di Claudio Magnabosco
Novembre 2000
Gli studiosi indagano se in Italia il federalismo si vada
affermando come una corrente politica significativa per la
trasformazione dello Stato e per la nascita di una vera Europa,
ma c'è ancora troppa confusione su cosa s'intenda per
federalismo, su cosa sia realmente il federalismo e lo si
confonde, troppo spesso, con il regionalismo e con l'autonomismo.
La confusione ha fatto buon gioco per i partiti Stato-nazionali:
il federalismo è, così, fortemente sostenuto dalle
forze che non sono al potere ed è considerato - invece -
un pericolo per l'unità dello Stato per quelle che hanno
la responsabilità del governo; a seconda delle contingenze
politiche la situazione può invertirsi, ma quando
maggioranza e opposizione parlano entrambe di federalismo, in
realtà pensano ad altro, pensano soltanto - appunto - ad
un regionalismo o ad un autonomismo più o meno
accentuati.
In questo studio evidenzierò come il federalismo sia stata
una delle strade percorse dalle nazionalità dello Stato
italiano per affermare i loro diritti e come del federalismo esse
debbano essere considerate tra i principali e più coerenti
interpreti.
Per far chiarezza sulla terminologia si precisa che con il
termine "autodeterminazione" le nazionalità intendono
qualsivoglia soluzione istituzionale (la costruzione di un
proprio Stato, l'acquisizione di un'autonomia regionale, una
semplice tutela linguistica, il federalismo) liberamente scelta
dalle popolazioni interessate e non imposta o concessa da un
potere esterno che detiene e conserva, comunque, l'esercizio
della sovranità.
Il federalismo cui fanno riferimento le nazionalità,
è il sistema di armonizzazione di tutte le realtà
istituzionali autodeterminate e, in particolare, fino a quando la
forma stessa dello Stato continuerà a sussistere, il
meccanismo di cooperazione, solidarietà e governo tra i
Popoli e gli Stati plurinazionali.
Ciascuna delle nazionalità presenti nello Stato
italiano ha una propria lunga e specifica storia ed una
più breve e recente storia di dipendenza dall'Italia. Non
racconterò come, in questa situazione di dipendenza,
ciascuna di queste nazionalità abbia cercato di esercitare
i propri diritti ricorrendo a plebisciti, referendum, garanzie
internazionali, rivolte, lettere e petizioni; né
indagherò su quale sia il loro sogno ultimo: il
federalismo, l'indipendenza, l'autonomia, una semplice ma reale
tutela linguistica, ecc.; evidenzierò, invece, i momenti
nei quali queste nazionalità hanno collaborato tra loro,
dando vita ad un "movimento nazionalitario" che si è dato
alcuni obiettivi comuni, primo fra questi la trasformazione dello
Stato italiano in senso federale, intesa come tappa verso la
costruzione dell'Europa dei Popoli e verso la conquista
dell'esercizio del diritto all'autodeterminazione.
La storia e le posizioni assunte dal movimento nazionalitario
consentono di evidenziare la contraddizione di fondo di un falso
federalismo concepito soltanto come semplice aggregazione di
Regioni: le Regioni non sono scaturite dalla volontà
popolare, ma da un atto unilaterale dello Stato che le ha create
sulla base di un criterio geografico arbitrario; scriveva
Salvemini: "Le Regioni sono inesistenti se nascono da una
volontà dei poteri centrali!". Per le nazionalità,
quindi, l'autonomia regionale non rappresenta un punto d'arrivo
politico - istituzionale, ma solo una conquista transitoria verso
il conseguimento del diritto all'autodeterminazione; e questo
anche se l'autonomia regionale ha consentito ad alcune di esse di
crescere e di svilupparsi economicamente; solo le
nazionalità che non hanno conquistato nessun diritto,
nessuna autonomia, guardano al regionalismo come ad obiettivo di
una certa importanza.
Vediamo di precisare i termini della questione
nazionalitaria.
Tratto fondamentale per l'individuazione delle nazionalità
minoritarie all'interno dello Stato italiano è - come ha
sintetizzato il linguista friulano Adrian Ceschia - la lingua
(sottinteso: differente da quella italiana); si intende per la
lingua l'insieme delle varianti geografiche e sociologiche che,
nel loro complesso, formano il codice ed il sistema linguistico,
indipendentemente dal fatto che per esse ci sia o non ci sia, al
momento attuale, una lingua comune o koinè
istituzionalizzata e riconosciuta. Le nazionalità, le
comunità con lingua diversa dall'italiano, sono
minoritarie perché per loro consistenza numerica sono
gruppi numericamente piccoli rispetto ad una maggioranza
all'interno dello Stato italiano. Le nazionalità con
lingua diversa dall'italiano e minoritarie all'interno dello
Stato italiano sono: gli Albanesi, i Catalani, i Croati, i
Francofoni - Francoprovenzali, i Friulani, i Greci, i Ladini, gli
Occitani, i Sardi, gli Sloveni, i Germanofoni. Alle
nazionalità appartengono tre milioni di "italiani per
forza". Gli Albanesi sono circa 100.000 e vivono sparsi in sette
Regioni del Mezzogiorno (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania,
Molise, Puglia, Sicilia). I Catalani sono circa 10.000 e vivono
nel Comune sardo di Alghero. I Croati sono circa cinque mila e
vivono nel Molise. I Francofoni - Francoprovenzali sono circa
100.000 e sono stanziati in Valle d'Aosta, in alcune valli
piemontesi e in due comuni della Provincia di Foggia (Celle e San
Vito). I Ladini (ove si comprendano in questa famiglia i Friulani
e i Dolomitici) sono circa un milione, stanziati in Friuli e
nelle province di Belluno, Bolzano e Trento. Gli Occitani sono
circa 200.000 e sono stanziati nelle valli del Piemonte
occidentale e del Comune cosentino di Guardia Piemontese. I Sardi
sono 1.200.000 nell'isola. Gli Sloveni sono circa 100.000
stanziati a Gorizia, Trieste, Udine e nelle valli del Natisone. I
Germanofoni sono 300.000 di cui 270.000 sudtirolesi ed i
rimanenti 30.000 (i Cimbri, i Mocheni, i Walser) sparsi tra
Udine, Belluno, Trento, Verona, Vercelli e la Valle d'Aosta. Una
realtà del tutto particolare è rappresentato dalla
comunità dei Rom che deve figurare in questo elenco pur
essendo priva di una specificità territoriale. Da indagare
e da approfondire è l'individuazione di altre
realtà: l'identità degli abitanti di Pantelleria ad
esempio - non è qui considerata ma è certo di
origine specifica (araba?); e in Sicilia gli abitanti di San
Fratello e dintorni sono da considerare Francoprovenzali.
L'Italia nasce definendosi "Stato nazionale ed unitario"; in
realtà è plurinazionale anche se ad ammetterlo sono
soltanto pochi democratici e federalisti; le nazionalità,
trasformate in minoranze, comprese e compresse nel suo
territorio, iniziano fin dalla nascita dello Stato, un difficile
percorso di liberazione; lo Stato, inoltre, afferma la sua
unità con le armi dell'esercito piemontese e questa
unità è, quindi, solo presunta. Salvemini è
tra quanti invocano un garante per le minoranze quando constata
che di fronte a leggi applicate da maggioranze senza controllo
superiore, le minoranze non hanno sicurezza.
Il fatto che una dimensione di cooperazione internazionale tra le
nazionalità sia necessaria lo dimostrano l'azione
dell'Unione delle Nazionalità (1912-1918) e quella del
Congresso delle Nazionalità (1925-1938) che, pur con i
limiti dovuti ad una ridotta circolazione delle idee e delle
informazioni ed alle contingenze politiche dell'epoca,
costituiscono un significativo esempio: dimensionate a livello
europeo, le due organizzazioni vedono la presenza nelle loro
attività, anche di esponenti delle diverse
nazionalità "italiane". Gli studi di un personaggio come
il valdostano Emile Chanoux che si laurea con una tesi sulle
minoranze etniche nel diritto internazionale, rappresentano una
prima significativa prova dell'esistenza di una coscienza
dell'esser soggetto di diritto internazionale che accomuna tutte
le nazionalità e che le nazionalità sanno di non
poter affermare ciascuna per proprio conto. Non sono soltanto le
nazionalità più forti e numericamente più
consistenti a sviluppare una sensibilità politica attenta
ai fenomeni internazionali: mentre i parlamentari sudtirolesi
eletti nel 1921 depositano a Roma una riserva legale contro
l'annessione del Sud Tirolo all'Italia, i Cimbri si rivolgono a
Clémenceau e a Wilson per far conoscere "la Nazione
dell'Altipiano, la sua storia secolare, i suoi diritti".
Così, mentre personaggi come Matteotti auspicano che le
questioni territoriali e nazionali si risolvano con "la
consultazione delle popolazioni", Emilio Lussu constata
amaramente che a Roma i parlamentari sardi, sloveni, croati,
sudtirolesi e valdostani non collaborano tra loro; per superare
questo limite, poiché nel Molise esiste un Partito
Molisano d'Azione già collegato al Partito Sardo d'Azione
(Psd'Az.), nel 1924 Lussu propone anche a slavi e sudtirolesi
un'alleanza elettorale: nasce in Sardegna un Consiglio federale
dei movimenti federalisti e regionalisti presenti nel territorio
dello Stato italiano.
Che le nazionalità abbiano diritti inalienabili lo
dimostrano anche altre considerazioni: la lingua letteraria
albanese, ad esempio, nasce in Italia con Gerolamo De Rada, amico
di Garibaldi; riti religiosi e lingue del sud (il rito ortodosso
presso gli Albanesi, la lingua grecanica) restano ben radicati
fin quando non arrivano i piemontesi e l'Italia; tutta albanese
è una rivolta popolare del 1847, contro i latifondisti,
mossa a fianco di Pisacane.
L'idea federalista, in senso moderno, compare in Sardegna alla
fine della prima guerra mondiale. Nel 1921, su "La voce dei
combattenti", Puggioni parla di "Stato federale e democrazia
diretta"; due anni dopo su "Il Popolo Sardo" cita la "comunione
spirituale e solidarietà economica di tutte le Nazioni che
si affacciano sul Mediterrraneo"; e nel 1924 su "Il solco", in un
messaggio rivolto "ai fratelli di Catalogna", auspica la
costituzione di una "federazione mediterranea".
A cavallo tra gli anni 20 e 30 Bellieni si richiama alle dottrine
di Cattaneo e propugna la costituzione di uno Stato repubblicano
federale; "il federalismo - afferma Lussu confrontandosi con
Gramsci - é indubbiamente la forma statale rispondente
alle nostre aspirazioni. Tutte le altre sono forme subordinate
cui ci costringe la situazione politica". Sempre Lussu,
dall'esilio antifascista, scrive: "La Sardegna deve essere nello
Stato italiano all'incirca quello che è il Cantone nella
Confederazione Svizzera e il Landsteat nella Repubblica federale
tedesca".
Fino agli anni 60, Repubblica - Autonomia - Federalismo sono i
tre punti di riferimento del sardismo; ma è in quegli anni
che Antonio Simon Mossa elabora una teoria diversa che unisce il
concetto di nazionalità a quello di federalismo: facendo
propria la tensione indipendentista Simon Mossa approfondisce
l'idea di una Nazione - Stato sarda, federata ad un'Europa
composta da tutte le nazionalità. Contestando l'Europa
degli Stati, Simon Mossa scrive: "E' una sorta di consorzio di
proprietari che esclude il dialogo aperto con l'Oriente europeo,
con il nord Europa e con il Mediterraneo (cioè il Medio
Oriente e l'Africa settentrionale) che gravitano sull'Europa e si
oppone ad un'articolazione dell'autogoverno nelle comunità
nazionali che sono i diversi mezzogiorno d'Europa".
1931: la lettera di un prete di montagna, il valdostano
Abbé Trèves, chiude la resistenza culturale
clandestina al fascismo auspicando che l'Italia futura si dia un
"regime - tipo Svizzera - di repubblica federativa" come dire
"gli Stati Uniti confederati d'Italia". La resistenza armata,
guidata da un allievo dell'abate, il notaio Emile Chanoux,
s'ispira a questa lettera.
Il 19 dicembre 1943 si riuniscono clandestinamente a Chivasso i
rappresentanti delle popolazioni alpine; nella "Dichiarazione"
che sottoscrivono, constatando che 20 anni di governo
accentratore fascista avevano avuto per le Valli alpine dolorose
conseguenze, come l'oppressione politica, la rovina economica e
la distruzione della cultura, e affermando che la libertà
di lingua e quella di culto è condizione essenziale per la
salvaguardia della personalità umana, dichiarano: "Il
federalismo rappresenta la soluzione del problema delle piccole
nazionalità; un regime federale repubblicano a base
regionale e cantonale è l'unica garanzia contro il rischio
della dittatura".
