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Pogrom bedrohte Völker n. 264, 1/2011
Bolzano, agosto 2011
Index
Editoriale, Mauro di Vieste | Pari opportunità e rafforzamento dei diritti delle
donne | Le donne profughe kurde | La violenza contro le donne indigene | Il
movimento di pace "Donne in nero" in Serbia | Israele / Palestina: "Il ponte esiste davvero" |
Alina Treiger - Figura simbolo dell'ebraismo
liberale | Leyla Zana: "Noi Kurdi dobbiamo
essere uniti" | Le donne del Kurdistan
iracheno | La moglie dell'attivista Hada in
carcere | Haminatou Haidar - Viva o morta
| Donne indigene contro la lobby dell'uranio |
Mapuche: il volto giovane della ribellione |
Guatemala: le donne Xinka si battono per i propri
diritti | Iran. Non c'è posto per i
diritti delle donne
Foto di copertina: il 25 novembre 2010 le donne del Darfur del campo profughi vicino a El Fasher hanno manifestato contro i continui stupri. La manifestazione faceva parte di una campagna annuale di 16 giorni contro la violenza sulle donne. L'APM sostiene un progetto di cucine solari per le donne dei campi profughi del Darfur. Il maggior numero di stupri avviene infatti quando le donne si allontanano dai campi alla ricerca di legna da ardere.
Di Mauro di Vieste
Donne: dalla Cina al Darfur. Vittime traumatizzate e coraggiose attiviste per i diritti umani, pogrom / bedrohte Völker 264 (1/2011).
Care lettrici, cari lettori,
questo numero di pogrom-bedrohte völker è dedicato al
ruolo e alla situazione, spesso drammatica, delle donne nei vari
continenti. La lunga marcia delle donne verso un mondo più
giusto e rispettoso della diversità continua inesorabile,
ma il cammino da fare è ancora lungo. E' vero che, non
solo in Europa, le donne ai massimi vertici del potere sono
sempre di più: è il caso di Jóhanna
Sigurðardóttir, Primo Ministro dell'Islanda, primo
capo del governo islandese donna e al tempo stesso primo capo del
governo al mondo dichiaratamente omosessuale; Mary Patricia
McAleese Presidente d'Irlanda; Tarja Halonen e Mari Kiviniemi
rispettivamente Presidente e Primo Ministro della Finlandia;
Angela Merkel Cancelliere della Germania; Iveta Radicová
Primo Ministro della Slovacchia; Michaëlle Jean Governatore
generale del Canada. A questi esempi si aggiungono in America
Latina Laura Chinchilla Miranda Presidente della Costa Rica,
Dilma Rousseff Presidente del Brasile e Cristina Fernández
de Kirchner Presidente dell'Argentina.
A questa ascesa di figure femminili al potere in Stati anche
importanti nello scacchiere internazionale fa da contraltare la
drammatica situazione delle violazioni dei diritti umani in tanti
altri stati del mondo e la relativa sofferenza soprattutto delle
donne in conflitti appena passati o ancora in atto come nei
Balcani, in Birmania, in India, in Afghanistan, in Cina, nel
mondo arabo, in Cecenia, in Africa, nella stessa America Latina.
Donne vittime ma anche donne che si ribellano al proprio destino
e diventano attiviste per il cambiamento e la fine delle
violazioni per tutto il proprio popolo. In questo caso la lista
delle attiviste si fa molto più lunga: le donne coinvolte
da una parte rappresentano il dramma di un popolo che soffre,
dall'altra sono il volto nuovo di una nuova coscienza che prende
piede a favore dei diritti universali non solo delle donne ma di
tutti gli esseri umani.
Ricordiamo quindi le grandi battaglie (insieme ai grandi drammi)
vissuti e affrontati da donne come Leyla Zana (Kurdistan), Nawal
El Saadawi, Fatema Mernissi, Khalida Messaoudi (mondo arabo),
Aung San Suu Kyi (Birmania), Wangari Maathai (Kenya), Vandana
Shiva (India), Malalai Joya, Sima Samar (Afghanistan), Rebiya
Kadeer (Uiguri in Cina), Natividad Llanquileo (Mapuche in Cile),
Haminatou Haidar (Sahrawi in Marocco), Anna Politkovskaja
(Cecenia), Rigoberta Menchù e le donne indigene maya
(Guatemala), Donne in nero (Balcani), Madri di Plaza de Mayo
(Argentina), Xinna, moglie dell'attivista mongolo Hada, Shirin
Ebadi (Iran).
Sono questi solo alcuni esempi di donne che hanno rifiutato il
loro destino scritto fino ad oggi dagli uomini al potere nei
propri paesi e hanno alzato finalmente la voce per provare a
vivere in un mondo dove ci possa essere più giustizia e
maggior rispetto per i diritti delle donne.
L'occidente ha l'obbligo morale di sostenere le battaglie di
queste donne-coraggio e non abbandonarle al proprio destino come
è successo nel caso di Anna Politkovskaja, uccisa a Mosca
per le sue scomode battaglie sulla guerra sporca in Cecenia.
Probabilmente la soluzione delle crisi in cui loro malgrado
queste donne sono coinvolte potrà passare solamente
attraverso il loro diretto coinvolgimento.
Ma la battaglia a favore del riconoscimento di pari diritti tra
uomo e donna non riguarda solo le aree di crisi nel mondo ma
anche il "civilissimo" occidente dove la violenza domestica di
cui le donne sono vittime è drammaticamente attuale. E'
per questo che ci auguriamo allo tempo stesso la soluzione dei
tanti conflitti in cui versa l'umanità e un deciso
miglioramento della condizione femminile nel mondo, compresa la
nostra cosiddetta civile Europa: due obiettivi che vanno
sostenuti con tutte le forze disponibili. Possiamo quindi dire
che la battaglia per i diritti delle donne accomuna senza
distinzione tutti, perché un mondo con più diritti
è un mondo migliore per tutti.
Mauro di Vieste
Andreas Bummel
Quando nel 1945 a San Francisco fu negoziata la Carta dell'ONU alcune delle poche donne delegate si riunirono con organizzazioni non governative per ottenere - con successo - che i principi delle pari opportunità e dei pari diritti tra uomo e donna fossero fissati nel documento costitutivo della Carta. Un anno dopo fu creata la Commissione ONU per la Condizione Femminile (CSW) con un relativo ufficio all'interno del Segretariato dell'ONU.
Michelle Bachelet è stata nominata direttrice di UN Women nel settembre 2010. Foto: © UN Photo/Paulo Filgueiras.
Il CSW e in seguito anche altre istituzioni dell'ONU hanno
ulteriormente sviluppato e dato impulso alla questione delle pari
opportunità e dei pari diritti tra uomo e donna. In
particolare modo sono risultate importanti le quattro conferenze
mondiali delle donne in Messico (1975), a Copenhagen (1980), a
Nairobi (1985) e a Pechino (1995) nonché il decennio ONU
per le donne (1976 - 1985). I principi delle pari
opportunità e della non-discriminazione di genere sono
importanti pilastri della Dichiarazione dei Diritti Umani del
1948 e nel frattempo sono stati fissati anche in nove accordi
internazionali di diritto dei popoli, in particolare nell'accordo
per l'eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna
(CEDAW) del 1979.
"La sfida continua ad essere quella di riuscire a realizzare
questa importante meta all'interno dell'ONU e nella
quotidianità delle donne e ragazze di tutto il mondo",
commenta l'attivista per i diritti delle donne Charlotte Bunch in
un suo contributo al "Manuale di Oxford" sulle Nazioni Unite. Se
da un lato l'accordo CEDAW è stato ratificato da quasi
tutti i paesi del mondo, dall'altro molti dei 185 paesi firmatari
hanno però fissato delle ampie clausole restrittive. Un
ulteriore limite della Convenzione è la mancanza di
meccanismi sanzionatori. Un protocollo integrativo del 2000,
firmato da 100 paesi, offre se non altro la possibilità di
accogliere e approfondire lamentele e denunce individuali.
Secondo la Bunch, la politica internazionale per le donne si
è concentrata dapprima sull'ottenimento dei diritti
politici e civili e negli anni '70 e '80 del secolo scorso ha
iniziato a occuparsi dei problemi legati allo sviluppo e alla
salute delle donne. E' stato riconosciuto il ruolo centrale della
donna nello sviluppo sociale ed economico. Un ulteriore passo
importante è stato fatto con la Conferenza mondiale
dell'ONU sulla popolazione tenuta nel 1994 al Cairo che con il
suo dettagliato programma d'azione ha fissato una linea guida
politica da raggiungere entro il 2015. Tra i diritti umani
fondamentali fissati dalla conferenza risulta anche
l'autodeterminazione riproduttiva.
Negli anni '90 l'attenzione si è spostata su aspetti
specificamente femminili dei diritti umani, della pace e della
sicurezza. Durante i conflitti violenti le vittime di soprusi
sistematici sono soprattutto donne, com'è accaduto p.es.
in Bosnia (1992-1995) e in Ruanda (1994). I tribunali dell'ONU
per entrambi i paesi hanno classificato lo stupro e la violenza
sessuale come crimini contro il diritto dei popoli. Lo statuto
del Tribunale Penale Internazionale del 1998 classifica la
violenza sessuale e la "costrizione riproduttiva" all'interno di
un'aggressione sistematica come crimine contro
l'umanità.
La risoluzione 1325 dell'ottobre 2000 del Consiglio di Sicurezza
dell'ONU prende atto dell'importante ruolo ricoperto dalle donne
nella prevenzione e soluzione dei conflitti armati. Queste e
altre quattro risoluzioni rispettivamente del 2008, 2009 e del
2010 costituiscono un'importante base per le missioni di pace e
per altri interventi dell'ONU.
Gli obiettivi del Millennio sono invece risultati essere
deludenti: nonostante al punto 3 ci si proponga la parità
di genere e il rafforzamento del ruolo delle donne, l'unica meta
concreta che si è riusciti a fissare è stata
l'eliminazione della differenza di genere nelle scuole primarie e
secondarie entro il 2005 e a tutti i livelli dell'istruzione
entro il 2015.
Da gennaio 2011 le attività di quattro enti dell'ONU per
il rafforzamento del ruolo delle donne sono state unificate
nell'organizzazione UN Women. Quest'ultima sostiene altre
istituzioni e gruppi internazionali e aiuta i paesi membri
dell'ONU a implementare le norme internazionali in materia. A far
parte del comitato esecutivo composto da 41 membri è stata
eletta anche l'Arabia Saudita dove i diritti delle donne sono
estremamente limitati. Il finanziamento di UN Women dovrebbe
avvenire perlopiù grazie ai contributi volontari dei paesi
membri dell'ONU.
Parvaneh Ghorishi
Parvaneh Ghorishi assiste profughi in Germania. Foto: archivio GfbV.
I governi di Turchia, Iran e Siria si oppongono e combattono
ogni tentativo di emancipazione delle rispettive popolazioni
kurde. La distruzione del loro ambiente, l'analfabetismo, la
povertà, le deportazioni, la tortura e gli stupri sono
tutti strumenti utilizzati per punire, intimidire, demoralizzare
e infine costringere la popolazione kurda a rinunciare ai propri
diritti e alla propria cultura. In questa situazione sono proprio
le donne a subire le violenze peggiori. Molte sono arrestate,
torturate e stuprate a causa della loro appartenenza etnica, per
la loro attività politica o per quella di qualche loro
parente.
