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Grandi dighe, diritti dei popoli e dell'ambiente

I casi di Yacyretà, Chixoy, Katse

Il ruolo delle multinazionali italiane, dell'aiuto allo sviluppo, della Banca Mondiale e dei governi

Fondazione Internazionale Lelio Basso per il Diritto e la Liberazione dei Popoli Campagna per la rifoma della Banca Mondiale e della Fondazione Grandi dighe, diritti dei popoli e dell'ambiente pubblicato sulla rivista SEMI del Centro Internazionale Crocevia

Le dighe di Chixoy, Yacyretà e Katse, costruite dalla multinazionale Impregilo con il sostegno finanziario della Banca Mondiale, sono state e sono tuttora al centro di iniziative e campagne di denuncia delle Organizzazioni Non Governative che si occupano di ambiente e diritti umani, a causa dei danni che hanno provocato. Le grandi dighe sono simbolo di uno sviluppo distorto, che provoca le violazioni dei diritti dei popoli e dell'ambiente registrate nel corso della ricerca. La questione dello sviluppo sostenibile lungi dall'essere connessa a considerazioni di carattere puramente ecologico, appare con evidenza una questione politica. Vi trovano spazio, assieme alle questioni puramente tecniche, considerazioni relative alla democrazia ed a i diritti di ognuno - individuo, gruppo, popolo o realtà sociale - a partecipare attivamente come soggetto politico alle scelte. Un imperativo che si scontra quotidianamente con gli interessi di élite commerciali, economiche e politiche ansiose di perseguire i propri interessi particolari. Le grandi dighe, emblema di uno sviluppo centralizzato ed insostenibile racchiudono queste contraddizioni. In quest'ottica, il nostro documento cerca di fornire delle ulteriori chiavi di analisi ed approfondimento, in sostegno alle campagne delle organizzazioni e comunità locali per il rispetto del loro diritto ad uno sviluppo socialmente giusto ed ecologicamente durevole.

INDICE
Introduzione | I Diritti dei Popoli Indigeni nella normativa internazionale | 1. La progettazione di una diga | 1.1. Yacyretà | 1.2. Chixoy | 1.3. Katse | 1.4. Le violazioni ai diritti delle popolazioni indigene e delle comunità locali durante la fase di progettazione | 2. Costruzione della diga | 3. Riempimento del bacino | 4. Dopo il riempimento | 5. Dopo la diga: la situazione attuale | Conclusioni

Introduzione .: su :.

Le dighe sono state chiamate con una felice definizione "icone del progresso". Come tali vogliamo considerarle e usarle come esempio di una realtà che, pur in grande movimento, vede riproporre chiari elementi di colonialismo, o di colonizzazione: il sud del mondo rimane beneficiario/oggetto di uno sviluppo disegnato da èlite economiche e commerciali dei paesi ricchi che ne annullano le peculiarità, fornendo un modello standardizzato e ricette uguali per tutti. La domanda fondamentale che ci dobbiamo porre è se la tecnologia porti necessariamente progresso. L'approccio ecologico è stato di grande aiuto, per leggere alcuni fenomeni e svelare i meccanismi di sfruttamento e rapina, non solo dell'uomo ma del suo ambiente, che minano le possibilità di sopravvivenza futura. I movimenti di opinione e molte delle rivendicazioni che negli ultimi anni hanno sollecitato l'attenzione internazionale hanno il loro fulcro nella richiesta di uno sviluppo di tipo nuovo, che sia ecologicamente sostenibile, economicamente equo e socialmente giusto: queste richieste, di cui la Campagna per la riforma della Banca Mondiale si fa interprete, guidano l'analisi che qui viene presentata, utilizzando un esempio, quello delle dighe, in cui emergono con chiarezza le contraddizioni del cosiddetto "sviluppo".

