Questo libro è dedicato alla memoria di Helge Kleivan (1924-1983), fondatore dell'IWGIA, difensore serio ed appassionato di tutti i popoli indigeni
Adivasi è il termine hindi che indica collettivamente i
popoli aborigeni dell'India. Già nei testi sacri per
eccellenza, i Veda, si parla di popoli indigeni esistenti nel
sub-continente indiano prima dell'arrivo degli Arya (i
progenitori degli attuali Indiani).
Nel corso dei secoli gli Arya vennero a contatto e
presumibilmente si scontrarono con queste etnie non-arie, i cui
discendenti sono gli attuali Adivasi. Secondo un criterio
linguistico questo eterogeneo insieme di popoli viene diviso in 4
gruppi: dravidico, munda, mon-khmer e tibeto-birmano.
I popoli indigeni dell'India sono circa 250 (ma la Costituzione
ne riconosce solo 212, che vengono ufficialmente definiti
"tribù catalogate") ed abitano in prevalenza negli stati
centrali ed orientali della federazione. Raggiungono
complessivamente i 60.000.000: alcuni popoli contano poche
migliaia di persone, mentre altri arrivano a qualche milione.
Discriminati dalla maggioranza hindu, che ha usurpato le loro
terre, vivono da sempre ai margini della società.
Negli anni subito dopo l'indipendenza (15 agosto 1947) si possono
contare ben 140 popoli indigeni, distribuiti su tutto il
territorio, dall'Himalaya all'estremo sud. Le buone intenzioni
del governo sono testimoniate dal fatto che Nehru, Primo
Ministro, presenta un programma che riguarda lo "sviluppo dei
popoli tribali" . Questo programma, che si basa sulle teorie
dell'antropologo inglese Verrier Elwin, prevede il minor
intervento esterno possibile. Gli Adivasi devono esser lasciati
liberi di evolversi secondo la loro natura; gli operatori sociali
e gli attivisti impiegati nei programmi devono appartenere al
popolo in cui operavano; è previsto uno scrupoloso
rispetto dei loro diritti territoriali.
Nonostante queste buone intenzioni e gli stanziamenti fatti, gli
interventi di vario tipo si rivelano fallimentari.
Come conseguenza si rafforza una coscienza politica che si
concretizza nella fondazione dello Jharkhand, il movimento
politico "per la costituzione dello stato delle foreste". Inizia
così la lotta che prevede appunto la costituzione di uno
stato tribale all'interno della federazione indiana. La nuova
entità territoriale nel nord-est del paese e dovrebbe
comprendere parti di 4 stati (Bengala, Orissa, Madhya Pradesh e
Uttar Pradesh).
Molto attivo negli anni Quaranta e Cinquanta, lo Jharkhand inizia
un lento declino nel 1963, quando si allea col Partito del
Congresso. Il declino prosegue nei decenni successivi: il seguito
viene meno, perchè molte aspettative degli indigeni sono
state disattese. Tuttavia lo Jharkhand è l'unico movimento
che esprime leaders indigeni rappresentativi e promuove una forte
solidarietà inter-tribale.
A questo fanno seguito altri movimenti, in genere meno
strutturati, per la difesa della cultura e dell'ambiente.
Spiccano in particolare quelli che si oppongono alla costruzione
di una diga sul fiume Narmada, un progetto faraonico dall'impatto
ambientale devastante, o quelli che difendono i boschi del fiume
Godavari. Nel sud è molto attivo il movimento Appiko, che
si batte per la difesa delle foreste e per il loro uso
razionale.
Negli ultimi anni si assiste ad una riorganizzazione radicale dei
movimenti più specificamente politici. Nel 1993, al terzo
congresso dell'Indian Council of Indigenous and Tribal Peoples,
viene riaffermato l'obiettivo di uno stato autonomo. Negli ultimi
tre anni l'attenzione viene concentrata sulla lotta per il
riconoscimento delle lingue tribali e sulle opportunità
offerte dal Decennio Internazionale dei Popoli Indigeni.
La commissione governativa presieduta da Dileepsingh Bhuriya,
alla quale partecipano anche i parlamentari tribali, presenta nel
gennaio 1995 un rapporto che propone importanti novità per
gli Adivasi, fra cui l'autonomia amministrativa dei villaggi e
l'accesso degli indigeni alle risorse naturali. Ma i vari stati
della federazione rifiutano le raccomandazioni del Rapporto
Bhuriya, e l'imponente protesta organizzata dagli aborigeni nel
febbraio 1996, accompagnata da una lettera al Primo Ministro Rao,
segna l'inizio di una nuova stagione di lotte.
Giovanna Fuggetta
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
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l'Inde, Arthaud, Paris 1981.
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INDIRIZZI UTILI
INDIAN COUNCIL OF INDIGENOUS AND TRIBAL PEOPLES
14 Jangpura-B, Mathura Road
New Delhi 110014, India
tel. +91-11-4619821, fax +91-11-4623681
INDIENHILFE
Luitpoldstraße 20
D-8036 Herrsching, Deutschland
tel. +49-8132-1231
VANYAJATI [rivista]
Bharatiya Adimjati Sevak Sangh
New Line Road, Jhandewalan, New Delhi 55, India
tel. +91-7525492
I Giapponesi si considerano abitanti di uno dei paesi
più omogenei del mondo e forse, in linea di massima,
questa convinzione è corretta. In Giappone esistono
però importanti minoranze etniche di cui si parla
raramente e che sono state sempre più o meno discriminate.
Fra queste la più singolare è quella degli Ainu
(uomini), che oggi vivono nell'Hokkaido, l'isola più
settentrionale dell'arcipelago nipponico. Questo popolo viene
generalmente considerato di ceppo europoide, anche se mostra
delle affinità con certi popoli della Siberia. Attualmente
gli Ainu propriamente detti sono circa 15.000, ma le stime
variano fino a 50.000 se si tiene conto dei sanguemisto. Un tempo
erano molto più numerosi e popolavano anche quei vasti
territori ad est e a nord dell'arcipelago: la parte
settentrionale dell'isola di Sakhalin ed alcune delle isole
Curili. Al tempo stesso vivevano nelle regioni nordorientali
dello Honshu (la grande isola centrale dell'arcipelago), da dove
i Giapponesi li cacciarono costringendoli a raccogliersi nei
luoghi più remoti del nord, dove oggi vivono gli ultimi
discendenti.
Nel secolo undicesimo gli ultimi gruppi spariti attraversarono lo
stretto di Tsugaru e si stabilirono definitivamente
nell'Hokkaido. Dalla metà del 1400 in poi i contatti fra
Ainu e Giapponesi furono abbastanza frequenti, ma degenerarono in
fretta: il secolo sedicesimo e diciassettesimo furono
caratterizzati da rivolte e scontri intervallati da lunghi
periodi di pace incerta.
Nel 1868, con la Restaurazione Meiji, l'Hokkaido divenne parte
integrante del Giappone. Iniziò così un processo di
colonizzazione che trasformò notevolmente la cultura ainu.