A Chivasso sono presenti valdostani, valdesi e occitani, ma
quattro anni dopo, nel 1947, a Desenzano, valdostani, friulani,
trentini e sudtirolesi auspicano che "l'Italia diventi uno Stato
federale". A firmare questo appello non sono più soltanto
intellettuali illuminati, ma i rappresentanti di movimenti
politici veri e propri come l'Union Valdôtaine (UV), la
Sudtiroler Volkspartei (SVP), il Movimento Popolare Friulano da
cui scaturirà alcuni anni più tardi il Movimento
Friuli (MF) e l'Associazione Autonomista Trentina da cui
trarrà poi origine il Partito Popolare Trentino Tirolese
(PPTT).
Lussu scrive all'U. V. una lettera per scindere la battaglia
politica degli autonomisti appartenenti a nazionalità
minoritarie dalle posizioni dell'autonomismo siciliano di
Finocchiaro Aprile, anticipando i temi di un confronto - scontro
che anima ancora oggi i rapporti tra nazionalità e
regionalismi, autonomisti, campanilismi, localismi.
In modo del tutto particolare si pone la "questione slovena", che
ha nella Slovenska Skupnost (S.S.) un partito moderato ma
tenace.
Nell'immediato dopoguerra nascono i primi veri e propri
partiti politici "nazionalitari" (solo il PSd'Az. era già
attivo fin dagli anni 20) e sono alcuni di questi partiti a
riunirsi nel 1947 a Desenzano, per chiedere, come abbiamo visto,
il federalismo.
Nel gennaio 1948 a Trento, insieme al PPTT ed ai partiti alpini,
si ritrovano i rappresentanti dei popoli meridionali, la
Concentrazione Autonomista Meridionale e Finocchiaro Aprile,
leader dell'indipendentismo siciliano; Lussu e l'UV, come abbiamo
già visto, non sono del tutto convinti della
positività di questo connubio con il separatismo
siciliano, ritenendo che contenga elementi e valori politici
contraddittori, ma aderiscono ugualmente all'iniziativa.
Malgrado questi passi e la tendenza alla cooperazione, nella
Costituente prima e nel primo Parlamento italiano, poi, non
s'individuano sintonie tra partiti e parlamentari nazionalitari
(anche perché molte forze nazionalitarie non hanno una
rappresentanza parlamentare): è certo, comunque, che
sussistono fermenti autonomisti non solo in Sicilia, Valle
d'Aosta, Sardegna, Friuli e Sud Tirolo, ma anche nell'Intemelia e
sono molto attive organizzazioni che rivendicano l'istituzione di
una Regione Umbra, di una Regione Salentina, di una Regione
Sabina, di una Regione Sannita, di una Regione Valtellinese e,
perfino, di una Repubblica di S. Marco. Nessuna di queste ottiene
risultati, ma la loro esistenza testimonia che grande è la
tensione nel momento in cui l'Italia post - bellica disegna le
sue Regioni.
Nascono le Regioni a Statuto Speciale e grande è il ruolo
che Emilio Lussu ha nell'approvazione dello Statuto della Valle
d'Aosta: la sua azione evita che questo nasca troppo mutilato
rispetto alle aspettative dei federalisti valdostani.
La Costituzione, inoltre, impegna la Repubblica italiana a
"tutelare, con apposite norme, le minoranze linguistiche (art.
6)".
L'opera di ricostruzione materiale dopo i disastri della seconda
guerra mondiale, impegna ovunque tutte le energie e, per certi
versi, circoscrive le rivendicazioni nazionalitarie e ne limita
la collaborazione, determinando nelle nazionalità
più forti l'accettazione del sistema autonomistico,
benché questo si riveli molto limitante.
Nel 1949 nasce la FUEV, Unione Federalista delle Etnie d'Europa,
ancora in attività oggi: il Congresso costitutivo dovrebbe
tenersi a Merano, ma è impedito dal governo italiano e si
svolge, quindi, a Versailles; raggruppa 75 organizzazioni
politiche europee e, tra queste, quelle dei sudtirolesi, degli
sloveni e dei valdostani che, pochi anni dopo, assumeranno
perfino la Presidenza stessa dell'organizzazione.
Nel 1949 una altro fatto rilevante giunge a sopire le tensioni
nazionalitarie: nasce il Consiglio d'Europa che, come previsto
dalla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo approvata l'anno prima,
opererà contro la discriminazione delle minoranze.
Nel 1953 il Movimento Comunità di Adriano Olivetti
partecipa ad alcuni appuntamenti elettorali con il Partito dei
Contadini, l'Unità Popolare ed il PSd'Az.; la coalizione
porta all'elezione di un senatore. Negli stessi anni a Mantova un
gruppo di federalisti, guidati da Dacirio Ghidorzi Ghizzi,
costituisce il Partito Federalista Europeo (PFE).
Sono, comunque, i valdostani, gli sloveni ed i sudtirolesi a
rappresentare con maggior rigore e con forza l'esistenza di un
problema nazionalitario in Italia: hanno parlamentari,
responsabilità di governo locale, "garanti" internazionali
(ufficiali come l'Austria per i sudtirolesi, o non ufficiali,
come la Francia per i valdostani) negli Stati con i quali
condividono la lingua.
In molte avventure elettorali si concretizza una collaborazione
organica tra il PSd'Az. ed il Partito Comunista Italiano
(PCI).
La pausa nelle lotte comuni delle nazionalità si protrae
fino al 1960, ma si tratta di una pausa solo apparente: quando -
proprio nel 1960 - ad Aosta nasce il Collège d'Etudes
Fédéralistes sono una cultura, una
sensibilità politica costruite nel tempo ad affermarsi
contro ogni visione centralistica.
Nel 1966 il valdostano Bruno Salvadori rilancia l'idea di una
"azione comune" delle minoranze in Italia e in Europa.
Nel 1967 a Trento si tiene una riunione di "autonomisti" alla
quale prendono parte esponenti di gruppi spontanei sorti a
Milano, Brescia e Bergamo; nasce l'Unione Autonomisti che
comprende anche friulani ed indipendentisti triestini coalizzati
per le elezioni politiche del 1968; a questo cartello va
l'adesione anche dei valdostani che, avendo un loro collegio
elettorale unico, non entrano - però - nella lista
ispirata dai trentini.
In questi stessi anni nasce l'AIDLCM (Associazione Internazionale
per la Difesa delle Lingue e delle Culture Minacciate) che con
una dinamica sezione "italiana", mette mano al problema della
mancata applicazione dell'articolo 6 della Costituzione.
Negli anni 70 nascono in Italia le Regioni a Statuto ordinario
e il regionalismo vive un momento di rilancio.
Si costituiscono il MF e il MAO (Movimento Autonomista Occitano),
entrambi radicati nella storia e legati alle esperienze e alle
carte dei popoli alpini; la nascita del MAO è ispirata da
un intellettuale francese, François Fontan, il cui
pensiero non è propriamente federalista ed europeista, ma
introduce nel movimento nazionalitario una visione critica
rispetto alla presunta ineluttabilità della costruzione
europea; il MF, invece, si considera europeista ed erede del
gruppo federalista che firmò la Dichiarazione di
Desenzano.
All'inizio degli anni 70, mentre il sociologo italiano
Barbiellini Amidei, ricordando Marx che chiamava plus valore la
parte di ricchezza prodotta dai lavoratori e incamerata dai
capitalisti, chiama "minus valore" l'immenso patrimonio
linguistico, culturale e spirituale prodotto dagli uomini e
sottratto loro dal sistema, viene ipotizzata l'approvazione di
una "legge quadro" statale che "individui le minoranze" e deleghi
la loro tutela alle Regioni. Ma il problema non è del
tutto chiaro: Tullio de Mauro, linguista comunista, ne individua
correttamente i contorni culturali e politici proprio quando, per
evoluzione propria e per l'effetto "europeo" della lotta
antifascista dei Baschi e della rinascita dell'irredentismo degli
Irlandesi, l'Italia di un boom economico in declino, conosce un
'68 nascosto: la trasformazione della cooperazione delle
nazionalità in un vero e proprio Movimento
Nazionalitario.
Nel 1975 si costituisce a Milano il CIEMEN (Centro Internazionale
Escarré per le Minoranze e per le Nazionalità) che
subito attiva una segreteria ad Aosta pubblicando, tra l'altro,
la rivista "Minoranze".
Nel 1976 l'UV, animata da Bruno Salvadori, lancia l'idea della
costituzione di una Federazione delle Minoranze Etniche dello
Stato italiano da costruire con il PSd'Az., la SVP, il MF, il MAO
e la S.S.
Le prime elezioni dirette del Parlamento Europeo si avvicinano e
le nazionalità si pongono il problema di non essere
escluse da questa importante assise.
In Piemonte, Lombardia e Veneto, intanto, c'è fermento tra
le associazioni culturali che si occupano di tradizioni, lingua e
cultura e nel 1975 l'on. Fanti lancia l'idea di aggregare le
Regioni del Po in una Regione di rilievo economico nella
dimensione europea.
Così, quando la legge elettorale per l'elezione degli 81
rappresentanti dello Stato Italiano nel primo Parlamento Europeo
eletto direttamente dal popolo, evidenzia che né le
nazionalità né le Regioni sono tenute in
considerazione e, quindi, rischiano di non esser rappresentate
nel Parlamento Europeo, Salvadori lancia la sfida: una lista con
il simbolo dell'UV parteciperà alle elezioni europee del
1979, componendo una coalizione di forze nazionalitarie,
autonomiste, regionaliste, federaliste e presentandosi in tutte
le circoscrizioni elettorali, già allora concepite come
una sorta di Macroregioni.
Dalla coalizione restano esclusi la lista triestina del Melone
(troppo localista e antislovena), la SVP (che sceglie la strada
dell'apparentamento con la DC) e il PSd'Az. (troppo debole,
all'epoca, per poter sostenere un impegno così gravoso).
Entrano in coalizione - invece - molti dei movimenti politico -
culturali del neo regionalismo italiano, quali la Liga Veneta e
Rinascita Piemontese; il fenomeno del leghismo muove i suoi primi
passi prendendo come modello politico l'UV e come riferimento
istituzionale l'autonomia valdostana: "Cento campanili non fanno
una Nazione" commenta, tuttavia, in un articolo lo studioso
Sergio Salvi che dopo aver pubblicato "le Nazioni Proibite",
dedicato alle grandi nazionalità europee, pubblica anche
"Le lingue tagliate", riservato alla trattazione della situazione
interna allo Stato italiano, diventando l'intellettuale di
riferimento delle battaglie nazionalitarie.
Salvadori oltre ad essere un uomo di punta dell'UV è anche
un aderente al CIEMEN che chiede chiarezza e si contrappone
nettamente ai leghismi; Salvadori spiega in questo modo il
carattere politico e strategico della sua alleanza con il
leghismo nascente; è una scelta che fa riferimento al
federalismo alpino, ipotizzando la nascita di una Repubblica
Federale i cui soggetti dovrebbero essere i Cantoni (Le
Repubbliche della Svizzera e le nazionalità nella
proiezione attuale) e le Regioni (entità territoriali
amministrativamente decentrate).
Questa lista europea ottiene 165 mila voti, ma non riesce ad
eleggere un suo rappresentante nel Parlamento Europeo.
La spinta di rivendicazioni che, anche nel linguaggio,
superano sempre più coerentemente l'equivoco di definirsi
soltanto regionalistiche e autonomistiche, per riconoscersi
nazionalitarie e considerano esplicitamente il regionalismo solo
una tappa intermedia verso l'esercizio dell'autodeterminazione
("l'indipendenza" per i sardisti, "la sovranità nazionale"
per i valdostani, " la spartizione subito" per i sudtirolesi,
ecc.) è il fatto politico saliente degli anni 70. Anche
nella loro consistenza elettorale i movimenti nazionalitari non
sono più marginali.
Sono sempre più frequenti i contatti internazionali (gli
unici veri contatti internazionali perché stabiliti fra
Nazioni e non fra Stati); le forze nazionalitarie moderate
preparano quella che sarà la loro azione congiunta nel
Parlamento Europeo: si costituisce, infatti, l'Alliance Libre
Europeenne (ALE), alleanza - appunto - dei partiti nazionalitari,
etnici ed autonomisti in Europa.
