Edizione speciale di pogrom-bedrohte Völker n. 238 (4/2006)
Bolzano, Göttingen, 27 ottobre 2006
INDICE
Wolfgang Mayr
Il cambio
climatico provocato dai paesi industrializzati e dal boom dei
paesi emergenti (Brasile, Sud Africa, Messico, India e Cina) ha
conseguenze distruttive per le regioni indigene del mondo,
indipendentemente da frontiere geografiche e politiche. 27
miliardi di tonnellate di CO2 fuoriescono dalle ciminiere
industriali, dai tubi di scappamento e dagli impianti di
riscaldamento di tutto il mondo e danneggiano a lungo termine i
sistemi climatici e, come si legge sulle pagine economiche di
"Die Zeit" dei primi di agosto 2006, "i danni non sono
riparabili". Nonostante le conoscenze ottenute dalla ricerca e
dalle conferenze climatiche, le emissioni sono oggi un quarto in
più rispetto a 15 anni fa. Allora fu fondata l'Alleanza
per il clima, che siglava l'intento congiunto delle città
dell'Europa occidentale e degli Indigeni dell'Amazzonia di
fermare l'effetto serra.
Attualmente non si intravede nessuna inversione di tendenza, al
contrario. Secondo le stime di diverse agenzie internazionali per
l'energia, entro il 2030 le emissioni di anidride carbonica
aumenteranno fino a raggiungere i 38 miliardi di tonnellate
annue. Le prime drammatiche conseguenze di questo sviluppo sono
già evidenti: i ghiacciai diminuiscono perché i
loro "ghiacci eterni" si stanno sciogliendo, i banchi di ghiaccio
di Artide, Antartide e della Groenlandia si assottigliano
(attualmente i ghiacciai montani diminuiscono di 50 cm annui, il
doppio rispetto al 1980), i venti tropicali si trasformano in
violente tempeste alluvionali (nascono con temperature marine di
27 gradi, più sono caldi i mari maggiore è la forza
distruttrice delle tempeste), mentre in Africa e in Asia centrale
la terra si inaridisce per la progressiva mancanza di acqua
(sostenuta anche dall'intensivo allevamento di bestiame: per
produrre un chilo di carne ci vogliono 10.000 litri di acqua). La
cronica mancanza di acqua colpisce ormai un terzo della
popolazione mondiale. Il mondo diventa sempre più
inospitale e invivibile e a milioni di persone viene sottratta la
propria base vitale. Secondo la United Nations University di Bonn
è prevedibile che nel 2010 ca. 50 milioni di persone
tenteranno di lasciare il proprio paese per sfuggire alla
distruzione ambientale.
Anche gli ultimi territori indigeni sono minacciati. Gli Inuit
della Groenlandia, del Canada e degli USA, i Sami scandinavi e i
"piccoli popoli" della Siberia devono prendere atto, impotenti,
del lento ma inesorabile scongelarsi del permafrost. Lo
scongelamento del permafrost libera il metano contenuto nel
terreno, cioè uno dei gas che contribuisce all'effetto
serra. La frenesia con cui l'economia di questi paesi rincorre lo
sfruttamento delle risorse contribuisce ad accelerare le
devastazioni ambientali. Se il freddo nord era una terra
difficile, il cambio climatico lo ha reso semplicemente
invivibile.
La situazione non cambia nel caso delle foreste in costante
diminuzione, che siano quelle dell'Amazzonia, del Congo o del
sudest asiatico, tutte accomunate anche dalla forte presenza di
popolazioni indigene. Il britannico Hadley Center teme che il
previsto riscaldamento terrestre, che in cento anni è
aumentato di 0,8 gradi ma che potrebbero diventare sei e
più nei prossimi anni, possa causare la morte di ogni
forma di vita delle foreste. La scarsità di acqua si fa
sentire anche nelle foreste tropicali, e prima o poi
mancherà del tutto. La moria delle foreste libera ossido
di carbonio che a sua volta contribuisce ad aumentare la
temperatura terrestre.
Sappiamo già che le regioni della Savana, anch'esse
abitate da popolazioni indigene, si trasformeranno in deserti. Le
elevate temperature e la mancanza d'acqua hanno già dato
inizio alla scomparsa di piante e addirittura di alberi.
L'economia locale, basata sull'agricoltura, lamenta una perdita
dei raccolti del 30% e ne risulta direttamente minacciata la
sussistenza dei contadini. Dopo una serie di incidenti mortali i
cacciatori dell'Artico hanno dovuto constatare
l'impossibilità di continuare a vivere della caccia. I
sentieri di caccia attraversano i banchi di ghiaccio che,
assottigliandosi, non reggono più il peso delle persone.
Il leggero aumento della temperatura permette alla Gronlandia con
i suoi 2,5 milioni di km3 di ghiaccio, spessi fino a 3.400 m, di
coltivare patate e broccoli nelle baie riparate. Verso fino
agosto "Der Spiegel" riportava il programma agricolo del governo
provinciale groenlandese, reso possibile dal cambio climatico.
Secondo "Der Spiegel" le temperatura in Groenlandia sta
aumentando al doppio della velocità rispetto al resto
d'Europa, tant'è che lo scorso anno si sono sciolti
più di 200 m3 di ghiaccio. "Der Spiegel" infine cita
Kenneth Hoegh, consigliere agricolo del governo groenlandese,
secondo il quale la fase di crescita in Groenlandia è
ormai lunga quanto quella dell'arco alpino ad un'altezza di 1.500
m.
Il noto Protocollo di Kyoto era il tentativo dell'ONU di fermare
il cambio climatico. I risultati finora sono stati più che
scarsi. Nonostante tutti i paesi europei abbiano responsabilmente
annunciato la diminuzione delle emissioni a effetto serra e, a
differenza dei "cattivi" Stati Uniti abbiano ratificato il
Protocollo, è cambiato davvero poco. Nella liberale era di
Clinton, i Repubblicani sono da un lato riusciti a far passare
inosservato il Protocollo di Kyoto negli USA e dall'altro sono
però risultate fondate le loro preoccupazioni per i
cosiddetti paesi emergenti. La Cina comunista continua a scaldare
a carbone mentre il Brasile, come altri paesi emergenti, continua
a ignorare i vincoli ambientali che tra l'altro andrebbero a
vantaggio soprattutto della popolazione. L'India, l'Australia, il
Canada e la Russia rifiutano una politica climatica e riescono
con successo a ostacolare qualsiasi politica ambientale che possa
fermare la distruzione ambientale.