I Giapponesi, in continuo aumento demografico (erano già
oltre 40.000.000), furono attratti da quelle terre incontaminate,
ricche di foreste, pascoli e fiumi. Al tempo stesso il Giappone
doveva fronteggiare il pericolo rappresentato dall'imperialismo
russo. Il governo istituì quindi un Ente per lo sviluppo
dell'Hokkaido, che affrontò il problema della minoranza
ainu nella maniera peggiore. Urgeva nipponizzare velocemente la
grande isola del nord. Fu istituito un capoluogo amministrativo,
Sapporo; si costruirono ponti e ferrovie, si disboscarono le
pianure, fu dato il via allo sfruttamento delle risorse naturali.
Gli indigeni si videro così privati della terra, dei
fiumi, dei boschi. Nel 1872 il governo emanò nuove misure
per la trasformazione dell'isola: gli Ainu vennero censiti fra i
Giapponesi, e nei documenti erano registrati come Kyodojin
(aborigeni).
Verso la fine del secolo iniziò il trasferimento coatto
degli Ainu delle Curili nella sperduta isola di Sakhalin.
Sebbene il governo avesse dichiarato di voler proteggere gli Ainu
e la loro cultura ponendoli sotto la protezione imperiale, in
realtà li incoraggiò in ogni modo a rinnegare la
propria identità culturale. Nel 1899 un'apposita legge
regolò definitivamente i rapporti fra Ainu e Giapponesi: a
ciascuna famiglia vennero assegnati
un pezzo di terra (5 ettari), sementi ed attrezzi per
l'agricoltura, e gli indigeni furono così costretti a
diventare contadini. Il vecchio sistema di vita basato su caccia,
pesca e raccolta, che aveva una stretto rapporto con la
religione, iniziò rapidamente a declinare.
Agli inizi del Novecento gli Ainu vivevano in condizioni
spaventose: i fieri indigeni dell'Hokkaido conducevano una vita
seminomade, moltissimi erano affetti da tubercolosi, sifilide,
tracoma, ed altrettanti erano alcoolizzati. Anche la lingua ainu
era ovviamente contrastata: i bambini venivano educati in
giapponese in un sistema di scuole separate che era stato creato
nel 1901. Questo particolare sistema scolastico era regolamentato
in modo rigido e chiaramente discriminatorio: i bambini ainu ed i
bambini giapponesi studiavano separatamente; lo studio della
letteratura nipponica era considerato prioritario; i bambini ainu
venivano incoraggiati ad abbandonare le proprie tradizioni, che
erano derise e considerate inferiori, per abbracciare quelle
"superiori" dei Giapponesi; venivano inculcati i concetti di
"obbedienza assoluta all'Imperatore e amore per la nazione".
L'educazione scolastica doveva favorire così un graduale
processo di assimilazione.
Il sistema delle scuole separate restò in vigore fino al
1937. In quegli anni la maggior parte degli Ainu viveva in
villaggi-ghetto della valle di Saru ed in altri sparsi
nell'isola.
Molti erano divenuti agricoltori, altri mandriani o boscaioli.
Qualcuno, più fortunato, era riuscito a trovare lavoro in
fabbrica come operaio. Nei villaggi dove vivevano anche dei
Giapponesi, questi avevano il controllo di ogni attività,
e gli ainu rimanevano cittadini di seconda classe. Nel 1930, per
proseguire la sua politica assimilazionista, il governo decise di
fondare a Sapporo un'associazione che avrebbe studiato i problemi
degli Ainu. I responsabili del nuovo organismo si segnalarono
comunque per il servizio sociale e l'assistenza dei bisognosi.
Sedici anni dopo (1946), il governo prefetturale
riorganizzò l'istituzione e la chiamò Hokkaido Ainu
Kyokai (in inglese Ainu Association of Hokkaido, di seguito
indicata con la sigla AAH).
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale iniziò lo
sfruttamento degli Ainu per fini turistici: furono perciò
costruiti dei villaggi, organizzati secondo l'antico sistema del
kotan (una decina di famiglie riunite), per poter mostrare ai
turisti americani e giapponesi come viveva "un popolo
incontaminato rimasto fermo all'alba della storia". Gli Ainu
divennero così personaggi da etnoshow, clowns del passato
che dovevano dare un tocco "etnico" alle foto da mostrare agli
amici ed ai colleghi di lavoro. A lungo andare, però,
anche il turismo contribuì a far crescere l'interesse per
gli aborigeni sia in Giappone che all'estero.
Agli inizi degli anni Settanta molti antropologi ed etnologi
giapponesi cominciarono a studiare con passione i costumi, la
cultura e la lingua degli antichi abitanti dell'Hokkaido. Gli
Ainu passarono così da una sorta di vergogna per le
proprie tradizioni ad una riscoperta orgogliosa e polemica. Nel
1969 fu celebrata la prima cerimonia commemorativa in onore di
Shakushain, il mitico eroe della resistenza antinipponica vissuto
nel diciassettesimo secolo.
Tre anni dopo fu fondato il villaggio-museo di Nibutani, gestito
da Kayano Shigeru, che era anche uno dei responsabili dell'AAH.
Il 1973 vide la nascita del primo giornale ainu, il foglio
d'opinione Anutari Ainu (Siamo esseri umani), che mirava ad
attirare l'attenzione dell'opinione pubblica sui problemi della
minoranza. Il mensile, che tre anni dopo fu costretto a cessare
le pubblicazioni, aveva cercato anche di aprire un dibattito fra
i giovani ainu sulla riscoperta dell'identità
etnica.
In quegli anni nacque anche la Yay Yukar Ainu Minzoku Gakkai, la
prima Società Etnologica Ainu, alla quale aderirono molti
studiosi giapponesi, e nel 1973 fu organizzato un grande meeting
nazionale ainu al quale parteciparono oltre 400 persone che
discussero a lungo i problemi della minoranza indigena.
Al tempo stesso cominciarono a diffondersi in varie parti
dell'isola dei centri di autocoscienza etnica. Si cercò
anche di inserire la lingua ainu in un sistema educativo
pubblico: a Nibutani il professor Shigeru fondò infatti un
centro per l'insegnamento dell'antica lingua isolana. L'inizio
incontrò però l'opposizione del Ministero
dell'Educazione, che si rifiutò di sostenerla.
La prima metà degli anni Settanta fu caratterizzata anche
dalla nascita di alcuni movimenti radicali che volevano colpire i
simboli del colonialismo nipponico. Nell'agosto del 1972 alcuni
giovani attivisti ainu inscenarono una violenta manifestazione
davanti all'Università di Sapporo per protestare contro la
Società Antropologica Giapponese: non volevano più
essere oggetto di dotte misurazioni antropometriche. Fu anche
lanciata una bomba artigianale che danneggiò seriamente il
dipartimento universitario. Negli stessi anni ebbero luogo alcuni
attentati - bombe contro uffici e monumenti, l'aggressione del
sindaco di Shiraoi - ad opera di giovani intellettuali giapponesi
che militavano nell'estrema sinistra e simpatizzavano per la
causa ainu. L'opinione pubblica ne fu profondamente scossa: nella
paura che stesse per nascere un vero e proprio movimento
autonomista, i circoli di autocoscienza etnica cominciarono ad
essere guardati con sospetto e sorvegliati dalla polizia.
Proprio perché le legittime ma democratiche rivendicazioni
indigene non fossero confuse col terrorismo, nella città
di Asahigawa nacque un'altra associazione, la Ainu Kyokai, con lo
scopo di riorganizzare la resistenza. Il nuovo organismo, gestito
direttamente da ainu, nacque anche in contrapposizione all'Utari
Kyokai (AAH) di Sapporo, che veniva accusata di essere manovrata
dal governo.