La risposta della sinistra in Italia è di due tipi. Da un
lato intellettuali come Sergio Salvi e, più tardi,
Domenico Canciani e Paolo Pistoi, rivendicano i diritti
inalienabili delle nazionalità, compreso quello
all'autodeterminazione; dall'altro l'area comunista, dopo aver
per anni stigmatizzato il carattere sovrastrutturale delle
rivendicazioni nazionalitarie, si trova in ritardo sul piano
teorico rispetto alla sinistra nazionalitaria in Europa e, in
Italia, si scopre spiazzata dalla solidità del fenomeno.
Scrive Giovanni Berlinguer sul n. 18 di Rinascita del 1975: "Vi
é la tendenza a far comunicare direttamente tra loro
ladini, occitani, sardi, albanesi, friulani, valdostani in Italia
e analoghe collettività sparse nel mondo (quasi con la
parola d'ordine 'minoranze di tutti i paesi unitevi'),
scavalcando così nel tempo e nello spazio le grandi
correnti contemporanee della cultura e della storia, affidando
agli esclusi anziché agli integrati (le classi
lavoratrici), le sorti della rivoluzione".
Una risposta "cattolica" vera e propria non c'è, forse
perché la Democrazia Cristiana (DC), partito di governo,
partito-Stato, si sente controparte delle rivendicazioni
nazionalitarie anche quando le nazionalità non negano i
valori cristiani che le ispirano (il clero rappresenta spesso
nella loro storia un elemento importante di conservazione della
lingua e della cultura); l'attenzione politica degli
intellettuali cattolici progressisti è rivolta, in questi
anni, ai problemi della lotta sociale nell'America Latina che al
"Terzo Mondo" interno all'Europa: le minoranze nazionali. Tra il
1970 ed il 1977, però, è l'azione di un gesuita,
Egidio Guidubaldi, ad interpretare in modo originale e militante
il fenomeno del risveglio nazionalitario: "Assai confortevole -
scrive Guidubaldi - riesce l'attenzione alle piccole etnie
maturata con la recente Conferenza Internazionale delle Minoranze
a Trieste ('74), che in Aldo Moro ha trovato il suo più
attivo sostenitore; a dargli ragione intervengono l'O. Spengler
della proclamata fine dell'Occidente e il T. S. Eliot che, mentre
conferma il verdetto - morte preannuncia anche l'automatica
riaccensione dei primordi della cristianità; il Freud
della civiltà in disagio, con il perentorio requiem per
tutte le roccaforti dell'intellettualismo; e il
Lévi-Strauss del ricorso alle culture alternative come
unici, possibili, vivai di ricambio, e la cui migliore
applicazione si trova proprio nelle tante colonie del capitalismo
culturale europeo rimaste a tutt'oggi soffocate per lo strapotere
dei grandi insiemi".
Per quanto imprecisi, sono questi gli interventi che sintetizzano
un interesse impostosi alle grandi correnti del pensiero politico
italiano grazie alla vitalità delle
nazionalità.
Verso la fine degli anni 70, come abbiamo visto, nasce in tutta
Italia un neo regionalismo che conosce anche alcuni successi: il
Melone di Trieste, la Liga Veneta, e altri, andando a caccia di
accordi con i movimenti autonomisti storici, assumono il
linguaggio delle rivendicazioni nazionalitarie, chiedono
l'autodeterminazione, si definiscono "Nazioni".
Il fenomeno è interessante perché documenta quanto
sia grande il bisogno di vero decentramento in Italia, ma
è anche contraddittorio: la sezione italiana dell'AIDLCM
di sfascia perché vorrebbe allargare l'applicazione della
tutela prevista dall'art. 6 della Costituzione, alle lingue
regionali quali il piemontese, il veneto, il lombardo, ecc.; per
i rappresentanti delle nazionalità l'applicazione
dell'art. 6 le riguarda - invece - in modo esclusivo e per
affermare con forza questo principio escono dall'AIDLCM
A Milano, intanto, nasce la rivista "Etnie" che accomuna in una
stessa linea editoriale la trattazione delle problematiche delle
nazionalità, delle culture popolari, delle Regioni, del
folklore. L'europarlamentare socialista Arfè è
determinante nel Parlamento Europeo per l'approvazione di una
Carta dei diritti delle minoranze che dà impulso alla
costituzione di un "Ufficio europeo delle lingue meno diffuse" la
cui sezione in Italia, è gestita da uomini del Partito
Socialista Italiano (PSI) e non da rappresentanti delle
nazionalità. In Valle d'Aosta è proposta dal PSI
locale una teoria che ha breve vita: l'esistenza di una "nuova
etnia", una sorta di popolo creolo che ha diritto all'autonomia
regionale, ma non è più una nazionalità.
Tutto ciò mentre il ministro socialista per gli affari
regionali, Aniasi, afferma nel suo "Rapporto sullo stato delle
autonomie" del 1982: "Già da qualche anno si è
posta in dubbio la validità del sistema delle autonomie
speciali, giungendo a ritenere prive di fondamento le autonomie
speciali non basate su motivazioni di ordine linguistico tali da
interessare, se non l'intera Regione, quanto meno una cospicua
parte di essa: in breve, salvo l'Alto Adige e la Valle d'Aosta,
da ritenersi - in un caso, almeno per motivazioni preminentemente
storiche - territori con popolazioni alloglotte, non
sussisterebbero ormai validi motivi alla sopravvivenza delle
autonomie speciali. Se dunque si vuol porre il problema in teoria
si possono ipotizzare più soluzioni:
1. sospensione, sic et simpliciter, delle autonomie
speciali;
2. riduzione di alcune autonomie speciali al rango di autonomie
ordinarie;
3. limitazione delle autonomie differenziate agli ambiti
direttamente collegati con la tutela delle minoranze linguistiche
e accrescimento dei poteri delle attuali Regioni con
l'attribuzione alle stesse della potestà legislativa
primaria, come, del resto, prevedeva il progetto di
Costituzione".
A capo del governo italiano, il socialista Craxi, nel suo
discorso di insediamento, mentre fa promesse ai valdostani e ai
sudtirolesi, chiude la porta in faccia alle altre
nazionalità confermando che "lo Stato è
indivisibile e la Nazione italiana è una sola".
Questa che può apparire una filippica contro il Partito
Socialista in Italia è, in realtà, la cronaca di un
confronto che le nazionalità in Italia hanno avuto con il
PSI; questo partito si è proposto come il nuovo
partito-Stato, ed è stato l'unico ad avere, nel bene e nel
male, una strategia globale per affrontare il problema delle
nazionalità.
E' un segno del cambiamento dei tempi in Italia: all'apatia DC
dei tempi in cui i marchingegni burocratici statutari ai danni
delle autonomie regionali già concesse, bloccavano la
crescita di intensità delle rivendicazioni nazionalitarie;
alle contraddizioni della sinistra comunista che condivide almeno
le aspirazioni linguisitiche delle nazionalità, ma non sa
appoggiarle perché non è in grado di gestire il
movimento che esse costituiscono, si sostituisce il dinamismo
socialista, pronto non solo a far fronte ad ogni contestazione
del centralismo dello Stato, ma anche a contenere le battaglie,
che - ormai - le nazionalità hanno coordinato, a livello
europeo.
Tutto il lavoro preparatorio per una nuova legge quadro dello
Stato Italiano che dia finalmente applicazione all'art. 6 della
Costituzione repubblicana ("lo Stato tutela con apposite norme le
minoranze linguistiche") è, comunque, coordinato da ... un
socialista, l'on. Fortuna.
Per cogliere tutti i segni di un mutamento nella società
italiana nei confronti del problema delle nazionalità non
dobbiamo, però, dimenticare che una parte del clero sta
tornando a praticare lingue e dialetti che aveva abbandonato
bruscamente al momento del concordato fascista (1929); e che una
parte del mondo giornalistico che ha conosciuto le
nazionalità nel realizzare documentari o servizi meramente
folkloristici, ne coglie finalmente i valori più veri e
profondi ed è oggi dalla parte delle nazionalità:
Edoardo Ballone, giornalista de "La Stampa", scrive libri ed
innumerevoli articoli sulle nazionalità; Gigi Marsico,
della RAI -TV, realizza documentari sul "mondo dei vinti", tanto
onesti da meritare la censura dei poteri centralisti e la mancata
trasmissione in onda; Massimo Olmi, anch'egli giornalista della
RAI, membro della Lega Italiana per i Diritti delle Minoranze -
sezione del Minority Right Group, direttore responsabile della
rivista CIEMEN "Minoranze", accetta addirittura di essere
candidato al Parlamento Europeo nella lista delle
nazionalità presentata nel 1984.
Altri mutamenti stanno nella cultura (nasce il cinema, rinasce la
musica, si rafforza il teatro e cresce l'associazionismo
culturale delle nazionalità) e nel modo del lavoro: in
Italia e in Europa è ormai vivo, organizzato, anche il
sindacalismo delle nazionalità.
Le nazionalità perdono in questa fase un'occasione di crescita politica e culturale: nell'area della nuova sinistra fa sentire la proprie voce il sudtirolese Alexander Langer, il quale intravede nel movimento nazionalitario o, almeno in alcune sue componenti, le negative caratteristiche del nazionalismo e delle sue chiusure; la sua voce alternativa è forte, ma il suo dialogo con le nazionalità, iniziato in un convegno a Milano, è troppo difficile per avere un seguito immediato: le nazionalità sono in piena fase di rivendicazione e di contrapposizione, Langer - invece - è uomo di dialogo e di confronto.
Gli anni 80 si aprono con un nuovo e più radicale
impulso per le nazionalità. Sono gli anni della rinascita
sardista: il PSd'Az. torna al Parlamento italiano con un deputato
e un senatore, conquistando più di 100 mila voti. Sono gli
anni della crescita valdostana: l'UV si conferma partito di
maggioranza relativa in Valle d'Aosta, superando le divisioni
interne. Sono gli anni del proporsi in modo nuovo della questione
sudtirolese: la SVP non risponde appieno a tutte le istanze sud
tirolesi, in Sud Tirol nascono nuovi gruppi politici, ma la
consistenza del movimento sud tirolese è complessivamente
ancora abbastanza forte da potersi contrapporre al fronte
"italiano" capeggiato dal Movimento Sociale Italiano. Sono gli
anni del superamento della "depressione" slovena: la S.S., il MF
e gruppi spontanei spingono perché la tutela degli Sloveni
non sia limitata alla zona di Gorizia, ma si attui in tutte le
zone di lingua slovena. Sono gli anni del boom friulano di cui il
MF non raccoglie, però, gli effetti elettorali potenziali:
animati da una volontà di ricostruzione e di
valorizzazione della propria identità dopo il terremoto
che ha sconvolto il Friuli, 100 mila friulani rivendicano
l'istituzione di una Regione Friuli a Statuto Speciale staccata
dal territorio di Trieste. Sono gli anni del rilancio occitano,
senza successi e clamori elettorali, ma con la riproposizione
all'attenzione del governo italiano del problema della lingua
occitana e dell'ipotesi di creare una Regione Occitana a Statuto
Speciale. Sono gli anni anche di un nuovo fermento culturale
nelle isole albanesi, grecaniche, croate, ladine, walser,
ecc.
Anche le leghe ottengono risultati significativi. Alle elezioni
politiche del 1983 la Liga Veneta consegue un risultato
eccezionale superando i 100 mila voti e ottenendo l'elezione di
un deputato e di un senatore.
Le nazionalità storiche, nel frattempo, rafforzano i loro
rapporti ed allentano quelli con i gruppi leghisti, regionalisti,
autonomisti, neocampanilisti che in Piemonte, Liguria, Lombardia,
Emilia ecc. tentano di usare il fenomeno Liga Veneta come cassa
di risonanza.
Le elezioni europee sono imminenti; nuove alleanze si
costruiscono in vista di questo appuntamento del 1984.
Il primo maggio del 1982, il SAVT, Sindacato Autonomo
Valdostano dei Lavoratori, celebra 30 anni di vita invitando ad
Aosta i sindacati dei lavoratori delle minoranze nazionali
d'Europa: nasce così il CPSN, Comitato Permanente dei
Sindacati Nazionalitari, che nel documento sostitutivo richiama
l'importanza primaria dei problemi economici smentendo
un'opinione diffusa che considera i movimenti nazionalitari
portatori soltanto di una rivendicazione linguistica e culturale.
I tre sindacati nazionalitari che operano in Italia (SAVT in
Valle d'Aosta - ASGB in Sud Tirolo - SSS in Slovenia) cooperano
con i collettivi sindaci occitano e friulano, mentre in Sardegna
la nascita imminente di un sindacato sardista è imminente.
Contrariamente a ciò che i sindacati italiani mostrano di
temere, il sindacalismo nazionalitario rivendica la propria
identità nel contesto dell'unità dei lavoratori,
smentendo ancora l'opinione pubblica che considera le lotte
nazionalitarie, lotte di campanile, grette e chiuse in se stesse.
