artigianato, elimina i divieti che mortificavano le
tradizioni religiose. Nel giro di dieci anni, dal 1934 al 1944,
il territorio indiano aumenta dell'8%.
Progressi analoghi non si registrano però nei rapporti fra
Indiani e bianchi: gli uomini rossi restano dei paria,
marginalizzati e disprezzati.
Il 1944 è un anno importante: nasce il National Congress
of American Indians, la prima organizzazione di respiro federale.
Nel dopoguerra i tempi sono ormai maturi: quella che viene
generalmente detta la "seconda resistenza indiana" inizia nei
primi anni Cinquanta. In questo periodo gli Stati Uniti stanno
iniziando a confrontarsi col movimento per i diritti civili dei
neri.
Indiani ed afroamericani, com'è ovvio, hanno obiettivi
diversi ed in buona parte opposti: in estrema sintesi, i neri
vogliono realizzare quell'integrazione che gli altri rifiutano.
Si verificano dei contatti, ma si tratta di episodi sporadici
proprio a causa del motivo suddetto.
Col 1968, anno centrale per tanti sommovimenti sociali del
dopoguerra, anche gli Indiani si organizzano per lotte più
radicali. Nascono in quell'anno l'American Indian Movement (AIM)
ed il giornale Akwesasne Notes. Questa pubblicazione (ancora
attiva nel 1996) non è un giornale indiano come tanti
altri, e negli anni successivi si imporrà come organo di
collegamento fra le varie nazioni indiane. Dal canto suo, l'AIM
si impone velocemente come il motore della nuova resistenza
indiana grazie ad alcune azioni dimostrative, come l'occupazione
dell'isola di Alcatraz, che dà luogo ad un braccio di
ferro con le autorità che si protrae per 18 mesi.
L'attivismo procede negli anni successivi: nel 1972 l'AIM
organizza la marcia verso Washington nota come Trail of Broken
Treaties (sentiero dei trattati infranti), per protestare contro
il mancato rispetto dei circa 400 trattati conclusi nei secoli
precedenti con i coloni europei.
Ma l'episodio che più di ogni altro incarna la resistenza
indiana del ventesimo secolo è quello che ci riporta a
Wounded Knee. Nel febbraio 1973 trecento indiani lakota occupano
il villaggio che un secolo prima è stato teatro del noto
massacro, e che ora sorge nella riserva di Pine Ridge
(Sud-Dakota). In questo modo gli occupanti vogliono protestare
contro la corruzione di alcuni capi e contro la politica del
Bureau of Indian Affairs. Questo ente federale, che dovrebbe
fornire assistenza economica alle riserve, in realtà le
controlla e le conserva in condizioni di degrado umano, e
talvolta cerca di costringere gli Indiani a vendere la terra alle
multinazionali minerarie. L'occupazione di Wounded Knee si
protrae per 71 giorni e termina sanguinosamente con l'intervento
dell'esercito. Uno dei protagonisti della rivolta è
Leonard Peltier, il cui nome è legato ad una lunga
controversia giudiziaria che fa di lui il simbolo delle lotte
indiane odierne. Peltier viene condannato a due ergastoli nel
1975: viene accusato di aver ucciso due agenti dell'FBI nel corso
di uno scontro a fuoco avvenuto a Pine Ridge. L'accusa si basa su
una testimonianza poi ritrattata, ma nonostante questo la vicenda
si trascina fino ai nostri giorni, caratterizzata dalla provata
falsificazione delle prove a suo carico.
Nel frattempo la questione indiana si internazionalizza: nasce
l'International Indian Treaty Council (Consiglio Internazionale
dei Trattati Indiani), che si propone appunto di dare
dignità giuridica alle lotte per il rispetto dei trattati.
Sono anni di grande fermento: nel 1975 nasce a Port Alberni
(Canada) il World Council of Indigenous Peoples (Consiglio
Mondiale dei Popoli Indigeni), che raccoglie per la prima volta
Lapponi ed Eschimesi , Maori ed Indiani del Nordamerica.
Anche l'ONU, finora sorda ai problemi indigeni, organizza presso
la sede di Ginevra la sua prima conferenza sulla situazione
dell'America indigena (settembre 1977). Negli anni Ottanta la
città svizzera diventa la sede della conferenza annuale
che raccoglie i movimenti indigeni di tutto il mondo.
Anche le donne si organizzano: nel 1978 nasce WARN (Women of All
Red Nations), che non vuole scimmiottare le femministe ma offrire
un contributo originale alla soluzione dei problemi che
travagliano la società indiana. Un'attenzione particolare
viene riservata alla piaga della sterilizzazione forzata: come
risulta da un rapporto del General Acconting Office (analogo alla
nostra Corte dei Conti), migliaia di donne sono state
sterilizzate a loro insaputa.
