In: Home > DOSSIER > Dighe e genocidio. Il caso Vajont: una calamità artificiale
Lingue: ITA | DEU
Di Stefano Barbacetto
DIGA FUNESTA,
PER NEGLIGENZA E SETE D'ORO
ALTRUI
PERSI LA VITA, CHE INSEPOLTA RESTA
Lapide presso la diga in memoria di uno dei dispersi del
Vajont
La diga del Vajont vista da Longarone. Foto, Mauro di Vieste 2013.
Una valle alpina
Da occhi diversi la stessa realtà può essere
osservata con intenzioni diverse. La valle del Vajont, come si
presentava intorno al 1950, ne costituisce un esempio.
Agli occhi dei dirigenti e dei tecnici della potente S.A.D.E.,
società monopolista dell'elettricità nell'Italia
nord-orientale, essa costituiva un colossale affare. Si trattava
di una stretta, ripida vallata delle Prealpi Carniche, ricca di
acque e tributaria della valle del fiume Piave, da cui la
separavano un forte dislivello ed una strettissima gola; in
posizione strategica nell'ambito del progetto, allora in fase di
realizzazione, della captazione di tutte le acque del bacino a
fini idroelettrici. La posizione ideale per realizzare una
colossale diga, fra le più grandi realizzate sino ad
allora, e per produrre un'enorme quantità di
energia.
Nulla pareva ostacolare questo ambizioso disegno. Non la
politica, favorevole alla produzione idroelettrica, necessaria
alla nascente industria nelle zone di pianura (e del resto assai
"sensibile" alle richieste dei potenti azionisti della S.A.D.E.,
ex-fascisti passati armi e bagagli al nuovo potere della
Democrazia Cristiana); non la geologia, secondo quanto andavano
sostenendo i reputati "luminari" sul libro paga della
società. L'unico, trascurabile ostacolo era rappresentato
dagli abitanti della valle che sarebbe stata sommersa una volta
costruita la diga. Proviamo ora a considerare gli stessi luoghi
da un altro punto di vista. Erto e Casso, due villaggi a distanza
di pochi chilometri, riuniti nello stesso Comune, entrambi
arroccati sul ripido pendio a solatio: i vicoli stretti, coi muri
di sasso ed i tetti di una particolare pietra locale, che si
trova già sfaldata nella misura giusta per sostituire le
tegole: genere costoso, e quindi "di lusso".
Due paesi accomunati, oltre che dalla vicinanza, anche
dall'isolamento, dalle stesse, magre risorse e dal medesimo stile
di vita, grazie al quale, a prezzo di notevoli stenti, gli
abitanti potevano sostentarsi. Il versante destro della vallata,
magro e sassoso, benché esposto a mezzogiorno, non
permetteva certo una produzione agricola sufficiente. Maggiori
erano le possibilità offerte dal versante sinistro, meno
ripido e più fertile, benché in ombra nei mesi
invernali. La distanza ed il dislivello da superare, tuttavia,
non permettevano di recarsi agevolmente da un lato all'altro
della valle più volte al giorno, per le operazioni
necessarie all'agricoltura ed alla cura del bestiame. Da tempo
immemorabile, quindi, le famiglie ertocassane disponevano
generalmente di due abitazioni, costruite a prezzo di grandi
sacrifici: una invernale, negli abitati sul versante soleggiato,
ed una estiva nel lato più fertile della valle, ove
l'intera famiglia si trasferiva per vari mesi con i propri
animali. Non si trattava di un lusso, o di una forma di
"villeggiatura", ma di una necessità, essenziale per la
sopravvivenza in quei luoghi.
Ma neanche questo bastava: per centinaia e centinaia di
ertocassani, uomini e donne, il prodotto dei campi e
dell'allevamento non bastava che per pochi mesi. Per integrare
questo magro reddito, non restava che la via, praticata da
secoli, dell'emigrazione. La specialità degli ertocassani,
sebbene vi fossero anche emigranti di altro mestiere, era quella
del commercio ambulante. Mestoli, piatti, ed altri utensili in
legno, e le tipiche scarpe di pezza, prodotti in casa con le
povere risorse locali, costituivano i generi di esportazione,
venduti al minuto nelle regioni vicine, in tutto il Nord Italia
ed anche all'estero, da uomini e soprattutto da donne che, a
prezzo di incredibili stenti, si portavano a venderli,
generalmente a piedi, di mercato in mercato e di paese in paese;
e ciò per generazioni. Tanto più attaccati al
proprio piccolo mondo quanto più lontano erano costretti
ad emigrare, i valligiani del Vajont portavano per i luoghi natii
una fortissima affezione.