Bisogna comunque riconoscere che nell'ultimo decennio l'AAH ha
svolto un'intensa attività internazionale. Nel 1988 ha
presentato una proposta di legge chiamata Nuova legge per gli
Ainu, che ha trovato il sostegno dell'altra associazione ainu con
sede ad Asahigawa. La Terza Conferenza dei Paesi del Nord
tenutasi nel settembre 1990 ad Anchorage (Alaska) ha visto la
presenza di una delegazione proveniente dall'Hokkaido. In
quell'occasione sono stati conclusi importanti accordi con
Valentin Fyodorov, governatore delle isole Sakhalin,
affinchè le famiglie che vi avevano vissuto per
generazioni potessero tornarci.
Nel 1992 Giichi Nomura, presidente dell'AAH, è stato
invitato a tenere un discorso inaugurale all'Assemblea delle
Nazioni Unite. A Ginevra, dove si tiene il convegno annuale
dell'ONU sui popoli indigeni, gli indigeni dell'Hokkaido sono
ormai presenti con regolarità. Nonostante l'accresciuto
rilievo internazionale degli Ainu, il Giappone rifiuta ancora di
riconoscerli come popolo indigeno. Così continuano la
battaglia diplomatica per ottenere questo riconoscimento e per
far approvare la proposta di legge presentata nel 1988. A questo
scopo prosegue un'intensa attività politica, che fra
l'altro cerca di sfruttare al massimo le opportunità
offerte dal Decennio Internazionale dei Popoli Indigeni
(1995-2004).
L'8 maggio 1997 la Dieta ha approvato a larghissima maggioranza
una nuova legge relativa ai diritti degli Ainu. A ben vedere,
però, la legge presenta diversi difetti sostanziali.
Quello più manifesto è che non parla di diritti ma
si concentra sui temi della tradizione e della cultura ainu.
Presso i diretti interessati le reazioni sono state svariate.
Jiro Sasamura, presidente dell'Ainu Association of Hokkaido, si
è detto soddisfatto della legge, che secondo lui
rappresenta comunque un progresso importante. Al tempo stesso,
però, ha lamentato la mancata istituzione di un fondo che
garantisca l'autosufficienza del popolo indigeno.
Ma il punto centrale - il riconoscimento degli Ainu come popolo
indigeno - continua ad essere eluso.
Silvio Calzolari
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA S. Kodama, Ainu. Historical and
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1970.
"No longer forgotten: The Ainu", AMPO - Japan-Asia Qarterly
Review, XXIV, n. 3, 1993, pp. 2-34.
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K. Sjoberg, The Return of the Ainu. Cultural Mobilization and
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INDIRIZZI UTILI
AINU ASSOCIATION OF HOKKAIDO
Kita 2 Nishi 7 Chuo-ku
Sapporo, Hokkaido, Japan
tel. +81-11-2110462, fax +81-11-2210672
AINU NATIONAL CONGRESS
c/o Aki Sawai, Tokiwa 4-2, Minami-ku
Sapporo, Hokkaido, Japan
tel. +81-11-5924756, fax +81-11-5922188
PACIFIC ASIA RESOURCE CENTER
Rm. 103, Seiko Bldg., 1-30 Kanda-Jimbocho, Chiyoda-ku
Tokyo 101, Japan
tel. +81-3-32915901, fax +81-3-32922437
E-mail: PARC@jca.ax.apc.org
Web: www.jca.ax.apc.org/PARC
Pubblicazioni: AMPO - Japan-Asia Quarterly
Spesso il termine cordigliera è associato alle Ande, ma
parlando di indigeni i popoli della Cordigliera sono in
realtà gli aborigeni delle Filippine, che vivono nel nord
dell'arcipelago. Si autodefiniscono Kaigorotan, ma gli altri li
chiamano Igorot, "popoli delle montagne". Si tratta di dieci
gruppi etnolinguistici che raggiungono il milione di persone: i
più numerosi sono gli Ifugao, che vivono nella provincia
omonima. I popoli della Cordigliera non sono comunque gli unici
indigeni dell'arcipelago: ci sono anche i Lumad e i Moro, che
vivono sull'isola di Mindanao, i Magayan di Mindoro, i Negritos,
i Dumagat ed i Caraballo. Si tratta in tutto di 4.500.000 di
persone divise in una quarantina di gruppi etnoliguistici, molti
dei quali non hanno contatti fra loro.
Ma torniamo alla Cordigliera. Per molti secoli, i popoli della
regione vivono in villaggi indipendenti, impegnati in prevalenza
nella coltivazione del riso. Le varie comunità, i
barangay, variano dalle 100 alle 500 persone e mantengono
comunque strette relazioni. All'inizio del 1500, attratti dalle
miniere d'oro, gli Spagnoli iniziano la colonizzazione delle
Filippine, che si protrarrà per quasi quattro secoli.
Ancora una volta sono sostenuti in modo decisivo dall'azione
devastante dei missionari. Comunque gli indigeni resistono
strenuamente per almeno un paio di secoli. Non solo quelli della
Cordigliera, ma anche i Moro; questi ultimi sono musulmani a
causa dei contatti con i commercianti arabi che risalgono al
quattordicesimo secolo (gli Spagnoli chiamano appunto moros tutti
i musulmani). Attorno alla metà del 1800 gli Spagnoli
prendono definitivamente possesso di numerose regioni, ma il loro
declino è ormai prossimo. Lasciano l'arcipelago nel 1896,
ma le risorse naturali (oro, manganese, zinco, argento e rame)
attraggono subito gli Stati Uniti: tre anni dopo le Filippine
diventano colonia americana.
Sono gli anni della grande espansione americana nel Pacifico:
Washington ha già un folto gruppo di colonie, che oltre
alle Filippine comprende Guam, le isole Midway, Samoa e
l'arcipelago hawaiiano. Quando arrivano gli americani esistono
già due gruppi ben distinti: da una parte, una maggioranza
assimilata e prevalentemente ispanofona, dall'altra una
varietà di minoranze indigene che hanno conservato
l'identità culturale e l'indipendenza economica.
Nel 1902 viene approvata una legge che introduce il concetto di
proprietà fondiaria individuale. Una novità
incomprensibile per gli indigeni, molti dei quali rifiutano di
adeguarsi all'idea di una terra da possedere. Nel 1905, una nuova
legge dispone che tutta la terra non legalmente rivendicata venga
dichiarata "terra pubblica" e come tale in vendita. La
Cordigliera viene così aperta ad un'invasione che
può farsi scudo della legge. Nei decenni successivi lo
sviluppo della Cordigliera prosegue quindi di pari passo con i
progetti faraonici che danneggiano gravemente il suo
ecosistema.
Dal 1956 al 1982, finanziate dalla Banca Mondiale, vengono
costruite tre dighe per potenziare l'industrializzazione della
regione: per fare spazio a questi progetti quasi 2000 indigeni
vengono rimossi forzatamente. Nel 1975, con un decreto
presidenziale di Ferdinando Marcos, tutte le terre con una
pendenza oltre il 18% vengono dichiarate inagibili per fini
agricoli e poste sotto il diretto controllo del governo: molti
indigeni, non potendo più coltivare, sono costretti alla
povertà o ad un inurbamento dalle prospettive incerte.