Contemporaneamente molte donne subiscono anche la violenza da
parte dei propri familiari che le perseguitano e uccidono se solo
hanno il coraggio - vero o a volte anche solo presunto - di
opporsi alle vigenti norme morali. Molte donne kurde riescono a
fuggire in esilio, ma per troppe di esse la relativa calma
guadagnata con l'esilio coincide con l'apparizione di disturbi
psichici causati dai violenti traumi subiti.
Io stessa sono Kurda. Nata nella città kurdo-iraniana di
Sardasht sono poi cresciuta a Sanandaj. Nel 1974 mi sono laureata
in psicologia presso l'università di Teheran e in seguito
sono fuggita in Germania. Ho vissuto sulla mia pelle cosa
significhi ritrovarsi improvvisamente in un paese sconosciuto e
quanto possa essere disumana la burocrazia. I miei studi non
furono riconosciuti e per riavere il mio diploma dovetti ripetere
tutta l'università. Oggi sono psicoterapeuta e assisto
molti profughi. I loro problemi si assomigliano e continuano a
ricordarmi il mio passato. In Germania un richiedente asilo deve
prima dimostrare di non essere un migrante economico. In una sola
udienza deve enunciare tutti i fatti a giustificazione della sua
fuga e della sua richiesta di asilo. Ma molte donne traumatizzate
non sono in grado di raccontare quanto è loro successo,
nemmeno quando vengono ascoltate da una donna. La violenza
subíta viene spesso rimossa per evitare di sentirsi ancora
dolorosamente impotenti ed esposte a un destino violento.
Le tracce lasciate dalla violenza spesso si fanno quindi strada
attraverso malattie fisiche come continui mal di testa, disturbi
cardiaci e circolatori, stati di panico, depressione, stati di
agitazione, smemoratezza e disperazione. Altre fonti di
destabilizzazione psicologica sono date dai lunghi tempi di
attesa per ottenere risposta alla domanda di asilo durante i
quali si dipende unicamente dagli aiuti statali, le continue
minacce di espulsione, insomma, una vita tra speranza e paura.
Spesso i profughi vengono sistemati in località fuori mano
e lontane dalle grandi città rendendo così molto
più difficili l'apprendimento della lingua, l'integrazione
o anche la possibilità di accedere ad un aiuto
psicologico. Molti profughi sono costretti a vivere per anni in
condizione invivibili e prive di dignità, in alloggi in
cui manca ogni possibilità di una sfera privata.
Tutti questi fattori indeboliscono la capacità di
auto-guarigione delle vittime e comportano effetti
destabilizzanti. I traumi irrisolti di molte donne kurde spesso
generano dipendenze di vario genere oppure le mettono in
condizione di subire i propri mariti. Spesso sopportano insulti,
botte e trattamenti che le privano della loro dignità. La
fuga in una casa protetta per donne viene spesso esclusa,
poiché vista come un posto per donne "senza onore" - la
mancanza delle corrette conoscenze linguistiche non permette loro
di percepire la differenza.
"Le guerre finiscono, le case si ricostruiscono, le ferite
guariscono, le strade vengono riasfaltate, ma notte dopo notte
uno sconosciuto ti ruba la forza e la fiducia di cui hai bisogno
per continuare a vivere."
(awina 2010)
Parvaneh Ghorishi è laureata in psicologia e lavora come psicoterapeuta.
AA.VV.
Ovunque esse si trovino, le donne indigene del mondo condividono la stessa minaccia: la violenza che mette in pericolo la loro vita e salute più di ogni altro fattore. La violenza sulle donne ha raggiunto un livello talmente preoccupante che nel 1999 le Nazioni Unite hanno deciso di proclamare il 25 novembre Giornata Mondiale per l'eliminazione della violenza alle donne. Quel giorno in tutti i paesi del mondo si realizzano manifestazioni e vengono avviate campagne di sensibilizzazione: il fiocco bianco distribuito alla gente simboleggia la condanna di ogni atto di violenza commesso contro una donna.
Ogni anno centinaia di donne (indigene) scompaiono e vengono ritrovate morte. I responsabili di questi crimini restano però impuniti. Il fenomeno è in crescita ed è diffuso in ogni angolo della terra, tanto che si parla ormai di "femminicidio" - un termine con cui si indica l'assassinio di donne apparentemente accettato o comunque poco combattuto dai governi nazionali. La causa per l'impunità sta nel ruolo esplicitamente o implicitamente subordinato che le donne ricoprono nella maggior parte delle società. La violenza domestica rientra anch'essa in questa forma di violenze. A tutela delle donne indigene vi sono diversi strumenti legali, come per esempio l'apposito passaggio nella Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite per la Tutela dei Popoli Indigeni o altre convenzioni internazionali. Le leggi però servono a poco se non vengono applicate.
Molti territori indigeni sono anche teatro di conflitti armati tra gruppi che si contendono risorse naturali ambite. La violenza (in tutte le sue forme) mirata contro le donne ha sempre fatto parte delle strategie di guerra e così le donne indigene subiscono due volte: una volta in quanto donne e poi ancora in quanto indigene. La destabilizzazione delle comunità e la distruzione della rete sociale sono i primi passi per cacciare le comunità indigene dai loro territori e si giocano sulla pelle delle donne. La violenza messa in atto dalle potenze coloniali per sopprimere la resistenza indigena continua ad essere praticata oggi tramite la militarizzazione dei conflitti. La sessualità diventa così metafora del dominio e dell'appropriazione del territorio decisa anche sul corpo delle donne. Le donne indigene diventano vittime della prostituzione forzata, di intimidazioni, tortura, stupri o lavoro forzato negli accampamenti militari.
Nel dibattito attorno alle terribili violenze di cui le donne indigene sono troppo spesso vittime si tralascia quasi sempre un aspetto davvero importante, e cioè il ruolo fondamentale giocato dalle donne nei processi di pace. In caso di conflitto spesso le donne sono le prime a offrire un sostegno sociale e a colmare il vuoto dell'inesistente assistenza statale. Un maggiore riconoscimento del fondamentale ruolo di mediatrici svolto dalle donne indigene permetterebbe loro di creare migliori e maggiori strutture per l'autotutela.
Julia Bangerter, Helena Nyberg
La casa per le donne in Cecenia di Lipkan Basaieva. Foto: Sarah Reinke, GfbV.
Con un tasso di disoccupazione del 80% per le donne cecene ci
sono poche possibilità di lavoro. Inoltre sta ai suoi
parenti maschi decidere se una donna può studiare o
lavorare. Per la società vi è una sola soluzione:
il matrimonio. Più giovane è la sposa più
velocemente la sua famiglia si libera dell'incubo dell'onore di
famiglia. Accade sempre più spesso che ragazze di
quattordici o quindici anni lascino la casa dei genitori per
sposarsi. Inoltre esse possono sposare solo un Ceceno, tutt'al
più un Inguscio. Molti uomini giovani sono emigrati e
quelli che sono rimasti nonostante le due guerre cecene di Yelzin
(1994 - 1996) e di Putin (1999 - 2000) con i loro 200.000 morti
hanno imparato che più dell'educazione può la
violenza. La conseguenza è stata una società sempre
più violenta, sia politicamente sia nel privato.
A fine novembre 2008 sette giovani donne cecene sono state
fucilate con l'accusa di "comportamento immorale". L'incaricato
per i diritti umani della Cecenia Nurdi Nuchadshiev ha commentato
che per le donne dei popoli di montagna vale l'antico codice di
comportamento Adat, secondo il quale gli uomini sono autorizzati
al linciaggio qualora si sentano offesi dal comportamento di una
donna. Le attiviste per i diritti umani cecene lamentano la
crescente clericalizzazione e arcaicizzazione della
società di cui il recente obbligo a portare l'hijab in
pubblico è esempio.
L'attivista per i diritti umani Lipkan Basajeva, insignita nel
2005 del premio per i diritti umani della città di Weimar,
gestisce il centro per donne "Dignità di donna" di Grosny.
Grazie al sostegno finanziario dell'organizzazione di donne
"Amica" di Friburgo, il centro offre alle donne assistenza
ginecologica, psicologica e giuridica. Tra i vari servizi offerti
figura anche l'assistenza legale fornita a donne separate e
vedove per l'affidamento dei figli. Infatti, secondo l'Adat i
figli restano sempre con i padri nonostante in Cecenia valga la
costituzione russa che invece affida i bambini quasi
automaticamente alle madri. Nel 2010 la giovane vedova Selicha
Magomadova riuscì a far valere la costituzione sull'Adat e
il tribunale di Grosny dispose che i suoi sei figli, trattenuti
dal clan del padre, fossero consegnati e affidati alla madre. La
sentenza costituisce un precedente legale.
Contemporaneamente la resistenza armata e radical-religiosa
contro il Cremlino strumentalizza le giovani donne come "vedove
nere" e mira a creare un califfato nel Caucaso
settentrionale.
Irena Brežná è stata corrispondente di guerra in Cecenia, scrive regolarmente del paese caucasico e sostiene progetti per donne in loco. Nel 2008 è stato pubblicato il suo primo romanzo "Die beste aller Welten"; www.brezna.ch.
In Siria l'impegno politico in opposizione al governo è
un tabù e anche l'impegno per mantenere la lingua e
cultura kurda diventa un'attività pericolosa. Chiunque
contravvenga a questi tabù rischia il carcere e la
tortura, anche se si tratta di una donna. Decine di donne kurde
sono infatti detenute nelle carceri siriane.
Un esempio per tutte è quello dell'attivista kurda Rojin
Remo, nata nel 1970 a Tirbespiyê/Qamilshlî e membro
dell'associazione femminile Sitar. La sera del 29 luglio 2009 un
veicolo delle forze di sicurezza siriane proveniente dalla
città di Manbej arriva nella cittadina kurdo-siriana di
Kobani per arrestare Remo che in quel momento si trova a casa di
alcuni conoscenti. Ammanettata e caricata con forza sul mezzo
viene portata in un luogo sconosciuto. Il 21 agosto 2009 è
ricoverata all'ospedale Al-Kindi di Aleppo. Era stata torturata e
stava molto male. La famiglia non è stata avvisata e
probabilmente Remo è stata ricoverata sotto falso
nome.
Il 3 agosto 2009 la polizia politica irrompe in una casa del
quartiere Zorava di Damasco e arresta due donne: Felek Naz
Khalil, nata il 30 ottobre 1968 a Dêrîk/Ain
Dîvar e Afret Mohamed, nata nel 1975 ad Al-Hasaka. Da
allora si è persa ogni traccia delle due donne il cui
crimine è stato quello di essersi impegnate per la propria
cultura e per i diritti del loro popolo.
Maria Sido è membro del direttivo dell'APM Germania.
Nel novembre 2010 oltre 200 profughi Karen sono fuggiti dal loro villaggio Pa Lu in Birmania verso la Thailandia. Foto: Prachatai, flickr.
"I soldati hanno picchiato e stuprato più volte mia
figlia 15enne", dichiara una donna sindaco di un villaggio dei
Karen in Birmania. "Per mia figlia la vita è diventata un
inferno. Dopo gli stupri è stata a un passo dal suicidio e
ha perso la ragione".
Quanto successo a questa ragazza purtroppo non è un caso
isolato. Nei territori delle minoranze etniche della Birmania, in
cui da decenni si fronteggiano movimenti di liberazione e soldati
dell'esercito, le donne sono spesso vittime dei crimini dei
soldati birmani. Da 60 anni i Karen, come anche altre minoranze
del paese, chiedono maggiore autonomia e il rispetto dei loro
diritti civili e culturali. Di fronte al definitivo rifiuto delle
autorità a discutere le loro richieste i Karen hanno
impugnato le armi.