Nel frattempo hanno iniziato ad arrivare segnali positivi dagli
USA: riscuote attenzione la campagna a favore del clima dell'ex
vicepresidente Al Gore mentre nella California del governatore
repubblicano Arnold Schwarzenegger una disposizione prevede la
diminuzione entro il 2020 del 25% delle emissioni a effetto
serra. Obiettivo questo a cui saranno tenuti a collaborare anche
i produttori di automobili. Undici stati federali hanno
annunciato di voler intraprendere passi verso una politica
climatica e 21 stati federali hanno già emanato leggi che
incentivano l'utilizzo di forme di energia pulita. Oltre 200
sindaci intendono applicare il Protocollo di Kyoto a livello
comunale. Servono a poco le accuse dell'ambientalista indiana
Sunita Narain del Centre for Science and Environment di Nuova
Delhi secondo la quale gli unici responsabili del cambio
climatico sono i paesi del nord del mondo. La sua critica
risparmia la Cina e l'India, in rappresentanza di tutti quei
paesi economicamente emergenti del sud del mondo. A ragione
Narain chiede che le risorse siano distribuite in modo equo, ma
né la Cina né l'India costituiscono esempi da
seguire in tal senso. Come tutti, anche questi due paesi ignorano
le richieste legittime soprattutto delle popolazioni indigene e
ne violano i diritti. Entrambi i paesi puntano su una crescita
veloce e libera da vincoli ambientali e si ergono a esempio di
molti altri paesi del sud del mondo.
La fame energetica cresce di anno in anno. Nonostante lo
sfruttamento selvaggio, la terra ha ancora sufficienti riserve di
olio, gas e carbone, soprattutto nelle più isolate regioni
dei popoli indigeni. Quando l'umanità inizierà a
consumare anche queste risorse energetiche, altri 18.000 miliardi
di tonnellate di CO2 entreranno nell'atmosfera. La fine di ogni
paradiso ancora rimasto.
Sarah Reinke e Kerstin Veigt
Il cambio
climatico mette a repentaglio i popoli indigeni dell'Artico che
rischiano la distruzione e il saccheggio delle loro risorse. Le
gravi conseguenze del cambio climatico si ripercuotono già
oggi sulla vita degli Inuit, Evenchi, Yakuti, Nenet e di altri
popoli. Ora anche i governi occidentali, gruppi petroliferi e
industriali vogliono approfittare del cambiamento climatico per
sfruttare economicamente i territori polari. Questo
distruggerebbe sistematicamente ogni fondamento di vita della
popolazione indigena e rappresenterebbe un colpo di grazia per
oltre 400.000 indigeni dell'Artico. A più di dieci anni
dall'inizio del decennio internazionale per popoli indigeni
proclamato dalle Nazioni Unite, l'incombente saccheggio
dell'Artico dimostra che la comunità internazionale non ha
voluto imparare niente dalle pesanti conseguenze dello
sfruttamento delle risorse naturali per i popoli indigeni
dell'Amazzonia.
Secondo diverse stime, nell'Artico si trova circa un quarto delle
risorse petrolifere e di gas metano mondiali ancora da sfruttare.
Così nel nord della Norvegia, a Hammerfest, è in
costruzione un impianto per la liquefazione del metano, in modo
da poter esportare il metano del Mare di Barent negli USA e in
altri stati. La Russia sta esplorando un gigantesco giacimento di
metano nel nord della penisola di Kola grazie al sostegno di
grandi gruppi imprenditoriali del settore energetico francesi,
statunitensi e norvegesi. La Cina, sempre affamata di energia, ha
istituito una stazione di ricerca a Spitzbergen, in Norvegia. Il
governo degli USA esplora nuovi giacimenti petroliferi nel nord
dell'Alaska senza alcun riguardo né per le popolazioni
indigene né per il delicato equilibrio ecologico del
territorio. Di fatto, tutti i grandi gruppi petroliferi
internazionali stanno valutando possibili investimenti nella
regione polare.
È anche preoccupante che i paesi vicini vogliano estendere
i loro territori nazionali per assicurarsi il controllo di
possibili giacimenti. Secondo la Convenzione internazionale
marina, l'appartenenza territoriale di un'area marina si
determina a partire dall'estensione dello zoccolo continentale.
Visto il progressivo scioglimento dei ghiacci e il conseguente
affiorare di terra ferma, Russia, USA, Danimarca e Canada hanno
già avviato le misurazioni dello zoccolo continentale in
modo da poter reclamare i propri presunti diritti su futuri
territori nuovi. La Russia si è addirittura azzardata a
dichiarare metà del territorio artico come parte del
proprio territorio nazionale. Oltre alle risorse naturali, ai
paesi limitrofi interessano anche la vasta presenza di pesci e
granchi e la possibilità di aprire nuove vie navigabili
nel nord del Canada e della Russia, che, libere da ghiaccio,
renderebbero il trasporto di merci meno costoso e più
veloce.
Gli interventi umani nell'ambiente artico sono quindi molteplici
e minacciano in diversi modi la sopravvivenza dei popoli artici.
Il cambiamento climatico non deve essere sfruttato per
saccheggiare le risorse artiche, recita l'appello dell'APM al
Consiglio Artico, riunitosi a Potsdam nel marzo 2006 per decidere
sull'Anno Internazionale Polare 2007/2008. Il Consiglio Artico
è un'organizzazione interstatale, costituito dagli otto
paesi limitrofi dell'Artico e dai rappresentanti dei popoli
indigeni della regione polare.
Nella regione artica il cambiamento climatico avviene dalle due
alle tre volte più velocemente che nella media globale.
Provoca lo scioglimento dei cosiddetti ghiacci eterni e trasforma
irrimediabilmente le condizioni di vita delle persone, la flora e
la fauna. I popoli indigeni dell'Artico sono i primi a subire le
conseguenze dirette e indirette della politica petrolifera
globale.
L'estrazione spietata di petrolio e metano
La Germania riceve il 30% delle sue 35 milioni di tonnellate
di petrolio importato e il 40% dei 35 miliardi di metri cubi di
metano dalla Russia, e precisamente dalle regioni nelle quale
vivono le popolazioni indigene. Le conseguenze dell'estrazione di
petrolio e gas metano nelle regioni indigene della Siberia a
partire dagli anni '60 sono le terre inquinate, laghi e fiumi
avvelenati e inquinamento atmosferico dovuto dalla combustione
dei gas secondari. A causa della distruzione ambientale molte
persone hanno dovuto abbandonare il loro stile di vita
tradizionale, le conseguenze sono state il diffondersi di
alcolismo e disoccupazione. Sono inoltre aumentate le malattie
come la tubercolosi e il cancro e la speranza di vita è di
circa 20 anni inferiore alla media russa.
Tuttora si stanno esplorando nuovi territori da rendere
accessibili all'estrazione di petrolio e di gas metano. Il
progetto minaccia direttamente la vita di circa 3.500 Nivci,
Evenchi, Nanai, Orochi dell'isola di Sakhalin: è prevista
la costruzione di un oleodotto dal sud al nord dell'isola che nel
suo percorso attraverserebbe 1.103 fiumi e ruscelli e i pascoli
delle renne. Trattandosi di un territorio a forte rischio sismico
c'è il pericolo concreto di danni all'oleodotto, e
qualsiasi incidente o fuga di petrolio avrebbe conseguenze
catastrofiche per il delicato sistema ecologico.