Il SAVT è tra i primi in Italia a capire che i problemi
del sindacalismo non sono più soltanto interni ad ogni
Stato; al suo Congresso del 1981 le tesi per un sindacalismo
nazionalitario ripropongono i problemi dell'unità europea,
contestando, anche in questa specifica occasione, l'Europa degli
Stati.
Il Sindacalismo Nazionalitario è, quindi, maturo; nel 1985
in Sardegna si costituisce ufficialmente la Confederazione
Sindacale Sarda (CSS), un altro tassello del Movimento
Nazionalitario.
In occasione delle elezioni europee del 1984 un appoggio
spontaneo al movimento delle nazionalità arriva dal
Movimento Politico Meridionale (MPM): gli intellettuali che da
quasi 20 anni lavorano alla rivista "Quaderni del mezzogiorno"
danno voce politica ad un'esigenza autonomista che travalica i
limiti territoriali della Calabria dove il Movimento è
nato, e ripropongono, in maniera del tutto diversa da ogni
esperienza precedente, la questione meridionale.
"Il Meridione è stato ridotto ad un'area di disgregazione
sociale e di camorrismo pubblico e privato", scrive il MPM; "gli
uomini politici meridionali sono intrisi di cinismo fino al
midollo. Tale situazione si protrae dai tempi del Risorgimento,
quando, nel giro di 20 anni, il Meridione fu allegramente
spogliato delle sue enormi risorse di oro; l'industria napoletana
fu distrutta con mille trucchi finanziari; il gran processo di
rinnovamento delle campagne, avviato sotto gli ultimi Borboni, fu
bloccato nel 1887. Al popolo basso fu lasciata l'alternativa di
emigrare o di darsi al brigantaggio. Quando sul finire del secolo
nacquero i partiti di massa, essi furono naturalmente nordisti.
Il fascismo cancellò la stessa espressione 'questione
meridionale'. Anche la grande cultura fu sospinta ad emigrare.
Caduto il fascismo, anche per il Partito Comunista Italiano i
contadini meridionali non ebbero altra funzione che raccogliere
voti da spendere a Torino, Milano, Bologna. E arrivò anche
il momento che il paese era così ricco che non sarebbe
stata impresa possibile riequilibrare le economie del nord e del
sud. Ma all'industrializzazione del Meridione i comunisti vollero
far precedere lo sviluppo dell'Emilia Romagna e i democristiani
quello delle Regioni venete".
Il meridione, oltre ad avere una propria specifica
identità che potremmo definire "nazionale", comprende nel
suo territorio le nazionalità in assoluto meno tutelate
dello Stato italiano: gli Albanesi, i Grecanici, i Croati, i
Francoprovenzali. E' anche tutto ciò a rendere naturale
l'inserimento della problematica meridionale nel contesto del
Movimento Nazionalitario.
In questa stessa ottica si pone anche il problema siciliano. Il
Movimento d'Azione Autonomista, con altre esperienze
"progressiste" che si organizzano in Sicilia, si presenta, come
il MPM, in quanto movimento politico progressista e autonomista.
La mafia e la corruzione, la camorra ed il clientelismo non sono
le uniche carte d'identità del Sud e delle isole.
Un documento dell'ufficio che a partire dal 1984 coordina UV,
MAO, MF, SS e PSd'Az. evidenzia le ragioni della contrapposizione
tra nazionalitari e leghisti.
Afferma il documento: "La crisi che investe lo Stato italiano non
è soltanto il riflesso della più generale crisi
economica che interessa il mondo intero; è, invece, una
crisi strutturale ed istituzionale. Ed è la crisi di
credibilità del regime democratico italiano che, dopo una
tardiva creazione delle Regioni a Statuto ordinario, non ha
saputo (o voluto) renderle realmente partecipi della vita del
paese, tentando di assimilare alla loro realtà ristretta
anche le 'autonomie speciali' concesse nell'immediato dopoguerra.
E' stata, questa, la logica di un regionalismo inteso soltanto
come decentramento burocratico di un potere consolidato sempre al
centro. Il decentramento è, indubbiamente, uno strumento
valido quando è reale, ma le istanze delle
nazionalità vanno ben al di là del decentramento e
della rinascita delle identità regionali.
Rinascono le culture popolari la cui presa di coscienza dà
vita, spesso, a nuovi movimenti e partiti che agiscono negli
ambiti locali e regionali; si diffonde in interesse (o è
soltanto curiosità? o peggio, tentativi di
strumentalizzazione?), generalizzato per le 'minoranze
nazionali'; ci si preoccupa di tutte le situazioni di 'minoranza'
nella condizione sociale, personale, culturale, culturale,
religiosa.
Nessuno più delle nazionalità guarda con simpatia
al nascere di una diffusa coscienza regionalista; solo un
rinnovamento in senso regionalistico ed autonomistico dello Stato
può garantire una vera tutela per le culture popolari, i
dialetti, le tradizioni locali e salvare, nel contempo,
l'identità nazionale di quelle comunità prive di
un'omogenea territorialità (gli Albanesi, i Greci, e i
Croati). Ma all'interno dello Stato sei nazionalità, la
Valle d'Aosta, l'Occitania, il Friuli, il Sud Tirolo, la Slovenia
e la Sardegna non sono soltanto individuabili etnicamente e
linguisticamente, ma hanno una specificità territoriale e,
talora, inglobano al loro interno piccole nazionalità o
frammenti di nazionalità (i Walser in Valle d'Aosta, i
Ladini in Sud Tirolo, i Catalani in Sardegna).
Sono queste le nazionalità che acquisiscono anche
l'energia politica per contrapporsi alle forze politiche
"italiane" rivendicando una riorganizzazione dello Stato su basi
federali, facendosi portavoce delle nazionalità che non
hanno voce, aprendo spazi per le più piccole
nazionalità e per le rivendicazioni di tipo
regionalistico. Il Movimento Nazionalitario si propone in questo
modo: il suo senso di "indipendenza" è la memoria storica
delle sue componenti".
Da questa posizione nasce una contrapposizione di carattere
elettorale: per le elezioni europee del 1984, UV e PSd'Az.
guidano una lista nazionalitaria, mentre la Liga Veneta promuove
la lista "Unione per l'Europa dei Popoli" che raggruppa tutto il
neoleghismo; la SVP, invece, ripropone l'accordo con la DC e
ricorre al meccanismo dell'apparentamento.
Mentre le nazionalità eleggono al Parlamento Europeo
Michele Columbu del PSd'Az. e la SVP è, ancora una volta,
favorita dall'accordo di appartamento con la DC, le leghe
raccolgono 165 mila voti, ma non ottengono nessun seggio europeo.
Il risultato evidenzia che il leghismo sta cambiando leadership:
dalla Liga Veneta la guida del leghismo passa alla Lega Lombarda
di Umberto Bossi. Sta nascendo la Lega Nord.
Sempre più netta è, comunque, l'opposizione al
leghismo portata avanti dal CIEMEN che ospita sulla rivista
internazionale "Altres Nacions" commenti ed analisi evidenziando
come, in buona sostanza, il fenomeno del leghismo sia interno al
sistema politico italiano, ne sia un prodotto degenerativo;
inoltre, afferma il CIEMEN, "il ricorso da parte della Lega ad
una terminologia nazionalitaria inficia e danneggia il tentativo
delle nazionalità vere di affermare i loro diritti che
risultano confusi con il qualunquismo, la protesta, la xenofobia
e l'antimeridionalismo di cui la Lega si fa portatrice".
La Lega rappresenta sedimentazioni storiche profonde della
diversità tra il nord e il sud del paese, è
l'espressione di un'opposizione alle istituzioni ed ai partiti
dello Stato, si fa portavoce del disagio dei ceti medi
produttivi; ma, osserva il CIEMEN, "all'interno dello Stato
italiano, nelle dinamiche europee e nel diritto internazionale,
ogni confusione su cosa sia una nazionalità e a chi si
debba applicare il diritto alla autodeterminazione, risulta
dannosa".
Il distinguo diventa presa di distanza e se alle elezioni europee
del 1989 nazionalità e leghismi - di nuovo - non sono
alleati, in altre scadenze elettorali la Lega si presenta con
proprie liste anche là dove (in Valle d'Aosta e in Friuli,
ecc.) l'esistenza di movimenti autonomisti storici l'aveva - fino
ad ora - sconsigliata a presentarsi.
Alle "europee" del 1989, comunque, si ripete il successo della
lista "nazionalitaria", rafforzata dall'adesione di un nuovo
partito sudtirolese, la Sudtiroler Heimattbund (SH) ed il
sardista Mario Melis è eletto nel Parlamento Europeo. La
Lega che, nel frattempo, si è rafforzata, supera la prova
delle elezioni europee ottenendo alcuni seggi; l'UV e il PSd'Az.
le impediscono, tuttavia, di entrare a far parte dell'ALE,
organizzazione dei partiti e movimenti autonomisti
d'Europa.
Un convegno promosso a Bolzano da circoli culturali, mette in
grave imbarazzo la SVP: senza mezzi termini valdostani, occitani,
friulani, sloveni e sardi la accusano di scarsa
solidarietà.
Fino alla seconda metà degli anni 80 nessuno formalizza
una proposta articolata e definita di trasformazione dello Stato
italiano in senso federalista.
Nei discorsi e nei documenti delle nazionalità è
chiaro che ciascuna ipotizza il riconoscimento della propria
identità e del proprio territorio in un futuro assetto
istituzionale federale; ma non c'è, non è pensata,
una "cartina" che schematizzi visivamente la nuova articolazione
territoriale cui le nazionalità guardano.
Il CIEMEN sta predisponendo due "carte" fondamentali, la mappa
"l'Europa dei Popoli" e la Carta su "Le lingue nel mondo" che
indicano, graficamente, il chi è ed il dove delle
nazionalità.
All'interno della Lega si sentono i primi proclami su di un
federalismo che preveda l'esistenza in una prima formulazione di
tre Italie, in una seconda di due, ecc.
Nemmeno l'UV presenta una proposta definita, ma ospita sul suo
settimanale "Le Peuple", una riflessione su come potrebbe
articolarsi lo Stato federale: una rilettura delle
specificità regionali, delle identità nazionali,
delle autonomie già esistenti porta ad una
schematizzazione ed alla seguente affermazione: "fin tanto che
l'Italia esisterà, o se deve esistere come realtà
federale, 10 sono le entità (lander, repubbliche, regioni
o altro) che dovrebbero comporla:
ROMANDIE con la Valle d'Aosta e le Valli Francoprovenzali del
Piemonte;
L'OCCITANIA;
LA SLOVENIA con le Valli intorno a Gorizia, l'est di Udine e
l'hinterland della costa di Trieste;
IL SUD TIROLO;
LA LADINIA comprendente il Friuli (senza la Venezia Giulia) i
territori di lingua ladina, la circoscrizione di Porto Gruaro
Veneto attuale);
LA PADANIA comprendente la Liguria, il Piemonte (senza le zone
Francoprovenzali ed Occitane), la Lombardia, l'Emilia Romagna, il
Veneto;
LA TOSCANA senza la Romagna toscana e senza la provincia di Massa
Carrara (Emilia);
IL MERIDIONE con una suddivisione sub-regionale articolata
diversamente da ora e con autonomie cantonali per le varie
piccole nazionalità;
LA SICILIA;
LA SARDEGNA.
La proposta è fortemente innovativa ed apparentemente
utopistica: risponde, però, oggettivamente ad un criterio
etnico e storico. Nessuno si accorge che il progetto formula
un'identificazione della "Padania" che anticipa la stessa scelta
in tal senso della Lega Nord che quando di Padania
parlerà, di lì a poco, lo farà
comprendendovi Valle d'Aosta, Friuli, Slovenia, Tirolo,
Occitania, rendendo la sua proposta non compatibile con le
istanze nazionalitarie.
Quando lo scioglimento della sezione "italiana" dell'AIDLCM
appare inevitabile per le ragioni prima ricordate, sono i
friulani, gli occitani ed i valdostani a determinarlo: la ragione
è l'incompatibilità nella rivendicazione di diritti
specifici, tra lingue nazionalitarie e lingue o dialetti
regionali; non perché sussista una scala di valori che
indichi le une più importanti delle altre, ma soltanto
perché i destinatari delle garanzie previste dall'articolo
6 della Costituzione vanno individuati proprio nelle
nazionalità le quali osservano - tra l'altro - che
applicare a loro favore norme concepite solo per loro, non
impedisce interventi di diverso tipo a favore di altre
problematiche culturali e linguistiche.