L'esercito e le milizie alleate si vendicano con violenza mirata
sulla popolazione civile, soprattutto sulle donne. "I soldati mi
hanno trascinata nella foresta e mi hanno costretta a restare con
loro per tre giorni e tre notti", racconta un'altra donna Karen.
"Mi hanno violentata e picchiata in faccia accusandomi di
nascondere dei ribelli. Mi hanno pestata con i loro pesanti
stivali."
La leader di un altro villaggio Karen racconta dei lavori forzati
per costruire una nuova strada per l'esercito e delle ripetute e
regolari aggressioni sessuali dei soldati durante i lavori.
"Prima i soldati sono arrivati al mio villaggio e hanno portato
via uomini e donne costringendoli a lavorare nella costruzione
della strada. Molte donne sono state costrette a portare carichi
pesantissimi e a procurare cibo e altre cose per i soldati. Poi
hanno trascinato anche me nella foresta dove sono stata
trattenuta come ostaggio. Di notte dovevo dormire tra i loro
comandanti che si davano il cambio nel violentarmi."
Ulrich Delius
Nel 2006 trapelarono le prime notizie sulle deportazione di
donne uigure da parte delle autorità cinesi ma presto il
numero delle vittime raggiunse e superò i mille casi. Di
fatto si tratta di una nuova forma di aggressione del governo
cinese contro la popolazione musulmana del Turkestan orientale
(Xinjiang) nella Cina nordoccidentale.
Con false promesse e enormi pressioni giovani uigure tra i 16 e i
25 anni vengono mandate a lavorare nelle fabbriche della Cina
orientale. Una volta arrivate, la promessa del lavoro ben pagato
sfuma immediatamente: le ragazze si trovano a fronteggiare
condizioni di lavoro disumane, salari inesistenti e terribili
condizioni abitative e sanitarie. Non mancano le denunce di abusi
sessuali. Ridotte in schiavitù e lontane da casa per le
ragazze è economicamente e psicologicamente impossibile
tentare la fuga. Sanno che anche la famiglia a casa subisce
enormi pressioni e le famiglie le cui figlie si rifiutano di
partecipare ai cosiddetti "programmi di lavoro" subiscono
l'esproprio dei campi o la distruzione della casa.
Le deportazioni sistematiche delle giovani donne fanno parte del
programma di assimilazione degli Uiguri che include anche
l'incoraggiamento e il sostegno fornito a centinaia di migliaia
di cinesi Han che hanno deciso di migrare e insediarsi nel
Turkestan orientale. Così negli scorsi decenni la
composizione della popolazione è drasticamente cambiata a
favore dei cinesi Han e di pari passo si è intensificata
la discriminazione degli Uiguri. Per loro è diventato
difficile trovare lavoro, non possono esercitare la loro
religione né utilizzare la loro lingua nel sistema
educativo. Manca anche la libertà di opinione e di stampa.
Le ragazze e donne uigure sono le principali vittime
dell'aggressiva politica di Pechino: oltre alle deportazioni e
alla generale soppressione della loro lingua e cultura esse
subiscono - all'interno della politica del figlio unico e
nonostante le eccezioni previste per le minoranze etniche -
sterilizzazioni e aborti forzati.
Jana Brandt è coordinatrice di progetti presso il Congresso Mondiale degli Uiguri (WUC) a Monaco.
Le due monache di Drapchi Namdrol Lhamo (sx) e Gyaltsen Drolkar durante una manifestazione a Londra. Foto: Foto: mylondondiary.co.uk.
Nel marzo 2008, a pochi mesi dall'inizio dei giochi olimpici
di Pechino, i Tibetani scesero in strada per protestare contro la
loro situazione. La Tibetana Rogzin Dölma racconta
così la violenta reazione delle forze dell'ordine cinesi:
"Quando abbiamo manifestato i soldati hanno iniziato a spararci.
Altri picchiavano i manifestanti fino a ucciderli, era
inconcepibile. Anch'io fui picchiata e persi i sensi. Quando
rinvenni mi trovai in una buca piena di acqua e fango con i
poliziotti che mi correvano sopra." Rogzin Dölma si è
nascosta per un intero anno spostandosi in continuazione da un
posto all'altro. Poi ha deciso di rischiare la pericolosa fuga
dalla Cina. Partendo da Lhasa Rogzin Dölma ha attraversato
le vette innevate del Nepal fino a raggiungere il 14 gennaio 2010
la città indiana di Dharamsala, sede del governo in esilio
del Dalai Lama. La storia di Dölma rispecchia quella di
moltissimi Tibetani e Tibetane che ogni anno tentano di fuggire
all'estero passando per il Nepal. La fuga è pericolosa,
molti vengono sorpresi dai soldati, alcuni muoiono colpiti dal
fuoco dei militari, altri di fame e altri ancora per le terribili
condizioni climatiche dell'Himalaya. Rogzin Dölma è
felice di avercela fatta ed essere riuscita ad arrivare in India.
"Non posso dire i nomi delle persone e famiglie che mi hanno
aiutata. Li metterei in grave pericolo."
A dimostrare particolare coraggio sono anche le monache tibetane.
Phuntsok Nyidron, nota per essere una delle "14 monache cantanti
di Drapchi", ha passato 15 anni in carcere: "Abbiamo
subíto ogni forma di tortura. Per i carcerieri era normale
usare le spranghe o gli elettroshock contro le detenute che
esprimevano la propria opinione o che si rifiutavano di
partecipare a misure educative comuniste. Nel maggio del 1998
cinque monache sono morte per aver osato protestare."
Katja Wolff
Donne della città darfuriana di Kutum cucinano con l'energia solare. Foto: Darfur Peace and Development.
Con l'inizio del genocidio in Darfur (2003) migliaia di donne
sono state vittime di violenza sessuale. Molte donne non hanno
più il coraggio di uscire dai campi profughi per cercare
legna da ardere perché gli stupri appena fuori dai campi
profughi sono ormai diventati triste quotidianità. In
Darfur la violenza sessuale si è configurata come una vera
e propria arma di guerra. I miliziani arabi Janjaweed si vantano
del numero di donne africane che hanno violentato ottenendo
così che nella maggioranza dei casi esse vengano escluse
dalle famiglie.
Per proteggere le donne, l'APM collabora da anni con
l'associazione locale Darfur Peace & Development (DPDO)
finanziando un progetto di cucine solari. L'associazione
darfuriana insegna alle donne a costruirsi da sole una cucina
solare. A parte il fatto che l'invio delle cucine solari
comporterebbe dei costi di spedizione altissimi, l'associazione
vuole che le donne abbiano la possibilità di trovare nei
mercati locali tutti i componenti necessari. Una pentola, buste
di plastica, cartone, dei fogli di alluminio e colla - è
tutto quanto serve per costruirsi una cucina solare - e del
colore nero con cui dipingerle affinché possano accumulare
quanto più calore possibile.
Chi frequenta i corsi della durata di tre giorni per imparare a
costruire una cucina solare viene invitato a trasmettere le nuove
conoscenze ai vicini. Per chi frequenta il corso c'è anche
un libro di ricette. Il corso e i materiali per fabbricare una
cucina solare costano complessivamente 20 Euro. Per le donne
è una cifra che può addirittura salvare la
vita.
Hanno Schedler è collaboratore della sezione Africa dell'APM.
Donne traumatizzate nell'ospedale di Panzi. Foto: Andre Thiel.
"Dal 1998 ad oggi centinaia di migliaia di donne e bambine
congolesi sono state violentate e più di cinque milioni di
persone sono state uccise. Tra le prime vittime c'erano anche la
mia migliore amica, quasi una sorella, e suo marito. Il corpo
della mia amica aveva più di cento fori di pallottola e il
marito è stato ucciso a poca distanza da lei. Allora
pensavo che si trattasse di un episodio di violenza isolato ma a
partire dal 1999 la violenza contro donne e bambini è
aumentata sempre di più. Nel settembre del 2000, quando
una bimba di 18 mesi che era stata violentata è morta tra
le mie braccia mentre la portavo in ospedale, ho smesso di
credere nell'Occidente." In seguito a queste esperienze personali
la congolese Christine Schuler-Deschryver ha iniziato a
impegnarsi per le moltissime vittime di stupro in Congo.
Ufficialmente le elezioni del 2006 hanno sancito la pace e la
democrazia nel paese, ma nella regione orientale del Kivu vengono
commessi più crimini e sono in fuga più persone che
nel Darfur. Ci sono voluti anni prima che l'opinione pubblica
internazionale prendesse atto delle crudeltà e violenze
commesse dalle milizie contro la popolazione civile. Ormai tutti
i partiti in causa usano lo stupro per dimostrare il proprio
potere o per intimidire la gente, dalle milizie tribali locali
all'esercito regolare.
La Schuler-Deschryver sostiene l'ospedale di Panzi specializzato
nel trattamento di donne e ragazze violentate e traumatizzate.
Ogni anno vengono operate circa 3.600 donne, "ma bisogna sapere
che le donne che arrivano in ospedale non hanno più alcuna
scelta. E' come se fossero state mutilate", informa la
Schuler-Deschryver. "Se la tua comunità viene a sapere che
sei stata violentata devi lasciare il villaggio. Se sopravvivi
sarà tuo marito a chiederti di andartene - quasi sempre
insieme ai bambini."
Katja Wolff
Da oltre 50 anni i popoli nativi del delta del Niger subiscono
le conseguenze dello sfruttamento petrolifero: le perdite degli
oleodotti, i fiumi e i terreni contaminati e una fortissima
incidenza delle malattie respiratorie. La popolazione però
ha iniziato a protestare e sempre più spesso anche le
donne alzano la voce: "Quando avevo quindici anni la situazione
era esattamente la stessa", racconta Mercy Olowu, portavoce delle
donne del popolo Itsekiri. "Non è cambiato nulla, a parte
il fatto che la terra è ancora più contaminata e le
nostre condizioni di vita sono ulteriormente peggiorate."
Nell'estate del 2010 Mercy ha occupato insieme ad altre 300 donne
del suo popolo il cantiere per la costruzione di un gasdotto dal
costo di 800 milioni di dollari USA. Le donne hanno impedito alla
ditta costruttrice di spostare le macchine dal cantiere. Secondo
le donne è scandaloso che il megaprogetto serva a fornire
energia a tutta la Nigeria ma che il loro villaggio, situato
proprio accanto al gasdotto, non abbia elettricità.
Le donne chiedono un maggiore sostegno economico per i loro
villaggi e più posti di lavoro per i giovani del posto.
Senza alcuna prospettiva per il futuro sempre più giovani
confluiscono in uno dei gruppi armati che rapiscono tecnici
stranieri per un riscatto in denaro da chiedere alle
multinazionali energetiche. "Ma," dice Mercy Olowu, "tutto
ciò comporta solo ancora più violenza perché
l'esercito e la polizia si vendicano brutalmente su noi donne".
Un'azione punitiva delle forze dell'ordine comporta sempre la
distruzione di un villaggio ma anche la violenza e lo stupro
delle donne.
Molte donne nel frattempo hanno iniziato ad avere paura anche dei
giovani miliziani pesantemente armati. Le armi rendono i giovani
imprevedibili e spesso entrano nei villaggi pieni di rabbia e
violenza che a volte finiscono per sfogare su donne e ragazze.
Per questo motivo le donne chiedono il disarmo delle milizie
anche se queste sostengono di lottare per i diritti della
popolazione nativa.
Ulrich Delius
Donne indigene manifestano a Vancouver durante il 'Women's Memorial March'. Foto: Christopher Bevacqua, flickr.