Il cambio climatico distrugge il sistema di vita tradizionale
I popoli indigeni di tre continenti - dai Sami in Lapponia
agli Evenchi in Siberia, dagli Yup'ik e Gwich'in in Alaska agli
Inuit in Groenlandia - subiscono quotidianamente le conseguenze
del cambiamento climatico. Sono minacciati nel loro diritto alla
salute, a procurarsi il cibo e a vivere secondo la propria
cultura. Risulta minacciata la sicurezza delle loro abitazioni e
la loro stessa incolumità fisica. Molti muoiono
semplicemente percorrendo le abituali vie sui ghiacci che, con
gli inverni più corti e più caldi, si sono
assottigliati e non reggono più il peso delle persone.
L'erosione costiera e l'intensità inusuale delle tempesta
ha costretto interi villaggi a trasferirsi altrove. Se le nazioni
industriali non si decidono ad adottare finalmente delle
politiche energetiche responsabili e coerenti e non ridurranno le
emissioni di anidride carbonica, allora agli abitanti della
regione artica vedranno letteralmente sciogliersi il suolo sotto
i piedi.
La regione artica tramite i paesi del circolo polare (Norvegia,
Svezia, Finlandia, Islanda, Canada, Russia, Danimarca e USA)
conta una popolazione complessiva di quasi quattro milioni di
persone, di cui circa 400.000 appartengono a più di 30
popoli indigeni quali i Sami in Lapponia, gli Inuit in
Groenlandia, i Gwich'in, gli Athabasken e gli Yup'ik in Alaska o
gli Evenchi in Siberia. I popoli indigeni hanno una precisa
conoscenza del loro territorio e sanno bene che sotto il ghiaccio
non sempre c'è terra, ma spesso si nasconde l'Oceano
artico. Attualmente i popoli indigeni dell'intera regione artica
sono seriamente preoccupati per i drastici cambiamenti
dell'ambiente e delle condizioni climatiche osservati.
Da decenni ormai le popolazioni indigene artiche si oppongono
all'estrazione di gas e petrolio sul loro territorio e
soprattutto alle conseguenze dell'estrazione per l'ambiente e la
loro salute. Ora le conseguenze delle attività petrolifere
e industriali obbligano le popolazioni indigene ad affrontare
delle sfide esistenziali mai conosciute prime. Per generazioni
queste popolazioni hanno saputo adattarsi perfettamente a un
ambiente estremo, ma adattarsi alle nuove condizioni climatiche
è difficile se non impossibile, sia per la velocità
del mutamento in corso, sia perché contrappone i popoli
indigeni ai complicati rapporti di potere a livello globale. Per
le popolazioni indigene il cambio climatico rappresenta una vera
e propria violazione dei diritti umani che irrompe in ogni
settore della loro vita e distrugge loro la base per la
sopravvivenza.
Attivi contro il cambio
climatico
Se i paesi industrializzati non si decidono a cambiare in
modo coerente e responsabile la loro politica energetica e a
ridurre le loro emissioni di anidride carbonica, il suolo artico
si scioglierà sotto i piedi delle persone.
Dai Sami della Lapponia agli Evenki in Siberia, dagli Yup'ik e
Gwich'in dell'Alaska fino agli Inuit della Groenlandia, i popoli
indigeni di tre continenti lottano insieme per fermare la
minaccia del cambio climatico. Organizzazioni quali la Inuit
Circumpolar Conference, il Saami Council, la RAIPON russa oppure
l'Inuit Tapiriit Kanatami continuano a sensibilizzare l'opinione
pubblica mondiale sulla minaccia che incombe sui popoli indigeni
dell'Artico. Nel maggio 2005 i delegati di diversi popoli
indigeni hanno visitato l'UE a Bruxelles per chiedere ai paesi
europei di impegnarsi contro il cambio climatico e di sostenere i
popoli artici nella loro lotta. La presidentessa della Inuit
Circumpolar Conference, Sheila Watt-Cloutier, sottolinea il fatto
che gli Inuit non si considerano affatto delle vittime impotenti.
Infatti Sheila Watt-Cloutier continua a parlare ai grandi attori
internazionali e a chiedere una politica climatica cosciente e
maggiore potere per i popoli indigeni in tutti i processi
decisionali politici.
Durante la Conferenza per il Clima dell'ONU a Montreal nel 2005
(28 novembre - 9 dicembre) gli Inuit hanno consegnato alla
Commissione Interamericana per i Diritti Umani (IACHR) una
petizione firmata da 63 Inuit del Canada e dell'Alaska nella
quale essi accusano esplicitamente gli USA di essere i principali
responsabili dei disastri climatici mondiali. Gli USA infatti
sono i responsabili del 25% delle emissioni mondiali di gas
nocivi, si rifiutano di firmare il protocollo di Kyoto
nonché di prendere altre misure atte a limitare gli
effetti del cambio climatico. Alla Commissione Interamericana per
i Diritti Umani gli Inuit chiedono anche sostegno per difendersi
contro le violazioni dei diritti umani commesse dagli USA con il
loro rifiuto di fermare il cambio climatico. Gli Inuit chiedono
alla Commissione di indagare sulle conseguenze del cambio
climatico per la popolazione degli Inuit e di stabilire quindi se
la politica climatica del governo USA leda la "American
Declaration on the Rights and Duties of Man" e altri accordi
internazionali di diritto dei popoli. In questo modo gli Inuit
cercano di convincere gli USA a cooperare finalmente con la
Comunità Internazionale e a ridurre velocemente ed
efficacemente i loro gas serra nei limiti previsti dalla
Convenzione quadro sul Clima dell'ONU. La cultura e le risorse
degli Inuit devono essere tutelati da un programma che inquadri
la tutela della terra, dell'acqua, della neve, della flora e
della fauna. Gli USA dovrebbero infine impegnarsi a collaborare
con gli Inuit per evitare tutti i danni irreversibili.
"Questa petizione non ha a che fare con il denaro", specifica la
presidentessa Sheila Watt-Cloutier , "si tratta invece di
incoraggiare gli Stati Uniti a seguire la Comunità
Internazionale e a impegnarsi per una forte diminuzione dei gas a
effetto serra, com'è di fatto necessario per la
sopravvivenza dell'ambiente artico e della cultura degli Inuit,
e, in ultima analisi, per tutto il globo terrestre. ... Non
presentiamo questa petizione con l'intenzione di giungere a un
confronto, non è questo il modo di fare degli Inuit, ma
con la speranza di ottenere un dialogo con gli USA nell'ambito
della Convenzione per il Clima. ... Invito gli USA a rispondere
in modo positivo alla nostra petizione, e invito le
organizzazioni governative e non-governative di tutto il mondo a
sostenere la nostra petizione e a non dimenticare che il cambio
climatico riguarda di fatto i diritti umani."
Nonostante i popoli indigeni artici siano le prime vittime del
cambio climatico e anche le vittime maggiormente colpite, essi
sono però coloro che meno responsabilità hanno nel
determinarne le cause. I popoli indigeni artici hanno troppo poco
potere per poter influire sulle cause e i processi che
determinano il cambio climatico e le sue conseguenze, ormai
drammaticamente visibili, e sono perlopiù esclusi da tutti
i processi decisionali importanti.