Allo scioglimento della sezione italiana dell'AIDLCM, comunque,
le nazionalità decidono di dar vita ad un'altra
organizzazione di base che rappresenti le istanze linguistiche:
nasce la LELINAMI, Lega per le Lingue delle Nazionalità
Minoritarie dello Stato italiano.
La Costituzione di questa "Lega" corrisponde ad uno dei momenti
di maggior attesa della discussione in Parlamento di una Legge
quadro per l'applicazione dell'articolo 6 della
Costituzione.
Nello statuto della "Lega" si leggono i seguenti propositi:
"1 - salvare l'identità linguistico - nazionale delle
nazionalità minoritarie comprese nello Stato
italiano;
2 - promuovere le condizioni per la valorizzazione e lo sviluppo
delle stesse mediante il ricorso a tutte le iniziative
democratiche di ordine culturale, politico e istituzionale
ritenute possibili e necessarie; in particolare la Lega
farà in modo che sia almeno applicato l'articolo 6 della
Costituzione"
Gli aderenti alla Lega sono, in buona parte, gli stessi del
CIEMEN, tanto che il problema viene posto: perché creare
una "Lega" se un organismo di cooperazione e rivendicazione
già c'è? Lo sdoppiamento non determina, comunque,
problemi di nessun genere tra le due organizzazioni, tanto che
CIEMEN e LELINAMI agiscono unitariamente in un frangente
particolare: dopo l'approvazione da parte del Parlamento Europeo
della "Carta Arfè" nasce il Bureau Europeo per le Lingue
Meno Diffuse, organismo che si propone di rappresentare di fronte
alle istituzioni e agli organismi europei le istanze delle lingue
di minoranza; il Bureau si struttura attraverso Comitati che, nei
singoli Stati, dovrebbero rappresentare le organizzazioni di
difesa e di valorizzazione delle lingue; il Comitato che nasce in
Italia, però, il COMFEMILI. (Comitato Federativo delle
minoranze linguistiche) è gestito dal PSI; nessuna delle
organizzazioni storiche della rivendicazione dei diritti
linguistici delle nazionalità in Italia è nel
COMFEMILI. che, nel frattempo, ottiene una sorta di
legittimazione istituzionale ed opera con finanziamenti europei.
CIEMEN e LELINAMI protestano insieme, richiedono dapprima una
totale rivisitazione organizzativa del Comitato che dovrebbe
rappresentare le minoranze linguistiche dello Stato italiano, poi
la creazione di un'interassociazione che comprenda il COMFEMILI.,
la LELINAMI e il CIEMEN su un piano di parità, creando un
più equo e rappresentativo Comitato. Nessuno dei due
obiettivi è raggiunto e mentre la LELINAMI entra in crisi
e resta presente solo in Friuli, il CIEMEN continua ad operare
soprattutto in Valle d'Aosta, conservando l'ambizione di dare
vasta eco in Italia al lavoro che la sue sede di Barcellona
realizza in dimensione veramente internazionale: rappresentanti
delle nazionalità dello Stato italiano partecipano,
così, alla CONSEU (Conferenza delle Nazioni senza Stato)
dove giocano un ruolo rilevante, alla manifestazione che porta
all'approvazione della Dichiarazione Universale dei Diritti
collettivi dei Popoli ed al complesso lavoro, questa volta su
scala mondiale, che sfocia nell'approvazione della Dichiarazione
Universale dei Diritti linguistici.
All'inizio degli anni 90 il movimento nazionalitario è
ripiegato su se stesso: gli accordi di rotazione raggiunti dai
partiti nazionalitari con il PSd'Az. per il Parlamento Europeo
non hanno applicazione e questo toglie credibilità alla
possibilità di continuare una cooperazione a livello
politico, tanto che nelle successive edizioni delle elezioni del
Parlamento Europeo (1994 e 1999), l'accordo tra partiti
nazionalitari non si concretizza più; i sindacati non
riescono ad andare oltre le dichiarazioni di solidarietà
(e, del resto, sono esclusi dalle trattative che solo CGIL - CISL
ed UIL intrattengono con il Governo e con le forze economiche e
sociali sui grandi problemi); le organizzazioni culturali sono
rimaste schiacciate, come abbiamo visto, dalla strategia politica
italiana rispetto all'Europa.
Ad aggravare i problemi giungono anche i successi della Lega Nord
che, nel frattempo si è strutturata dando nuovo impulso al
leghismo; questo assorbe quasi per intero l'autonomismo friulano
(che coglie attraverso la Lega Nord frutti che il MF non è
mai riuscito a cogliere, tanto da giungere addirittura al governo
della Regione Friuli Venezia Giulia!), recupera le simpatie del
radicalismo sudtirolese (che non si riconosce nella SVP),
schiaccia gli occitanisti, relega gli sloveni a poco convincenti
alleanze elettorali; in vista di nuove scadenze elettorali il MPM
ed il PSd'Az. (ripiombato in una crisi di consensi che lo
ridimensiona notevolmente) scelgono accordi con il
centrosinistra.
Eppure la Lega Nord ha accentuato, se possibile, le sue
contraddizioni: va al governo dell'Italia a fianco di Berlusconi
senza, però, far attribuire il Ministero delle Riforme
Costituzionale al professor Miglio la cui visione del federalismo
è, almeno, attenta alle problematiche delle
nazionalità. Errori, l'andare al governo e non spingere
per il federalismo, che farebbe perdere alla Lega tutta la sua
credibilità di movimento alternativo allo Stato ed alle
istituzioni, se Bossi non abbandonasse improvvisamente Berlusconi
e non inventasse l'indipendentismo padano. In pratica Bossi
sostiene che nessuno in Italia vuol fare davvero il federalismo e
che, quindi, la parte produttiva del paese (il Nord, la Padania)
deve liberarsi dal peso di un mezzogiorno sottosviluppato e
improduttivo; Bossi assicura che quando la Padania sarà
indipendente anche la Valle d'Aosta il Sud Tirolo, il Friuli, le
nazionalità, potranno diventarlo: per quanto sia
utopistica, questa proposta fa il suo effetto e - come abbiamo
visto - avvicina al leghismo parte del consenso nazionalitario e
delle stesse organizzazioni nazionalitarie.
Se la proposta di Bossi ha, comunque, una sua credibilità
lo si deve ad un altro fatto: poiché per la nascita delle
Regioni non sono stati la volontà popolare o il criterio
democratico a valere, ma solo considerazioni politiche che hanno
disegnato a tavolino i limiti territoriali di una mero
decentramento (ed è ciò che Salvemini
stigmatizzava); e poiché per la nascita delle stesse non
è stato nemmeno il criterio etnico e linguistico a valere
(tanto che gli occitani non hanno una Regione, i friulani
nemmeno, ecc.), ci si chiede perché non può essere
un criterio economico, come quello che ispira Bossi, a
legittimare creazione, l'invenzione di una "patria" come la
Padania. Perché no? Soprattutto se si pensa che mentre
Bossi, considerato culturalmente grezzo, attribuisce alla sua
Nazione Padana un'identità etnico - linguistica del tutto
fittizia e solo presunta, ma comunque indicatrice del fatto che
l'identità è considerata importante, la raffinata
Fondazione Agnelli propone una riorganizzazione dello Stato
attraverso la creazione di 12 Macroregioni, chiedendo la
cancellazione le autonomie alle quali contesta spettino
un'autonomia ed un trattamento finanziario e fiscale particolari,
se pur in presenza di una loro specifica e storica
identità.
Ha poco spazio in questa situazione l'iniziativa dell'UV il cui
parlamentare, Luciano Caveri, presenta una proposta di legge per
la trasformazione dello Stato italiano in senso federale secondo
la quale le attuali Regioni diventerebbero Repubbliche dello
Stato federale. Sull'opinione pubblica la proposta ha scarso
effetto. Nelle aule romane ne ha ancor meno, poiché la
Bicamerale, istituita da maggioranza e minoranza per
riorganizzare le istituzioni, non la prende neppure in
esame.
Negli ambienti nazionalitari la proposta è mal vista: la
rinuncia al particolarismo delle attuali Regioni a Statuto
Speciale, determinando l'omologazione dell'identità e il
diritto di tutte le attuali Regioni, esprime una posizione
regressista. Le autonomie speciali costituiscono, infatti, il
riconoscimento implicito, quantunque non dichiarato,
dell'esistenza nello Stato di nazionalità diverse da
quella italiana; lo stesso articolo 6 della Costituzione
rappresenta un riconoscimento in tal senso: i costituenti,
infatti, sostituirono la dizione inizialmente prescelta "tutela
delle minoranze etnico -linguistiche" con quella di "tutela delle
minoranze linguistiche" proprio per evitare un esplicito
riconoscimento identitario, formulando, invece, soltanto il
principio di un generico diritto culturale. In sintesi la domanda
ricorrente negli ambienti nazionalitari è: la seguente:
"che ne è delle nazionalità nel progetto
dell'UV?"
Il movimento nazionalitario è spento da questa
sommatoria di negatività?
Prima di trarre questa o altre negative conclusioni è bene
guardare ad alcuni risultati che le nazionalità hanno
raggiunto.
Guardiamo, anzitutto, a due documenti già volte citati: la
Dichiarazione Universale dei Diritti collettivi dei Popoli e la
Dichiarazione Universale dei Diritti Linguistici. Benché
buona parte delle Dichiarazioni Universali abbiano un valore
puramente morale, in assenza di un Diritto Internazionale che ne
sanzioni, ne punisca concretamente le violazioni, queste due
Dichiarazioni hanno una caratteristica che le rende uniche: sono
state volute, concepite, scritte dalle nazionalità stesse,
dal movimento della nazionalità su scala addirittura extra
- europea; tutte le altre Carte e Dichiarazioni sono state
scritte e descritte per l'esigenza degli Stati e delle
istituzioni internazionali da questi costruiti, di regolare i
rapporti e il ruolo di etnie, minoranze, Nazioni alle quali non
è, tuttavia, concesso rappresentarsi direttamente nel
consenso internazionale; sono cioè - per quanto illuminati
e democratici - documenti che sanciscono la dipendenza proprio
nell'affermare diritti particolari.
E', quindi, importante che chi ha coscienza di questo sappia
operare affinché, a tutti i livelli (politici, sindacali,
culturali, internazionali), le nazionalità facciano
riferimento a questi documenti, li legittimino, li rendano
patrimonio diffuso della propria cultura, li considerino -
cioè - davvero un risultato concreto del loro
impegno.
Guardiamo, poi, alla situazione della tutela linguistica ai sensi
dell'articolo 6 della Costituzione italiana: anzitutto vi
è da dire che, negli ultimi anni, con apposite leggi
regionali, il friulano e il sardo sono stati riconosciuti lingue
di pari diritto rispetto all'italiano e, per quanto riguarda il
friulano, oggetto di una standardizzazione e codificazione che lo
rende lingua normale a tutti gli effetti: anche questo è
un risultato atteso da decenni ed al cui raggiungimento hanno
lavorato le migliori intelligenze, quelle più sensibili ed
impegnate nel movimento nazionalitario.
Rispetto alle altre lingue l'attesa ha consumato le resistenze
residue di alcune (un rapporto dell'Unione Europea evidenzia la
profonda crisi di quelle più piccole, geograficamente
polverizzate in un mezzogiorno in disfacimento socio - economico)
e allentato la rivendicazione di altre. Per gli occitani, ad
esempio, la cui identità è oggi ridotta ad una
caratterizzazione turistico - culturale dell'area in cui sono
stanziati; uno specifico progetto così caratterizzato, ha
in sé aspetti negativi ed aspetti positivi: l'intervento
speculativo punta a consentire - infatti - se non un rilancio
linguistico, almeno uno sviluppo economico. Il controllo della
propria economia e delle proprie ricchezze è stato uno
degli obiettivi del federalismo alpino e del movimento
nazionalitario: gli effetti della attuazione di questo progetto
vanno, quindi, apprezzati e possono essere considerati il frutto
di un lavoro.
Ma il risultato più positivo del Movimento Nazionalitario
è l'aver seminato attese ed entusiasmi al punto che nuove
energie, nuove organizzazioni si sono fatte avanti trovando una
ricca eredità: a Bolzano si è costituita una
sezione della Associazione per i Popoli Minacciati che si sta
muovendo bene, trascinando dietro a se l'impegno delle altre
sigle, delle altre organizzazioni: l'APM ha presentato a Roma
vari documenti sulla applicazione dell'articolo 6 della
Costituzione firmati anche dal CIEMEN, dalla FUEV e dal
COMFEMILI.