Il rapporto "Sorelle rubate" pubblicato nel 2004 ha obbligato
l'opinione pubblica canadese a prendere atto di un fatto fino ad
allora taciuto: dagli anni '70 del secolo scorso ad oggi in
Canada sono sparite o sono state uccise 582 donne indigene. A
questa cifra andrebbero aggiunti i casi non denunciati il cui
numero si stima essere ancora più alto.
Né i responsabili politici né la giustizia e
nemmeno le forze dell'ordine hanno voluto commentare i risultati
del rapporto. Per convincere le autorità a reagire ci sono
volute le pressioni delle organizzazioni per i diritti umani e di
diverse istanze delle Nazioni Unite. Nell'ottobre 2010 il governo
canadese annuncia quindi un piano d'azione che però punta
più a combattere i sintomi piuttosto che le cause del
fenomeno.
Nella provincia della British Columbia gli atti di violenza sono
particolarmente numerosi. La violenza viene esercitata sulle
persone più deboli della società canadese, donne
indigene che in quanto tali subiscono sia la discriminazione
razziale sia quella di genere. Le donne, che nella società
indigena occupavano una posizione di rispetto e anche
economicamente importante, hanno perso i loro diritti con il
processo di colonizzazione che le ha ridotte a semplici "oggetti
(sessuali) senza valore". Vittime della violenza sono giovani
donne tanto quanto donne più anziane ma la cronaca ne
parla perlopiù come di ragazze tossicodipendenti o
prostitute. Certo, ci sono anche loro, e non c'è da
meravigliarsi se si va a vedere da vicino le condizioni di vita
delle popolazioni indigene canadesi. Le riserve indiane del 21.
secolo sono ancora caratterizzate dalla povertà, dalla
mancanza di speranza e di prospettive future. Le città
potrebbero almeno in teoria offrire qualche possibilità ma
in cambio vi è anche maggiore discriminazione. I governi
nazionali e provinciali autorizzano le multinazionali a sfruttare
le risorse delle terre indigene e lasciano la popolazione alla
povertà.
I responsabili delle violenze contro le donne vengono raramente
arrestati e condannati. La polizia è male addestrata, la
giustizia lenta e negligente e la politica è indifferente.
Lo scorso 12 novembre il Canada ha firmato la Dichiarazione
dell'ONU sui Diritti dei Popoli Indigeni. Se il governo canadese
intende veramente applicare i principi contenuti nella
Dichiarazione allora dovrebbe dimostrarlo combattendo per prima
cosa la diffusa violenza contro le donne indigene.
Monika Seiller
Durante i 36 anni di genocidio (1960-1996) le donne maya erano le vittime predilette del terrore di stato contro la popolazione civile. 200.000 indigeni maya persero la vita durante quel periodo. La messa in fuga della popolazione, la tortura e lo stupro erano i mezzi usati sistematicamente per diffondere il terrore. A quindici anni dalla firma dell'accordo di pace non vi è stata alcuna seria elaborazione dei crimini commessi dalle dittature e le donne maya continuano ad essere il gruppo sociale più svantaggiato del paese. Vittime del machismo diffuso, esse subiscono il disprezzo e l'estrema violenza che si scatena contro le donne. A ciò si aggiunge la discriminazione per essere indigene. Negli ultimi dieci anni gli assassinii di donne indigene sono continuamente aumentati. La violenza colpisce per l'estrema brutalità messa in atto. Prima di essere uccise, molte donne sono state torturate, stuprate e mutilate. I corpi vengono abbandonati sui cigli delle strade o in qualche discarica. L'impunità è diffusa e le indagini che seguono il ritrovamento di un corpo sono perlopiù delle brevi farse. Le vittime sono appunto donne indigene e le autorità non hanno alcun reale interesse ad individuare e portare in tribunale gli assassini.
Anna-Lena Herkenhoff studia sociologia a Münster, ha trascorso un semestre a San Sebastián in Spagna e sta svolgendo un tirocinio presso l'APM Germania.
Secondo i dati ufficiali, durante il governo Fujimori
(1990-2000) in Perù sono state sterilizzate circa 300.000
donne, prevalentemente donne quechua. I documenti in possesso
dell'ufficio nazionale per i diritti umani dimostrano che almeno
2.074 donne sono state sterilizzate contro la loro
volontà. Molte non sapevano cosa le avrebbero fatto
durante l'intervento oppure non erano state informate delle
conseguenze. Altre ancora sono state minacciate di non ricevere
più alcun trattamento medico se non avessero acconsentito
all'intervento. Secondo le stime solo il dieci per cento delle
donne avrebbe autorizzato l'intervento in seguito alla promessa
di cibo, medicinali o soldi. Decine di donne sono morte durante
l'intervento per le catastrofiche condizioni sanitarie nelle sale
operatorie.
Allora il personale sanitario statale era costretto a
sterilizzare mensilmente un numero fisso di donne stabilito dal
ministero della sanità. I fondi necessari alla
realizzazione del programma di sterilizzazione forzata arrivavano
da finanziatori internazionali come il Fondo delle Nazione Unite
per la Popolazione (UNFPA) e l'organizzazione per la cooperazione
statunitense USAID.
Ciò nonostante nel maggio 2009 il pubblico ministero
peruviano incaricato delle violazioni dei diritti umani Jaime
Schwartz ha negato l'autorizzazione a procedere contro quattro
ministri dell'allora governo Fujimori. I casi, così il
pubblico ministero, non rappresentavano violazioni dei diritti
umani ma reati contro il corpo, la vita e la salute e casi di
omicidio e in quanto tali ormai caduti in prescrizione. La
decisione del pubblico ministero fu confermata dalla procura
nonostante l'istanza giudiziaria fosse stata presentata come caso
di genocidio e di tortura e nonostante le forti proteste delle
organizzazioni per i diritti umani. L'associazione delle donne
forzatamente sterilizzate della provincia andina di Anta intende
ora rompere l'impunità presentando una nuova istanza
giudiziaria basata sulle testimonianze di circa 100 contadine
quechua. Le donne sono sostenute dalla parlamentare quechua
Hilaria Supa, la cui figlia fu a sua volta vittima del programma
di sterilizzazioni forzate.
Yvonne Bangert è referente dell'APM per gli affari indigeni.
Jasna Causevic
In Serbia le 'donne in nero' lavorano da 20 anni per la pace, la riconciliazione e la condanna dei criminali di guerra.
Il movimento di pace serbo "Donne in nero" è stato
fondato il 9 ottobre 1991 come protesta alla politica di guerra
serba. Il movimento serbo è stato creato sul modello
dell'omonima organizzazione fondata in Israele che dal 1988
organizza presidi contro il conflitto israelo-palestinese. 20
anni dopo, il movimento internazionale conta attiviste di ogni
nazionalità, età, religione, credo ed estrazione
sociale.
Negli anni della guerra dal 1991 al 1995 la rete serba costituiva
un riferimento per tutti gli obiettori di coscienza, disertori e
loro parenti e aiutava profughi e vittime di guerra. Oggi le
Donne in Nero si impegnano per la cattura dei criminali di guerra
e la loro condanna tramite tribunali nazionali e la Corte
internazionale per i crimini di guerra all'Aia (ICTY).
Durante tutta la guerra in Bosnia le Donne in Nero e la loro
presidentessa Staša Zajovic si sono opposte pubblicamente
al clima di odio fomentato dal regime di Slobodan Milosevic senza
farsi intimidire da diffamazioni e accuse che le definivano "una
vergogna per la Serbia e il popolo serbo". In cambio le donne
hanno sempre chiesto l'incondizionata persecuzione dei criminali
di guerra e si sono appellate all'elite culturale serba
affinché si assumesse la responsabilità morale sia
per le guerre in Croazia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo sia per i
crimini di guerra commessi nei Balcani occidentali. All'ideale
maschile dei nazionalisti serbi esse hanno contrapposto un
pacifismo senza compromessi.
A partire dagli anni 90 le Donne in Nero hanno continuato a
organizzare presidi nonviolenti, tanto da avere al loro attivo
più di mille manifestazioni, azioni e presidi. Per rendere
più efficace la loro azione, le Donne in Nero organizzano
corsi di formazione e laboratori per le loro attiviste,
conferenze e dibattiti pubblici.
Il contatto con altri gruppi pacifisti e di donne in patria e
all'estero è molto importante per le Donne in nero.
L'organizzazione ha infatti ottimi rapporti con il Centro per
donne e per la formazione di donne di Kotor (Montenegro), con il
Centro per le donne vittime di guerra di Zagabria (Croazia), con
l'Associazione Donne per le Donne di Sarajevo e con la Fondazione
CURE di Sarajevo, con l'associazione "Donne di Srebrenica" di
Tuzla (Bosnia Erzegovina) e con la rete di organizzazioni di
donne del Kosovo. Grazie alle loro iniziative e alla loro
presenza nei Balcani le Donne in nero sono diventate
un'importante componente del locale movimento pacifista
nonché della rete di organizzazioni pacifiste di donne di
tutto il mondo.
Per ulteriori informazioni: www.zeneucrnom.org
Felicia Langer: 'Non posso vivere con le ingiustizie senza far niente per combatterle'. Foto: UNiesert (Wikimedia Commons).
APM: Quale dei molti premi vinti riveste maggiore significato
per Lei?
Felicia Langer: L'aver ricevuto il Premio Nobel alternativo, il
premio più importante dopo il Premio Nobel, è stato
un bel riconoscimento.
APM: Nel 1950 Lei è migrata insieme a suo marito in
Israele dove poi ha studiato giurisprudenza. Come ha vissuto
l'inizio della sua carriera professionale in un regno ancora
tutto maschile?
F.L.: Ho dovuto impormi, essere sempre la migliore. Questo mi
è rimasto dentro. Non è sempre stato facile. Dal
1965 al 1967 ho difeso gente povera ed esclusa. Certo, non ci ho
guadagnato ma ne ho tratto molta soddisfazione.
APM: Come hanno reagito i suoi clienti palestinesi a Lei, come
donna?
F.L.: All'epoca ero l'unica a difendere dei Palestinesi sulla
base della solidarietà e della comprensione. Forse
cercavano dell'empatia. Il mio primo cliente è stato un
Imam. Venne con sua moglie, il loro figlio era in carcere.
Avevano ricevuto recapitata la camicia del figlio macchiata di
sangue e quindi sapevano che era stato picchiato. In quel momento
mi sono sentita come sua madre e piangevo insieme ai genitori. In
questo modo è crollato il muro tra di noi. Credo che
quando esiste partecipazione, comprensione e vera
solidarietà, la questione di genere diventa
secondaria.
APM: Come ha iniziato ad essere conosciuta come avvocato per i
diritti umani?
F.L.: E' stato un processo. Ero una donna, un'Israeliana e
difendevo Palestinesi - terroristi, continuava a rinfacciarmi la
gente. Ma ciò non è giusto perché non ho mai
difeso chi ha perseguitato dei civili. Ma insieme alla fama
è arrivato talmente tanto odio che anche questo ha
contribuito alla mia notorietà. A un certo punto ho
addirittura avuto bisogno di una guardia del corpo.
APM: Come è stata trattata dai suoi colleghi maschi?
F. L.: Coloro che hanno capito che per noi è un dovere
difendere i Palestinesi in questa situazione di
arbitrarietà mi hanno mostrato molta simpatia. Altri
invece non riuscivano a nascondere il loro odio e questo mi ha
fatto soffrire parecchio.
APM: Per quale motivo ha reso l'impegno per i Palestinesi il
compito della sua vita?