Fonte: www.gfbv.de/dossier.php?id=32
Strade e abitazioni distrutte
Ciò che una volta erano vie sicure che attraverso il
ghiaccio collegavano tra di loro diversi comuni e territori di
caccia, oggi sono diventate strade pericolose, segnate da
spaccature nel ghiaccio e superfici troppo sottili per essere
percorse. Nella regione autonoma canadese del Nunavut si sono
già verificati i primi morti tra gli Inuit sprofondati
nell'acqua gelida durante la caccia e la pesca a causa dello
strato di ghiaccio divenuto troppo sottile.
Per i 600 Inupiat di Shishmaref (Alaska) il suolo che nel vero
senso della parola si scioglie sotto i piedi è già
realtà e sono costretti ad abbandonare l'isola al largo
delle coste dell'Alaska settentrionale, abitata da oltre 4.000
anni. Il costante aumento delle temperature a Shishmaref ha
causato la comparsa di tempeste marine e un'inarrestabile
erosione delle coste. Lo scioglimento dei ghiacci e il disgelo
del permafrost ha causato la distruzione di abitazioni,
condutture dell'acqua e di altre infrastrutture. Molte case hanno
dovuto essere trasferite verso l'interno dell'isola e un
villaggio è stato in parte travolto e spazzato via da una
tempesta. In Alaska altre 184 comunità sono in pericolo a
causa dell'erosione e delle inondazioni.
Deterioramento della base alimentare
Come in altre zone artiche, anche gli abitanti di Shishmaref sono preoccupati per il proprio approvvigionamento. Lo scioglimento dei ghiacci marini impedisce loro di raggiungere la terraferma dove cacciavano alci e caribù per il proprio sostentamento. Il golfo si è ormai trasformato in un mare aperto. Ma non è solo l'accesso al cibo a preoccupare i popoli indigeni che vivono della caccia, pesca, della raccolta e dell'allevamento di renne. In seguito alle nuove condizioni climatiche molti animali hanno cambiato le proprie abitudini e itinerari. Le greggi diminuiscono e rischiano progressivamente l'estinzione. Diminuiscono anche le fonti alimentari vegetali visto che alcune piante e bacche non si adattano alle nuove condizioni climatiche. Sono comparse nuove specie di insetti, pesci e uccelli, prima sconosciuti nella zona. In cambio sono a rischio d'estinzione le foche, gli orsi polari e i trichechi. Con il progressivo sciogliersi del ghiaccio, il loro habitat si riduce sempre più.
Identità culturale minacciata
Il mondo animale e il mondo vegetale non forniscono unicamente alimenti, ma costituiscono anche la base dell'identità sociale, culturale e spirituale delle popolazioni indigene. Tutte le feste, cerimonie, mitologie e tradizioni rispecchiano il significato che l'ambiente artico riveste per i suoi abitanti. Per questo il cambiamento climatico minaccia anche la sopravvivenza culturale dei popoli artici, per i quali il cambio climatico viola gravemente il loro diritto a poter scegliere autonomamente il proprio stile di vita.
Deterioramento sanitario
Il deterioramento della catena alimentare ha comportato un cambiamento del regime alimentare e una progressiva insufficienza alimentare, che a loro volta hanno portato all'aumento di malattie tra le popolazioni indigene. Il sole e i raggi UVA giungono provocando scottature e malattie della pelle prima sconosciute. L'aumento della temperatura ha anche reso possibile il diffondersi di nuove malattie infettive.
Via libera da Spitzbergen al Polo
Nord
Lo scioglimento dei ghiacci artici assume dimensioni sempre
più preoccupanti. Le fotografie satellitari di fine agosto
2006 convincono l'organizzazione spaziale europea ESA a parlare
di prime "drammatiche aperture" in quelli che si credevano gli
eterni ghiacci del Nord. Gli scienziati sono esterrefatti: le
crepe nella banchisa si estendono per un'area maggiore delle
Isole Britanniche. "E' pensabile che una nave possa
tranquillamente navigare da Spitzbergen in Norvegia o dalla
Siberia settentrionale fino al Polo Nord attraversando una zona
che dovrebbe esser coperta da ghiaccio eterno", ha dichiarato
l'esperto marino dell'ESA Mark Drinkwater. Lo scienziato
sottolinea che si tratta di un fenomeno mai visto negli ultimi
decenni. Con l'inizio dell'autunno artico in settembre le crepe
nel ghiaccio si sono, per ora, richiuse.
Verso metà settembre anche gli scienziati statunitensi
hanno dato l'allarme a causa del veloce sciogliersi dei
cosiddetti ghiacci permanenti dell'Artide. Gli scienziati ora
temono una spirale di riscaldamento climatico nel nord. Secondo
gli scienziati USA tra il 2004 e il 2005 si sono sciolti circa
720.000 km2 di ghiaccio, che corrispondono a un settimo del
ghiaccio permanente e all'incirca alla grandezza dello stato
americano del Texas. Nel settembre 2005 il ghiaccio artico aveva
raggiunto il livello più basso mai registrato dal 1978,
quando si iniziò a lavorare con le riprese
satellitari.
Lo scioglimento dei ghiacci riguarda soprattutto l'Oceano artico
orientale, il Mare glaciale artico orientale, al di sopra
dell'Europa e dell'Asia. Per Drinkwater, "se continuasse questa
tendenza anomala, il passaggio a nordest tra l'Europa e l'Asia
potrebbe restare aperto per diverso tempo e si può
ipotizzare che tra dieci o vent'anni sia possibile circumnavigare
il mondo passando in estate attraverso il Mare artico." Lo
scioglimento dei ghiacci causato dall'effetto serra e dal
riscaldamento terrestre preoccupa gli scienziati perché va
a influenzare direttamente la corrente del golfo che a sua volta
è responsabile del clima moderato di ampie zone
dell'Europa occidentale. Lo scioglimento dei ghiacci non solo
minaccia la sopravvivenza di animali come l'orso polare e la
foca, il cui ciclo vitale dipende dal ghiaccio, ma comporta anche
conseguenze di natura geopolitica. Canada, Russia e USA
rivendicano già, ognuno per sé, i diritti su un
futuro passaggio attraverso il Polo Nord.
Fonte: APA, 20 settembre 2006.
Sarah Reinke
Nel corso del 2006 l'Associazione per i Popoli
Minacciati (APM) ha continuato a ricevere notizie contrastanti
dalla Siberia. Mentre le proteste delle popolazioni indigene di
Sakhalin contro il progetto petrolifero Sakhalin II possono
segnare alcuni primi successi, la situazione delle altre
popolazioni della regione è preoccupante, in particolare
quella degli Amur Evenchi.
Dei 35.527 Evenchi distribuiti in tutta la Russia (censimento
2002), 1.501 vivono nella provincia di Amur. La maggior parte
vive dell'allevamento di renne. Nella primavera 2005 Elena
Kolesova, presidente dell'associazione dei gruppi indigeni della
regione di Amur, si è rivolta per la prima volta
all'associazione RAIPON per raccontare le violazioni dei diritti
dei gruppi indigeni commesse nella sua regione da parte dei
boscaioli, cercatori d'oro, operai impegnati nella costruzione di
strade e da parte dell'amministrazione locale. "Nel 2000 è
iniziata la costruzione della strada Umnak-Elga, che attraversa
proprio la nostra terra. In seguito sono arrivati i tagliaboschi,
i cacciatori di frodo e i cercatori d'oro. Nel 2002 i lavori di
costruzione della strada sono stati interrotti, ma ciò
nonostante è stato costruito un centro commerciale nel bel
mezzo della nostra terra, proprio là dove le renne femmine
si ritiravano per partorire. I nostri allevatori hanno tentato di
condurre gli animali in un altro luogo, ma non ci sono riusciti.