Il 14 marzo è la Giornata internazionale per i fiumi, le acque e la vita, proposta nel 1997 a conclusione della Conferenza Internazionale che ha visto riuniti a Curitiba in Brasile rappresentanti delle popolazioni che in tutto il mondo subiscono gli effetti della costruzione di grandi dighe. La "Dichiarazione di Curitiba" sottoscritta in quell'occasione rivendica il diritto alla vita e alla salute delle persone, chiedendo di fermare la costruzione di nuove grandi dighe e di risolvere i gravi problemi sociali, ambientali ed economici che ne derivano. La Campagna ha presentato in Italia ad un anno di distanza il rapporto "Grandi dighe, diritti dei popoli e dell'ambiente", che intende essere strumento di informazione, di denuncia, di approfondimento sul rapporto tra grandi progetti e diritto internazionale, esaminando il caso delle grandi dighe. Il rapporto è una revisione ed ampliamento del documento presentato al "Tribunale Internazionale sulle popolazioni indigene", tenutosi a Denver, Colorado, tra il 17 e il 21 giugno 1997. Il Tribunale ha avuto le caratteristiche di un tribunale di opinione, con un Panel di esperti di Organizzazioni Non Governative di diversi paesi e rappresentanti delle popolazioni indigene; ha preso in esame 11 testimonianze su casi di violazione di diritti umani legati a interessi industriali e progetti di sviluppo, nel sud e nord del mondo. Come chiusura delle sessioni di presentazione per ciascuno dei casi ci sono state delle "conclusioni", con suggerimenti di azione; in allegato riportiamo le conclusioni relative al caso presentato dalla Campagna per la riforma della Banca Mondiale e dalla Fondazione Internazionale Lelio Basso. Tra i motivi ispiratori del Tribunale di Denver leggiamo: "... a cinque anni dalla Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo (UNCED, 1992) ... il nuovo paradigma che si proponeva di spostare il corso dello sviluppo mondiale da un modello puramente consumistico verso la sostenibilità si fa strada con lentezza. I paesi industrializzati sono molto lenti a cambiare il modello di produzione e consumo che contribuisce a creare fame e povertà. Fame e povertà continuano a provocare degrado a livello mondiale.

Il proliferare delle multinazionali che deriva dalle politiche economiche dei paesi G7 e della Russia[1] ha creato nella maggior parte del mondo un'industrializzazione che ha colpito le culture dei popoli indigeni e la sostenibilità del sistema globale. La base delle valutazioni che il Tribunale farà saranno i 27 principi della Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo (UNCED, 1992) e la Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli (Algeri, 1976)."[2] Il caso presentato a Denver è quello di tre grandi dighe costruite dall'impresa italiana Impregilo e finanziate dalla Banca Mondiale: Yacyretà tra Argentina e Paraguay, Chixoy in Guatemala e Katse in Lesotho. Le abbiamo scelte per i seguenti motivi. Primo, considerate le violazioni dei diritti umani ed il degrado ambientale provocato dalla costruzione di grandi dighe,[3] abbiamo ritenuto necessario esaminare e discutere l'impatto di questo modello di sviluppo sulle comunità locali, sulle popolazioni indigene e sull'ambiente, tentando di identificare le responsabilità dirette e indirette. Gli attori in campo sono molti: quelli che hanno voce nelle scelte principali sono i governi dei paesi beneficiari dei progetti, i finanziatori, i costruttori. C'è poi chi subisce le scelte e soffre le conseguenze nel lungo periodo: le popolazioni locali e l'ambiente. Secondo, vorremmo fornire elementi di approfondimento sul ruolo dei fondi pubblici destinati allo sviluppo, in particolare dei fondi delle Banche di Sviluppo Multilaterali, che sono tra i protagonisti chiave dell'economia mondiale.