F. L.: Lotto perché i Palestinesi vengono spogliati dei
loro diritti e soffrono. Questa è un'occupazione crudele e
colonizzatrice. Non posso vivere accanto all'ingiustizia senza
fare niente.
APM: Perché ha lasciato Israele nel 1990?
F. L.: A partire dal 1987 mi sono resa conto che il mio lavoro
era inutile. Il sistema giuridico israeliano è una farsa.
Ero addirittura diventata un alibi per un brutto sistema.
L'élite israeliana si vantava "abbiamo Felicia Langer! In
Giordania o in Egitto non esiste nessuna Felicia Langer!" e
così mi sono detta: "no, non voglio stare a questo gioco!"
Per protesta ho chiuso il mio ufficio e ho reso pubblico questo
mio passo. Anche il Washington Post ne ha parlato.
APM: Per quale motivo ha scelto la Germania come nuova
residenza?
F. L.: Ho ricevuto un incarico per l'insegnamento
all'università di Brema. In questo modo potevo portare
avanti il mio lavoro per la pace e la giustizia, anche se in modo
diverso.
APM: Nel 1998 la rivista israeliana "You" la annoverava tra le 50
donne più importanti della società israeliana
...
F. L.: Sì, per me è stato come un riconoscimento.
Tardivo, ma importante!
APM: E' riuscita a raggiungere l'obiettivo della sua vita di
creare un ponte tra Palestinesi e Israeliani?
F.L.: Se guardo a ritroso tutta la mia vita allora posso dire che
questo ponte esiste davvero. Ancora oggi ricevo telefonate e
riconoscimenti. Ci sono ragazze che in mio onore sono state
chiamate Felicia. Ciò mi dimostra che basta costruirlo un
ponte affinché continui a esistere.
Felicia Langer è ebrea di origine polacca. Nel 1949 sposa Mieciu Langer, sopravvissuto a cinque campi di concentramento. Nel 1950 la coppia migra in Israele dove nasce il loro figlio. Nel 1959 Felicia inizia a studiare giurisprudenza. A partire dalla Guerra dei sei Giorni (1967) difende Palestinesi davanti ai tribunali militari israeliani raggiungendo una notorietà che travalica le frontiere israeliane. Ha scritto numerosi libri. Nel 1990 chiude il suo studio e con il marito si trasferisce in Germania.
Hanno Schedler
In tutto il mondo ci sono 900 donne rabbino. Una di queste è Alina Treiger che nonostante i suoi 31 anni ha già avuto una vita movimentata. E' la prima donna ad essere ordinata rabbino in Germania dopo l'olocausto e prima di lei in Germania ci fu una sola donna rabbino: Regina Jonas.
Alina Treiger è stata ordinata rabbino nel novembre 2010. Foto: Matthias Süßen (Wikimedia Commons).
Regina Jonas nacque nel 1902 e terminò i suoi studi nel
1930 ma solo cinque anni dopo trovò un rabbino liberale
che la ordinò a sua volta rabbino. Negli anni successivi
lavorò come insegnante e come assistente spirituale in un
ospedale ebraico di Berlino. Nel 1942 fu deportata nel campo di
concentramento di Theresienstadt dove assieme allo psicoanalista
viennese Viktor Frankl, anch'egli deportato, assistette gli altri
detenuti per evitare che si suicidassero. Nell'ottobre 1944 la
Jonas fu trasferita ad Auschwitz e assassinata, probabilmente il
12 dicembre 1944.
Alina Treiger è nata nel 1979 nella città ucraina
di Poltava. Già da giovane era consapevole delle sue
origini ebraiche nonostante a Poltava non vi fosse nessuna
sinagoga e nemmeno una comunità ebraica. Il regime
comunista proibì al padre Phula di studiare ma
poiché la madre non era ebrea, Alina crebbe laica e si
convertì all'ebraismo solo successivamente. Dopo il crollo
del regime sovietico la Treiger conobbe altri ebrei e
fondò un club giovanile ebraico. Inseritasi nel dominante
ebraismo ortodosso, si trovò in disaccordo con il ruolo
riservato alle donne e passò quindi all'ebraismo liberale.
Inizialmente aveva iniziato a studiare musica ma nel 1998, dopo
un viaggio di nove giorni in Israele, sentì che la
religione era la sua vocazione. L'Unione mondiale dell'ebraismo
progressista (World Union of Progressive Judaism, WUPJ) le rese
possibile prima una formazione come assistente comunitaria a
Mosca e poi le offrì la possibilità di studiare in
Germania. Il 7 luglio 2001 Alina Treiger raggiunse Berlino,
munita solo del suo visto per motivi di studio presso il collegio
Abraham-Geiger dell'università di Potsdam, una piccola
valigia e nessuna conoscenza del tedesco. Lo scorso 4 novembre
Alina Geiger è stata ordinata rabbino nella sinagoga in
via Pestalozzi a Berlino/Charlottenburg, alla presenza del
presidente federale tedesco Christian Wulff e dell'allora
presidentessa del Consiglio centrale Ebraico in Germania
Charlotte Knobloch. L'evento è stato ripreso da buona
parte della stampa internazionale. Alla BBC Alina Treiger aveva
dichiarato: "Non sono stata io a scegliere questo lavoro,
è stato il lavoro a sceglier me".
Ora Alina Treiger assiste le comunità di Oldenburg e
Delmenhorst dove una buona parte dei circa 500 credenti proviene
dall'ex-Unione Sovietica. Per Alina Treiger è un vantaggio
poter trasmettere la propria fede anche in ucraino o russo a
tutti coloro che ancora non parlano bene il tedesco e che a causa
del periodo comunista hanno poca dimestichezza con la propria
religione.
L'ebraismo liberale
L'ebraismo liberale affonda le sue radici principalmente nella
Germania del 18esimo e 19esimo secolo e si basa tra l'altro sulle
concezioni di Moses Mendelssohn, Israel Jacobsohn e Abraham
Geiger. La corrente liberale interpreta la rivelazione non come
atto unico, durante il quale Mosé ricevette da Dio
letteralmente la Thora (l'insegnamento scritto) e tutte le
interpretazioni (l'insegnamento orale, poi trascritto nel
Talmud), ma come un processo dinamico tutt'ora in corso che parte
da Dio ed è mediato dall'uomo. Nell'ebraismo liberale vige
la completa equiparazione tra uomo e donna in tutti gli aspetti
religiosi.
Ciò che segue sono spezzoni di un discorso pronunciato dall'attivista per i diritti umani kurda Leyla Zana durante il primo congresso delle donne kurde della Turchia, dell'Iraq, dell'Iran, della Siria, in Europa e dei paesi della Comunità di Stati Indipendenti (CSI), tenuto in aprile 2010 a Diyarbakir (Turchia). Tra le varie esperienze di vita, Leyla Zana ha trascorso undici anni in carcere per aver utilizzato la sua lingua, il kurdo, al parlamento turco.
A partire da [gli accordi di] Qasr-e-Shirin [1639] e Losanna
[1923] che hanno diviso la terra kurda, le nostre donne [kurde]
hanno subíto la persecuzione politica, culturale e
religiosa nonché lo sfruttamento economico. E' per questo
che dobbiamo impegnarci con particolare forza per creare una
società pacifica, democratica e con pari diritti tra
uomini e donne.
Questa conferenza non serve solo a parlare delle ingiustizie nei
confronti delle donne e delle limitazioni che subiscono. Bisogna
affrontare anche temi quali la lapidazione, la mutilazione
genitale femminile, la vendetta d'onore, i matrimoni obbligati,
la violenza sessuale, lo stupro e il divieto all'utilizzo della
propria lingua. Tutti questi sono problemi quotidiani e attuali a
cui dobbiamo dedicarci. Anche se non sarà possibile
trovare delle soluzioni dall'oggi al domani, credo che noi, in
quanto vittime e sostenitrici di altre vittime, potremmo ottenere
l'attenzione dell'opinione pubblica. D'ora in poi dobbiamo
lavorare insieme in modo organizzato per affrontare queste
tematiche.
Le donne kurde lottano sia per i loro diritti di donne sia per la
libertà e l'identità nazionale dei Kurdi. Quindi la
voce della donna kurda è spesso la voce degli oppressi e
dei senza-voce. Le donne kurde che vivono in Kurdistan e nella
diaspora oggi si riuniscono per la prima volta. Vediamo che molti
paesi e molte nazioni tentano di costruire delle relazioni con i
Kurdi. Se noi Kurdi comunicassimo in modo aperto e sincero tra di
noi allora potremmo creare un dialogo migliore anche con i paesi
nostri vicini. Finché i Kurdi non riescono a mettersi
d'accordo tra di loro, non potremmo contare sulla
solidarietà degli altri. Senza solidarietà non vi
è unità e senza unità non c'è forza,
e senza forza non vi potrà essere una pace sicura!
[Traduzione del discorso originale di Cigdem Cagirigi. Versione italiana di Sabrina Bussani].
'Madri del sabato' a Diyarbarkir. Foto: Ahmet Ün.
Le "madri del sabato" kurde cercano i loro
figli
Ogni sabato a Diyarbakir un gruppo di donne kurde si siede a
gambe incrociate a manifestare in silenzio con le foto dei propri
cari in mostra. Le madri del sabato cercano i loro figli,
fratelli, mariti e padri. La guerra tra il movimento clandestino
kurdo PKK e lo stato turco, durata dal 1984 al 1999, ha fatto
42.000 vittime, ma le persone scomparse, di cui non si è
più saputo nulla, sono tuttora 17.000. L'iniziativa delle
madri del sabato è nata nel 1995 a Istanbul. Agli inizi
degli anni 1990 il numero di persone fatte scomparire era
aumentato vertiginosamente. Con il pretesto della lotta al
terrorismo, lo stato turco perseguitava sistematicamente presunti
membri del PKK e la popolazione civile kurda. Il 21 marzo 1995
scomparve l'insegnante 30enne Hasan Ocak. 55 giorni dopo sua
madre identificò il suo corpo. Sotto la sua guida le madri
si incontrarono per la prima volta il 27 maggio 1995 a Istanbul.
Da allora protestano tutti i sabati per opporsi al governo e alla
giustizia turca che continuano a tacere su questi omicidi.
Vogliono far sapere all'opinione pubblica l'esistenza di questi
reati e così evitare che si ripetano. Per quattro anni
hanno resistito a tutti i tentativi delle autorità turche
di porre fine alla loro protesta e nel frattempo l'iniziativa
è stata ripresa dalle madri di altre città, come ad
esempio a Diyarbakir dove le donne continuano tuttora a
protestare silenziosamente ogni sabato.
Carina Schlüsing
Cinur Ghaderi
Nel Kurdistan autonomo non ci sono "LE" donne, ci sono invece parlamentari, panettiere, professoresse, analfabete, nubili e donne che vivono in matrimoni poligami, donne anziane che hanno vissuto la dittatura Baa'th e donne giovani. Le condizioni di vita durante la dittatura erano notevolmente diverse da quanto siano oggi nonostante l'influenza storica sia ancora percepibile.
Donne Barzan con le rappresentanti dell'Associazione popoli minacciati Fadila Memisevic e Maria Sido. Foto: archivio GfbV.
Proprio come gli uomini kurdi (musulmani e yezidi) e come chi
apparteneva ad un'altra minoranza (Assiro-Caldei-Aramei,
Turkmeni) così anche le donne kurde hanno subíto le
persecuzioni del regime di Saddam Hussein e del partito Baa'th
(1968 - 2003) che complessivamente hanno causato 500.000
morti.