I problemi che affliggono gli Indiani non finiscono qui. Coloro
che vivono nelle riserve sono spesso disoccupati e soffrono una
crisi d'identità che cerca conforto nell'alcool o nella
droga. Alcuni popoli, come i Western Shoshone, vivono in
territori contaminati dagli esperimenti nucleari.
Una corretta sintesi dei problemi indiani non può infine
prescindere dal profondo legame spirituale che unisce i popoli
rossi alla Madre Terra: un legame per il quale la civiltà
industriale rappresenta una minaccia permanente.
E' il caso delle montagne sacre, come le Colline Nere (Sud
Dakota) o Monte Graham (Arizona). Le prime sono rivendicate dai
Lakota in base al Trattato di Laramie (1868), mentre gli Apache,
com'è noto, si oppongono alla costruzione di un telescopio
(voluto, fra gli altri, dal Vaticano e dall'Osservatorio di
Arcetri).
Problemi che anche in Italia hanno trovato una certa eco, ma la
cui soluzione sembra ancora lontana, ed in molti casi
improbabile.
Alessandro Michelucci
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
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INDIRIZZI UTILI
AKWESASNE NOTES [rivista]
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Pubblicazioni: Tepee
Spesso i nomi che vengono usati comunemente usati per
designare i popoli indigeni nascondono un significato
dispregiativo. I Lakota, ad esempio, vennero ribattezzati Sioux
dai missionari gesuiti, che si ispirarono al termine nado-we-siu
(vipere) adoperato da alcuni popoli nemici.
Non fanno eccezione gli Inuit, da sempre noti come Eschimesi
(mangiatori di carne cruda), termine dispregiativo di origine
algonchina.
I popoli indigeni del continente americano provengono da varie
parti dell'Asia attraverso varie ondate migratorie che risalgono
ad oltre 40.000 anni fa. Gli Inuit, come si capisce osservando i
loro tratti somatici, sono originari delle fredde distese
siberiane.
Abitano la regione della tundra e vivono di caccia, pesca e
piccole attività agricole. Non mancano quelli che
coltivano le arti figurative (in genere pittura e scultura), come
ha documentato una bella mostra tenutasi a Verona nel 1995.
Oggi gli Inuit sono poco più di 100.000 e vivono divisi
fra Canada (Québec, Labrador e Nunavut), Stati Uniti
(Alaska), Groenlandia e penisola di Chukotka (Russia). Alle
diverse collocazioni geografiche corrispondono differenze di
vario tipo. Anzitutto la lingua: ad un paio di idiomi-base si
aggiunge una grande varietà dialettale. Quelli che vivono
in Russia costituiscono la comunità più esigua
(1.500 persone), e questo aumenta il pericolo dell'assimilazione
culturale. In Groenlandia, al contrario, rappresentano l'85%
della popolazione, anche se molti groenlandesi sono meticci
dano-eschimesi: l'isola è infatti un territorio autonomo
sotto la corona danese.
Fondamentalmente nomade, disperso su spazi sconfinati, per lunghi
scoli il popolo eschimese non conosce l'unità. Al tempo
stesso, deve fronteggiare condizioni di vita durissime, con una
natura spietata sempre in agguato. I pericoli della caccia, la
malnutrizione e l'elevata mortalità infantile rendono
molto bassa l'età media (30-35 anni). E' così che
la vita degli aborigeni polari trascorre per circa 4.000 annisnza
produrre una storia (almeno nel senso che noi attribuiamo a
questo termine).
I grandi mutamenti arrivano soltanto verso la metà del
diciannovesimo secolo, quando i missionari anglicani codificano
l'alfabeto inuit prendendo a prestito i caratteri degli indiani
Cree. Successivamente gli speculatori della Hudson Bay Company
cominciano la sfruttamento intensivo dei territori indigeni del
Nord-America, ricchi di oro, rame, argento e pellami. Nel 1867
nasce la prima federazione canadese, che poi si estende
inglobando anche l'ampia regione sub-artica alla quale viene dato
il nome di Territori del Nord-Ovest. Gli Inuit e gli altri popoli
nativi dicventano così cittadini canadesi.
Agli inizi del nostro secolo viene scoperta l'esistenza del
petrolio nella Valle del fiume Mackenzie. Questo stravolge il
sistema di vita basato sulla caccia: il trauma economico e
culturale che investe gli indigeni è grande. Bisogna
però sottolineare che fra tutti i popoli del Nord-America
gli uomini dei ghiacci sono quelli che meglio ad adattarsi alle
nuove condizioni di vita, forti di certa attitudine al commercio
che in altri è assai meno sviluppata. Le terre abitate
dagli Inuit sono ricche anche in Alaska, dove nel 1968 viene
scoperta l'esistenza del petrolio. Questo accresce l'importanza
strategica dell'Artico e favorisce la sua militarzizzazione da
parte delle due superpotenze.