Le tre dighe in oggetto sono state finanziate da fondi di Banca Mondiale, fondi bilaterali di cooperazione allo sviluppo e/o agenzie di credito all'esportazione italiane. Terzo, perché le grandi dighe hanno catalizzato e motivato movimenti di opposizione popolare e di base e campagne di pressione politica nel sud e nel nord del pianeta. Da ricordare tra le prime la campagna contro la diga di Narmada in India (iniziata nel 1985) che ha avuto un impatto senza precedenti, sollevando un dibattito internazionale sul ruolo della Banca Mondiale, dei suoi progetti e delle sue politiche. Pensiamo sia utile presentare un'analisi di come, nelle situazioni in esame, dall'interazione tra interessi delle multinazionali e finanziamenti pubblici derivi uno sfruttamento senza regole delle risorse naturali e l'emarginazione delle comunità locali, se non la loro eliminazione fisica. Abbiamo voluto identificare il ruolo e i gradi di responsabilità da attribuire alla istituzione finanziatrice - in questo caso la Banca Mondiale - ed ai governi locali. Con particolare riferimento agli effetti sulle popolazioni indigene, abbiamo voluto rilevare i tratti in comune delle violazioni verificatesi in seguito alla costruzione di una grande diga in un'area da esse abitata. Si è voluto con ciò evidenziare il carattere peculiare delle violazioni dei diritti umani per le popolazioni indigene: minacce nella loro esistenza ed integrità etnica poiché gli Stati, la Banca Mondiale e le imprese costruttrici non considerano la loro particolare struttura economica, sociale e culturale. Le responsabilità delle multinazionali messe sotto accusa nel Tribunale di Denver può essere più o meno diretta.

Nei tre casi di cui ci occuperemo non abbiamo rilevato prove del coinvolgimento diretto delle multinazionali nella violazione dei diritti umani e di quelli ambientali. Crediamo tuttavia che ci siano sufficienti elementi per concludere che le imprese coinvolte hanno funzionato da catalizzatore per tali violazioni. Al di là del ruolo tecnico, infatti, le multinazionali favoriscono scelte basate non tanto su prove certe di efficacia, ma sulla convinzione che perfette teorie possano funzionare in ogni contesto. Nei tre casi esaminati - ma ciò succede in generale - le grandi dighe sono opere gigantesche, progettate senza tenere conto delle condizioni locali, secondo un modello di sviluppo "industrialista" che non contribuisce affatto ad arricchire le società che dovrebbero beneficiarne. Ma oltre a queste le responsabilità delle multinazionali invece vanno al di là degli aspetti descritti sopra, della costruzione materiale delle dighe e dell'attività di lobby per ottenere l'appoggio della Banca Mondiale e dei governi locali. Come vedremo le valutazioni di impatto ambientale dei progetti sono state assai scarse, se non inesistenti, e alcune valutazioni tecniche del territorio e quindi della costruzione del tutto sbagliate. La presenza di interessi non dichiarati, sia delle ditte che dei governi, e la cultura istituzionale della Banca Mondiale, che spinge a finanziare il più possibile,[4] non offrono sufficienti garanzie di obiettività. La scarsa valutazione della sismicità indotta dal bacino di Katse in Lesotho, è emblematica da questo punto di vista. A Chixoy, che si trova in area sismica, il governo del Guatemala ed il consorzio controllato dall'Impregilo (allora Cogefar) hanno proseguito a costruire la diga dopo ben due anni di interruzione a causa di terremoti nell'area. Altri calcoli insufficienti sono relativi alla fattibilità economica generale ed al costo finale dell'energia. Dati come i flussi d'acqua necessari per il riempimento dell'invaso e l'impatto della sedimentazione sono in genere sottovalutati nel calcolo dei costi del progetto. Una gestione sostenibile delle risorse prevederebbe un'analisi costi/benefici e la considerazione di soluzioni alternative a basso impatto.

Per Yacyretà la Banca Mondiale ha dovuto ammettere, ben dopo l'inizio della costruzione della diga, che sarebbe stato meglio non iniziarla mai, poiché erano già stati scoperti giacimenti di gas naturale che avrebbero permesso la produzione di energia a costi più bassi. Il progetto era però avviato e potenti interessi economici e politici lo mantennero in piedi contro ogni evidenza. Nel caso di Katse i costi dell'acqua per il Sud Africa stanno diventando così alti da risultare insostenibili per gli utenti: una gestione razionale delle risorse e la riduzione degli sprechi renderebbe inutile la diga già costruita, e ancor più le nuove quattro previste. Se partiamo dal presupposto che lo sviluppo sostenibile deve essere decentrato e bilanciato secondo le esigenze di ciascun paese, le grandi dighe sono proprio tra i progetti che vanno rimessi in discussione alla radice. Nei casi che vedremo, possiamo affermare che le grandi dighe hanno portato danni ed impoverito le comunità locali: non solo non hanno contribuito al benessere dei paesi, ma hanno arricchito le élite politiche locali e le multinazionali costruttrici. La diga di Yacyretà per esempio è considerata un modello di corruzione in America Latina. Nei tre casi l'idea che le dighe siano un elemento di progresso si basa su una colpevole negazione delle differenze culturali e sociali, se non su una ideologia di mera omologazione culturale. Le dighe costruite con grandi finanziamenti internazionali provocano conseguenze devastanti sulle economie dei paesi. In Guatemala la diga di Chixoy rimase bloccata per due anni con altissimi costi: la società guatemalteca per l'energia, INDE, dovette comprare carburante per la produzione di energia aumentando il già consistente debito estero del paese. Nonostante ciò Banca Mondiale e cooperazione italiana continuarono a finanziare un'opera voluta dalla dittatura militare guatemalteca, che costò la repressione e l'uccisione di centinaia di contadini indigeni della regione di Alta Verapaz. I costi per la costruzione di Chixoy arrivarono a pesare per un 40% sul debito estero del paese.