Inizia il disboscamento selvaggio della Cordigliera: nel 1984 un
quarto della regione è già divisa fra venti
compagnie per il taglio ed il trasporto del legname.
La protesta indigena si organizza in vari comitati locali, poi
riuniti in modo più efficace nella Cordillera Peoples
Alliance, nata nel 1984 ed animata da Victoria
Tauli-Corpuz.
Il documento che segna la nascita del nuovo organismo indigeno
contiene un'articolata serie di proposte, fra cui la creazione di
una Regione Autonoma della Cordigliera. Alla crescita del
movimento indigeno il governo risponde con la repressione
militare. In varie occasioni la resistenza indigena si intreccia
con la New Peoples Army, un movimento armato di osservanza
comunista. Le aspirazioni sono ovviamente assai diverse ma il
nemico è lo stesso: il governo centrale. Dopo Marcos il
potere passa nelle mani di Corazon Aquino, che si propone come
alternativa democratica ai metodi dittatoriali del suo
predecessore. Ma per gli indigeni la situazione si rivela
addirittura peggiore, perché l'esercito intensifica la
repressione militare.
Neanche con Fidel Ramos, eletto presidente nel 1992, si aprono
prospettive migliori.
Lo sfruttamento selvaggio della Cordigliera continua
inarrestabile, mentre gli Igorot intensificano la loro
attività diplomatica a livello internazionale. La
situazione appare disperata, ma la resistenza indigena continua
contro ogni evidenza.
Alessandro Michelucci
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
W. Bello - D. Kinley - E. Elinson, Development Debacle: The
World Bank in the Philippines, Institute for Food and
Development Policy, San Francisco 1982.
H. Fry, A History of the Mountain Province, New Day
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The Philippines: Authoritarian Government, Multinationals and
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R. Singh, "The Indigenous Peoples of the Philippines", in C.
Nicholas - R. Singh (a cura di), Indigenous Peoples of
Asia, Asia Indigenous Peoples Pact, Bangkok 1996, pp.
231-258.
INDIRIZZI UTILI
CORDILLERA PEOPLES' ALLIANCE
Box 975
2600 Baguio City, Philippines
tel. +63-74-4427008, fax +63-74-4437159
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JOURNAL OF NORTHERN LUZON
St Mary's College of Bayombong
Nueva Vizcaya 3700, Philippines
I Penan vivono nella foresta tropicale più antica del
mondo (150.000.000 di anni), che sorge nel Borneo, nei pressi del
mar Cinese meridionale. Questa regione appartiene allo stato di
Sarawak, che dal 1963 -anno che segnò la fine della
sovranità britannica- fa parte della federazione malese. I
dati ufficiali parlano di circa 10.000 Penan, oggi semisedentari,
mentre solopoche centinaia sono rimasti nomadi. In Sarawak vivono
altri venti popoli indigeni, collettivamente chiamati Dayak,
tutti più o meno dipendenti dalle foreste.
I Penan vivono in piccole palafitte costruite in mezzo alla
foresta. Sono poco avvezzi ai conflitti e non conoscono divisioni
gerarchiche. I bambini sono considerati membri della
società a pieno titolo, ma difficilmente vengono puniti od
obbligati a fare qualcosa. I Penan e la maggior parte dei popoli
dayak non hanno pregiudizi nei confronti degli stranieri. La loro
venerazione per gli anziani è tale che si rivolge anche ai
funzionari governativi. "La nostra buona fede è davvero
eccessiva: crediamo che gli altri siano leali come noi" dice
Mutang Urud, membro del popolo Kelabit e fondatore dell'Alleanza
dei popoli indigeni di Sarawak, che negli anni Ottanta ha
iniziato ad organizzare la difesa dell'ambiente contro il
saccheggio ambientale portato avanti dalle industrie del legno.
Una difesa nonviolenta che ha ottenuto il sostegno di
associazioni ecologiste e per i diritti umani. Pioniere di questo
movimento è stato lo svizzero Bruno Manser, che per sei
anni ha condiviso la vita dei Penan dando eco mondiale alla loro
situazione tragica. Nel 1990, perseguitato dalle autorità
malesi, è stato costretto a lasciare il paese.
"La foresta ci dà protezione, il cibo e le sostanze per la
nostra medicina. La storia del mio popolo si sviluppa nella
foresta" dice Mutang Urud, che oggi vive esule in Canada e da
lì continua la sua lotta. Radidah Aziz, Ministro del
Commercio Estero e dell'Industria, inquadra il problema in
un'ottica ben diversa: "Parliamo del ventunesimo secolo. Non
possiamo permetterci che alcuni nostri concittadini caccino
scimmie nella foresta". Ma i Penan, sotto il tetto fitto della
foresta, continuano a coltivare il riso e commerciano con i
Dayak, scambiando i prodotti della foresta con sale, attrezzi di
ferro, tegami ed altri oggetti. Fra i popoli indigeni del Borneo
esistono infatti legami economici assai vari ed estremamente
funzionali.
La tragedia di questi popoli richiama quella degli indios
amazzonici. La foresta costituisce infatti una formidabile fonte
di affari, che schiaccia senza pietà la varietà
ambientale e i diritti dei popoli indigeni. Il disboscamento
diviene quindi il nemico dei Penan e dei Dayak: nel corso degli
anni Ottanta, oltre la metà del legno tropicale esportato
nel mondo proviene da queste foreste. Perfino l'Organizzazione
internazionale del commercio di legno tropicale critica le quote
malesi. Le autorità governative sostengono di sfruttare il
patrimonio forestale in modo selettivo, ma in realtà si
tratta di uno scempio che arriva a diradare i due terzi della
sconfinata foresta tropicale. La caduta degli alberi giganteschi
ed i bulldozer devastano la foresta.
Il disboscamento procede a pieno ritmo, giorno e notte.
A causa dell'erosione i fiumi si trasformano velocemente in
torrenti di fango: la conseguenza è l'inquinamento
dell'acqua potabile. Il disboscamento determina la scomparsa di
pesci, uccelli, piccoli mammiferi, alberi da frutto: in altre
parole, delle principali fonti d'alimentazione per gli
indigeni.
I Penan stessi vengono deportati in campi dove muoiono di
infezioni, di malattia, di fame. Alcuni organizzano
manifestazioni nonviolente, generalmente bloccando l'accesso
delle strade ai bulldozer. Il prezzo che pagano è alto:
alcuni vengono feriti o uccisi, altri vengono imprigionati e
torturati.
Mutang Urud, intanto, spera nella solidarietà
internazionale. Molte imprese del legno gli hanno offerto grosse
somme affinchè rinunciasse alla sua lotta, che invece
continua con rinnovato slancio.
GfbV-Österreich
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
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Il nome della Siberia evoca l'immagine di uno sconfinato
deserto di ghiaccio, dove quasi non c'è spazio per la
vita. In effetti questa è la più vasta regione
della terra, che si estende per oltre 12.000.000 di kmq (40 volte
l'Italia) e costituisce quasi un decimo delle terre emerse. La
Siberia copre circa due terzi della federazione russa e coincide
praticamente con la sua parte asiatica. E' abitata da 25.000.000
di persone (russi, ucraini, georgiani, etc.) e da una trentina di
popoli indigeni la cui quantità complessiva si aggira sul
milione e mezzo.