Nel frattempo, i profondi mutamenti sociali determinati dai
rivolgimenti economici rendono necessaria la collaborazione fra
le varie comunità eschimesi. E' così che gli anni
Settanta segnano l'inizio di una strategia di più ampio
respiro, e nel 1977 nasce a Barrow (Alaska) l'Inuit Circumpolar
Conference, l'organizzazione che darà dignità
internazionale ai problemi del popolo eschimese.
Pochi anni dopo il nuovo organismo entra a far parte del
Consiglio Mondiale dei Popoli Indigeni (nato nel 1975) e diventa
membro consultivo dell'ONU. In questa internazionalizazione della
questione indigena si inserisce quindi a pieno titolo l'azione
dell'Inuit Circumpolar Conference, che vuole salvagurdare
l'identità culturale eschimese, l'ambiente e
l'irrinunciabile fonte di sussistenza costituita dalla pesca
(soprattutto foca e balena).
Ma l'obiettivo più ambizioso è racchiuso in una
parola: Nunavut (che significa "la nostra terra"). Si tratta di
un programma di autonomia territoriale che riguarda una vasta
area del Canada sub-artico. Nunavut è appunto il nome che
questo territorio autonomo dovrebbe avere.
Questo obiettivo è al centro della lotta politica
eschimese negli anni Ottanta. Si tratta di un iter estenuante,
complicato da mille implicazioni giuridiche, ma gli Inuit
dimostrano una pazienza ed una tenacia incredibili.
Naturalmente uno degli obiettivi di Nunavut è un effettivo
accesso alle riserve naturali. La questione, fra l'altro, oppone
più volte gli Inuit a varie associazioni ambientaliste -
in particolare Greenpeace, la cui campagna per l'abolizione della
caccia alla balena non può certo trovare l'adesione di un
popolo che ha nei cetacei una fonte essenziale di
sopravvivenza.
Negli ultimi anni, gli Inuit registrano alcuni progressi
significativi. Nel 1991 iniziano le trasmissioni di Television
Northern Canada, la prima emittente indigena, che trasmette in
inglese e nei principali dialetti eschimesi.
Ma la più grande conquista degli aborigeni polari arriva
nel 1992, quando Nunavut diviene finalmente realtà. Il
territorio occupa un quinto dell'intero Canada, vale a dire circa
2.000.000 kmq. Su un sesto di questa superficie viene
riconosciuto agli Eschimesi il diritto di proprietà, oltre
ai diritti estrattivi in certe zone. Il Canada diviene
ufficialmente un paese trinazionale, col popolo indigeno che si
affianca alle due componenti già riconosciute (anglofona e
francofona).
Questo riaccende le speranze degli altri popoli nativi, in
particolare dei Cree, che nel 1988 avevano già firmato un
accordo di massima col governo per la creazione di un proprio
territorio autonomo.
Questo complica ulteriormente la governabilità di una
federazione dove il Quèbec, unica provincia a maggioranza
francofona, preme da molto tempo per l'indipendenza.
Ma il referendum sulla secessione che si svolge nell'ottobre
1995, e che vede i popoli indigeni schierati dalla parte del no,
sancisce la sconfitta dei separatisti: il Quèbec rimane
parte del Canada.
Alessandro Michelucci
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Nel Cile vive una grande varietà di popoli indigeni,
quasi tutti di scarsa consistenza numerica: Quechua, Aymara,
Atacama, Mapuche, quelli della Terra del Fuoco (Ona, Kawasqar,
etc.) e gli aborigeni di Rapa nui, meglio nota come Isola di
Pasqua. Quest'ultima, che dista oltre 3000 chilometri dal
continente, appartiene geograficamente e culturalmente
all'Oceania: la popolazione nativa è di ceppo polinesiano,
come gli Hawaiiani ed i Maori della Nuova Zelanda.
Fra tanti popoli poco numerosi, l'unica eccezione è
rappresentata dai Mapuche (detti anche Araucani), che sono quasi
un milione e mezzo e costituiscono il 10% dell'intera
popolazione. Un'esigua quantità (60.000) vive nella vicina
Argentina.
Abitanti originari del territorio che corrisponde al Cile, i
Mapuche ("popolo dela terra") difendono strenuamente la propria
indipendenza durante l'invasione spagnola. Il poeta-soldato
Alonso de Ercilla compone in questo periodo il poema epico La
Araucana, dove descrive l'indiano come un nemico eroico e degno
di rispetto: è un
approccio decisamente anomalo, se si pensa che siamo solo nel
sedicesimo secolo,
quando il colonialismo europeo è in piena
espansione.
Successivamente, col trattato di Quillin (1641), i Mapuche
conservano ancora ampi territori meridionali a sud del fiume
Bio-Bio. All'inizio del secolo diciannovesimo il Cile
proclama l'indipendenza dalla Spagna, e nei decenni successivi
incorpora progressivamente le terre indigene. La resistenza dei
Mapuche impegna l'esercito in una lunga serie di guerre che
terminano alla fine del secolo. Gli indiani sopravvissuti vengono
costretti in piccole riserve che costituiscono ormai solo il 6%
delle terre originarie. Le leggi atte a garantire
l'inalienabilità delle riserve vengono modificate negli
anni Quaranta, pemettendo ai latifondisti di eroderle
ulteriormente.