Nuove dinamiche vengono attivate congiuntamente da esponenti
valdostani, sloveni e friulani; con un incontro ad Aosta e
Convegni a Milano e a Cagliari, sulla spinta particolare di
Ferruccio Clavora, friulano - sloveno, le problematiche
linguistiche sono state affrontate insieme al mondo della
emigrazione e con un taglio innovativo: anche nella emigrazione,
infatti, la lingua d'origine va preservata, pur tenendo in
considerazione la lingua della comunità ospitante; i
friulani che vivono in Sardegna, i sardi che vivono in Valle
d'Aosta, ecc. rappresentano un grande potenzialità
culturale ed un grande esempio di continuità nella
preservazione delle identità originarie e nel rispetto
delle lingue delle comunità ospitanti. Questa importante
riflessione sul problema della conservazione delle
identità anche a fronte del problema della emigrazione e
della immigrazione, viene proposta mentre sardi e friulani sono
già pronti ad attivare progetti e programmi di
insegnamento informatico e telematico della lingua riservate ai
loro emigrati. E mentre l'Europa, l'Italia e le
nazionalità dello Stato italiano sono come invase da una
massa di migranti terzomondiali.
Dopo l'approvazione della Carta Europea per le Lingue
Minoritarie e Regionali e dopo l'attivazione, in conseguenza del
Trattato di Maastricht, del Comitato delle Regioni, il porsi del
problema delle lingue pare orientativamente indirizzato verso la
sola dimensione locale, regionale e comunale; in tal senso sembra
indirizzarsi anche l'applicazione dell'articolo 6 della
Costituzione che, finalmente, è stata formalizzata con
un'apposita legge dello Stato dopo più di 50 anni di
attesa.
In Italia sono ormai numerose le leggi regionali che favoriscono,
valorizzano, sostengono le diverse espressioni linguistiche; la
legislazione rivolta ai Comuni, ha aperto, in materia strade
nuove: la legge statale 142, quella che consente, e anzi obbliga,
i Comuni ad approvare un proprio Statuto interno, consente agli
stessi di formulare un riconoscimento dell'esistenza di lingue
specifiche e di regolarne l'uso perfino nella attività
istituzionali delle amministrazioni locali; ciò ha fatto
scrivere ad illustri giuristi che, di fatto, è superata la
stessa rivendicazione di una "tutela" da parte dello Stato
attraverso una normativa quadro.
Le formule di decentramento regionale che paiono, ormai,
predominanti nei progetti politici più avanzati, sembrano
delegare la soluzione del problema linguistico ad una sorta di
autotutela: là dove esistono, le lingue potrebbero,
cioè, tutelarsi da sole ricorrendo alle istituzioni loro
più vicine, Comuni, Comunità Montane,
Regioni.
Non viene meno, tuttavia, il riferimento alla legge quadro dello
Stato poiché i limiti della autotutela sono evidenti: tra
questi ci sono quelli legati ai programmi scolastici ed alle
necessità di utilizzare le lingue delle cosiddette
minoranze come lingue di insegnamento e come lingue da
insegnare.
La lingua sarda e la lingua friulana hanno incontrato non poche
difficoltà ad essere riconosciute prima che la Regione
Sardegna e la Regione Friuli Venezia Giulia ottenessero il visto
governativo per specifiche (quantunque limitate) leggi regionali
di tutela.
E permane una condizione di disparità di trattamento non
tanto o non solo tra lingue diverse (il tedesco del Sud Tirolo
è più favorito rispetto a tutte le altre...), ma
all'interno delle stesse lingue: il ladino e lo sloveno hanno
formule di tutela diversificata da una zona all'altra; il
francoprovenzale, poco tutelato in Valle d'Aosta dove, comunque
è valorizzato in quanto espressione dialettale, non lo
è praticamente per niente in Piemonte; le isole germaniche
delle Alpi costituiscono ormai, quasi solo una presenza
folcloristica; gli albanesi sono suddivisi tra realtà
regionali diverse che assicurano livelli difformi di tutela e
nessuna forma di unità della lingua.
Il problema che si pone è molto delicato: è, ormai,
chiaro che lo Stato italiano non diventerà una Repubblica
Federale, il che chiude alle nazionalità la
possibilità di guardare a questa ipotesi come ad un
obiettivo valido per ciascuna o per tutte insieme; il massimo
risultato ottenibile sembra essere la conservazione della
situazione attuale, fortemente discriminatoria per alcune,
minimamente garantista per le altre. Uno spazio aperto sembra
esser anche quello culturale: musica e tradizioni - ad esempio-
possono sopravvivere sull'onda (ma fin quando durerà?) di
una moda di massa; la diffusione ed il successo della cultura
etnica hanno consentito l'emergere di "testimonial" delle
identità che si sono affermati al di fuori del ristretto
territorio di appartenenza: un disco dei Troubaires de
Coumboscuro (con De Andrè, Stivell, Yacoub e i Tazenda) il
cinema sardo; gli scrittori mitteleuropei, sono esempi di un
fenomeno che vede nelle riconosciuta caratterizzazione, nelle
radici, nelle diversità culturali, elementi tanto
rilevanti che la cultura dominante tenta addirittura di proporli
come una sua intrinseca componente.
Questo è, quindi, un momento pericoloso: è stata
pericolosa l'emarginazione; lo è stato il centralismo che
ha attivato i processi di italianizzazione; lo è stato la
negazione dei diritti fondamentali e di quelli costituzionali; lo
è ancor più questa omologazione che vorrebbe
rendere "italiana" la cultura e la lingua di cui sono portatrici
le nazionalità, considerandole - tutto sommato -
compatibili con un'identità altra, quella italiana. Se
esistono variabili e varianti dell'identità italiana,
queste vanno cercate nelle specificità di tipo regionale,
di tipo dialettale che sono importanti ed arricchiscono la
cultura italiana, mentre di essa si arricchiscono. Per le
nazionalità, invece, il discorso è tutto un altro e
neppure la più profonda crisi identitaria può fare
di un tirolese, di un ladino, di un sardo, di un valdostano, ecc.
semplicemente degli ... italiani.
Per paradossale che sia è ancora necessario ribadire
che una cosa è lo Stato ed un'altra la Nazione: ribadirlo
è il compito delle intelligenze delle nazionalità
operando, rispetto a quest'esigenza, ancora con la stessa
sensibilità che è stata una caratteristica del
movimento nazionalitario.
La stessa sensibilità deve consentire una lettura delle
problematiche "europee" in chiave non statalista. L'esempio che
evidenzia un fatto pericoloso per le nazionalità quale
è la criminalizzazione delle rivendicazioni
nazionalitarie, viene da quanto sta avvenendo nei Paesi Baschi.
Sull'onda emozionale che ogni morte porta con se, nei Paesi
Baschi e in Spagna, si ripetono con una certa frequenza le
mobilitazioni popolari contro l'ETA e contro il movimento Herri
Batasuna. Passata l'emozione bisogna chiedersi: "perché le
mobilitazioni contro le violenze si siano avute solo adesso"? Per
trovare una risposta bisogna analizzare a fondo la realtà:
in Europa è in atto un processo di normalizzazione che
vede nel raggiungimento di una vera unione politica ed economica,
l'unica salvezza possibile per il capitale, per i mercati e per
gli stessi Stati; questa normalizzazione è guidata dagli
Stati che hanno disegnato per le nazionalità uno spazio
ristretto, quello della dimensione e delle competenze regionali.
Più o meno ampia che sia, l'autonomia delle
nazionalità riconosciute in Europa solo come Regioni,
è il risultato di una dipendenza; più o meno solida
e consistente che sia la rappresentatività politica
nazionalitaria di queste autonomie, essa ha uno spazio europeo
sono nella dimensione regionale. La risposta all'interrogativo
è tutta qui: anche il nazionalismo basco, va adattato a
questa logica che, tuttavia, esso non accetta; Euskadi
rappresenta la possibilità concreta che un'applicazione in
un paese europeo Europeo del diritto alla autodeterminazione
produca effetti significativi; un referendum sulla
autodeterminazione, infatti, potrebbe alla nascita di uno Stato
basco, sconvolgendo non solo i piani dello Stato spagnolo, ma le
stesse dinamiche di costruzione dell'Europa degli Stati. Alla
negazione del diritto alla autodeterminazione si accompagna il
tentativo di invertire la scala dei valori identitari in modo che
i baschi (e, con analoga procedura, tutte le nazionalità
rispetto alla loro situazione) si considerino prima di tutto
europei, poi spagnoli e solo infine, baschi, individuando ancora,
un'ulteriore suddivisione della loro identità unitaria per
contrapporre baschi francesi e baschi spagnoli, per distinguerli
- ancora - in pirenaici e atlantici. La volontà di
determinare una frammentazione identitaria e la lotta contro il
diritto alla autodeterminazione sono le vere motivazioni delle
mobilitazioni contro la violenza dell'ETA; si tratta, quindi, di
ragioni molto meno nobile di quelle addotte formalmente e
riferite al dramma delle vittime della lotta armata, dimenticando
quante sono le vittime basche di una repressione spesso
inspiegabile che colpisce anche chi è soltanto sospettato
di essere un etarra (un militante nazionalista basco).
E', in sostanza, un tentativo di criminalizzazione della
rivendicazione nazionalitaria e non solo della rivendicazione
basca, tentativo accentuato al momento del conflitto tra serbi e
kossovari, per dimostrare che le rivendicazioni nazionalitarie
sarebbero foriere di conflittualità permanenti e
drammatiche.
Le nazionalità in Italia devono capire quanto perversa sia
questa "cultura" dell'integrazione europea a tutti i costi e
partecipare, con questa coscienza, ad istituzioni quali il
Comitato delle Regioni (che non ha poteri), o ad istituti quali
la Cooperazione transfrontaliera., ecc. che solo apparentemente
rappresentano spazi nei quali l'identità dei popoli ed i
diritti ad essa connessi potrebbero trovare una collocazione. E
devono respingere ogni tentativo di criminalizzazione delle
istanze nazionalitarie, evitando le involuzioni politiche nelle
quali - purtroppo - soprattutto valdostani e sudtirolesi, sono
caduti spesso addirittura inducendo il sospetto che ci si trovi
di fronte ad una fascistizzazione della loro rivendicazione
politica identitaria.
Nel 1992 il CIEMEN ha diffuso in Italia il testo di un
intervento che l'intellettuale francese Félix Guattari
tenne a Bilbao nel 1985, intervento allora contestato dai
portavoce delle nazionalità dello Stato italiano, nel
quale Guattari, morto prematuramente nel '92, parlò di
"quinto mondo nazionalitario". Facendo proprie, a suo modo, le
ragioni delle nazionalità, Guattari ne evidenzia i limiti
e l'impreparazione rispetto ai "movimenti immigranti", figurati
nel corteo della lotte "minoritarie", insieme ai nuovi movimenti
di liberazione della donna della sessualità, insieme agli
ecologisti; parla di "affinità elettive" e di un'imminente
"rivoluzione senza precedenti, una rivoluzione molecolare"
destinata o al successo o al fallimento o all'esplosione in un
forma catastrofica, come successe in Italia negli anni '70. Vale
la pena di ricordare l'amicizia di Guattari con l'intellettuale
"rivoluzionario" Toni Negri.
Un particolare problema, secondo Guattari, è posto alle
nazionalità dal fenomeno delle immigrazioni di
terzomondiali e di disperati che dalle varie aree del mondo,
fuggono la fame, l'oppressione, le dittature e il sottosviluppo e
raggiungono i paesi europei: è il problema della
cosiddetta cultura e della civiltà multietnica. Difficile
possa essere risolto in una realtà come quella italiana
nella quale lo Stato ha fatto di tutto per negare diritti ed
identità a nazionalità radicate storicamente; ancor
più difficile ipotizzare il rispetto e la valorizzazione
delle culture migranti quando queste si sovrappongono ad
identità radicate geograficamente e storicamente, ma
ancora prive di riconoscimento e di tutela.
Un certo progressismo fa ritenere necessario - ad esempio -
assicurare un sostegno linguistico, a partire dalla loro lingua
materna, ai bimbi terzomondiali che devono inserirsi nella scuola
italiana, mentre questo stesso diritto alla propria lingua
è stato negato ai bimbi nati e cresciuti nel territorio
dello Stato italiano, ma appartenenti alla diverse
nazionalità. Di recente si sono ancora verificati episodi
di discriminazione linguistica, ad esempio in Sardegna, dove lo
strumento della bocciatura è stato adottato in una scuola
elementare nei confronti di bimbi che non conoscevano l'italiano!
Il caso ha sollevato un certo clamore, ma non è stato
l'unico, anche se a conoscere solo la propria lingua materna sono
sempre in meno nell'Italia che con il fascismo prima, e poi con i
partiti, la Tv e il gioco del calcio è riuscita a
sovrapporre la conoscenza della lingua italiana su tutte le altre
espressioni linguistiche.