Questi popoli sono molto diversi fra loro: non solo per lingua,
cultura ed economia, ma anche per il grado di autonomia di cui
godono all'interno della federazione russa. I più numerosi
(fra cui gli Jacuti ed i Komi, che hanno una propria repubblica
autonoma) non sono compresi fra i 26 "piccoli popoli del Nord".
Al tempo stesso, questo termine ufficiale non comprende solo le
minoranze siberiane, ma anche altri popoli indigeni che vivono
nella Russia europea, come i Sami (Lapponi) che abitano la
penisola di Kola.
Questi popoli, spesso di consistenza numerica veramente minima,
abitano le fredde distese siberiane da migliaia di anni. Alcuni
le hanno lasciate per raggiungere l'America attraverso varie
ondate migratorie che risalgono a 40.000-50.000 anni fa: i popoli
indiani delle Americhe sono infatti di origine asiatica.
In origine la Siberia conosce essenzialmente due tipi di
economia: il mare e la foresta si adattano alla pesca, mentre
l'allevamento delle renne viene praticato nella tundra da pastori
nomadi.
I contatti con l'Europa iniziano attorno alla metà del
secolo sedicesimo, quando i primi commercianti di pellicce
superano l'area orientale degli Urali che segna il confine
naturale fra l'Europa e l'Asia. Nel secolo succcessivo la Siberia
comincia a popolarsi di immigrati russi: mercanti, contadini,
marinai. Questo causa l'emigrazione di vari popoli in altre
regioni siberiane.
L'impero zarista può ormai annettere la regione in modo
indolore; i Russi ammirano gli aborigeni per la loro
abilità nello sfruttamento delle risorse, ma dimostrano un
certo razzismo nei loro confronti.
Nel 1822 viene promulgato il Codice di Amministrazione Indigena,
concepito da Mikhail Speransky, uno dei più stretti
collaboratori dello zar Alessandro I. Si tratta di una legge
avanzata, che cerca di proteggere i diritti territoriali degli
indigeni, ma che nei decenni successivi subisce modifiche
sostanziali, in seguito ai quali la legge non riesce a fermare lo
sfruttamento dei territori indigeni da parte dei commercianti di
pellicce.
Intanto, l'alcoolismo si diffonde fra gli indigeni grazie ai
liquori che i mercanti offrono come principale merce di scambio:
è lo stesso triste destino che in questi stessi decenni si
sta abbattendo sugli indigeni dell'Australia e dell'America
settentrionale.
Alla fine del secolo, quando viene emanato lo Statuto dei popoli
indigeni, la situazione dei popoli siberiani è ancora
molto preoccupante. All'inizio del 1900 si sviluppa un movimento
regionalista siberiano, in prevalenza non-indigeno, che
suggerisce fra l'altro l'adozione delle riserve già
funzionanti altrove (Australia e Nord-America), ma la proposta
rimane senza seguito.
La Rivoluzione d'Ottobre (1917) porta nuove leggi che ribadiscono
il diritto degli indigeni ad uno sviluppo autonomo. In
realtà molti dei nuovi leaders politici, a cominciare da
Stalin, disprezzano profondamente questi popoli e li considerano
dei "primitivi" la cui diversità non deve intralciare la
"marcia vittoriosa verso il socialismo". Il comunismo diviene
quindi un paravento per la russificazione.
Negli anni Trenta la neonata URSS, in piena crisi economica,
intensifica lo sfruttamento della Siberia. E' il periodo della
grande industrializzazione: i popoli autoctoni, nonostante le
loro terre siano protette dalla legge, in realtà sono
spesso costretti ad abbandonare i luoghi che abitano da migliaia
di anni.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, le minoranze siberiane
vengono esentate dall'arruolamento. Il dopoguerra segna l'inizio
di una russificazione più dura, che gli indigeni riescono
a contrastare solo minimamente.
Nelle scuole viene ridotto l'insegnamento delle lingue autoctone;
nelle zone abitate da popoli senza alfabeto, come Keti ed Aleuti,
è addirittura soppresso.
Intanto l'industrializzazione prosegue a tappe forzate. Il
territorio - ricco fra l'altro di rame, nickel, alluminio,
diamanti e carbone - si conferma d'importanza vitale per
l'economia sovietica. La Transiberiana, costruita nel tardo
Ottocento, favorisce l'arrivo della manodopera russa che si
insedia nelle città nate all'inizio del secolo. Lo
sviluppo industriale dell'URSS prosegue quindi travolgendo i
popoli e le culture della regione: la Siberia diventa il
laboratorio dove si sviluppa la competizione tecnologica fra le
due super-potenze. Anche l'estrazione di petrolio viene portata
avanti senza alcun rispetto dei diritti indigeni.
Al tempo stesso, la sconfinata regione diviene tristemente nota
per i gulag descritti da Aleksandr Solgenitsin. Ormai il volto
della Siberia è cambiato profondamente: fra il 1940 ed il
1970 la popolazione è decuplicata, e piccoli villaggi sono
diventati porti di rilievo.
Non si deve poi dimenticare la grande importanza strategica della
Siberia, che è alla base della sua militarizzazione.
L'avvento di Gorbaciov (marzo 1985) non migliora la situazione
dei popoli indigeni. L'uomo della perestrojka concentra la sua
attenzione sui problemi economici, aggravati dal costo della
guerra in Afghanistan.
Poco dopo esplodono in varie parti dell'URSS i problemi etnici e
le rivendicazioni di autonomia. Anche se i popoli siberiani non
guadagnano le prime pagine come la Lituania o le repubbliche del
Caucaso, inizia anche per loro una nuova presa di coscienza.
Cominciano così i contatti fra popoli lontanissimi che
finora hanno vissuto ignorandosi. Nel 1990 si riuniscono a Mosca
per gettare le basi di una strategia comune, confrontando la
propria situazione con quella di altre minoranze polari. Lo scopo
del congresso è quello di costituire un'associazione dei
piccoli popoli del Nord sovietico: non soltanto la Siberia,
quindi, ma l'intera area artica e sub-artica dell'Unione
Sovietica. Il promotore dell'iniziativa, lo scrittore Vladimir
Sangi, viene eletto presidente.
Negli anni successivi vengono stretti rapporti con gli organismi
internazionali che difendono i popoli indigeni.
Nel 1991 cade l'URSS. Con la nuova Russia di Boris Eltsin gli
indigeni hanno rapporti sporadici e senza costrutto.
Nel 1994, l'invasione della Cecenia costringe molte minoranze
della Russia, fra cui quelle siberiane, a rivedere radicalmente
il proprio atteggiamento nei confronti del primo presidente
postcomunista. Eltsin, dal canto suo, è troppo assorbito
dalla crisi cecena e dalla campagna presidenziale (1996) per
occuparsi degli indigeni siberiani:
un problema che al momento può apparire secondario, ma che
non tarderà a manifestarsi nuovamente.
Alessandro Michelucci
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
AA. VV., Indigenous Peoples of the Soviet North, IWGIA,
Copenhagen 1990 (Document n.
AA. VV., Polar Peoples: Self-Determination and
Development, Minority Rights Group, London 1994.
