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L'attacco israeliano della mattina di lunedì 30 ottobre contro i campi profughi di Aida ed Azza, come contro le città di Beit Jala, Betlemme, Beit Sahour e contro il villaggio di Al-Khader è costato la vita a tre soldati. Per quattro ore gli israeliani, con carri armati, elicotteri e lanciagranate, hanno distrutto numerose case, seminando il panico nella popolazione palestinese. Il 1° novembre le istituzioni palestinesi hanno dichiarato uno sciopero di protesta e sono cominciati i funerali delle otto vittime dei due giorni precedenti.
Le vittime continuano
ad aumentare
Secondo le indicazioni delle
organizzazioni palestinesi per i diritti umani, dall'inizio dell'intifada
di Al-Aksa gli attacchi dell'esercito e dei coloni israeliani hanno ucciso
150 Palestinesi. Dall'altra parte di registrano undici morti israeliani.
Da parte palestinese, i feriti sono già cinquemila. Fra i palestinesi
uccisi, il 13,8% erano minori di 15 anni; il 20,3% erano tra i 16-18enni.
Il 70% dei colpi israeliani hanno colpito le vittime nella parte superiore
del corpo, il 26% la testa o la nuca. L'esercito israeliano, contro i civili
palestinesi che lanciano sassi e bottiglie molotov, non usa solo i fucili,
ma anche missili anticarro, missili Tow, elicotteri Apache e Cobra e carri
armati Merkava. La parte israeliana pare accettare consapevolmente il rischio
di un'escalation degli scontri. L'impiego sproporzionato d'armamenti è
il segno di una massiccia violazione delle Convenzioni di Ginevra. Tutte
le principali città e i campi profughi della Cisgiordania e della
striscia di Gaza sono stati attaccati dall'esercito israeliano.
Il 1° novembre le truppe d'Israele hanno devastato i villaggi di Silt al-Thaher e di Al-Fandoukourniyeh nella regione di Jenin, che nei mesi scorsi era stata sottoposta al fuoco continuo dell'esercito e dei coloni. Non solo sono stati distrutte le case e le tende dei profughi, ma l'intera popolazione è stata deportata con autobus verso l'insediamento di Hormish. Gli attacchi dei coloni israeliani ai villaggi, in tutte le parti della Cisgiordania, significano quotidiane sparatorie contro gli abitanti e la devastazione delle loro proprietà. I contadini palestinesi sono stati bersagliati anche durante il raccolto delle olive, ed il raccolto è stato distrutto. A Jenin, Nablus, Betlemme, Hebron, Khan Younis e Rafah i coloni hanno attaccato scuole ed asili. Vi sono stati anche dei sequestri.
Una mediazione internazionale,
unica via per la pace
Indipendentemente dagli
sviluppi dell'immediato futuro, se cioè l'allargamento dell'insurrezione
palestinese porterà ad una guerra aperta con Israele o ad un successo
dell'ultimo accordo di tregua Rabin-Arafat, la dirigenza militare e politica
d'Israele ha riconosciuto l'impossibilità di risolvere con mezzi
militari sia la crisi attuale, sia lo storico conflitto araboisraeliano.
La soluzione deve essere raggiunta politicamente. D'altra parte il popolo
palestinese e la sua dirigenza hanno reso chiara la propria volontà
di una soluzione politica, sulla base del diritto internazionale e delle
risoluzioni dell'ONU. La risoluzione ONU 194 pretende il rimpatrio dei
profughi palestinesi, od il loro indennizzo. Le risoluzioni 242 e 338 richiedono
il ritiro degli Israeliani dai territori occupati nel 1967. Inoltre la
risoluzione 181 richiede un'amministrazione internazionale per Gerusalemme.
Tutte queste risoluzioni implicano il coinvolgimento attivo della comunità
internazionele, ed in primo luogo delle Nazioni Unite. L'Associazione per
i Popoli Minacciati sostiene l'appello delle organizzazioni palestinesi
per i diritti umani alla comunità internazionale per una soluzione
della questione palestinese che rispetti gli standard del diritto internazionale
e la democrazia. La parte palestinese ha già chiarito di voler rifiutare
le proposte basate solo sulla potenza degli Stati Uniti e di Israele.
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