Per due giorni, dal 16 al 18 marzo 1988, 88 aerei iracheni hanno
bombardato la città di Halabja e i suoi 80.000 abitanti
con gas nervini. Almeno 7.000 persone sono state uccise o hanno
riportato danni permanenti. L'operazione denominata "Anfal"
consisteva in una serie di omicidi di massa della popolazione
civile del Kurdistan eseguiti dall'esercito iracheno tra il 1988
e il 1989. Gli omicidi miravano soprattutto a eliminare uomini
abili al lavoro e ragazzi tra gli undici e i cinquant'anni.
Migliaia di villaggi sono stati distrutti, centinaia di migliaia
di persone uccise e/o deportate. La maggior parte di esse non
è mai più riapparsa. L'offensiva Anfal era
coordinata da Ali Hassan Al Majid, conosciuto anche come Ali il
chimico, cugino di Saddam Hussein. Il 30 luglio 1983 è
stato uno dei giorni più tragici della dittatura di Saddam
Hussein. Quel giorno i militari iracheni hanno caricato su dei
camion e deportato praticamente tutta la popolazione maschile
della valle di Barzan. Le donne persero i loro mariti, i loro
figli, fratelli e padri. Tutti i deportati sono stati uccisi e
non si sa cosa sia accaduto a 8.000 uomini e ragazzi di cui non
sono mai stati trovati i corpi.
Per le vedove di Germian e Barzan si tratta di eventi che hanno
segnato la loro quotidianità. A partire dal quel giorno la
maggior parte dei pensieri delle vedove di Anfal ruota attorno ai
cari persi. In parte esse sono sostenute dal governo con una
piccola pensione o con l'assegnazione di un piccolo terreno ma
molte di loro attendono ancora l'apertura delle molte fossi
comuni sparse in Iraq. Ciò che cercano è la
certezza sul destino del proprio familiare, il riconoscimento
delle loro sofferenze e la riparazione. I crimini commessi contro
la popolazione hanno avuto ripercussioni anche sulla cultura
delle minoranze colpite. La paura e il terrore hanno spinto la
gente ad aggrapparsi ancora di più alle strutture
tradizionali e religiose, percepite come parte di
un'identità messa in pericolo. Per le vedove di Anfal non
è possibile iniziare una nova vita e andare a lavorare.
Senza un uomo che le "protegga", che sia questo un marito, un
figlio o il padre, esse subiscono fortissime pressioni
sociali.
Per fortuna in questa situazione le vedove di Anfal trovano
sostegno e speranza presso le associazioni delle vittime e alcune
organizzazioni non-governative (Ong). L'associazione Haukari,
p.es., promuove la corretta elaborazione degli eventi storici, il
riconoscimento delle sofferenze recate alla popolazione e
l'erezione di monumenti commemorativi. L'Ong Vejin con sede a
Barzan, fondata nel 2007 con il sostegno dell'APM, compie
ricerche sul destino delle vittime della valle di Barzan per
poter dare certezze ai parenti sopravvissuti ai quali fornisce
anche aiuti umanitari e logistici.
L'offensiva Anfal e la parità di genere sono temi trattati
anche dai partiti politici del Kurdistan iracheno ma troppo
spesso servono semplicemente a giustificare le pretese di potere
dei vari politici. La discussione sulla "gender equality"
(parità di genere) infatti non va mai oltre le belle
parole, difficilmente la teoria viene trasformata in pratica e
perlopiù si ha la sensazione che i diritti delle donne,
come il rispetto della quota fissa riservata in parlamento alle
donne, vengano rispettati solo malvolentieri.
Cinur Ghaderi è psico-terapeuta laureata e lavora presso il Centro psicosociale per profughi a Düsseldorf. E' nata nel 1970 a Sulemania/Kurdistan iracheno e per diversi anni è stata collaboratrice dell'emittente televisiva WDR.
Katja Wolff
Difficilmente Xinna avrebbe potuto immaginare un destino più difficile di quello che le è toccato. Suo marito, il noto attivista per i diritti umani mongolo Hada aveva scontato la sua condanna a 15 anni di detenzione e avrebbe dovuto essere liberato lo scorso 10 dicembre 2010. Proprio per la Giornata dei Diritti Umani. Lo stesso giorno in cui lo scrittore cinese Liu Xiaobo, anch'egli detenuto, è stato insignito del Premio Nobel per la Pace. Mentre la 55enne Xinna aspettava la liberazione del marito, le autorità cinesi hanno deciso di rinforzare le misure di sicurezza per prevenire possibili proteste.
Xinna e il figlio Uiles visitano Hada (al centro) in carcere. Foto: free-hada-now.org.
Il 4 dicembre 2010, quando sono arrivati i poliziotti cinesi
ad arrestarla, Xinna si trovava nella sua libreria a Hohot,
capitale della Mongolia Interna. Le forze di sicurezza hanno
confiscato centinaia di libri, CD e molto altro materiale e hanno
fatto mettere dei catenacci all'entrata della libreria.
Contemporaneamente la polizia ha perquisito il magazzino della
libreria in cui lavorava il figlio di Hada e Xinna. Uiles
è corso in un Internet caffè e prima di essere a
sua volta arrestato è riuscito a informare l'opinione
pubblica mondiale dell'arresto della madre.
Pochi giorni prima della consegna del Premio Nobel per la Pace e
della liberazione dell'attivista per i diritti umani le
autorità cinesi temevano che anche nella Mongolia interna
potessero scoppiare disordini. Per decenni Hada si era impegnato
a favore della difesa della sua cultura, lingua e religione e per
una maggiore partecipazione politica dei Mongoli. Per tutto il
20esimo secolo i circa 5,8 milioni di Mongoli hanno subíto
una sistematica politica di assimilazione che tra le altre cose
ha costretto all'insediamento i popoli nomadi della Mongolia.
Grazie al sostegno di una massiccia immigrazione di Cinesi Han
nella regione, i Mongoli sono stati trasformati in una minoranza
nella propria regione.
Xinna ha sempre sostenuto la lotta politica del marito e per
questo è stata più volte arrestata. Quando nel 1995
Hada è stato arrestato per spionaggio, separatismo e
organizzazione di truppe controrivoluzionarie, Xinna ha appeso un
cartello alla vetrina della libreria su cui si leggeva che Hada
ed altri attivisti erano stati arrestati o minacciati. Il
cartello le costò un nuovo arresto il 16 dicembre 1995, da
cui fu liberata su cauzione il 12 gennaio 1996. Ma fu nuovamente
arrestata il 28 gennaio 1996 dopo aver rilasciato un'intervista a
dei giornalisti stranieri. Nonostante anche questa volta non vi
fu alcuna accusa formale nei suo confronti, Xinna venne
rilasciata solo in aprile. Durante i 15 anni di detenzione del
marito, Xinna ha scritto numerose lettere, tra cui al presidente
e al primo ministro cinesi, a diverse autorità e alle
direzioni carcerarie cinesi. In una lettera al presidente Hu
Jintao e al premier Wen Jiabao lamenta il cattivo stato di salute
del marito: "Ogni volta che lo vede durante una delle mie visite
mi si spezza il cuore. Ha un aspetto completamente diverso da
quello che aveva prima della prigionia."
In un'altra lettera scritta nel giugno 1998 all'allora presidente
degli Stati Uniti d'America Bill Clinton in visita in Cina si
legge: "Durante il mese di marzo del 1997 mi sono recata a
Chifeng per visitare mio marito. Non appena tornai a Hohot fui
chiamata dall'Ufficio per la Sicurezza Pubblica della Mongolia
Interna (IMPSB) che mi intimò di raccontare loro tutto
quanto avevo detto a mio marito. Di fatto mi hanno privato della
mia libertà di parola." Al presidente statunitense Xinna
chiese di "invitare il governo cinese (1) a concedere a tutte le
persone della Cina, anche alle persone appartenenti a una
minoranza, una reale libertà di espressione, di
pubblicazione, di riunione, di rappresentazione e di
manifestazione come previsto dalla Costituzione, (2) a rispettare
rigorosamente la legislazione cinese e internazionale e a
concedere l'autodeterminazione alle minoranze, e (3) a liberare
mio marito Hada così come tutti i prigionieri politici e
di porre fine alla repressione delle minoranze."
Dopo l'arresto di Xinna e Uiles si sono perse le tracce di tutta
la famiglia e restano tuttora sconosciuti i luoghi in cui sono
detenuti Hada, Xinna e Uiles.
Astrid Bracht
Aminatou Haidar, chiamata dai suoi conterranei anche la "Gandhi dei Saharawi", da decenni è impegnata nella lotta per l'indipendenza del Sahara occidentale. Dal 1975 il Marocco occupa illegalmente l'ex-colonia spagnola. Rapimenti di persone, arresti arbitrari, maltrattamenti e tortura dei prigionieri, la sistematica soppressione delle libertà di opinione, di stampa e di riunione sono tutti mezzi utilizzati dal governo marocchino per mantenere il controllo sui Saharawi.
Aminatou Haidar in mezzo ad alcune amiche presso El Aaiùn. Foto: Saharauiak (Wikimedia Commons).
Aminatou Haidar ha trascorso diversi anni nelle prigioni
marocchine. La presidentessa del Collettivo dei Difensori
Saharawi dei Diritti Umani (Collectif des défense
sahraouis des droits de l'homme - CODESA) ha avuto un ruolo
importante in diverse campagne per la liberazione di prigionieri
politici saharawi. Aminatou Haidar lavora affinché tutti,
in Marocco come all'estero, sappiano delle violazioni dei diritti
umani commesse nel Sahara occidentale. Il suo impegno pacifico le
è valso molteplici premi internazionali e nel 2008
è stata anche nominata per il Premio Nobel per la
Pace.
Nel dicembre 2009 Haidar, dopo aver ritirato un premio negli USA,
voleva tornare a casa dalla sua famiglia ma per riuscirci ha
dovuto rischiare la vita. Aminatou Haidar all'epoca aveva 42
anni, era ed è tuttora due volte madre e tornava dagli
Stati Uniti d'America dove era stata insignita di un premio per
il coraggio civile che viene assegnato ogni anno "per
l'incrollabile resistenza all'iniquità nonostante l'alto
rischio personale". Il 14 novembre 2009 avrebbe dovuto tornare
nel Sahara Occidentale e come ogni volta che si reca all'estero,
al rientro riempie i moduli per l'ingresso in Marocco scrivendo
"Saharawi" e non "marocchina" nel campo della nazionalità.
Questa volta però le autorità di frontiera hanno
colto l'occasione per accusare la Haidar di negare la sua
identità marocchina, ritirarle passaporto e caricarla su
un aereo diretto all'isola delle Canarie Lanzarote. Re Mohammed
VI ha commentato così l'accaduto: "Uno o è
marocchino oppure è traditore."
Per protesta contro la sua deportazione illegale e poiché
la Spagna non le permetteva di lasciare il paese senza un
passaporto valido, la Haidar ha dato inizio a uno sciopero della
fame proprio là, all'aeroporto di Lanzarote.
"Tornerò ad El Aaiún", affermava l'attivista per i
diritti umani, "con o senza passaporto, viva o morta". Nelle
settimane a seguire il caso della Haidar divenne un problema
internazionale per il Marocco. Lo stato di salute dell'attivista
andava peggiorando rapidamente e finalmente la presidenza
dell'Unione Europea, il ministro degli esteri USA Hillary Clinton
e il segretario generale dell'ONU Ban Ki-Moon hanno esercitato le
pressioni necessarie affinché il governo del Marocco
permettesse alla Haidar di tornare a casa. Il 17 dicembre 2009,
dopo 32 giorni di sciopero della fame, Aminatou Haidar ha dovuto
essere trasportata in ospedale. Poco dopo le autorità
marocchine le hanno rilasciato il permesso di tornare a casa. "E'
un trionfo per la legislazione internazionale, per i diritti
umani e per il Sahara Occidentale", ha dichiarato l'attivista
poco prima di lasciare Lanzarote.