Ciò che divideva Ertani e Cassani, oltre al "normale"
spirito campanilistico caratteristico di tutte le zone montane,
erano la lingua e la storia. Gli Ertani parlavano un linguaggio
proprio, ricco di suoni e di vocaboli peculiari, che ha suscitato
un notevole interesse tra gli studiosi di linguistica, sollevando
interrogativi storici e lunghe discussioni per la somiglianza col
Ladino delle Dolomiti, piuttosto che con il Ladino del Friuli. A
Casso, invece, l'ultimo paese del Friuli prima del confine con il
Veneto, si parlava un dialetto veneto alpino. Questo fatto pareva
confermare l'idea degli Ertani di essere i primi abitanti della
valle: primato non solo di onore, che in altri tempi aveva
scatenato lunghissime liti, relative a concretissimi e vitali
interessi. Oggetto del contendere era la "comugna": la terra
collettiva inalienabile, aperta al pascolo ed al legnatico, che
qui, come in genere nelle zone alpine, costituiva gran parte del
territorio. Fin dai tempi della Repubblica di Venezia le due
comunità si erano scontrate per il possesso di questa
preziosa risorsa. Il fondo dei "Proveditori sopra beni communali"
presso l'Archivio di Stato di Venezia conserva tuttora, come chi
scrive ha potuto verificare, un'ingente documentazione su quelle
lunghissime liti. Base della sussistenza economica, e luogo
d'identificazione collettiva, le terre comuni di Erto e Casso
rimasero contese per secoli.
Vajont, la frana a forma di M sul monte Toc vista da Casso. Foto, Mauro di Vieste 2013.
Come si costruisce una catastrofe
E proprio dalle "comugne" cominciò la rovina. Con un
decreto (non esente da dubbi sotto il profilo giuridico), il
Commissario agli usi civici di Venezia, il magistrato cui
è affidata la tutela di simili terre, protette da un
particolare vincolo di inalienabilità anche dal vigente
diritto italiano, autorizzava la cessione di 88 ettari delle
"comugne" di Casso alla società S.A.D.E.. Si trattava
dell'area destinata alla costruzione della diga, e del primo
nucleo di terre destinate alla sommersione. Il decreto fu poi
confermato, in data 2 febbraio 1950, dall'autorizzazione del
Ministro per l'Agricoltura, il futuro presidente della Repubblica
Segni.
La storia degli anni seguenti è una storia di violenza e
di soprusi, di espropri di case e di terre a prezzi ridicoli, di
occupazioni di fatto realizzate dalla S.A.D.E. senza reazioni
delle autorità alle giuste proteste degli abitanti; di
autorità che "si fidano" delle relazioni di famosi geologi
(sul libro paga della S.A.D.E.: la scienza raramente è
neutrale), piuttosto che delle preoccupazioni degli abitanti,
convinti, e per la conoscenza dei luoghi, e per la memoria
storica di grandi frane avvenute nei secoli passati, che
l'immensa pressione delle acque del costruendo bacino avrebbe
potuto rendere instabili i fianchi della vallata. Indifferente
alle proteste, la S.A.D.E. continuò l'opera, aumentando
addirittura l'altezza della diga dai progettati 200 ad oltre 260
metri, moltiplicando così la capienza del bacino e la
pressione dell'acqua sui fianchi delle montagne. Le relazioni
preoccupate di altri geologi che avevano segnalato
l'instabilità dei versanti della valle, commissionate
anch'esse dalla S.A.D.E., furono accuratamente celate. Per
"controllare" ed eventualmente reprimere le proteste degli
ertocassani, che si erano organizzati in un Comitato per
difendere la propria valle ed il proprio futuro, fu stabilita ad
Erto una stazione dei Carabinieri.