Negli anni Sessanta i Mapuche iniziano ad unire le proprie forze
a quelle dei contadini
(che spesso non sono indigeni). L'elezione di Salvador Allende
(1970) segna l'inizio di miglioramenti sostanziali: negli anni
successivi la riforma agraria restituisce alle comunità
indigene 70.000 ettari di terra. Viene creato un Istituto per
l'Educazione Indigena con programmi bilingui. Il governo di
Unidad Popular lascia inoltre ai Mapuche ed agli altri indigeni
uno spazio nella vita politica che finora era impensabile.
Tutto cambia quando il colpo di stato sostenuto dagli Stati Uniti
(settembre 1973) destituisce Allende ed insedia la giunta
militare presieduta dal generale Augusto Pinochet Ugarte. Gran
parte delle terre indigene viene confiscata e data ai potenti
proprietari terrieri filo-golpisti. Molti indiani vengono
torturati ed uccisi. La repressione non risparmia Melillan
Painamal, che nel 1978 fonda i Centros Culturales Mapuches con
l'obiettivo di creare un fronte indigeno contro la dittatura. Ma
il vero colpo mortale per gli indiani è rappresentato
dalla Legge 2568 che viene emanata nello stesso anno.
Dietro la facciata di una "politica di sviluppo", in
realtà la nuova legge non fa altro che incentivare la
divisione delle terre indigene in appezzamenti, dopodichè
gli indigeni cessano di essere considerati tali. "Non ci sono
indiani: siamo tutti cileni!" afferma Pinochet, che mira
chiaramente all'etnocidio. Ad-Mapu, la principale organizzazione
del popolo araucano, rinsalda l'alleanza con le forze
dell'opposizione nel tentativo di opporsi alla politica
governativa. La giunta risponde ancora una volta con la
repressione. I Mapuche non si limitano a difendersi, ma al tempo
stesso reclamano un ruolo attivo nella vita politica. La terza
assemblea nazionale di Ad-Mapu, che si tiene all'inizio del 1983,
approva infatti il Progetto alternativo per il popolo mapuche,
che chiede fra l'altro di partecipare alla stesura di una nuova
costituzione.
Negli anni Ottanta l'identità culturale del "popolo della
terra" è minacciata dalla crescente urbanizzazione: nel
1988 sono ormai 200.000 quelli che vivono a Santiago, in
condizioni di degrado affini a quelle di un apache urbanizzato.
"Sono considerati l'espressione di una cultura inferiore, e
questo li ha isolati. Si cerca anche di 'modernizzarli' e di
'cilenizzarli', e questo distruggerà l'identità
culturale dei nostri fratelli" commenta con amarezza Canuiman,
presidente di Ad-Mapu.
Nel 1989 cade la dittatura; con l'avvento del nuovo presidente,
il democristiano Patricio Aylwin, viene formata una commissione
speciale per i problemi delle popolazioni indigene. Il disegno di
legge che viene elaborato è tecnicamente valido, ma
carente sotto il profilo dell'autonomia. Anche quello della terra
rimane un problema
grave, e negli ultimi anni si lega sempre più spesso allo
sfruttamento ambientale. L'esempio poù plastico viene
dalla comunità di Quinquen, un paese che sorge sulla
cordigliera andina. Il territorio in questione, che legalmente
appartiene ai Mapuche, è oggetto di una contesa che oppone
gli indigeni alle grandi compagnie che vogliono sfruttare la
zona. La questione viene risolta quando la Suprema Corte di
Giustizia si pronuncia a favore degli interessi industriali ed
ordina l'allontanamento degli indios.
La definitiva sanzione legale arriva nel 1987, quando un decreto
permette lo sfruttamento dell'araucaria, l'albero che riveste una
grande importanza religiosa per i Mapuche (fra l'altro, è
presente nelle loro preghiere). La protesta indigena trova
l'appoggio dei movimenti ambientalisti.
Successivamente, il governo Aylwin si sforza di invertire la
rotta: l'araucaria viene dichiarata monumento naturale - per
impedirne lo sfruttamento - e la regione diventa riserva
nazionale in modo da impedire l'espulsione dei Mapuche. Al tempo
stesso, il governo si dichiara disposto ad acquistare dalle
compagnie le terre contese. Fallite le trattative per l'alto
prezzo richiesto, il governo sottopone al parlamento un disegno
di legge per l'esproprio delle terre. Molti parlamentari si
ergono a difesa delle compagnie, sostenendo che il progetto di
esproprio "contravviene al diritto di proprietà stabilito
dalla Costituzione cilena": evidentemente si riferiscono ai
diritti dei Cileni ma non a quelli dei Mapuche.