Aminatou Haidar è nata ad El Aaiún nel 1967 ed
è laureata in letteratura moderna. Finora ha pagato caro
l'impegno a favore dei diritti del popolo Saharawi:
all'età di 20 anni partecipò a una manifestazione
in cui si chiedeva un referendum popolare per decidere sul futuro
del Sahara Occidentale. La Haidar fu arrestata e trattenuta per
quattro giorni in un luogo segreto. Alla sua liberazione sembrava
l'ombra di sé stessa, provata dalla tortura non riusciva
quasi a camminare. Ma la sua volontà di vivere e lottare
restò indomita. Durante una manifestazione del giugno 2005
fu nuovamente arrestata. La polizia marocchina usò dei
bastoni per picchiarla talmente forte che alla fine le ferite
dovettero essere cucite. La Haidar fu condannata un'altra volta a
sette mesi di detenzione durante i quali iniziò uno
sciopero della fame di sette settimane per chiedere migliori
condizioni di detenzione per sé e per le sue compagne di
prigionia.
Aminatou Haidar sicuramente continuerà la sua lotta
pacifica per l'indipendenza del Sahara Occidentale, dovesse anche
costarle la vita.
Helena Nyberg / Incomindios Svizzera
Gli Havasupai Carletta e Rex Tilousi. Foto: Ruedi Suter.
"L'estrazione dell'uranio lascia un'eredità avvelenata
con cui fare i conti anche molto tempo dopo la chiusura di una
miniera, nuoce alla nostra salute e ferisce madre Terra,"
dichiara Charmaine White Face. La portavoce della Nazione Tetuwan
Sioux (Lakota) di Pine Ridge nel Sud-Dakota/USA si batte tramite
la sua organizzazione Defenders of the Black Hills (Difensori
delle Black Hill) per fermare l'intero circuito
dell'uranio.
Nelle colline delle Black Hill l'uranio fu scoperto negli anni
'50 del secolo scorso. In questa regione sacra ai Lakota hanno
proliferato migliaia di miniere che ormai sono ferme da oltre 40
anni. Nel Wyoming l'acqua contaminata fluisce direttamente nel
Cheyenne River che trasporta il materiale radioattivo
direttamente nella Riserva di Cheyenne River nel Sud-Dakota
occidentale. Il letto del fiume, l'acqua e la terra circostante
sono contaminate radioattivamente; gli abitanti della riserva
devono procurarsi e comprare altrove l'acqua potabile. Il vento
trasporta una finissima polvere carica di uranio. "Non vi
è famiglia che non subisca in qualche modo la
radioattività. Molti bambini sono malati di leucemia e la
gente ha bevuto per anni l'acqua contaminata", racconta
Charmaine. La portavoce dei Tetuwan Sioux è una donna
piccola e gracile, ha il corpo segnato dai danni provocati dalla
radioattività e due occhi scuri che trasmettono tutta la
sua imperturbabile forza combattiva. "Quando lottavo per far
analizzare l'acqua della nostra riserva, pur di fermarmi è
stato anche arrestato mio figlio - senza una vera accusa."
La storia raccontata dalla Tuareg Azara Jalawi, vicepresidentessa
del Coordinamento per la Società Civile di Arlit/Niger,
sembra diversa ma non differisce poi di molto nelle conclusioni.
"Sulla nostra terra ci sono due miniere di uranio e sono state
date 130 licenze per l'esplorazione di aree potenzialmente ricche
di uranio. Siamo stati cacciati dalle nostre case senza ricevere
alcun tipo di risarcimento. Non vogliamo che le ditte
esploratrici avvelenino la nostra terra e distruggano la nostra
quotidianità e il nostro stile di vita tradizionale."
Senza fornire informazioni complete alla popolazione, la ditta
francese AREVA ha iniziato a estrarre uranio nelle regioni Tuareg
del Niger. Arlit è stata trasformata in un centro di
estrazione di uranio e gli operai Tuareg sono stati obbligati a
diventare sedentari ad Arlit. Soprattutto all'inizio gli operai
venivano pagati non in soldi ma in materiale da costruzione per
le case, poco importava se tra il materiale c'erano anche
componenti contaminate. Gli alti valori di radiazione nelle loro
case sono poi stati misurati e pubblicati dall'organizzazione
CRIIRAD.
Per i popoli aborigeni dell'Australia le miniere di uranio sono
solo una parte del problema. Un'altra parte ha a che vedere con
le conseguenze dei test di armi atomiche condotti nei loro
territori. Rebecca Bear Wingfield, vicepresidentessa
dell'Australian Nuclear Free Alliance e membro del consiglio
degli anziani degli Arabunna, Kokatha e Kupa Pita Kungka Tjuta,
racconta: "Il mio popolo è costretto a convivere con
l'estrazione di uranio e con i test di armi atomiche.
Sperimentiamo i danni provocati dalla radioattività sul
nostro corpo e vediamo i danni a lungo termine sulla nostra
terra." Secondo Rebecca Bear Wingfield la sua sterilità e
i suoi problemi di salute dipendono direttamente dalla
contaminazione radioattiva del territorio. Ora si impegna per
costruire una rete che raccolga e metta in contatto gruppi e
organizzazioni indigene e di donne per mettere la popolazione in
guardia dai danni e dai problemi per la salute causati
dall'estrazione di uranio e dai test di armi atomiche. Rebecca
non si ferma mai troppo a lungo nello stesso posto, "non puoi mai
sapere quando diventi un bersaglio per i tuoi oppositori, ma il
sogno di un mondo libero dal nucleare vale i sacrifici che devo
fare".
Carletta Tilousi è una Hasupai e nipote del leader
spirituale Rex Tilousi. Da vent'anni Carletta Tilousi è
impegnata nella lotta per una giustizia sociale e ambientale per
il più piccolo dei popoli nativi degli USA. Inizialmente
lottava contro l'estrazione di uranio su terre demaniali a cui si
doveva la contaminazione delle acque freatiche della terra
Havasupai e che metteva in pericolo la montagna sacra Red Butte.
Carletta Tilousi è una delle poche (donne) Pai a cui
è riuscito lasciare lo stretto canyon in cui vivono gli
Havasupai per andare a studiare all'università
dell'Arizona. Dopo la laurea in giurisprudenza è tornata a
casa e per due legislature è stata consigliera del governo
del consiglio tribale degli Havasupai. A partire dal 1990
continua ad essere invitata a conferenze sull'uranio in Europa,
l'ultima volta nel 2009 in Svizzera. Attualmente è
presidentessa dell'organizzazione Red Rock Foundation Inc. che si
occupa della formazione e del sostegno di tribù indiane
colpite da distruzione e problemi ambientali.
Anna-Lena Herkenhoff
Nonostante la giovane età - 26 anni appena - Natividad Llanquileo è probabilmente la persona più nota del movimento mapuche. Il suo impegno pubblico per i diritti dei prigionieri politici mapuche è iniziato nel luglio 2010, quando 34 prigionieri politici mapuche iniziarono uno sciopero della fame che si sarebbe protratto per 80 giorni. Allora Natividad Llanquileo fu nominata portavoce dei Mapuche detenuti nelle carceri cilene di Concepción e Lebu.
Natividad Llanquileo ha lasciato gli studi di giurisprudenza in occasione dello sciopero della fame dei detenuti mapuche. Foto: Méndez_vision, flickr.
Natividad Llanquileo è una giovane donna dai capelli
lunghi neri e dagli occhi marrone scuro. E' cresciuta a
Tirúa nella provincia cilena di Arauco. Circa il 47% degli
abitanti di Tirúa è Mapuche. Natividad ricorda
così la sua infanzia: "Abbiamo avuto fortuna, non abbiamo
sofferto la fame. Sì, non avevamo scarpe né vestiti
finché qualcuno non ci ha regalato qualcosa. Erano abiti
troppo grandi, per adulti, e vestiti così facevamo
abbastanza ridere". I genitori lavoravano per finanziare
l'educazione dei figli. Natividad e i suoi sei fratelli dovevano
aiutare molto in casa, "dovevamo rastrellare, arare, cucinare o
lavare". Per i genitori di Natividad era importante che i figli
fossero orgogliosi della loro identità mapuche, che mai si
sentissero inferiori rispetto ad altri. Dopo aver terminato la
scuola, Natividad si trasferì nella capitale Santiago del
Cile per studiare giurisprudenza.
Natividad Llanquileo è cresciuta in una regione in cui
l'oppressione dei Mapuche fa parte della quotidianità. Ha
visto arrestare vicini e conoscenti accusati di terrorismo
perché avevano tentato di difendere la propria terra dagli
interessi sempre crescenti delle imprese del legname. Già
suo padre era impegnato nel movimento mapuche. Natividad stessa
non era un'attivista, o almeno non lo era fino al settembre 2010,
quando le fu chiesto di fare da portavoce dei Mapuche detenuti
nel carcere di Concepción. Da allora Natividad è
probabilmente uno dei volti più noti del movimento
Mapuche.
Nel 2009 due dei suoi fratelli sono in carcere. Il 29enne
Ramón è detenuto nel carcere "El Manzano" a
Concepción e Victor, di quattro anni più vecchio,
si trova nel carcere di Angol. Natividad va a trovare entrambi
ogni volta che può. Quando nel luglio 2010 i due fratelli
si uniscono allo sciopero della fame che poi si sarebbe protratto
per 80 giorni, Natividad decide di non tornare a Santiago e di
restare a Concepción. I detenuti in sciopero della fame
chiedono l'abrogazione della cosiddetta legge anti-terrorismo,
promulgata ancora durante la dittatura militare del generale
Pinochet, e sistematicamente utilizzata contro gli attivisti
mapuche. I cinque detenuti mapuche di Concepción decidono
di nominare Natividad come loro portavoce. Ai cinque di
Concepción si aggiungono anche altri detenuti e
così Natividad decide di interrompere gli studi
universitari per dedicarsi alla difesa dei diritti dei 17
prigionieri politici mapuche che ora rappresenta.
Nel settembre 2010 Natividad si reca in Europa per informare
rappresentanti politici e organizzazioni per i diritti umani
sull'attuale situazione dei prigionieri politici Mapuche e per
trovare persone disposte a fare da osservatori internazionali nei
processi contro i Mapuche da lei rappresentati. Difficilmente i
detenuti mapuche potranno infatti contare su un processo giusto.
Il compromesso tra detenuti mapuche e governo raggiunto l'estate
scorsa e che ha posto fine allo sciopero della fame "non ha molta
rilevanza sul piano giuridico", ci spiega Natividad. "Tutto
ciò che è stato raggiunto è che i detenuti
non saranno più processati secondo la legge antiterrorismo
ma secondo il codice civile". La differenza risiede semplicemente
nella possibilità di una condanna un po' più mite.
I 17 Mapuche saranno quindi comunque condannati e rischiano pene
detentive tra i 30 e i 100 anni. Nonostante le concessioni fatte
il governo evidentemente non intende porre fine alla repressione
dei Mapuche. Per Natividad Llanquileo si profila una lunga
battaglia.