Per comprendere meglio ciò che accadde va considerato che,
oltre agli ottimi rapporti con politici ed amministratori, la
S.A.D.E. poteva anche vantare il controllo del "Gazzettino", il
giornale più letto in Veneto e Friuli. In tutta la vicenda
la stampa, come del resto la politica e l'amministrazione, non
svolse certo un ruolo imparziale. Minimizzando i rischi
dell'opera, magnificando gli aspetti ingegneristici ed il
"progresso" che la diga avrebbe portato, diffamando
sistematicamente chi si opponeva con tutte le sue forze alla
realizzazione del progetto, anche i mezzi di comunicazione
contribuirono alla "costruzione della catastrofe".
Unica eccezione, il quotidiano comunista "Unità", che fin
dall'inizio prese le parti degli ertocassani. Non senza rischi:
la giornalista Tina Merlin, che dalle colonne di quel giornale
aveva denunciato il rischio di una colossale frana dai fianchi
del monte Toc, sulla sinistra della valle, fu denunciata per
"procurato allarme a mezzo stampa", e solo dopo un lungo processo
poté provare la propria "innocenza"! I segni premonitori
della catastrofe furono volutamente ignorati. Dai fianchi del
monte Toc, al momento delle prime prove d'invaso, si
staccò una notevole frana. I progettisti, in previsione di
un ulteriore grande smottamento costruirono un canale per
scolmare le acque del lago, che la frana stessa avrebbe potuto
dividere in due. Non passò per la testa a nessuno (almeno
a nessuno dei tecnici) che una frana di tali dimensioni avrebbe
potuto sollevare un'onda di piena nel lago, tale da mettere in
pericolo non solo il centro di Erto, ma anche i paesi a valle
della diga. I lavori nella valle del Vajont proseguirono senza
soste, anche quando, a seguito della nazionalizzazione degli
impianti idroelettrici, impianti e personale passarono dalla
S.A.D.E. al nuovo ente E.N.E.L.. Con ciò lo Stato italiano
entrò a pieno titolo fra i responsabili della sciagura:
non solo, come prima, per la compiacente mancata sorveglianza; ma
come responsabile diretto della catastrofe.
I boati e le scosse, avvertiti dai valligiani sempre più
frequentemente, furono attribuiti dalle autorità a
"fenomeni di origine sismica". La notte del 9 ottobre 1963, prima
ancora che fossero ultimate le prove d'invaso, il monte Toc,
minato dalle infiltrazioni delle acque del bacino, franò
nel lago. In pochi istanti una massa di rocce di oltre trecento
milioni di metri cubi, vasta oltre duecento ettari ed alta
più di duecento metri, scivolò per un fronte lungo
chilometri sugli strati rocciosi sottostanti, e trascinò
con sé boschi, pascoli, case, stalle, persone ed animali;
dividendo in due il lago, e seppellendo le case presso la diga
con tutti i loro abitanti.
Cacciata a forza dal lago, l'acqua del bacino si sollevò
in due mostruose ondate. La prima inghiottì in pochi
secondi la parte bassa di Erto, le borgate di Spesse e San
Martino, e numerose case sparse, con tutti i loro abitanti. La
seconda lambì il centro di Casso, scavalcò la diga
e precipitò, centinaia di metri più in basso, sulla
valle del Piave. In cinque minuti il florido centro di Longarone,
e le frazioni di Pirago, Codissago, Dogna e Provagna furono
sepolti da un muro d'acqua alto più di settanta metri. In
pochi istanti di quei paesi non rimase pietra su pietra. La diga,
risparmiata dalla frana, rimase intatta, come si può
vedere tuttora. Le vittime della sciagura, sommando morti e
dispersi dei vari Comuni interessati (in primo luogo Longarone,
Erto e Casso, Castellavazzo), furono più di 2.100 (le
stime, in ogni caso, variano di qualche decina: i cadaveri si
trovavano dispersi da Termine di Cadore, vari chilometri a monte
di Longarone, fino al mare Adriatico).
Dopo il genocidio, la deportazione
Il calvario dei sopravvissuti non finì con il disastro. La
stampa si affannò, anche se con magri risultati, ad
attribuire la catastrofe ad un "imprevedibile evento naturale".
Non fu dello stesso parere la magistratura. Tuttavia il lungo
processo penale ai responsabili del disastro (svoltosi in primo
grado all'Aquila, perché si ritenne che i superstiti
potessero "turbare" il giudizio nella naturale sede di Belluno)
si concluse con una sola condanna a dieci anni, di cui uno solo
fu realmente scontato. Occorsero lunghissimi anni di battaglie
giudiziarie perché i sopravvissuti, gli emigranti che
avevano perso tutto, ed i parenti delle vittime ottenessero un
risarcimento. Molti, esasperati dalla lunga attesa, accettarono
svantaggiose transazioni.