Negli ultimi anni si intensificano le iniziative di collegamento
fra i Mapuche del Cile e quelli che vivono nella vicina
Argentina: nell'ottobre del 1993, per esempio, si tiene un grande
raduno che raccoglie oltre 200 persone. Nella stessa occasione
vengono enunciati i principi fondamentali del processo di
autodeterminazione: diritti culturali, territoriali e
linguistici. Il popolo araucano continua quindi a lottare
disperatamente per salvare quel poco che i discendenti dei
conquistadores non hanno ancora travolto.
Alessandro Michelucci
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
AA.VV., Mapuches, Cooperativa Editoriale Zero, Milano
1992.
J. Bengoa, Historia del pueblo mapuche, siglos XIX y XX,
Sur, Santiago, 1985.
B. Berdichewsky, The Araucanian Indians in Chile, IWGIA,
Copenhagen 1975 (Document n. 20).
I. Hernandez, Aborigenes y derechos humanos: el pueblo
mapuche, Busqueda, Buenos Aires 1985.
M. Ibarra, I Mapuche: la resistenza degli indios contro la
dittatura cilena, Asal-Edizioni Associate, Roma 1989.
INDIRIZZI UTILI
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Il Messico conquista l'indipendenza dal dominio coloniale
spagnolo nel 1821. Da allora fino al 1970, in tutte le
costituzioni del paese si è sempre parlato di messicani e
mai di popoli indigeni, sebbene i discendenti dei popoli
originari siano una minoranza stimata fra il 12% ed il 17% della
popolazione. Alcuni di questi popoli sono di ceppo maya ed
appartengono quindi alla numerosa comunità (oltre
5.000.000 di persone) dispersa fra Messico, Guatemala, Belize,
Honduras ed El Salvador.
Nel 1970, con una modifica della Costituzione, il governo
Echevarria riconosce giuridicamente l'esistenza degli indigeni.
Da allora, almeno sulla carta, il Messico è un paese
multiculturale e plurilingue; ma di fatto gli indigeni non hanno
nè avranno rappresentanza politica, né diritti
territoriali od accesso alle risorse naturali.
Con gli anni Trenta l'obiettivo primario diventa la
"modernizzazione ed industrializzazione del paese". Si comincia a
parlare di un "problema indigeno", che il presidente Lazaro
Cardenas definisce nel 1936 con queste parole: "Il nostro
problema indigeno non consiste nel conservare gli indiani come
tali o nell'indianizzazione del Messico, ma nella
messicanizzazione degli indiani". In altre parole,
nell'assimilazione.
Nel 1946 viene fondato l'Instituto Nacional Indigenista (INI). Il
suo massimo ideologo, Aguirre Beltran, dichiara negli anni
Settanta: "L'obiettivo è la distruzione della
comunità indiana e del suo conservatorismo reazionario che
vuole realizzare una struttura esclusivamente indiana con la
formazione di una coscienza etnica (...)
E' necessario trasformare la loro casta (cioè la
popolazione indigena, n.d.a.) in una classe in modo che possano
diventare una parte della società, in questo caso del
proletariato".
Lo scopo dichiarato dell'INI è quindi lo svuotamento e la
distruzione delle basi esistenziali, economiche e sociali della
popolazione autoctona. Lo "sviluppo" perseguito dal governo
messicano porta all'etnocidio.
Tutto questo crea una tensione che cresce in modo silenzioso ma
costante. La goccia che fa traboccare il vaso è costituita
dal North American Free Trade Agreement (NAFTA), il trattato di
libero scambiofra Messico, Canada e Stati Uniti che entra in
vigore con l'inizio del 1994. In effetti il NAFTA favorisce
l'importazione di generi alimentari a basso costo dagli Stati
Uniti, danneggiando così l'agricoltura locale.
Con ogni probabilità le multinazionali dei due colossi
nordamericani troveranno facili guadagni trasferendo le proprie
fabbriche in Messico, dove il salario minimo di un operaio si
aggira sugli 0,40 dollari (700 lire) contro i 4-5 di Canada e
Stati Uniti (7000-8500 lire).
Poco prima che scocchi la mezzanotte del 31 dicembre 1993, circa
ottocento uomini dell'Ejercito Zapatista de Liberacion Nacional
(EZLN) occupano San Cristobal de las Casas, capitale del Chiapas,
ed alcuni distretti limitrofi nell'estrema parte occidentale
della Selva Lacandona.
Nella dichiarazione di guerra contro il governo federale l'EZLN,
che è costituito in larga parte da indigeni maya, si
oppone fermamente al NAFTA. Il movimento armato chiede "terra e
libertà, la fine del genocidio e la tutela dei diritti
fondamentali della popolazione indigena". Non è un caso se
la rivolta è scoppiata proprio nel Chiapas, che è
lo stato più povero del Messico. Situato nel sud del paese
e confinante con il Guatemala, il Chiapas è grande tre
volte la Sardegna ma nonostante questo ha una popolazione scarsa,
poco più di 3.000.000 di abitanti.