Poi i boscaioli hanno iniziato a sparare agli animali. La prima
volta hanno ucciso 8 renne, la volta successiva erano già
14. Quando abbiamo tentato di richiamarli alle loro
responsabilità ci hanno semplicemente risposto che non si
erano accorti che si trattava di renne addomesticate. Le nostre
renne però sono tutte segnate da campane al collo e nastri
colorati, ma soprattutto i boscaioli non posseggono licenze di
caccia."
Dopo questo primo confronto tra gli indigeni e i boscaioli,
questi ultimi hanno iniziato a minacciare l'allevatore di renne a
cui avevano ucciso gli animali. Le vessazioni hanno continuato
finché Vadim, l'allevatore, non si è suicidato. Da
quando sono arrivati gli stranieri sono morti molti allevatori.
Prima c'erano grandi mandrie e 22 giovani allevatori. Nessuno di
loro è rimasto. Il marito di Elena Kolesova è morto
d'infarto. Aveva avuto un primo infarto quando la polizia ha
fatto irruzione in casa alla ricerca di non si sa che cosa, dopo
che Elena aveva iniziato a scrivere lettere di protesta alle
autorità. Le autorità stesse hanno più volte
minacciato Elena. Suo figlio maggiore si è suicidato
nell'inverno 2005 lasciando la moglie e una figlia, e il figlio
minore ha subito un processo irregolare che si è concluso
con una condanna a 10 anni di reclusione. Durante una visita di
Elena a sua figlio in carcere, questo le ha detto che la
severità della condanna era dovuta in primo luogo
all'impegno di Elena a favore dei diritti degli Amur Evenchi.
Altri giovani allevatori si sono suicidati o sono morti per
avvelenamento da alcol e di malattie.
Anche Arkadij Ochlopov, presidente dell'associazione "Aborigen"
del distretto Selemdzhin nella regione di Amur, si è
rivolto con appelli urgenti all'opinione pubblica. Egli accusa i
cercatori d'oro di trasformare i pascoli degli allevatori di
renne in deserti. Gli Evenchi, disperati e defraudati della loro
base esistenziale, hanno minacciato il suicidio collettivo.
Arkadij Ochlopov stesso è disposto a sacrificare la sua
vita per aiutare gli Evenchi. L'associazione di raccolta dei
popoli indigeni RAIPON ha finora tentato di aiutare gli Evenchi
spedendo lettere di protesta alle autorità competenti. Il
prossimo passo sarà l'invio nella regione di un giurista
competente per verificare e documentare gli abusi compiuti.
Che la resistenza possa comportare cambiamenti positivi è
invece l'esperienza fatta dai gruppi indigeni dell'isola di
Sakhalin, nell'estremo est della Federazione russa. A Sakhalin
confluiscono i maggiori investimenti del settore petrolifero. Le
proteste della popolazione indigena sono iniziate in gennaio 2005
e si rivolgono soprattutto contro il progetto Sakhalin II che
prevede la costruzione di un oleodotto dal sud al nord
dell'isola. Per i gruppi indigeni, diretti dal presidente del
Consiglio dei Popoli Indigeni di Sakhalin Aleksej Limanso, era
chiaro fin dall'inizio che non sarebbero riusciti a impedire la
costruzione dell'oleodotto. Le proteste dei gruppi indigeni,
sostenute a livello internazionale da Greenpeace, dal WWF e
ovviamente dall'APM, hanno comportato che i rappresentanti del
Consorzio Sachalin Energy, il cui azionario maggioritario
è la Shell britannica, dovessero prendere in seria
considerazione la popolazione indigena. Dopo una serie di
colloqui è stato organizzato, dal 26 al 30 maggio 2006, un
seminario a Mosca, dal titolo "Tutela dei diritti delle
popolazioni indigene di Sakhalin e sfruttamento industriale di
territori tradizionali". Al seminario hanno partecipato i
rappresentanti del consorzio, dei gruppi indigeni e osservatori
internazionali. Parallelamente al seminario è stato
avviato un programma di sviluppo per la popolazione indigena di
Sakhalin, il cui obiettivo è di minimizzare le conseguenze
negative dovute al progetto Sakhalin II e contribuire al
benessere della popolazione indigena.
Il consorzio Sakhalin Energy, il Consiglio dei Popoli Indigeni e
l'amministrazione politica di Sakhalin hanno firmato un accordo,
secondo il quale Sakhalin Energy investirà 300.000 dollari
USA in progetti sociali. La realizzazione di questi progetti
sarà supervisionata da un comitato a maggioranza indigena.
Precedentemente, in marzo, vi era stata a Mosca un'udienza sulla
questione Sakhalin, a cui avevano partecipato ONG e finanziatori
quali la Banca Europea per la Ricostruzione, e altri. Era
importante riconoscere che il programma di sviluppo adottato non
è un intervento caritatevole da parte di Sakhalin Energy,
ma è invece un intervento previsto dalla legislazione
russa e internazionale che avrebbe dovuto essere intrapreso
già all'inizio dei lavori per Sakhalin II.
Maggiori informazioni attuali sulla situazione in Siberia nella nuova edizione dell'Ansipra Bulletin (www.npolar.no/ansipra/english/index.html).
Theodor Rathgeber
Nel 2004 e 2005 Françoise Hampson,
esperta della sottocommissione ONU per la tutela dei diritti
umani e membro del gruppo di lavoro dell'ONU per i popoli
indigeni (WGIP), ha presentato un rapporto sulle popolazioni
indigene che si trovano a lottare per la propria sopravvivenza a
causa dei cambiamenti climatici e dell'ambiente. Françoise
Hampson riferisce di terre indigene in procinto di scomparire e
di popoli cacciati dalla propria terra oppure costretti a
lasciarla in seguito a emergenze ambientali. Questi cambiamenti
ambientali così incisivi sono dovuti all'innalzamento del
livello del mare, che a sua volta è la conseguenza del
riscaldamento atmosferico, dell'aumento dell'acqua salata a
scapito di quella dolce e della vera e propria desertificazione
di ampie zone in seguito allo sfruttamento particolarmente
aggressivo delle risorse naturali.
Particolarmente colpiti risultano i territori indigeni con
ecosistemi sensibili, come l'Artico, le foreste boreali e
tropicali, i territori montani, le isole del Pacifico, dei
Caraibi e dell'Oceano Indiano. Le isole più a rischio sono
Tuvalu, Nauru, Kiribati, le Isole Salomone, le Maldive e le
Bahamas. Anche il Bangladesh rischia di perdere ampie masse
terrestri. Al vertice sul clima di Montreal del 2005 Ian
Aujare-Zazao, rappresentante degli indigeni delle Isole Salomone,
ha usato parole durissime per mettere in guardia dalle imminenti
inondazioni.