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THE FAR EAST
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Pubblicazioni: L'auravetl'an
Nel settimo secolo dopo Cristo, quando si presenta alla
storia, il Tibet è un regno in grande espansione: antiche
cronache ci narrano di principi e re guerrieri che sono riusciti
a riunire i vari clan per dar vita ad uno stato unitario. Poi,
dopo un lungo periodo di crisi, l'impero si disgrega e nel secolo
tredicesimo Godan, il sovrano mongolo nipote di Gengis Khan,
conferisce al lama Kunga-Gyaltsen il potere temporale su gran
parte del Tibet. Così, sotto l'egida dei signori delle
steppe, un lama diviene vicerè teocratico del paese delle
nevi.
La collaborazione continua con il nipote di Kunga-Gyaltsen,
Phags-Pa, che addirittura riuscì a convertire al buddhismo
il nuovo Gran Khan, Kubilai. Si stabiliscono così i
precedenti di una singolare relazione fra sovrani cinesi e
teocrati tibetani, che diverrà poi uno dei motivi
principali delle rivendicazioni del protettorato di Pechino sulle
genti degli altipiani. Il Gran Lama intercede per ottenere dal
cielo i favori divini, il Sovrano del Celeste Impero ricambia con
una protezione militare. Caduta la dinastia mongola, il regno
Ming (1368-1644) limita il suo dominio sulle marche esterne, fra
cui la Manciuria, il Sinkiang e parte del Tibet. Per più
di tre secoli il paese degli altipiani resta in pratica
indipendente. Si consolida così un nuovo potere, quello
dello della Chiesa Buddhista Riformata, in altre parole i
Gelug-pa (virtuosi), più noti come Berretti Gialli per i
loro copricapi. I pontefici di questa chiesa vengono chiamati
Dalai Lama (oceano di saggezza).
Figura di spicco nella storia tibetana è quella del quinto
Dalai Lama, Lobsang Gyatso (1617-1682), che unifica nuovamente il
paese e lo rende del tutto indipendente. Intanto la Cina sta
risorgendo con la dinastia Ch'ing (1644-1912), che fra il
diciassettesimo ed il diciottesimo cerca di estendere al massimo
i territori governati da Pechino. Approfittando dei disordini
creati in Tibet dalla successione del Dalai Lama, nel 1720
l'esercito cinese occupa la capitale Lhasa. Comincia allora un
larvato legame di vassallaggio fra Celeste Impero e Tibet che
durerà fino all'inizio del Novecento. I Tibetani devono
così subire la presenza di due commissari inviati da
Pechino e protetti da battaglioni di scorta.
Solo nel 1912, con la caduta della dinastia Ch'ing, i Tibetani
cacciano i commissari e dichiarano l'indipendenza. Questa dura
fino al 1950, quando Mao Tsedong occupa l'altopiano. Dopo la
conquista il Dalai Lama cerca un modo per coesistere
pacificamente con gli invasori, ma questo non placa la sanguinosa
oppressione cinese.
Nel 1959, dopo un tentativo di rivolta che viene represso
duramente, il Dalai Lama abbandona il paese insieme a molti
seguaci e dopo un lungo viaggio si rifugia in India, a
Dharamsala, dove vivrà fino ai nostri giorni. Nel 1965
viene istituita la Regione Autonoma Tibetana (Xizang) nell'ambito
della Repubblica Popolare Cinese e si avvia un programma di
modernizzazione forzata.
Ma scoppia la Rivoluzione Culturale e seguono per il Tibet anni
terribili. Fra il 1976 ed il 1986 le Guardie Rosse uccidono
migliaia di monaci e di laici, bruciano templi e monasteri,
saccheggiano e danno alle fiamme biblioteche di valore
inestimabile: è uno dei più spaventosi etnocidi del
nostro secolo. La furia delle Guardie Rosse continua per molti
anni e solo poche istituzioni riescono a salvarsi.
Ma in provincia le cose vanno diversamente, e la maggior parte
dei monasteri viene distrutta. Dei famosi romitori di Samye e di
Gianse, rispettivamente dell'ottavo e quindicesimo secolo,
rimangono pochi cumuli di macerie. La città di Galden
viene rasa al suolo, mentre lo Yumbu Lakhang, il più
antico edificio del Tibet, viene ridotto ad un ammasso di rovine.
Oggi restano solo una ventina degli oltre 2000 edifici storici
sacri.
Intanto il Dalai Lama, dal suo esilio indiano, porta avanti una
paziente attività diplomatica, cercando fra l'altro
l'appoggio delle Nazioni Unite. Fra il 1959 ed il 1965 vengono
approvate varie risoluzioni di condanna nei confronti della Cina.
Nel 1963 la massima autorità tibetana presenta una
proposta di Costituzione che però non avrà alcun
seguito.
Dopo la morte di Mao (1975), il nuovo corso inaugurato da Deng
Xiaoping porta qualche miglioramento: per qualche anno si attenua
la repressione, ci sono timidi spiragli di autonomia ed anche una
certa ripresa economica. Il paese si apre al turismo e molti
stranieri possono visitarlo. Testimonianza di questa apertura
sono i réportages ed i servizi fotografici sul Tibet: il
mondo comincia finalmente a prendere coscienza della tragedia
tibetana. In molte parti del mondo si levano le prime denunce da
parte di associazioni, giornalisti, uomini di cultura. In tutto
il mondo si moltiplicano le iniziative politiche e giuridiche
sulla questione tibetana. In Italia nasce l'Associazione
Italia-Tibet, presieduta da Pietro Verni ed ancor oggi molto
attiva.
Nel 1987 il Dalai Lama propone un piano di pace, ma il governo
cinese rifiuta di discuterlo. Poi, dopo i moti popolari di Lhasa
(settembre 1987) e la strage di piazza Tienanmen a Pechino,
inizia un nuovo periodo di repressione. Negli ultimi anni, grazie
anche al Premio Nobel che è stato conferito al Dalai Lama
nel 1989, la solidarietà internazionale è aumentata
in modo notevole, ma una soluzione appare ancora lontana. Al
Tibet, vittima di una tragedia che si protrae da mezzo secolo,
tocca anche un triste ma poco evidente primato: il prigioniero
politico più piccolo del mondo. E' il successore del
decimo Panchen Lama (la figura religiosa più importante
dopo il Dalai Lama). Si chiama Gendun Choekyi Nyima; rapito nel
1995 dai Cinesi perché riconosciuto dal Dalai Lama, oggi
ha otto anni.
Silvio Calzolari
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
J. F. Avedon, Il Dalai Lama. In esilio dal paese delle
nevi, Dall'Oglio, Milano 1989.
R. Barnett - S. Akiner (a cura di), Resistance and Reform in
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Milano 1990.
B. Zoratto, Tibet in fiamme. Con intervista al Dalai Lama,
Premio Nobel per la pace 1989, Schena, Milano 1989.
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Nel novembre del 1991 almeno un centinaio di persone che
stanno partecipando ad una processione funebre vengono uccise
dall'esercito indonesiano nel cimitero di Santa Cruz, presso
Dili, capitale di Timor Est, l'ex-colonia portoghese invasa nel
1975 dalle forze armate di Giakarta. Questo episodio, ripreso
dalle telecamere di una televisione britannica, arriva sui
teleschermi di tutto il mondo, squarciando per una volta il muro
di silenzio che circonda la tragedia del popolo timorese. In
risposta alle proteste internazionali, il governo indonesiano
replica che si è trattato di un fatto spiacevole, ma
isolato ed in nessun modo conseguenza della sua azione
politica.