Emerge ben presto la figura di Marcos, il leader dell'EZLN che si
autodefinisce Subcomandante perchè, come ama ripetere, "il
vero comandante è il popolo". La questione del Chiapas
risveglia l'entusiasmo internazionalista dei progressisti
italiani (ma anche europei), dalla sinistra tradizionale raccolta
attorno al PDS fino a quella movimentista che si esprime nei
centri sociali. Marcos viene più o meno apertamente
considerato un erede di Che Guevara, anche se i due contesti
storici e sociali sono profondamente diversi. L'interesse per la
causa zapatista è tale che nella sola Italia escono fra il
1994 ed il 1996 una ventina di libri, ai quali si aggiungono
centinaia di réportages, dossier e convegni. La rivolta
zapatista può contare sull'appoggio di un fronte
eterogeneo che va da Samuel Ruiz, vescovo di San Cristobal, a
Régis Debray, l'intellettuale francese già amico di
Che Guevara.
Nel giugno 1994 l'Esercito Zapatista rompe le trattative col
governo messicano, chiarendo che comunque non disturberà
le elezioni presidenziali fissate per il 21 agosto.
Fra il 1995 ed il 1996 proseguono i negoziati di pace fra gli
zapatisti ed il governo, che il 16 febbraio 1996 sfociano negli
Accordi di San Andres. Questi riconoscono una certa autonomia
delle comunità indigene, ma rimangono sostanzialmente
inapplicati. Riprendono quindi gli scontri armati, che nel
frattempo si sono estesi allo stato di Guerrero, dove si impone
un'altra formazione paramilitare, l'Ejercito Revolucionario del
Pueblo, di orientamento marxista.
Nel 1996 e nel 1997 gli zapatisti organizzano due "incontri
internazionali per l'umanità e contro il neoliberismo" che
raccolgono migliaia di simpatizzanti provenienti da ogni parte
del mondo. Nell'estate del 1997, l'elezione del socialdemocratico
Cauahtemoc Cardenos a sindaco della capitale lascia intravedere
agli zapatisti più ampi margini di manovra, ma per il
momento continua a dominare l'incertezza.
George Mayer, Giovanna Marconi
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
G. Almeyra - A. D'Angelo, Chiapas, Datanews, Roma
1994.
René Baez, Conversazioni con Marcos, Editori
Riuniti, Roma 1997.
M. Balsamo, ¡Que viva Marcos! Storie del Chiapas in
rivolta, Manifestolibri, Roma 1995.
"Du Chiapas au Sonora: autonomie indigéne",
Nitassinan, 48, avril-juin 1997, pp. 9-30.
Chiapas: Challenging History, numero monografico di
"Akwe:kon", XI, n. 2, Summer 1994.
Chiapas, le ragioni di una rivoluzione. Documenti della prima
ribellione al nuovo ordine mondiale, curato e pubblicato dal
Comitato internazionalista "Che Guevara", Bologna 1995.
P. Coppo - L. Pisani (a cura di), Armi indiane. Rivoluzione e
profezie maya nel Chiapas messicano, Edizioni Colibrì,
Paderno Dugnano (Milano) 1994.
M. Duran de Huerta (a cura di) , Io, Marcos. Il nuovo Zapata
racconta, Feltrinelli, Milano 1995.
A. Monod (a cura di), Feu maya. Le soulèvement au
Chiapas, numero monografico di "Ethnies", 16-17, 1994.
W. Westphal, I Maya. Antichi e moderni schiavi, SugarCo,
Milano 1992.
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Pubblicazioni: America indigena
Con i Maya e gli Aztechi, gli Inca rappresentano una delle
civiltà più avanzate e più complesse
dell'America precolombiana. Il nome ufficiale del regno incaico
è Tawantinsuyu, che in quechua significa "regno dei
quattro cantoni"; fiorisce nel tredicesimo secolo ed occupa un
territorio sconfinato che occupa fra l'altro tutta la Cordigliera
delle Ande e rappresenta la più grande compagine statale
precolombiana.
Tradotto nei termini geografici a noi noti, significa l'intera
fascia costiera dalla Colombia al Cile, toccando inoltre Ecuador,
Bolivia, Paraguay ed Argentina.
Nel Tawantinsuyu, che ha in Cuzco la città più
importante, il Sole è la massima divinità e
l'astronomia non rappresenta una scienza fra le altre, ma il
fondamento dell'intera società. Come nota Pietro Radius,
"sociologia e astronomia erano una sola pratica, saldate da una
sorta di determinismo e di fatalismo che aveva già in
sé l'idea della fine ed a tale evento preparava". L'idea
che l'impero sia destinato a finire è quindi molto
radicato nella classe dirigente, ma questo non impedisce una
resistenza plurisecolare contro l'invasione spagnola.