Il riscaldamento atmosferico si ripercuote direttamente sulla
vita degli Inuit del mare polare settentrionale. Sheila
Watt-Cloutier, presidentessa della Inuit Circumpolar Conference
(ICC), ha inoltrato presso l'ufficio di Washington della
Commissione per i Diritti Umani una denuncia per violazione dei
diritti umani per l'incontrastata emissione di gas serra,
soprattutto da parte degli USA. L'intento della denuncia è
quello di convincere gli USA a fissare dei livelli massimi per le
emissioni e ad avviare finalmente una collaborazione
internazionale sulla questione. Gli Inuit infine sperano di
riuscire a impegnare gli USA nell'elaborazione congiunta di un
progetto che miri ad attenuare le già visibili conseguenze
del cambio climatico.
Sul lato indiano dell'Himalaya, le conseguenze dello scioglimento
dei ghiacciai diventano evidenti soprattutto nella stagione secca
quando viene a mancare un sufficiente approvvigionamento con
acqua potabile di tutta la zona rurale adiacente, che è
anche zona di ritiro dei pochi Adivasi ("primi abitanti")
rimasti. La mancanza di acqua si ripercuote poi sulla
biodiversità della zona e va quindi a minare anche
l'approvvigionamento alimentare delle comunità.
Se anche il governo indiano stesse studiando delle possibili
soluzioni, lo fa senza la partecipazione e neppure la
consultazione degli Adivasi. Al contrario, nello stato del
Arunachal Pradesh ci sono già stati i primi dislocamenti
di popolazione locale su territorio degli Adivasi, senza essersi
preventivamente consultati con la popolazione indigena. Il
governo indiano sembra prendere ad esempio la strategia
indonesiana degli anni '70, quando il governo approfittò
di catastrofi naturali per evacuare fette di popolazione e
trasferirle in territori indigeni, come ad es. la Papua
occidentale, e soppiantare così le comunità
indigene presenti.
Le devastazioni e i cambiamenti climatici regionali persistenti
nel continente americano sono dovuti soprattutto allo
sfruttamento di risorse naturali. La Peabody Western Coal Company
in Arizona non solo rovina il territorio sacro del Black Mesa dei
Dineh e degli Hopi, ma interviene anche profondamente
nell'equilibrio ecologico dell'intera regione e mette in pericolo
la sopravvivenza culturale e fisica delle popolazioni locali.
L'estrazione di petrolio e gas in Guatemala, Ecuador, Colombia,
Perù o Bolivia avvelena per decenni l'ambiente in cui
vivono e di cui sopravvivono decine di comunità indigene.
Per le future generazioni la distruzione degli ecosistemi
comporta l'impossibilità di pianificare la propria vita
secondo le abitudini tradizionali. La migrazione dei giovani
verso le città e verso altre zone è
inevitabile.
Ritroviamo lo stesso quadro in Siberia, dove la distruzione
ambientale è aggravata dalla privatizzazione sostenuta
politicamente in tutta la Federazione Russa delle risorse
naturali quali l'acqua e i boschi. La privatizzazione delle
risorse e il loro conseguente sfruttamento incontrollato rende
impossibile qualsiasi progetto di vita autonomo e in armonia con
la propria cultura e tradizione di popoli quali i Nivci, Nanai o
gli Ulta di Sakhalin.
Oltre alla perdita di terra, di luoghi sacri e di risorse per le
generazioni a venire, si pone anche il problema della normativa
legale. Cosa succede a chi è costretto a fuggire e a chi
è dislocato più o meno forzatamente in termini di
status legale? Da un punto di vista antropologico sicuramente
resteranno un popolo indigeno, ma da un punto di vista legale,
è probabile che nel nuovo luogo di insediamento saranno
considerati un minoranza, con diritti completamente diversi da
quelli di un popolo indigeno autoctono. Non esiste finora una
regolamentazione internazionale capace di rispondere a questo
tipo di problematica.
Tutte le devastazioni avvenute o incombenti di un ambiente che
rende possibile la vita umana sono il frutto di un processo di
cui l'essere umano è largamente corresponsabile. Fintanto
che si continua ad avviare processi distruttivi dell'ambiente si
continua anche a violare i diritti umani.
Le vittime dirette non sono più disposte a sopportare
tutto ciò. Da diversi anni i rappresentanti delle
popolazioni indigene partecipano alle conferenze seguite al
Protocollo di Kyoto. Al vertice sul clima del 2005 a Montreal
hanno partecipato rappresentanti indigeni provenienti
dall'Artico, dagli USA e dal Canada, dal Messico, Ecuador,
Panamá, Norvegia, Russia, Groenlandia, India, Nuova
Zelanda e da diverse isole del Pacifico. In migliaia sono scesi
in strada a fianco degli ambientalisti per protestare non solo
contro le politiche governative ma anche contro il modo di
procedere delle grandi industrie che contribuiscono in modo
determinante al cambio climatico indotto dall'uomo. Durante la
conferenza stessa i rappresentanti indigeni hanno però
trattato soprattutto con delegato dei diversi governi per
decidere veloci misure adatte a attutire perlomeno gli effetti
dei gas serra.
Le Nazioni Unite e le sue organizzazioni speciali hanno iniziato
a occuparsi del problema anche dal punto di vista delle
violazioni dei diritti umani. Françoise Hampson sta
elaborando un meccanismo di controllo e tutela che renda
possibile denunciare almeno le limitazioni più estreme
alle condizioni di vita delle popolazioni indigene e che possa
esortare o addirittura costringere i governi a intervenire. In
linea teorica i governi dovrebbero essere particolarmente
interessati a tale sistema di allarme poiché le possibili
migrazioni di intere popolazioni non solo possono comportare
conflitti culturali ma possono seriamente minacciare la pace di
intere regioni. Ma per i governi del mondo tanta saggezza e
visione per il futuro costituisce un'eccezione più che la
norma, non dovremmo quindi affidare questo compito ai soli
governi.
A essere maggiormente colpiti dal cambio climatico sono i
più poveri tra i poveri, sono i senza terra, i contadini
con appena qualche pugno di terra, gli abitanti delle bidonville
che sprofondano nel fango quando piove. Milioni di persone in
tutto il mondo sono già in fuga. Sono persone che hanno
perso tutto a causa del maltempo e delle tempeste. Tra le vittime
figurano anche le popolazioni indigene che tuttora vivono in
posti isolati, dall'ambiente ancora intatto. La loro ricchezza
è data anche dalle molte lingue e culture, dalla saggezza
delle loro religioni e dalla sostenibilità ambientale del
loro modo di vivere. Si stima che vi siano attualmente 350 - 400
milioni di persone che appartengono complessivamente a circa
5.000 popoli indigeni sparsi in 75 paesi.