Mentre la ricostruzione di Longarone (per la verità dopo
un'iniziale stagione di proteste dei sopravvissuti, esasperati
dalla lentezza degli interventi) procedette in modo relativamente
spedito (oggi Longarone è una cittadina con grandi, forse
sovradimensionate, infrastrutture; anche se quella che la abita
è in gran parte altra gente, giunta dopo la sciagura), il
destino di Ertani e Cassani, anche dopo il disastro contro cui
molti di essi avevano lottato con tutte le proprie forze, fu
assai difficile. Ertani e Cassani furono sgomberati a forza dalle
loro case l'11 ottobre 1963, due giorni dopo la catastrofe. Le
stesse autorità che avevano ignorato i segnali di allarme
prima della sciagura, ora evacuavano la popolazione a disastro
avvenuto.
A sostenere l'evacuazione, stranamente, le autorità
comunali. Atteggiamento sospetto, secondo molti abitanti. La
S.A.D.E., ora divenuta E.N.E.L., cercava ancora di sfruttare il
bacino, a costo di allontanare la popolazione. Alcuni abitanti
tornarono clandestinamente al paese, a recuperare i propri morti,
nonostante alle loro case, con beffarda ironia, fosse stata
"tagliata" la corrente elettrica. Il disegno del "trasferimento",
tuttavia, andò avanti. Per gli sfollati fu costruito un
nuovo paese nella pianura friulana, battezzato Vajont. Molti,
specialmente coloro i quali avevano perso la casa o il lavoro,
accettarono di abitarvi. Un secondo gruppo di famiglie fu
stanziato nella "Nuova Erto" presso Ponte nelle Alpi. Altri
emigrarono altrove (qualcuno anche in Provincia di
Bolzano).
Sul trasferimento di queste persone si giocarono molte
speculazioni. Fra il personale comunale vi fu chi fece incetta
delle licenze commerciali dei sinistrati, che secondo una
normativa accuratamente tenuta nascosta agli interessati, si
potevano trasferire in altre località. I fondi per la
ricostruzione, e le provvidenze economiche per chi nel disastro
aveva perso anche il lavoro, furono così in buona parte
dirottati in una zona diversa da quella sinistrata. Il nuovo
comune di Vajont, tuttavia, fu dotato di un territorio
piccolissimo. Le fabbriche ed i posti di lavoro promessi agli
sfollati furono così installati in territorio di altre
amministrazioni, sotto il controllo altrui. Per molti abitanti di
Vajont non restò che un posto in fonderia, malsano e
malpagato.
La comunità fu così smembrata. Un terzo gruppo
decise di rimanere ad Erto, battendosi con successo per lo
svuotamento del lago. Dopo ben dieci anni costoro ebbero
riconosciuto il diritto ad un'abitazione in zona sicura, a monte
del vecchio centro danneggiato dalle acque del bacino. A distanza
di trentasei anni dalla frana, in una valle dalla morfologia
sconvolta, anche Erto è rinato, grazie ad un pugno di
"irriducibili" che non vollero abbandonare la propria terra.
Casso, invece, il cui centro storico fu risparmiato dalla
sciagura, è oggi un paese fantasma: quasi tutte le sue
famiglie accettarono il trasferimento. Nel disastro i Cassani non
persero le case, ma il territorio. I loro beni migliori, le loro
terre collettive e private, erano sulle pendici del Toc. La
perdita dei beni distrusse quella comunità.
Stefano Barbacetto. Letteratura: Tina Merlin, Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe: il caso Vajont, Cierre 1997
Vedi anche in gfbv.it:
www.gfbv.it/2c-stampa/03-2/030808it.html
| www.gfbv.it/2c-stampa/03-1/030327it.html
| www.gfbv.it/2c-stampa/01-3/011203it.html
| www.gfbv.it/2c-stampa/03-2/030527it.html
| www.gfbv.it/3dossier/h2o/dighe.html
in www: it.wikipedia.org/wiki/Disastro_del_Vajont
| www.vajont.info |
www.ecn.org/molino/collettivo/informes/pppdighe.htm |
www.bibmondo.it/libri/www-h2o.html