Per protestare contro la costruzione di grandi dighe migliaia di persone hanno negli ultimi anni manifestato in tutto il mondo, creando un vero e proprio movimento che, a partire dall'India si è collegato con associazioni ed ONG nel nord e nel sud del pianeta. La mobilitazione internazionale ha costretto la Banca Mondiale ad istituire l'Inspection Panel, un organismo interno alla Banca, che per mandato svolge ispezioni e formula rapporti indipendenti. Esso può essere convocato dalle organizzazioni delle popolazioni locali che hanno subito gli effetti di progetti finanziati dalla Banca. Fino ad arrivare nel 1997 alla "Dichiarazione di Curitiba delle Popolazioni Colpite dalle Grandi Dighe", dichiarazione firmata da tutte le associazioni che nel mondo lavorano per bloccare progetti distruttivi, che riafferma il diritto alla vita e alla terra delle persone colpite dalle dighe. Di seguito riportiamo alcuni estratti della Dichiarazione di Curitiba: L'impatto delle dighe: ... le dighe ovunque costringono le persone a lasciare le loro case, sommergono terre coltivabili fertili, foreste e luoghi sacri, distruggono riserve ittiche e di acqua pulita, provocano disintegrazione sociale e culturale ed impoveriscono le comunità. .... Le dighe sono quasi sempre costate più di quanto era stato previsto, anche senza considerare i costi sociali e ambientali. Le dighe hanno prodotto meno energia elettrica ed irrigato meno terra di quanto promesso. Hanno provocato, invece di limitarle, inondazioni anche più distruttive. Le dighe hanno portato benefici ai latifondisti, alle multinazionali dell'agroindustria ed agli speculatori. Hanno sottratto proprietà ai piccoli contadini, ai lavoratori rurali, ai pescatori, alle comunità tribali, indigene e tradizionali. Le richieste: ... chiediamo una vera democrazia che preveda la partecipazione pubblica e la trasparenza nelle fasi di identificazione e di attuazione delle politiche energetiche e delle acque, di pari passo con il decentramento del potere politico ed il rafforzamento delle comunità locali. Dobbiamo ridurre l'ineguaglianza, con misure che prevedano un equo accesso alla terra. Insistiamo anche sui diritti inalienabili delle comunità a controllare e gestire l'acqua, la terra, le foreste, le altre risorse e sul diritto di ogni persona ad un ambiente sano. ... Dobbiamo lavorare per una società dove gli esseri umani e la natura non siano più ridotti alle logiche di mercato, in cui l'unico valore è quello delle merci e l'unico fine il profitto. Dobbiamo tendere ad una società che rispetti la diversità e che sia basata su relazioni eque e giuste tra le persone, le regioni e le nazioni. ... Chiediamo che i governi, le agenzie internazionali e gli investitori attuino un'immediata moratoria sulla costruzione di grandi dighe fino a che:

a) venga impedita ogni forma di violenza ed intimidazione contro le persone interessate dalle dighe e contro le organizzazioni che si oppongono ad esse;
b) vengano accordati risarcimenti che prevedano terre, case ed infrastrutture sociali, che vengano negoziati con i milioni di persone la cui vita è stata modificata dalla costruzione delle dighe;
c) vengano intraprese azioni per ripristinare gli ambienti naturali danneggiati dalle dighe - anche quando questo comporti la rimozione delle dighe stesse;
d) vengano pienamente rispettati i diritti territoriali delle popolazioni indigene, tribali, semi tribali e tradizionali interessate dalle dighe, assegnando territori che permettano loro di recuperare le condizioni culturali ed economiche precedenti - questo può anche comportare la rimozione delle dighe stesse. Il processo di privatizzazione che viene imposto ai paesi in molte parti del mondo dalle istituzioni multilaterali sta aumentando l'esclusione e l'ingiustizia sociale, economica e politica.

Noi non accettiamo la tesi secondo cui questo percorso è una soluzione alla corruzione, all'inefficienza e ad altri problemi nel settore energetico ed idrico dove questi sono sotto il controllo dello stato. La nostra priorità è il controllo pubblico democratico ed effettivo e la regolamentazione delle entità che forniscono energia elettrica ed acqua in modo che vengano garantiti i bisogni e le aspettative delle persone.

I Diritti dei Popoli Indigeni nella normativa internazionale .: su :.

Il moderno programma dei diritti umani si indirizza in maniera preponderante ai diritti ed alle libertà individuali, cioè quelli goduti da ogni essere umano personalmente, lasciando in ombra quelli collettivi, cioè quelli degli individui in rapporto l'uno con l'altro in quanto comunità, gruppo, minoranza o popolo. L'analisi svolta in questo rapporto si concentrerà su questi ultimi poiché riteniamo che le violazioni dei diritti umani che sono state perpetrate sulle popolazioni indigene presenti nelle aree di costruzione delle dighe siano meglio inquadrabili prendendo in considerazione la dimensione collettiva delle attività economiche, culturali e sociali che hanno risentito di questi progetti. I diritti collettivi si trovano però appena abbozzati negli strumenti internazionali in vigore ed il godimento dei diritti umani da parte dei popoli indigeni in particolare è tutelato direttamente solo da pochi anni. Esiste infatti un unico strumento attualmente in vigore: la Convenzione n. 169 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro del 1989, Convezione su popoli indigeni e tribali in stati indipendenti. Essa risente di alcuni limiti: tra i più importanti quello di essere stata ratificata da un esiguo numero di stati e di non essere sottoposta a procedure adeguate di applicazione e monitoraggio; l'elaborazione, inoltre, è avvenuta in ambito internazionale ONU e anche se alcuni gruppi indigeni hanno partecipato indirettamente ai lavori per la sua elaborazione,[5] non è uno strumento elaborato da coloro che ne saranno i beneficiari; la Convenzione inoltre non stabilisce il diritto all'autodeteminazione dei popoli indigeni e non attribuisce loro la qualifica di "popoli".

Coscienti quindi dei limiti dell'unico strumento in vigore, abbiamo deciso di ampliare il nostro quadro di riferimento giuridico. Abbiamo utilizzato quindi, oltre alla Convenzione 169, anche uno strumento che è in corso di approvazione all'interno di un forum ad hoc: la Dichiarazione Universale dei Diritti delle Popolazioni Indigene, che, se ratificata, diverrebbe l'unico strumento di valore universale. Le differenze fondamentali tra i due strumenti sono le procedure di approvazione e le modalità con le quali questi assumono validità come strumento di diritto internazionale. Mentre la Convenzione, approvata dall'ILO, per essere utilizzata deve essere ratificata dagli stati e recepita dalla legislazione nazionale, la Dichiarazione promulgata dalla Commissione dei Diritti dell'Uomo e dall'Assemblea generale dell'ONU, assumerebbe validità immediata come strumento di diritto internazionale, con valore di indirizzo generale per la comunità internazionale. Ci siamo anche riferiti ai documenti elaborati dalla Fondazione Internazionale Lelio Basso e durante le sessioni del Tribunale Permanente dei Popoli. Pur non essendo questi ultimi tra i tipici strumenti di diritto internazionale, riteniamo che il tentativo di promuovere nuovi standard internazionali e nuove regole giuridiche da immettere come principi nel corpus del diritto umanitario trovi in essi un'importante espressione. Gli strumenti utilizzati nel rapporto * La Convenzione n.169[6] approvata nel 1989 dall'ILO e in vigore dal 1991 è al momento ratificata da 14 stati (tra i quali Argentina, Paraguay e Guatemala).