Anna-Lena Herkenhoff
Per difendersi dalla violenza e dalla discriminazione delle donne in Guatemala, nel febbraio 2004 alcune donne Xinka hanno fondato l'Associazione delle donne indigene di Santa Maria Xalapán (AMISMAXAJ). Attraverso la loro associazione le donne lottano per far rispettare i propri diritti, per ridare forza all'identità Xinka e per ottenere il riconoscimento dallo stato come popolo Xinka. E ora si occupano anche della tutela ambientale nella loro regione Santa Maria Xalapán nello stato federale di Jalapa.
Lorena Cabnal: 'Quando abbiamo fondato la nostra associazione noi donne non potevamo quasi uscire di casa'. Foto: lavozdeasturias.es.
L'impegno delle attiviste Xinka è nato dal bisogno di
ottenere approvazione e diritto alla partecipazione. "Quando
abbiamo fondato la nostra associazione il machismo nelle
comunità era talmente forte che per noi donne era
difficile anche solo poter uscire di casa per incontrarci",
ricorda Lorena Cabnal, una delle fondatrici e portavoce di
AMISMAXAJ.
Le strutture patriarcali che dominano la società
guatemalteca così come molte comunità indigene
impediscono alle donne di essere considerate e/o prese sul serio
come attori sociali e politici. I consiglieri comunali sono per
lo più uomini e anche quando una donna riesce a ottenere
una carica politica la sua opinione solitamente conta poco. Uno
dei compiti che si è posto AMISMAXAJ è quindi di
sviluppare e sostenere le possibilità di partecipazione e
la formazione politica delle donne. Per iniziare a chiedere
maggiori diritti le donne spesso devono prima sviluppare una
coscienza circa il loro ruolo e la situazione in cui si
trovano.
Nel 2004 AMISMAXAJ si è aggregata all'unione di
organizzazioni femminili guatemalteche "Sector de mujeres". Le
donne Xinka hanno partecipato a corsi di formazione politica e
hanno raccolto importanti spunti e strategie per il lavoro sui
diritti delle donne nelle loro comunità. Una di queste
iniziative è la "scuola delle donne" che informa le donne
sui loro diritti basilari e le sostiene nella lotta per vedere
realizzati i propri diritti, come p.es. quando si tratta di porre
fine a una situazione di violenza domestica. Nel corso del tempo
hanno acquisito sufficiente conoscenza, coscienza e esperienza
per ricoprire posizioni sempre più attive anche senza il
benestare degli uomini.
Grazie al nuovo ruolo conquistato, l'associazione ha iniziato a
dedicarsi anche ad altre tematiche. Dal 2008 AMISMAXAJ si
è profilato come colonna portante della resistenza al
progetto dell'impresa mineraria canadese Goldcorp. Inc. nella
regione di Santa María Xalapán. Per ostacolare la
realizzazione di un progetto distruttivo del territorio, le donne
Xinka hanno organizzato grandi manifestazioni e azioni di
protesta pubbliche. Da allora le attiviste sono finite nel mirino
di politici locali e di proprietari terrieri coinvolti nei
progetti minerari. Dopo una manifestazione politica organizzata
da AMISMAXAJ lo scorso 12 ottobre Lorena Cabnal ha iniziato a
ricevere minacce di morte. Le donne però non si lasciano
intimidire e sono andate alla ricerca di partner che possono
fornire aiuto in questa situazione. Dal 2009 infatti AMISMAXAJ
è sostenuta dalle Peace Brigades International (Brigate di
pace internazionali).
Parvaneh Ghorishi
A partire dalla fondazione della Repubblica Islamica dell'Iran nel 1979 la vita di milioni di Iraniane e Iraniani è determinata dalla legge coranica della Shari'a. Le donne sono massicciamente svantaggiate rispetto agli uomini che oltre al diritto alla poligamia hanno il diritto al divorzio e all'affidamento dei figli. Le donne sono svantaggiate anche nel diritto ereditario e per viaggiare o lavorare hanno bisogno del permesso del marito o di un altro familiare maschile. Di fatto è come se le donne fossero state dichiarate interdette e trattate come se fossero incapaci di intendere e volere.
Dal 1963 le donne iraniane hanno il diritto di voto. Dal 1979 devono portare la hijab in pubblico. Foto: Amir Farshad Ebrahimi, flickr.
Storia del rapporto uomo-donna nell'Iran del 20esimo
secolo
Tra il 1906 e il 1911 un movimento costituente pose fine alla
monarchia assolutista iraniana e pose le prime basi per un
parlamento e una costituzione. Le forze religiose ebbero un ruolo
importante all'interno del movimento e già allora miravano
a porre la Shari'a come base del nuovo stato. Il dibattito sui
diritti delle donne divise il movimento contrapponendo i
costituzionalisti ai sostenitori di un ordinamento religioso.
Secondo questi ultimi, i diritti delle donne rinnegherebbero le
tradizioni e corromperebbero la società. All'inizio degli
anni '20 il padre dell'ultimo scià Mohammad Reza Pahlavi
rovesciò la dinastia dei Qajar e assunse tutti i poteri.
Seguendo l'esempio di Atatürk, Reza Shah tentò di
cancellare la rigida esclusione delle donne dalla vita pubblica e
di incentivare una maggiore co-presenza dei generi sia in
famiglia sia nella vita pubblica.
Fino alla fine degli anni 1920 la polizia controllava che nessuna
donna apparisse in pubblico senza l'abbigliamento e il velo
prescritti. Solo nel 1928 fu permesso alle donne di uscire senza
coprirsi, ma solo con il permesso del padre o del marito.
Reza Shah impose infine il divieto del velo in pubblico e alla
polizia fu ordinato di togliere il velo alle donne coperte. Nei
decenni a seguire crebbe il numero delle ragazze con un diploma
di maturità e delle studentesse universitarie. Fu
tollerato che le donne esercitassero professioni come quella
dell'educatrice o dell'insegnante e la percentuale delle donne
che lavoravano fuori casa passò dal 9% al 13% circa. Si
stima che questa percentuale sia rimasta invariata fino ad oggi.
Nel 1963 alle donne fu riconosciuto il diritto al voto. In
parlamento sedevano parlamentari donne, ma allora come oggi
avevano poca voce in capitolo e ancora meno possibilità di
prendere delle decisioni.
Se da un lato il regime di Reza Shah riconobbe alcuni diritti
alle donne, dall'altro soffocò senza pietà ogni
movimento di opposizione e sindacale i cui esponenti venivano
condannati a morte o a lunghe pene detentive. La monarchia
torturava e uccideva. L'impotenza di fronte a un regime
repressivo che non permetteva alcuna libertà
rafforzò le forze religiose che raccolsero ulteriore
seguito grazie all'invasione e occupazione dell'Afghanistan da
parte dell'Unione Sovietica. Gli Stati Uniti invece vedevano
l'Islam come un bastione che avrebbe protetto il paese
dall'influenza del comunismo proveniente da nord. Nel marzo 1979,
con la vittoria della rivoluzione islamica l'Ayatollah Khomeini,
da poco rientrato dal suo esilio parigino, impose alle donne
l'obbligo di portare la hijab (foulard copricapo) in pubblico. Il
nuovo regime represse le manifestazioni di protesta delle
organizzazioni femminili. Le proteste delle donne non furono
appoggiate nemmeno delle organizzazioni di sinistra che invece
criticarono le manifestazioni, definirono la reintroduzione
dell'obbligo alla hijab come una contraddizione collaterale e
sostennero che le lavoratrici e le contadine avevano ben altri
problemi da risolvere.
I nuovi potenti inventarono ogni sorta di argomento per
giustificare l'obbligo della hijab. L'ex-presidente Bani Sadr,
p.es., sostenne che le radiazioni dei capelli delle donne
limitavano la capacità di concentrazione degli uomini.
Altri sostenevano che i capelli delle donne emettevano delle
vibrazioni che fuorviavano gli uomini.
Argomenti simili furono usati anche da alcune donne secondo cui
esse si sentivano più al sicuro quando in compagnia di
uomini portavano la hijab. Insomma, la hijab è una specie
di muro che garantisce e che trasforma le donne in soggetti
sessualmente non pericolosi e di genere neutro. Il controllo
della sessualità femminile è difatti la meta
principale di ogni legge in Iran.
Negli anni '80 anche il sistema scolastico-educativo fu
desecolarizzato e riformato in senso religioso e autoritario.
L'obiezione non è ammessa e viene punita. L'obbedienza nei
confronti delle autorità è considerata una delle
maggiori virtù. Ciò che viene richiesto non
è il pensiero autonomo ma l'adattamento e la
sottomissione.
30 anni di Repubblica islamica
dell'Iran
Negli oltre 30 anni di vita della Repubblica islamica dell'Iran
sono state commesse numerose ingiustizie. Molti movimenti
democratici, primi tra tutti quello kurdo, sono stati decimati e
non sono stati risparmiati nemmeno gli oppositori rifugiatisi in
Europa. In un'intervista rilasciata alla Süddeutsche Zeitung
Shirin Ebadi, vincitrice nel 1996 del premio Nobel per la Pace,
racconta come il suo impegno per la pace e la sua lotta per i
diritti delle donne la espongano seriamente al rischio di essere
uccisa.
Con il pretesto dell'"adulterio", centinaia di donne sono state
giustiziate, alcune tramite lapidazione. Ogni anno centinaia di
donne commettono suicidio a causa delle massicce pressioni
sociali e psicologiche a cui sono esposte. Un segnale
particolarmente allarmante è dato dal numero di donne che
si tolgono la vita dandosi fuoco. Esse si versano addosso della
benzina e muoiono tra le fiamme. E' aumentato drammaticamente
anche il numero delle donne tossicodipendenti. L'apartheid di
genere praticata dai detentori del potere della repubblica
Islamica, le costanti discriminazioni in tutti i settori della
quotidianità, l'essere trattate con sufficienza e gli
abusi a cui sono esposte, distruggono le donne e lasciano
profonde ferite psicologiche. La sensazione di impotenza e la
rabbia causano poi depressioni, una sensazione di freddo,
autolesionismo.
Il film "Il cerchio" (2000) del regista iraniano Jafar Panahi
mostra in modo impressionante quale sia la posizione sociale
della donna in Iran. Il film inizia in una sala parto. Alla nonna
viene comunicato che sua figlia ha partorito non come ci si
aspettava un maschietto ma una femmina. La notizia crea
frustrazione e delusione. La bambina è appena nata e
già si è trasformata in un problema. Il film passa
poi a raccontare l'avventura di tre donne che dopo la libera
uscita decidono di non rientrare in carcere ma di fuggire e
vivere in libertà. Il loro tentativo è destinato
fin dall'inizio a fallire. Le loro famiglie non sono infatti
disposte ad aiutarle e anzi le ripudiano poiché la loro
"cattiva fama" ha portato il disonore su tutta la famiglia. Senza
un accompagnatore maschile legittimo esse sono perse e la loro
vita dipende dalla pietà degli uomini che incontrano.
La versione cartacea è stata realizzata con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano.
Pogrom-bedrohte Völker 264 (1/2011)
Vedi anche in gfbv.it:
www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/sud2010-it.html
| www.gfbv.it/2c-stampa/2011/110729ait.html
| www.gfbv.it/2c-stampa/2011/110726it.html
| www.gfbv.it/2c-stampa/2011/110519it.html
| www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/brasil-tras.html
| www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/global-it.html
| www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/dekade-it.html
| www.gfbv.it/3dossier/diritto/univ-indig-it.html
in www: http://en.wikipedia.org/wiki/Indigenous_peoples
| www.ipcc.ch | www.stopdamsamazon.org