Il problema della società multietnica è legato ad
una serie di fraintendimenti culturali e, quindi, ad un rischio:
l'immigrato che giunge in Italia, ammesso che riesca a superare
lo scoglio della clandestinità e trovi lavoro, ricrea - se
possibile - una propria comunità: nelle metropoli questo
tipo di aggregazioni è consueto e consente un
miglioramento della qualità della vita di questi
sfortunati migranti; tuttavia ne rallenta l'inserimento e/o
l'integrazione nella comunità ospitante ed impedisce loro
di comprendere i meccanismi di dominio- minoranza in atto che
fanno di loro utili e poveri strumenti del dominio.
In molti casi, inoltre, l'aggregazione degli immigrati non
avviene per comunanza di reale identità, ma solo per
appartenenza ad una non meglio identificata area
geografica.
Si produce in questa situazione qualcosa di analogo al fenomeno
della emigrazione "italiana" nel mondo. Pensiamo a cosa sono
state, a lungo, le organizzazione degli emigrati italiani:
all'estero gli "italiani" si sono aggregati pur essendo - in
realtà - sardi, friulani, meridionali o valdostani, avendo
- cioè - un'identità solo apparentemente uniforme.
Pensiamo, allora, a cosa avviene in una nazionalità dello
Stato italiano, fortemente caratterizzata dal punto di vista
culturale e linguistico: un corretto approccio multietnico
vorrebbe che i locali e gli immigrati si confrontassero e si
integrassero, ma gli immigrati non appartengono ad un solo
popolo; se hanno caratteri simili tra loro li hanno così
come li hanno i popoli dell'arco alpino in Europa, accomunati -
cioè - solo dal fatto di vivere in ambienti geografici
simili, o come li avevano gli "italiani" emigrati nel mondo,
accomunati non nell'identità vera, ma solo
nell'appartenenza ad uno stesso Stato. Il confronto, la
comprensione culturale e l'integrazione sono, quindi,
difficili... e rischia di diventarlo anche la convivenza umana.
Le regole che richiedono, prioritariamente, il rispetto
dell'identità delle comunità ospitanti da parte
degli immigrati, non vengono da questi rispettate perché
lo Stato è il primo a non rispettarle.
Purtroppo su questo tema i movimento delle nazionalità non
ha ancora saputo riflettere. Si fa sentire, quindi, solo la voce
degli xenofobi i quali, invece di cercare nuovi strumenti di
dialogo che consentano di superare i problemi, accentuano i
motivi di contrasto e di contrapposizione.
In Italia nella discussione su queste considerazioni scaturite
dalle provocazioni di Guattari, si sono distinti in modo
particolare due intellettuali: Domenico Canciani, già
citato per la sua attenzione ed adesione alle rivendicazioni
nazionalitarie degli anni 70 e 80 e Sergio De La Pierre, un
sociologo "valdostano" che vive e lavora a Milano: insieme hanno
pubblicato il libro "Le ragioni di Babele. Le etnie tra vecchi
nazionalismi e nuove identità" (1993), mentre De La Pierre
ha presentato le sue "Nuove riflessioni sul nazionalismo e
sull'etnismo" (1996) nelle quali descrive la sua visione
politica: "sotto i termini etnie e rinascita etnico nazionale
vengono a raggrupparsi, a ben vedere, fenomeni assai diversi ma
con indiscutibili elementi comuni:
1. I movimenti etnico-linguistici con base territoriale...;
2. I movimenti regionalisti, localisti e di federalismo
centrifugo...;
3. I movimenti dell'etnicità urbana e delle
comunità culturali senza una significativa base
territoriale (immigrati, rom ed ebrei)..."
De La Pierre cita Pistoi che nella presentazione critica la
volume di Hetcher "il colonialismo interno" (1994) aveva
scritto:
"Negli ultimi anni una serie di fenomeni sociali altamente
visibili hanno pubblicizzato l'emergere di elementi ideologici
... valori che prendono corpo nelle rivendicazioni di democrazia
diretta, di decentralizzazione, di autonomie, nelle esigenze di
appartenenza e di realizzazione intellettuale, sessuale, estetica
e religiosa.
Non solo la rinascita del nazionalismo etnico in occidente
è più o meno colma col manifestarsi di questi
fermenti ideologici, ma con questi nuovi fermenti democratici,
partecipativi e ispirati alle esigenze espressive dei gruppi
sociali essa è indubbiamente coincidente".
La nazionalità dello Stato italiano hanno già
affrontato negli anni 70 un dibattito analogo, quando il
professor Guidubaldi, fondando un Movimento Europeo Minoranze, ne
indicò come parte integrante il movimento giovanile e il
proletariato dei non - nati, in posizione antiabortista.
L'analisi di De La Pierre è interessante perché
propone modelli di convivenza etnica prima non considerata da
nessuno studioso delle questioni nazionalitarie: evidenzia che la
dimensione "comunitaria" rende possibili nuove reti relazionali
complesse, possibili solo se si costruiscono tra "diversi ed
identificati" ed osserva che la Svezia sarebbe un modello di
convivenza interetnica, contrapposta al modello francese
dell'assimilazione culturale e al modello tedesco del separatismo
etnico. Ripensare le identità è, quindi,
un'esigenza inderogabile per il movimento della
nazionalità dello Stato italiano che deve individuare
nuovi modi di essere e di proporsi.
Ma per le nazionalità la Nazione è una categoria
globale che comprende al proprio interno le classi, le
diversità sessuali, le "regionalità" ecc. non
potendo - per questo - considerarsi assimilabile ad esse o posta
sul loro stesso piano, neppure per fare una battaglia civile
insieme, ma cercando - piuttosto - di conglobarle e chiedendo
rispetto ai portatori di un'identità altra, gli immigrati,
attivando processi di convivenza e/o di integrazione che si
attuino dando continuità alla cultura della Nazione
stessa. Le nazionalità respinsero, quindi, le posizioni di
Guidubaldi, si sono contrapposte a quelle di Guattari, faticano
ad accettare le posizioni di Canciani e di De La Pierre,
così come non capirono la cultura del dialogo tra le
culture proposta da Langer.
Tuttavia la rivolta "molecolare" di Guattari si sta
concretizzando nel variopinto movimento che si contrappone alle
logiche della mondializzazione, attraendo anche parte delle
spinte nazionalitarie.
Il crollo dell'Impero Sovietico, la caduta del muro di
Berlino, la nascita dell'Unione Europea hanno determinato
profondi e significativi mutamenti anche all'interno di uno Stato
italiano squassato dagli scandali di tangentopoli.
Abbiamo, così, assistito in questi ultimi anni alla
scomparsa di forze politiche che avevano caratterizzato la storia
degli ultimi 50 anni, sostituite da nuovi partiti che si sono
posti nell'ottica della necessità di operare una
polarizzazione della politica, creando alleanze politiche e di
governo: l'Ulivo (centro sinistra) e il Polo (centro destra)
dovrebbero essere, negli intenti delle nuove strategie
istituzionali, i protagonisti di un bipolarismo attraverso il
quale lo Stato si dovrebbe dare una nuova struttura, nuove regole
di governabilità e di democrazia, nuove prospettive di
sviluppo.
Tra le "novità" introdotte in un clima di nuova
solidarietà "nazionale", necessaria ad affrontare i
sacrifici economici imposti e dalle logiche europee e
dall'inderogabile urgenza di sanare il disastro economico
ereditato dalla "prima repubblica", la nuova costituenda "seconda
repubblica" ha proceduto a legittimare, in quanto forza politica
democratica, Alleanza Nazionale; A.N. è il partito che
vuol rappresentare la nuova destra italiana, ma che, ciò
facendo, non può non considerarsi l'erede della vecchia
destra fascista, benché sottolinei che "i tempi sono
mutati" e che "fascisti e repubblichini" (quanti - cioè -
combatterono nella Repubblica Sociale) in fondo "si preoccupavano
del bene dell'Italia", pur militando "dalla parte che la storia
ha evidenziato come sbagliata".
La storia italiana si ripete: alla fine della fine della seconda
guerra mondiale, l'Italia - già democratica - non
esitò ad utilizzare ciò che restava del disciolto
esercito della Repubblica Sociale Italiana per presidiare i sacri
confini della patria, a fronte dei molti "pericoli" che
l'unità della stessa correva nei territori di lingua
francese, slovena e tedesca.
Sono singolari non tanto il "perdono" o la "pacificazione" a 50
anni di distanza dalla fine della guerra che fu anche guerra
civile, quanto il fatto che se le "autonomie speciali" sono state
concesse dallo Stato italiano proprio per evitare l'aggravarsi
dei conflitti ai confini dello Stato, questo si è
preoccupato prima di legittimare i post - fascisti e solo dopo di
completare l'applicazione della Costituzione nata
dall'antifascismo e dalla Resistenza, Costituzione che aveva
promesso - tra le altre cose - la tutela degli alloglotti e che
ha approvato la legge di tutela con più di 50 anni di
ritardo, quando la sussistenza di alcune di esse è, ormai,
compromessa.
Mai come in questo momento, dietro ad apparenti aperture di tutte
le forze politiche su temi come il regionalismo, il
decentramento, le autonomie ed il federalismo, sussiste una
totale confusione che nasconde - è palese - intenti
centralisti.
Si colloca in una strana posizione, in questo frangente, la Lega
Nord, la cui consistenza elettorale al Nord è
considerevole; dapprima la Lega si pone come l'interprete di un
sempre più ampio dissenso, di una sempre più ampia
protesta fiscale, disegnando un'ipotesi secessionista improbabile
ma pur rilevante sul piano dell'incidenza politica; poi sceglie
di collocarsi di nuovo a fianco di Berlusconi, condividendo il
progetto politico del centrodestra: presidenzialismo e
federalismo.
Le forze politiche nazionalitarie non riescono a trovare uno
spazio in questo confronto e molte delle loro energie, come
abbiamo visto, sono assorbite dalla Lega; del resto, nel momento
in cui ha proposto la "secessione e la costituzione della
Padania", la Lega aveva affermato che lo Stato italiano non ha
nessuna intenzione di trasformarsi davvero in senso federalista e
questa si rivelata una verità, mentre rinunciando al
secessionismo, la Lega sembrerebbe aver trovato nel Polo un
alleato leale per ottenere una devolution di poteri a favore
delle Regioni del Nord.
Le nuove forze politiche e la logica dei poli hanno trovato un
terreno di confronto sul mutamento istituzionale da determinare
in Italia, creando una Bicamerale, soluzione alternativa a quella
di una "Costituente" che avrebbe legato ai risultati di una sola
tornata elettorale la composizione di un'istituzione cui affidare
il rinnovamento dello Stato: Ulivo e Polo la cui forza e
consistenza parlamentare sono oggi equilibrate, hanno scelto il
terreno difficile del compromesso interno, preferendolo al
rischio di uscire da un'elezione "costituente" ciascuna
indebolita rispetto all'altra; inscenando l'esistenza di
insanabili contrapposizioni hanno, poi, affossato i lavori della
bicamerale e rinviato le riforme.
I lavori della bicamerale hanno, comunque, dimostrato che lo
Stato non solo non diventerà federalista ma che,
addirittura, punta a ridimensionare il significato e le
competenze delle "autonomie speciali"; federalisti e
nazionalitari sono indiscutibilmente sconfitti.
Nella tradizione democratica italiana il federalismo non è
mai riuscito ad affermarsi come una corrente importante della
politica, pur vantando illustri difensori e pur lasciando sempre
aperta la porta ad una lettura della storia italiana di cui si
possa dire che ha avuto anche Cattaneo, Salvemini, Trentin,
Olivetti e Altiero Spinelli; è sintomatico, però,
il fatto che la storia italiana, che la cultura federalista
italiana, non abbiano recepito l'ampiezza e il valore delle
analisi di Chanoux, di Lussu, di Fontan e non perché la
loro elaborazione fosse qualitativamente inferiore (è vero
il contrario), ma per la loro estraneità alla cultura
politica italiana che non ha potuto, per questo, recepirli;
questo perché il federalismo italiano raramente è
stato imperniato davvero sulle identità ma, piuttosto,
sulla visione di un diverso modo per costruire l'unità
dello Stato: sulla costruzione di una Federazione che consenta
alla diversità di armonizzarsi, superando la
centralità dello stesso Stato, e la stessa concezione
dello Stato, continuano a prevale gli interessi dello Stato e dei
suoi partiti.