Essa stabilisce alcuni diritti delle popolazioni indigene che vanno dai diritti civili ed amministrativi al diritto alla non discriminazione nelle sfere del "social welfare", al diritto alla sicurezza sul lavoro ed alla sanità. La parte centrale, sicuramente la più interessante ed innovativa, riguarda il diritto alla terra e alle risorse, la tutela del loro valore spirituale e culturale, il diritto ad essere consultati nei processi di sviluppo e di goderne i benefici e regola lo spostamento forzato e il diritto di ritorno. Questa convenzione è considerata un punto di riferimento dalle organizzazioni indigene internazionali, con i limiti cui abbiamo accennato e che approfondiremo in seguito. Essa soffre in particolare gli effetti di un complesso processo di ratifica da parte degli stati che, per includerla all'interno della legislazione nazionale, dovranno emendare sostanzialmente la loro Costituzione. Inoltre il livello di applicazione da parte degli stati che l'hanno ratificata è tuttora insoddisfacente.

* La Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli Indigeni[7] è stata approvata dal Working Group on Indigenous Populations (WGIP) nel 1993. È un gruppo di lavoro tra esperti ONU e rappresentanti indigeni, appartenenti ad organizzazioni accreditate all'ONU e non, che dal 1980 si sono riuniti annualmente per una settimana l'anno nella sede delle Nazioni Unite. Ciononostante la Dichiarazione, dopo 13 anni di lavoro congiunto, non è ancora parte del diritto internazionale. Per la sua approvazione definitiva da parte delle Nazioni Unite è necessario che segua la procedura abituale: venga cioè di nuovo discussa e approvata in sede di Commissione per i Diritti dell'Uomo e in Assemblea Generale. Al momento un'approvazione non sembra imminente, almeno nei termini auspicati dai rappresentanti dei popoli indigeni.. La Dichiarazione Universale, per la sua chiarezza circa il riconoscimento del diritto all'autodeterminazione dei popoli indigeni e per il particolare processo di elaborazione che ha seguito (con un'ampia partecipazione dei gruppi indigeni che si sono avvicendati nel corso degli anni) resta comunque un importante strumento di riferimento nel contesto internazionale.

* La Carta sui Rischi Industriali e i Diritti Umani[8] è stata redatta a seguito della sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli sul caso Bhopal (1994) e approvata nel 1996. In questa Carta sono riportati diritti di applicazione generale tra i quali: non discriminazione per i gruppi più svantaggiati sul lavoro e nella comunità, responsabilità delle compagnie transnazionali, diritto di organizzazione in un contesto lavorativo sotto controllo, diritto di rifiuto, e diritto alla sovranità permanente sugli ambienti di vita. Essi vanno utilizzati per l'analisi di situazioni ad alto rischio industriale. All'interno di questa Carta sono poi definiti in particolare i "Diritti delle Comunità": diritto ad un ambiente di vita libero da rischi, all'informazione ambientale, all'educazione comunitaria, al riconoscimento e gestione del rischio, alla partecipazione al monitoraggio ambientale, ad intentare azioni legali per il riconoscimento e la denuncia delle responsabilità.[9]

* La Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli (Carta di Algeri), è stata elaborata dalla Fondazione Internazionale Lelio Basso per il Diritto e la Liberazione dei Popoli nel 1976. Essa non si rivolge in particolare ai popoli indigeni ma bensì ai movimenti di liberazione nazionali, per i quali era stata concepita. Sin dall'inizio la Carta di Algeri ha costituito un importante punto di riferimento nell'elaborazione dei nuovi standard del diritto internazionale riguardo ai diritti collettivi, dei popoli e all'autodeterminazione. Riteniamo che il diritto all'autodeterminazione dei popoli in essa contenuto assuma nel contesto attuale un significato di indirizzo generale. Questo diritto viene infatti riferito - nelle riformulazioni in corso a cura della Fondazione Internazionale Lelio Basso - ai diritti economici e culturali dei popoli e alla riconsiderazione del ruolo che gli stessi popoli e gli stati svolgono nel quadro della globalizzazione e dell'espansione indiscriminata dei mercati finanziari.