Ma è facile sentire in queste parole l'odore della
menzogna: da oltre vent'anni Amnesty International ed altre
organizzazioni umanitarie denunciano la strage perpetrata dalle
truppe indonesiane ai danni della popolazione timorese. Negli
anni successivi all'invasione muoiono oltre 200.000 persone - su
un totale di 600.000 - uccise dalle armi indonesiane o per la
carestia provocata dagli invasori.
L'Indonesia sta cercando di ridurre ai minimi termini la
popolazione dell'isola, ed a questo scopo ricorre anche a
pratiche di sterilizzazione forzata e di sradicamento culturale.
E' infatti proibito l'uso del tetum, lingua franca locale, ed i
nomi vengono trasformati (Henrique diventa Hendrykus, Carvalho
viene indonesizzato in Tcharfaliu, etc.). Questa repressione non
ha però annullato la resistenza dei Timoresi, che cercano
in ogni modo di resistere all'etnocidio.
L'isola di Timor, abitata da un popolo di ceppo melanesiano, si
trova all'estremità sudorientale dell'arcipelago della
Sonda, a circa 500 chilometri dall'Australia. Ha una superficie
complessiva di 32.000 kmq; la parte orientale ne occupa circa
18.000 (un'area equivalente al Veneto).
Ann Forbes, una viaggiatrice inglese che visita l'isola attorno
al 1880, definisce Dili
"il luogo più malsano dell'arcipelago" e parla
dell'atmosfera miasmatica che aleggia sulla città. Alcuni
indicatori di progresso, come il numero dei medici (3 per 600.000
abitanti) o l'estensione delle strade asfaltate (30 km in tutto),
mettono in rilievo il disinteresse del Portogallo per questa
colonia, che viene utilizzata essenzialmente come terra d'esilio
per oppositori politici e funzionari in disgrazia.
Anche se i primi portoghesi erano arrivati nel 1514, è
solo all'inizio del ventesimo secolo che si posero il problema di
un controllo sistematico del territorio, scontrandosi con una
tenace resistenza che fu repressa causando molte migliaia di
morti. Nel 1904 si realizzò la divisione dell'isola in due
parti ben distinte: le due potenze coloniali interessate
all'area, Olanda e Portogallo, firmarono un trattato che
assegnava la parte occidentale alla prima e quella orientale alla
seconda.
L'interesse economico rimane comunque scarso, anche se viene
imposto il sistema di lavoro forzato, allora diffuso in tutte le
colonie portoghesi: evidentemente qualche quintale di
caffè e di legname non esercitano un'attrazione
particolare.
L'importanza strategica di Timor Est comincia ad emergere nel
corso della Seconda Guerra Mondiale, quando i Giapponesi invadono
l'isola ed i limitati contingenti australiani inviati per
contrastarli vengono sostenuti dalla resistenza locale. I
timoresi che muoiono negli scontri sono 40.000.
Nel 1945, la vicina Indonesia conquista l'indipendenza e Timor
Ovest diviene parte della nuova repubblica, che assume
rapidamente un ruolo di primo piano nel nascente Movimento dei
Non-Allineati. In quegli anni, a Timor Est, nessuno può
immaginare che proprio quel paese si rivelerà il nemico
principale.
Mentre infuriano le guerre di liberazione nelle colonie
portoghesi dell'Africa, anche a Timor comincia a svilupparsi un
movimento indipendentista. Quando la "rivoluzione dei garofani"
abbatte il regime di Salazar (1974) sembra che anche le speranze
del popolo timorese possano essere esaudite. La stessa Indonesia,
per bocca del suo Ministro degli Esteri, si pronuncia più
volte a favore di una Timor Est indipendente e
non-allineata.
Nell'estate del 1975, però, dopo un incontro a Washington
fra il generale Suharto e Gerald Ford, la posizione indonesiana
muta radicalmente, e nelle dichiarazioni ufficiali l'indipendenza
dell'isola viene definita "un pericolo per la sicurezza
dell'Indonesia". Le pressioni degli Stati Uniti sui militari di
Giakarta sono state decisive: sconfitti nel Vietnam, costretti ad
abbandonare la Cambogia, gli americani aumentano in modo
rilevante gli aiuti militari all'Indonesia lasciando "in
deposito" sull'isola di Giava buona parte degli armamenti
utilizzati nella regione. Gli Stati Uniti temono che presso lo
stretto di Ombai-Wetar, unico passaggio in acque profonde per i
sottomarini atomici
fra il Pacifico e l'Indiano, possa installarsi un regime
socialista. Questo fa scattare la ragion di stato fondata sui
principi della pax americana: poco importa se per questo un
popolo verrà strangolato.
Il 28 novembre 1975 il FRETILIN (Fronte Rivoluzionario di Timor
est indipendente) proclama la repubblica di Timor est, che viene
subito riconosciuta da dodici paesi. Pochi giorni dopo, l'attacco
delle truppe indonesiane. All'alba del 7 dicembre, mentre Ford e
Kissinger, reduci da una visita ufficiale, lasciano Giakarta in
aereo, l'isola viene invasa contemporaneamente da paracadutisti,
forze di mare e di terra.
Nonostante la sorpresa, i Timoresi iniziano a resistere e si
ritirano sulle montagne. La resistenza armata, guidata dal
FRETILIN, utilizza soprattutto le armi lasciate dai Portoghesi,
ma via via che queste si esauriscono deve contare solo su assalti
ad arsenali indonesiani.
Così, per compensare la debolezza militare, si sviluppa
una resistenza popolare basata sulla disobbedienza civile:
l'esercito invasore deve perciò fare i conti con una
popolazione capace di utilizzare mille occasioni per dimostrare
la propria resistenza all'etnocidio.
Intanto, nel corso degli anni Ottanta, le trivellazioni condotte
nel Mar di Timor rivelano
la presenza di riserve petrolifere tali da collocare la zona fra
i 25 maggiori siti petroliferi del mondo. La terra del sandalo e
del caffé inizia così a diventare interessante
anche sotto il profilo economico. Il governo australiano stringe
subito un accordo con l'Indonesia per lo sfruttamento congiunto
del sito: questo presuppone un riconoscimento de facto
dell'annessione di Timor est all'Indonesia. L'Australia, quindi,
non tiene conto delle varie risoluzioni dell'ONU, che riconoscono
a Timor est lo status di "territorio da decolonizzare". Secondo
il diritto internazionale, la potenza amministrante è
ancora il Portogallo, che infatti ricorre alla Corte
Internazionale dell'Aia sostenendo che l'accordo petrolifero fra
Australia ed Indonesia non tiene conto dei suoi diritti sulle
risorse del territorio.