Nonostante la Convenzione ILO 169, entrata in vigore nel 1991 e
finora ratificata da soli 17 paesi, i popoli indigeni sono
indifesi di fronte alle politiche messe in atto nei diversi paesi
in cui vivono. In 44 articoli la ILO 169 definisce gli standard
minimi dei diritti delle popolazioni indigene. Una particolare
importanza è ricoperta dal diritto all'identità
culturale e alle strutture comunitarie e tradizionali, dal
diritto alla terra e alle risorse, al lavoro in condizioni
dignitose, dal diritto al processo consultativo in quanto tale e
dal diritto a partecipare alle decisioni riguardanti lo sviluppo
nel proprio territorio. In ambito europeo la Convenzione funge da
traccia per la pianificazione e l'attuazione di progetti di
sviluppo. Nel 1994 il Parlamento Europeo ha chiesto ai governi
europei di aderire alla Convenzione ILO 169. Nel 1998 la
Commissione dell'UE ha approvato un programma strategico per la
cooperazione allo sviluppo con le popolazioni indigene che si
basa esplicitamente sulla Convenzione ILO 169. Nello stesso anno
un simile documento è stato approvato anche dal Consiglio
dei Ministri dell'UE.
Italia, Austria e Germania fanno parte della maggioranza dei
paesi europei che non hanno ratificato la Convenzione. Nonostante
se ne discuta da tempo e in particolare la Germania dell'allora
governo Kohl abbia dichiarato già nel 1996 che non vi
erano impedimenti giuridici internazionali, ancora non c'è
stata ratifica. Sempre nel 1996 il Ministero tedesco per la
cooperazione economica e lo sviluppo promulgò una carta
programmatica secondo la quale la politica estera, economica e di
sviluppo tedesca avrebbe dovuto basarsi sul rispetto della
Convenzione ILO 169. Il Ministero tedesco si è
accontentato di questa dichiarazione d'intenti e la mancata
ratifica della Convenzione è motivata con l'assenza di
popolazioni indigene entro le frontiere dei paesi in questione.
Ciò nonostante la ratifica della ILO 169 sarebbe
importante perché le politiche economiche e di sviluppo
dei paesi europei influenzano fortemente le condizioni di vita
delle popolazioni e comunità indigene nel mondo. La
partecipazione di imprese e istituti bancari europei alla
costruzione di dighe, di progetti di costruzione di oleodotti o
di importazione di gas dovrebbe obbligare gli stessi paesi ad
assumersi la responsabilità sulle conseguenze che questi
progetti comportano. Tra i progetti a fortissimo impatto
ambientale risultano p.es. quello della costruzione di un
gasdotto attraverso il Mare Baltico, concordato tra l'ex
cancelliere Gerhard Schröder e il presidente russo Vladimir
Putin, che servirà per l'esportazione di gas proveniente
dai territori delle popolazioni indigene siberiane e di cui
beneficeranno molte imprese tedesche, oppure l'estrazione di
petrolio nella selva amazzonica ecuadoregna con la partecipazione
dell'italiana ENI.
Ecuador: Huaorani travolti dalle imprese del legname e dalle multinazionali del petrolio
I circa 2.500 Huaorani vivono in una zona dell'Amazzonia
ecuadoregna che in parte coincide con il famoso parco naturale di
Yasuni. Grazie all'incredibile ricchezza di specie presente, il
parco di Yasuni venne istituito già nel 1979. Nel 1989
l'UNESCO assegnò al parco lo status di riserva di
biosfera. Alcuni gruppi di Huaorani come i Tagaeri e i Taromenane
hanno deciso di restare isolati e rifiutano qualsiasi tipo di
contatto con il mondo esterno. Attualmente gli Huaorani si
trovano a dover affrontare loro malgrado l'invasione di imprese
del legname non autorizzate e di multinazionali del petrolio
quali la brasiliana Petrobas e la argentino-spagnola Repsol YPF.
Negli anni lo sfruttamento selvaggio delle risorse è stato
imposto anche con la violenza e i ripetuti massacri di persone
appartenenti alla popolo degli Huaorani sono rimasti tutti
impuniti. Taglialegna non autorizzati disboscano nei territori
Huaorani e imprese petrolifere dividono le zone in blocchi da
esplorare e sfruttare. Le forze militari ecuadoregne sono
schierate a protezione degli impianti di estrazione petrolifera e
reagiscono in modo determinato contro le proteste per la
contaminazione causata.
Ciò nonostante una parte degli Huaorani che vive in 37
comunità distribuite nelle province di Orellana, Napo e
Pastaza, tenta di fermare la distruzione della base vitale con la
resistenza politica. L'Associazione degli Huaorani ONHAE, fondata
nel 1990, chiede alle imprese petrolifere di ripulire le zone
lasciate contaminate e critica il governo ecuadoregno per il
fatto di fare affari con le multinazionali petrolifere senza
coinvolgere gli Huaorani nelle decisioni riguardanti proprio la
loro terra. Gli Huaorani non ricevono nessun indennizzo per la
distruzione del loro ambiente o per i problemi di salute che
ciò comporta né per la perdita delle loro terre e
la contaminazione delle loro fonti alimentari. I cambiamenti
subiti hanno però diviso le comunità Huaorani.
C'è chi lavora con i taglialegna per garantirsi la
sopravvivenza con un certo introito in denaro e c'è chi,
come i Tagaeri e i Taromenane, ha deciso di ritirarsi nelle zone
più interne dell'Amazzonia e di tagliare ogni contatto con
chi è interessato solo alla distruzione e allo
sfruttamento delle risorse. Ma l'avanzamento delle imprese
petrolifere minaccia ormai anche gli angoli più reconditi
dell'Amazzonia dove queste comunità di Huaorani si sono
rifugiate. Finora il problema maggiore è rappresentato dai
taglialegna illegali che sfruttano le strade aperte dalle imprese
petrolifere e commercializzano il legname attraverso la
Colombia.
Africa Centrale: i Pigmei trattati come sottospecie umana
Nei paesi centrafricani 250.000 membri di popolazioni indigene
vengono collettivamente definiti con l'espressione denigratoria
di "Pigmei". Batwa, Efe, Mbuti, Baka e altri gruppi vivono
nell'attuale Repubblica Democratica del Congo, nel Congo
Brazzaville, in Gabon, Camerun, Ruanda, Burundi, Uganda e
Repubblica Centrafricana. La deforestazione dei boschi nei quali
per millenni hanno vissuto di caccia e raccolta come semi-nomadi
ha privato i Pigmei della loro base vitale e li ha costretti a
lasciare la terra nativa. Per la società essi sono una
"sottospecie umana" da discriminare e sfruttare. Completamente
ignorati nelle politiche sanitarie ed educative, essi
costituiscono i gruppi più poveri e vulnerabili delle
varie società, e come tali sono maggiormente esposti alla
violenza e alla guerra. Molti governi non riconoscono loro
nemmeno la cittadinanza.