Alla sconfitta del re Atahualpa, imprigionato ed ucciso da
Pizzarro nel 1532, Manco Capac II fonda un nuovo stato incaico.
Quarant'anni dopo viene ucciso Tupac Amaru, il leggendario
personaggio che più di ogni altro incarna la resistenza
antispagnola, e lo stato cade. Due secoli più tardi
scoppia la rivolta capeggiata da Tupac Amaru II, che però
soccombe come i suoi predecessori. Nel 1781 l'impero incaico
tramonta definitivamente.
All'inizio del secolo diciannovesimo il Sud-America assume il
volto che conosciamo: nascono le repubbliche, presto impegnate in
una lunga serie di guerre che definiscono i rispettivi confini.
Nel 1915 scoppia in Perù la rivolta di Rumi Maka: gli
indios reclamano le proprie terre e l'autonomia politica.
Richieste che si ripetono nei decenni successivi, sempre
più o meno osteggiate dai vari governi - militari e civili
- che si susseguono nei paesi dell'area andina.
Negli anni Venti il sociologo peruviano Josè Carlos
Mariateguì sviluppa un'analisi marxista della
realtà socioeconomica del suo paese. Il suo obiettivo
è quello di coniugare le rivendicazioni etniche con quelle
di classe: la lotta da lui propugnata fa esplicito riferimento
all'impero incaico, che Mariateguì considera l'espressione
di un socialismo ante litteram. Tutto questo esercita un certo
fascino sull'intelligentsia
urbana, ma non riesce a coinvolgere i popoli aborigeni. Le nuove
costituzioni (Perù, 1920; Ecuador, 1937; Bolivia, 1938)
migliorano almeno in parte la condizione degli
indios, ma non impediscono la progressiva spoliazione delle terre
a vantaggio dei latifondisti. Privati così delle risorse
fondamentali, gli indigeni cadono in uno stato di servitù
agricola. La loro resistenza si rivela inefficace, perché
i latifondisti possono contare su stretti legami col potere
politico. Quest'ultimo deve però tener conto di un fatto:
nei paesi dell'area andina i popoli indigeni non rappresentano
sparute minoranze come in altri paesi sudamericani (Brasile,
Colombia, Venezuela). Basta pensare che in Ecuador ed in
Perù superano il 40%, mentre in Bolivia toccano
addirittura il 70%. I popoli più numerosi sono i Quechua e
gli Aymara. Questo spiega perché in Bolivia ed in
Perù il quechua diverrà lingua ufficiale accanto
allo spagnolo. La forte consistenza numerica permette inoltre
agli indios si partecipare attivamente alla vita politica.
In Bolivia, nel 1951, viene eletto presidente Victor Paz
Estenssoro, ma gli oppositori non gli permettono di insediarsi.
Scoppia così una rivolta popolare in appoggio al
neopresidente, nella quale il contributo degli indigeni si rivela
determinante. Durante la presidenza di Paz Estenssoro (1952-1956)
un quechua viene eletto senatore per la prima volta. Viene varata
una riforma agraria che sembra permettere una redistribuzione
delle terre, ma in realtà gli indigeni non riescono a
tornare in possesso delle proprie.
Negli anni Sessanta, una buona parte degli attivisti indigeni
subisce il fascino di Ernesto "Che" Guevara e vede nel marxismo
uno strumento di riscatto sociale. Qualcosa di simile, ma ben
più tragico, si sta ormai preparando nel vicino
Perù, dove nel 1970 nasce Sendero Luminoso, movimento
comunista di osservanza maoista. Il fondatore è un bianco,
Abimael Guzman (poi meglio noto come compagno Gonzalo),
professore di filosofia dell'università di Ayacucho. Il
nuovo movimento fa leva sullo scontento sociale dei contadini,
spesso quechua od aymara provenienti dalle regioni più
povere, afflitte dall'analfabetismo e da un'alta mortalità
infantile. Alcuni anni dopo, Sendero Luminoso opta
definitivamente per la lotta armata, mentre guadagna seguito
anche nei centri urbani. Sendero Luminoso si serve degli indigeni
ma è culturalmente estraneo alle loro lotte. Non si deve
comunque pensare che il movimento terrorista trovi il sostegno di
tutti gli indigeni, che anzi ne sono spesso le vittime; la loro
posizione rimane infatti molto delicata e spesso difficilmente
classificabile. "Essere un sospetto senderista è
pericoloso. Stare dalla parte del governo è ugualmente
pericoloso. La neutralità può essere mortale"
scrive un giornale boliviano. Il quadro si fa ancora più
complesso quando l'azione della guerriglia viene ad intrecciarsi
con quella dei narcotrafficanti, ed il progetto statunitense per
la sostituzione della coca con altre colture trasforma molti
indios in alleati dei senderisti.