Comunque, il popolo timorese sa di poter contare solo sulle
proprie forze. Tutti i loro alleati si muovono in una trama di
ambiguità che nasce da interessi economici e geopolitici
contrastanti. La Costituzione portoghese conserva un articolo che
impegna a favorire l'indipendenza dell'isola, al pari delle altre
ex-colonie. All'interno dell'ONU, in effetti, sembra che Lisbona
sostenga con coerenza questa posizione, ma è anche vero
che negli ultimi anni l'interscambio con l'Indonesia aumenta in
modo considerevole. L'Unione Europea, che a parole sostiene la
posizione portoghese, stenta ad andare oltre le condanne verbali,
perché rischierebbe di perdere un mercato potenziale di
200.000.000 di persone (gli Indonesiani) per difendere un
micromercato (400.000 timoresi).
La Chiesa cattolica, che pur si sente investita di una
responsabilità morale in quanto l'80% dei Timoresi
è cattolico, non ha alcuna intenzione di rompere le
relazioni diplomatiche con un paese come l'Indonesia, dove i
cattolici sono una minoranza ma occupano spesso posizioni di
rilievo.
La proposta di un referendum da svolgersi sotto il controllo
dell'ONU, avanzata più volte da Portoghesi e Timoresi, si
scontra sempre col netto rifiuto di Giakarta. E' improbabile che
il Premio Nobel per la Pace attribuito nel 1996 a Monsignor
Carlos Felipe Ximenes Belo e José Ramos Horta si riveli
positivo per la questione timorese.
Le speranze più consistenti sono legate ad un possibile
cambiamento in Indonesia dopo la morte o almeno la scomparsa
politica del generale Suharto: un paese che aspira ad entrare nel
novero delle potenze industriali moderne non potrà
conservare troppo a lungo un regime militare antidemocratico e
fortemente repressivo.
Le donne e gli uomini di Timor est, intanto, continuano a
lottare.
Alberto Melandri
BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
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Generalmente si pensa che i popoli indigeni siano tutti
extra-europei, ma esiste un'eccezione: si tratta dei Sami (in
Italia meglio noti come Lapponi), che vivono divisi in 4 stati
contigui dell'estremo nord europeo (Norvegia, Svezia, Finlandia e
Russia) e sono oggi circa 50.000.
L'isolamento geografico e la loro cultura tribale limitano il
contatto con le altre minoranze europee, favorendo invece i
rapporti con gli altri popoli artici ed indigeni in
generale.
La loro lingua, che appartiene al ceppo ugro-finnico, è da
tempo oggetto di complesse dispute glottologiche.
I Sami, popolo fondamentalmente nomade, abitano la tundra artica,
dove vivono una vita quasi simbiotica con la renna. Oggi solo il
10% si dedica all'allevamento di questo animale, che resta
comunque d'importanza centrale nella cultura e
nell'economia.
Sembra che gli antenati dei Sami siano originari della regione
dei laghi Ladoga e Onega (Russia nordoccidentale), dove sarebbero
stati insediati già attorno al 500 a.C. L'invasione di
popoli provenienti dalle regioni uraliche li costringe ad
emigrare ad ovest, nella regione scandinava. Fino al secolo
unicesimo i Sami vivono tranquillamente di caccia, pesca e
raccolta, dopodichè le invasioni vichinghe li spingono
all'estremo nord.
Il loro nomadismo viene nuovamente minacciato quando inizia la
colonizzazione scandinava, che ha il suo motore nella
cristianizzazione del tardo Medio Evo. La nuova era porta con
sè strade, ferrovie e nuovi villaggi che mutano
profondamente l'economia lappone.
Comincia poi una dura repressione della lingua, non di rado in
nome del cristianesimo: molti uomini di chiesa affermano che "il
lappone è la lingua del diavolo". D'altro canto,
però, si deve proprio a dei missionari la codificazione di
una lingua finora tramandata oralmente.
All'inizio del 1800 la Bibbia viene tradotta in sami, ma è
solo nel nostro secolo che viene fissato uno standard ortografico
(la lingua è divisa in 3 dialetti e 13
sotto-dialetti).
Ma le difficoltà rimangono: dal 1888 alla Seconda Guerra
Mondiale, per esempio, ai Sami della Norvegia è proibito
usare la propria lingua. Nel 1948 nasce la prima organizzazione
lappone, l'Associazione Norvegese degli Allevatori di Renne
(NRL), e nel 1956 il Consiglio Sami.
Ha inizio così una discussione serrata dei vari problemi.
Fra questi la repressione dello sciamanesimo, che i missionari
assimilano alla magia nera (già nel secolo scorso gli
oggetti sacri sono stati bruciati o portati nei musei europei).
Riemerge anche il problema della lingua: molti sami non la
parlano nè sanno leggerla.
Per ovviare a questa situazione ne viene promosso l'insegnamento
nelle scuole. In Norvegia, dove vive la comunità
più numerosa, una legge del 1969 garantisce l'insegnamento
della lingua nei primi sei anni scolastici, ed una successiva
revisione darà diritto di scegliere il sami come lingua
d'istruzione.
Nel 1973 la nascita dell'Istituto Lappone Nordico costituisce un
momento decisivo per la minoranza nordeuropea. L'istituto ha sede
a Kautokeino (Norvegia) ed è promosso dal Consiglio
Nordico, l'organismo di cooperazione fra gli stati scandinavi. Il
suo obiettivo è quello di costituire un punto di
riferimento - culturale, giuridico, politico - per tutti i
Sami.
Nello stesso periodo emergono anche gravi problemi ambientali,
come la diga idro-elettrica che viene costruita sul fiume Alta
(Norvegia). Il progetto rischia di allagare vaste zone abitate
dai Lapponi, che organizzano azioni di protesta col sostegno dei
movimenti ecologisti. Il braccio di ferro col governo è
lungo, ma si dimostra fallimentare.
Altri problemi ambientali incombono - ad esempio, l'inquinamento
dei fiumi dovuto dallo sfruttamento del petrolio in alto mare.
Problemi che diventano secondari quando gli effetti della
tragedia di Chernobyl (26 aprile 1986) si abbattono sulle terre
lapponi. Le conseguenze sono disastrose: la radioattività
rende necessario l'abbattimento di 100.000 renne, e molte altre
muoiono per l'avvelenamento dei licheni, che rappresentano il
loro nutrimento essenziale.
Il grave danno ambientale ed economico non ferma comunque il
cammino dei Sami verso l'affermazione dei propri diritti. Nel
1989 viene istituita in Norvegia un'assemblea nazionale indigena
riconosciuta dal governo, che viene chiamata Parlamento Sami. In
Finlandia un'istituzione analoga era già attiva dal 1972,
mentre in Svezia nascerà solo qualche anno dopo.
Il 1990 porta la paura di una nuova Chernobyl. Il governo
sovietico decide infatti di spostare i propri siti nucleari da
Semipalatinsk (Kazakistan) all'isola di Novaja Zemlja, che sorge
nei pressi delle terre abitate dai Sami. Questa paura è
condivisa da altri popoli artici, con i quali viene anche
intensificata la collaborazione.
Con il crollo dell'Unione Sovietica (1991) viene anche
ristabilito il contatto fra i Sami della regione scandinava e
quelli che abitano la penisola di Kola (Russia).
Nel 1995, Svezia e Finlandia aderiscono all'Unione Europea. In
seguito a questo, l'assise di Strasburgo sarà parte in
causa nei consessi internazionali dove si dibatte della questione
indigena.
Alessandro Michelucci
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INDIRIZZI UTILI
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PO Box 220
N-9520 Kautokeino, Norway
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