Dal Veneto e precisamente da Venezia, il filosofo Cacciari, ex
comunista, ha lanciato il Movimento Nord-Est, per trasformare lo
Stato in senso federale, per aggregare in questa prospettiva i
movimenti storici del federalismo e dell'autonomismo e, in
definitiva per toglier spazio alla Lega.
Quanto la proposta sia da prendere con le dovute cautele da parte
delle nazionalità è argomento da approfondire (le
forze politiche nazionalitarie ancora non si avvedono del grande
peso e ruolo che ancora hanno, se è vero che tutti, Lega e
Movimento Nord Est, da un'alleanza con i partiti storici delle
nazionalità sanno di poter trarre quella legittimazione
storica che può aprir loro nuovi spazi di consenso e di
rappresentatività); su di un punto, però, cade la
nostra particolare attenzione.
Cacciari fa le sue osservazioni e illustra i suoi progetti
proponendo un modello, il modello catalano.
E intanto l'economista Tremonti, liberista ed esponente del Polo
di Berlusconi, propone con il suo Movimento "Federalismo e
Libertà" l'attribuzione di uno Statuto Speciale alla
Regione Veneto, quella che in questa fase storica, più di
ogni altra ha espresso e sviluppato una radicale contrapposizione
al centralismo dello Stato e dei suoi partiti, fin da quando
Rocchetta fondò la "Liga Veneta", madre di un leghismo di
cui fu padre l'autonomismo piemontese di Gremmo e di cui si
è fatto erede Bossi; fino a quando, con un gesto tra il
folcloristico e il rivoluzionario, alcuni esponenti
dell'indipendentismo veneto, hanno compiuto il gesto clamoroso di
occupare il campanile di San Marco a Venezia, pagando con una
pesante carcerazione questo loro "attentato" all'unità
dello Stato.
All'inizio degli anni 90 la Lega Nord propone ripetuti
riferimenti al "modello catalano"; che di una bandiera e di uno
slogan si trattasse lo ha dimostrato la presa di distanza
espressa, rispetto al leghismo, dal leader del Governo Autonomo
Catalano, Jordi Pujol.
Sfortunato destino, quello della politica internazionale della
Lega: sostiene a spada tratta le posizioni di Herri Batasuna con
cui afferma di avere affinità che - tuttavia - non
giungono a farle ipotizzare il ricorso o il sostegno ad una lotta
politica armata, ma quando Herri Batasuna giunge in Italia per
far conoscere i problemi di cui è protagonista, è
attraverso Rifondazione Comunista che concretizza gli
appuntamenti con la stampa:
Quando esulta per i successi conseguiti da scozzesi e gallesi,
presentati anche questi come "modello", la Lega non riesce a
spiegare che non si tratta di successi che possano far parlare di
esercizio dell'autodeterminazione, ma di modeste, quantunque
estremamente significative, conquiste autonomiste, di portata
comunque inferiore al livello d'autonomia di cui godono, ad
esempio, i valdostani e i sudtirolesi in Italia.
Bossi ha tratto il suo primo modello politico, il suo primo
riferimento internazionale dall'esperienza storica della Valle
d'Aosta e dell'UV, ma è chiaro che neppure la Valle
d'Aosta è un modello.
In uno dei libri di Umberto Bossi è citata la
Dichiarazione Universale dei diritti collettivi dei Popoli,
voluta dal CIEMEN, ma sono risultati chiari i limiti della
concezione politica internazionale della Lega quando Bossi ha
espresso solidarietà alla Serbia di Milosevic, venendo
esclusa, a causa di questa scelta contraddittoria, da un cartello
internazionale di partiti etnici e rimanendo isolata sul piano
internazionale.
E' meno evidente da dove anche Cacciari tragga analogo
riferimento per prendere a modello della sua proposta politica
per l'Italia e, soprattutto per il suo Movimento Nord Est, la
Catalogna; Se, infatti, una proposta federalista vuol avere una
propria credibilità bisognerebbe che in tema di modelli i
riferimenti non fossero quelli di una realtà tanto
singolare, quale quella catalana (che se a posizioni positive
è giunta non è perché lo Stato spagnolo sia
federalista o sia particolarmente democratico, ma perché
particolare è la posizione del partito catalano di Pujol
negli equilibri su cui si regge il governo di Madrid e
particolarmente forte è l'economia catalana nel quadro
dello Stato spagnolo), realtà comunque non esportabile per
diverse ragioni.
Se un modello catalano può essere intravisto è al
pensiero politico di Pujol che possiamo guardare, alla sua
visione di un "nazionalismo" fortemente caratterizzato
culturalmente, ma più pragmatico dal punto di vista
politico dove, comunque, la concezione di un "federalismo
asimmetrico" corrispondente ad una visione plurinazionale dello
Stato e a livelli diversi di autogoverno cui le singole
comunità dovrebbero accedere: nella più classica
delle visioni federaliste nulla di ciò che può
esser fatto a livello locale (che lo si definisca "regionale" o
"nazionale" a questo punto sarebbe secondario) deve esser fatto
altrove, e ciò che non può esser fatto a livello
locale, va delegato ad un altro livello decisionale; l'inverso
del decentramento che conserva sempre e comunque ad un centro il
potere di decidere quanto e cosa decentrare. Parlare di questo
"modello catalano" dovrebbe portare a dire cosa è la
Catalogna, una nazionalità, una Nazione senza Stato in uno
Stato che è, comunque, plurinazionale; di partito catalano
in Italia di potrebbe parlare, allora, solo quando questo
principio della plurinazionalità (che il movimento
nazionalitario ha sempre espresso) venisse formulato con tutto
ciò che ne consegue e, cioè, con il riconoscimento
delle identità nazionali oggi negate.
Questo Cacciari non lo fa, mentre lo fa Bossi, la cui Padania
sarebbe uno Stato plurinazionale che accetta e formula, al
proprio interno, il principio dell'autodeterminazione a cui le
identità interne potrebbero, un domani, accedere.
Poiché, comunque, la Catalogna e il modello catalano sono,
in Italia, un puro pretesto cui fanno ricorso forze politiche
alla ricerca di spazi e consensi che non sanno conquistarsi
altrimenti, è con ironia che ricordiamo l'esistenza in
Italia di un "partito catalano" fin dal 1975; da allora opera in,
Italia un Centro internazionale catalano, nato per ricordare la
figura dell'abate di Montserrat, Aureli Escarrè, che il
dittatore Franco costrinse all'esilio per il suo impegno in
sostegno dell'identità catalana e dei diritti dei popoli.
Alla morte dell'abate la Spagna era ancora sotto la dittatura
franchista e costituire un centro internazionale in Spagna non
era possibile! Il CIEMEN venne - così - costituito a
Milano e subito attivò un segretario operativo ad Aosta,
trovando nelle Valli Occitane, in Friuli, in Sardegna e nel Sud
Tirolo le energie umane per iniziare un positivo lavoro, avendo
per Presidente Sergio Salvi, come aderenti personaggi del peso di
padre Davide Maria Turoldo, Alexander Langer e come spazio
operativo tutte le nazionalità dello Stato italiano; ma
mai - in 25 anni di attività - erano giunti al CIEMEN
segnali di interesse per la Catalogna e per il "modello catalano"
come quelli espressi in quest'ultimo periodo.
Modello per modello va, poi ricordato un episodio: negli anni 80
un gruppo di sindacalisti nazionalitari provenienti dallo Stato
italiano venne ricevuto, a Barcelona, da Jordi Pujol, il quale
s'intrattenne con il portavoce valdostano che gli si era rivolto
in lingua catalana; Pujol raccontò alcuni episodi della
sua vicenda politica, ricordando un personaggio di cui aveva
conservato ricordo e grande stima, un personaggio conosciuto
negli ambienti internazionali federalisti e che - disse - andava
considerato un "modello" per la lucidità con cui sapeva
porre nella dimensione europea la problematica dei popoli senza
Stato, Severino Caveri, leader dell'UV e del governo autonomo
valdostano, negli anni 50 e 60, zio dell'attuale deputato
valdostano al Parlamento Italiano, Luciano Caveri.
Il Movimento Nazionalitario di cui si è qui tracciata
una sintesi storica, non esiste più, frantumato dagli
eventi, incapace di adattarsi ai mutamenti della storia; buona
parte dei partiti politici che hanno contribuito a scriverla,
sono ormai appiattiti su posizioni di mera gestione del potere
locale; talora addirittura hanno stretto alleanze politiche ed
elettorali con partiti italiani, scelta questa che per lungo
tempo fu contestata alla SVP la quale, pragmaticamente, restava
incollata alla DC. Luciano Caveri è diventato Parlamentare
Europeo grazie all'accordo che l'UV ha sottoscritto con il
partito italiano dei Democratici, parte integrante
dell'aggregazione di centrosinistra.
Nessuno in Italia parla più di autodeterminazione e alcune
battaglie politiche interne alla Valle d'Aosta e al Sud Tirolo,
hanno messo in mostra una pericolosa involuzione culturale: per
non perdere credibilità di fronte ai loro elettori che per
50 anni hanno sposato tesi quasi indipendentiste ed ora si
ritrovano a dover votare partiti etnici legati più che mai
ai partiti italiani, l'UV e la SVP sono scivolate da posizione di
affermazione dei diritti delle nazionalità ad espressioni
di nazionalismo revanscista e a modalità di esercizio del
potere locale che hanno saldamente in mano, tanto discutibili da
far parlare di situazioni di "regime".
Dopo che una legge è stata finalmente approvata dallo
Stato, anche la tutela linguistica non è più
argomento di lotta, neppure a fronte di un nuovo ritardo, quello
relativo alle norme di applicazione della stessa.
All'interno dell'Unione Europea sembra che gli Stati europei
riescano a trovare un equilibrio dei loro interessi economici e
politici e, soprattutto, sembra che la scelta europea sia
ineluttabile e lo sia nei modi e nei tempi voluti dagli
Stati.
Il dibattito federalista è ridotto alla burletta di uno
scontro elettorale tra due poli contrapposti, il centro - destra
ed il Centrosinistra, nessuno dei quali è davvero
federalista, anche se entrambi si proclamano tali.
Le forze politiche nazionalitarie più stabili sono
impegnate più che a costruire il futuro, nel tentativo di
conservare quanto più possibile delle conquiste del
passato: gli stessi Statuti speciali di autonomia sono messi in
discussione e rischiano di essere ridimensionati. Sembra, quindi,
ci si trovi di fronte alla necessità di affrontare una
nuova battaglia di retroguardia.
L'analisi storica dovrebbe comunque dimostrarci, senza fatica,
che le nazionalità si troveranno ad essere europee nei
modi e nei tempi decisi dagli Stati, così come a suo tempo
si trovarono ad essere italiane nei modi e nei tempi decisi dallo
Stato. La Carta dei Diritti europei sancisce la libertà di
tutti ed i diritti linguistici, come la Costituzione e l'articolo
6 della Costituzione italiana, inapplicato per oltre 50 anni,
sanciva libertà e diritti.
Urge una riflessione culturale: ripensare l'identità,
anche alla luce dei fenomeni migratori; ripensare ai diritti
linguistici, anche alla luce della realtà della
globalizzazione; ripensare alla storia alla luce degli errori del
Movimento Nazionalitario.
Nessuno Stato, nessuna Europa potranno - tuttavia - rappresentare
una prospettiva davvero credibile per le nazionalità se
non sanciranno e riconosceranno un diritto fondamentale: il
diritto all'autodeterminazione che corrisponde ad una prospettiva
così semplificabile: le nazionalità possono restare
all'interno di Stati se possibile, all'interno dell'Europa se
possibile, ma devono poterne restare all'esterno se necessario,
senza che ciò rappresenti un reato; l'Europa dei Popoli
non può esser costruita soltanto da alcuni popoli che si
son dati, spesso con la forza, uno Stato, ma deve - se necessario
- esser costruita da tutti i popoli, lasciando agli stessi la
scelta se partecipare a costruirla.
Il problema dell'identità, dell'appartenenza, della
singolarità e del divenire collettivo sono oggetto di
nuova attenzione da parte degli intellettuali: sulla scia di
Guattari, lo studioso francese Philippe Zarifian ha pubblicato,
anche in lingua italiana, il saggio "L'emergere di un popolo
mondo", un popolo frutto del "congiungersi di linee d'incontro
tra culture differenti" che non assimila una cultura nell'altra,
non determina la fusione delle culture, ma l'identificazione di
prossimità e convergenze nell'affrontare il divenire
comune.
Da queste considerazioni prende avvio il lavoro politico del
Nuovo, costituendo, Movimento Nazionalitario.
Claudio Magnabosco, Via Parigi 80, 11100 Aosta, e-mail: claudio.magnabosco@tiscali.it, cell. 340.7718024