E' comunque necessario sottilineare, anche se in modo sommario,
la profonda differenza fra il narco-traffico e le implicazioni
della coca - sociali, rituali, nutritive - per i popoli indigeni:
l'antropologo boliviano José Mirtenbaum afferma infatti
senza mezzi termini che "la soppressione della coca
significherebbe la fine della cultura andina". L'apparente
convergenza d'interessi fra senderisti e indios non deve quindi
trarre in errore.
Mentre la guerriglia insanguina il paese, e non di rado si
accanisce contro le comunità indigene, nascono i primi
movimenti che daranno un'eco internazionale alle lotte degli
aborigeni sudamericani. Nel 1980 l'antica capitale inca - Cuzco,
in Perù - ospita il congresso che segna la nascita del
Consejo Indio de Sur America (CISA). Il primo coordinatore del
nuovo organismo è Ramiro Reynaga, un quechua della
Bolivia. Figura centrale del movimento indigeno, Ramiro è
figlio di uno dei più importanti intellettuali andini,
Fausto Reynaga. Autore di molte opere, fra cui La
revoluciòn india, Fausto parte da posizioni nettamente
filosovietiche per approdare ad una "terza via" indigena che
influenzerà profondamente il figlio. E' l'ennesima prova
dell'incompatibilità di fondo che esiste fra il marxismo
ed i popoli indigeni, un fenomeno che si ritrova in altre parti
del continente. Una conferma autorevole è quella che viene
da Russell Means, leader storico dell'American Indian Movement:
"E' una dottrina materialista che disprezza la tradizione
spirituale, le culture ed i modi di vita degli Indiani americani.
Marx stesso ci ha definiti precapitalisti e primitivi". Un'ottica
che coincide appieno con quella di Ramiro Reynaga, fondatore fra
l'altro del Movimento Indio Tupac Katari (MITKA), intitolato ad
un eroe della resistenza antispagnola, che non deve essere
confuso con il Movimiento Revolucionario Tupac Amaru, marxista e
sostanzialmente anti-indigeno.
Non meno gravi sono i problemi che affliggono i popoli indigeni
dell'Ecuador, che nella primavera del 1992 percorrono in marcia i
400 chilometri che separano Puyo da Quito per chiedere al governo
la demarcazione dei loro territori ed una riforma della
Costituzione che riconosca finalmente l'Ecuador come paese
pluriculturale. Nello stesso periodo, le elezioni presidenziali
riportano in primo piano i problemi del paese: il forte debito
estero (oltre 12 miliardi di dollari), l'inflazione alle stelle e
l'epidemia di colera proveniente dal vicino Perù. I
potentati economici chiedono che il paese si allinei
definitivamente sull'onda neoliberale dei paesi confinanti. Il
deposto presidente, il socialdemocratico Rodrigo Borja, negli
anni precedenti ha invece promosso una politica di
austerità che non è riuscita nei suoi intenti. Gli
elettori sono sei milioni, un un terzo dei quali è
costituito dagli indios, che vivono nella regione andina o nella
foresta amazzonica). Il loro peso è quindi determinante,
ma è assai impossibile conciliare i loro diritti
territoriali con l'invadenza delle compagnie petrolifere in un
paese dove il petrolio costituisce la maggior fonte di ricchezza
(300.000 barili al giorno). Questo quadro è aggravato
dalla piaga del narcotraffico: ormai l'Ecuador non è
più un anello secondario della catena
internazionale.
Tutto questo disegna un futuro pieno di incognite per i popoli
indigeni, che continuano a vivere emarginati nonostante la loro
forte consistenza numerica.
Un barlume di speranza arriva nel 1993, quando l'aymara Victor
Hugo Cardenas viene eletto vicepresidente: è la prima
volta che un indigeno raggiunge una carica così alta.
Negli anni successivi, in effetti, ne derivano dei miglioramenti,
soprattutto per quanto riguarda l'educazione bilingue e
l'imposizione di norme più restrittive per il
disboscamento delle foreste. Ma è ancora troppo poco per
indurre anche all'ottimismo più cauto.
Alessandro Michelucci
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
J. M. Arguedas, Musiche, danze e riti degli indios del
Perù, Einaudi, Torino 1991.
A. Labrousse, Le réveil indien en Amérique
latine, Favre, Lausanne 1984.
M. Roda, Dall'etnia allo stato. Forme di potere nell'America
andina, Angeli, Milano 1994.
S. Rivera Cusicanqui, "Oppressed but not defeated": Peasant
Struggles among the Aymara and Quechwa in Bolivia, 1900-1980,
United Nations Research for Social Development, Geneva
1987.
Wankar (R. Reynaga), Tawantinsuyu. Cinco siglos de lucha
contra España, Editorial Nueva Imagen, México
1981.
INDIRIZZI UTILI
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