Le culture indigene di cacciatori e raccoglitrici dell'Africa
centrale appartengono da millenni all'ambiente della foresta
pluviale. Per i Pigmei l'esistenza della foresta è la
condizione indispensabile per poter continuare a mantenere il
proprio stile di vita, ma le foreste centrafricane si riducono
sempre più, disboscate dalle grandi imprese
multinazionali, come p.es. l'impresa svizzero-tedesca Danzer
(Reutlingen), la tedesca Feldmeyer (Brema), l'olandese Wijma e le
ditte francesi Rouchier, Thanry e Becob. Mentre la maggior parte
del legname finisce sul mercato europeo, i Pigmei sono costretti
a lasciare le proprie terre e a vivere ai margini di una
società a loro estranea e privati delle loro tradizioni e
culture. Anche laddove sono stati istituiti parchi naturali e
riserve non è stata considerata la tutela delle
popolazioni indigene. Negli otto paesi menzionati le popolazioni
pigmee sono viste come "sottospecie umana, incivile e
arretrata".
Mali e Niger: Nomadi minacciati dalla fame
3,5 milioni di nomadi Tuareg e Peulh vivono tra il Niger e il
Mali. Le società nomadi sono minacciate da periodiche
carestie, dalla moria delle loro greggi, da conflitti con i
contadini per la terra e i pascoli, da impoverimento e mancato
sostegno da parte delle istituzioni. In molte regioni
caratterizzate da costante siccità il nomadismo è
l'unico sistema economico sostenibile che non inaridisce
ulteriormente e per sempre le terre. La grande
flessibilità dei nomadi e i bassi costi di mantenimento
delle greggi sono stati molto tempo un vantaggio economico che ha
reso possibile lo sviluppo di questo ramo economico. Un quarto
della terra mondiale è tuttora usato da società
nomadi le cui 20 milioni di famiglie producono il 10% del
fabbisogno mondiale di carne. Le crescenti necessità
igieniche, la diminuzione della domanda di prodotti
lattiero-caseari e la crescente concorrenza delle importazioni di
carne a basso costo proveniente dai paesi industrializzati
mettono sempre più in pericolo la base economico-vitale
dei nomadi.
Per decine di migliaia di Tuareg e Peulh la carestia dell'estate
2005 ha significato la perdita di tutto, anche della speranza per
il futuro. In alcune regioni del Niger, l'80% del bestiame era
morto o ha dovuto essere macellato a causa della siccità.
La macellazione di un numero così massiccio di capi di
bestiame ha portato alla caduta del prezzo della carne mentre la
siccità e la speculazione hanno fatto aumentare il prezzo
di cereali ed altri alimenti. Per i Nomadi ciò ha
significato una drastica riduzione delle entrate derivanti dalla
vendita di carne e l'impossibilità di comprare sufficienti
alimenti per i mesi a venire.
Non è la prima volta che le popolazioni nomadi del Sahel
vedono minacciata la propria sopravvivenza. Dopo le gravi
carestie degli anni 1973/74 e 1984/85 i Tuareg aspettarono invano
l'arrivo degli aiuti umanitari promessi fino a quando, nella
primavera 1990, presero le armi per ribellarsi ai governi del
Niger e del Mali. Nella primavera 2006 il progressivo
impoverimento e la mancanza di aiuti statali ha portato a una
nuova ribellione dei Tuareg nel nord del Mali. Grazie alla
mediazione dell'Algeria il conflitto è stato presto
risolto e il 3 luglio 2006 il governo del Mali ha siglato un
accordo con i ribelli nel quale sono stati loro assicurati
maggiori aiuti. Anche gli aiuti dell'estate 2005 sono arrivati ai
destinatari con molte difficoltà e lentezza nonostante si
trattasse di una catastrofe annunciata. Già nell'autunno
2004 molte organizzazioni umanitarie avevano messo in guardia
dalla progressiva siccità e mancanza di alimenti.
Borneo: il disboscamento minaccia i Penan
Nella provincia malese di Sarawak sull'isola
di Borneo vivono 27 diversi gruppi etnici. Gli Orang Ulu o Dayak,
come vengono chiamati complessivamente tutti i gruppi etnici,
costituiscono il 5,5% dei 2,2 milioni di abitanti di Sarawak. I
popoli indigeni Penan, Punan, Iban, Bidayuh, Kayan, Murut, Kenyah
e Kelabit sono tutti minacciati dal progressivo disboscamento e
dalla conseguente distruzione della loro base vitale. A partire
dagli anni '80 i Penan tentano di difendere il proprio spazio
vitale con azioni di bloccaggio dei taglialegna, ma nonostante la
resistenza dei Penan negli ultimi 15 anni è stata
abbattuta la maggior parte della foresta. Attualmente solo una
piccola parte dei circa 10.000 Penan continua a vivere in
condizioni di semi-nomadismo. In seguito alla distruzione della
foresta e alla riduzione dello spazio vitale, la maggior parte
dei Penan ha optato per la vita sedentaria. Oltre ai Penan ci
sono anche altri popoli indigeni, come i circa 5.000 Punan, che
continuano a vivere da semi-nomadi nella provincia di
Sarawak.
Negli anni '90 almeno 2,7 milioni di ettari di foresta pluviale
malese sono andati persi per il disboscamento. Il paese del
sudest asiatico ha così perso in pochi anni il 13% dei
suoi boschi e solo il 20% delle foreste malesi è tuttora
intatta. Lo spazio vitale delle popolazioni semi-nomadi è
in continua diminuzione, e insieme ai boschi spariscono anche le
fonti alimentari dei semi-nomadi, come il cinghiale, le scimmie,
gli uccelli e i frutti di bosco che raccoglievano.
Tradizionalmente i Penan non si nutrono di verdure o radici ma di
farina di sago, e non si fermano per più di qualche
settimana in un posto. Costruiscono piccole capanne fatte di
tronchi e foglie di palma e una volta abbattute le palme di sago
più vecchie, da cui ricavano la farina e la legna, e
raccolti i frutti selvatici si spostano in un'altra area. La
scarsità di animali e frutti selvatici hanno costretto
molti Penan a diventare sedentari e ad abbandonare lo stile di
vita tradizionale. Il disboscamento quindi non solo ha distrutto
l'equilibrio ecologico della foresta ma anche la base vitale
delle popolazioni indigene.
Le imprese del legname operano anche nelle regioni di Sungai
Bareh e Magoh che le autorità hanno assegnato
ufficialmente ai Penan. Le imprese disattendono sistematicamente
la legislazione malese ma ciò nonostante le
autorità non intervengono. Anzi, a sostegno delle imprese
del legname appoggiano l'introduzione di una certificazione di
garanzia per tutte le esportazioni di legname dalla Malesia che
dovrebbe assicurare i compratori esteri sulla
compatibilità ecologica dei disboscamenti su grandi aree e
sul rispetto dei diritti umani dei popoli indigeni.
Anche i Kelabit continuano a resistere all'invasione dei
taglialegna nel loro territorio. I Kelabit vivono nell'altipiano
di Bario vicino al fiume Baram, una delle ultime porzioni di
foresta rimaste agli indigeni. Purtroppo però anche questa
zona resisterà poco visto che l'impresa malese Samling
è appena riuscita ad assicurarsi i diritti sul
disboscamento di vari milioni di ettari di foresta.
Fonte: GfbV-Menschenrechtsreport: "Indigene Völker - ausgegrenzt und diskriminiert".
Da pogrom-bedrohte Völker 238 (4/2006)