* I Protocolli Addizionali alla Convenzione sulla Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio (1948) proposti dalla Fondazione Internazionale Lelio Basso nel 1993 sono il risultato della riflessione di una commissione di giuristi internazionali sui lavori del seminario "Il concetto del genocidio oggi e nella Convenzione del 9 dicembre del 1948" tenutosi a Napoli nel dicembre 1993. I Protocolli, che sono stati poi trasmessi dalle Nazioni Unite come raccomandazione agli stati, rivedono l'articolo II della Convenzione sul Genocidio del 1948, che prevede l'intenzionalità della distruzione fisica di un gruppo come criterio di colpevolezza. Essi inoltre allargano la rosa degli atti considerati crimini dalla Convenzione sul Genocidio, includendo la distruzione delle possibilità di autoriproduzione tradizionale o culturale di un gruppo etnico. Riferimenti al particolare rapporto che le popolazioni indigene hanno con l'ambiente e con il territorio e la tutela della gestione comunitaria delle risorse si trovano anche in altri documenti internazionali, che pertanto abbiamo tenuto in considerazione. Per quanto riguarda il diritto delle comunità ad un ambiente sano ed alla sua conservazione abbiamo utilizzato gli strumenti più recenti elaborati a partire dai lavori della Conferenza Mondiale su Sviluppo ed Ambiente di Rio de Janeiro del 1992,[10] che sono frutto dell'elaborazione scientifica, culturale e giuridica maturata nei decenni precedenti:

* La Dichiarazione di Rio raccoglie in 27 princìpi le preoccupazioni e le intenzioni dei paesi firmatari con l'obiettivo di "... una nuova ed equa collaborazione mondiale con la creazione di nuovi livelli di cooperazione tra stati, settori chiave della società e dei popoli, lavorando con accordi internazionali che rispettino gli interessi di tutti e proteggano l'integrità dell'ambiente globale e del sistema evolutivo, riconoscendo la natura integrata ed interdipendente della Terra, nostra casa ...". Alle popolazioni indigene, e al loro ruolo nella gestione ambientale e nello sviluppo, la Dichiarazione di Rio dedica il principio 22.

* L'Agenda 21 elenca in 40 capitoli le azioni che gli stati dovranno immediatamente iniziare ed i buoni propositi per il prossimo millennio, per integrare le considerazioni ambientali e lo sviluppo sostenibile nei processi decisionali. Essa prevede, tra gli altri, un capitolo specifico sulla protezione delle popolazioni indigene (il cap. 26), sulla lotta alla povertà (cap.3), sulla conservazione della biodiversità (cap. 15), sulla protezione e la gestione delle acque (cap. 18) e sulla scienza per lo sviluppo sostenibile (cap. 35).

* La Convenzione sulla Biodiversità, un altro degli strumenti elaborati a Rio, è mirata alla salvaguardia della più importante ricchezza dell'ambiente naturale: la diversità delle specie nei diversi ecosistemi. Gli obiettivi della Convenzione sono "... la conservazione della diversità biologica, l'uso sostenibile delle sue componenti, la giusta ed equa divisione dei benefici che derivano dalle risorse genetiche ...". Al di là della concreta applicazione della Convenzione e del dibattito suscitato - che si è concentrato sull'accesso alle risorse genetiche e sul trasferimento di tecnologia in un confronto tra nord e sud del mondo - utilizzeremo questo strumento per la valutazione delle violazioni dovute agli impatti negativi sull'ambiente causate dalla mancata considerazione dei valori d'uso sostenibile della diversità biologica. Per il diritto alla salute ci siamo riferiti allo statuto dell'Orgenizzazione Mondiale della Sanità e ai documenti elaborati nelle conferenze europee ed internazionali organizzate dall'OMS e dalle Nazioni Unite sul tema ambiente e salute. In particolare abbiamo utilizzato:

* La Costituzione della OMS che, in quanto agenzia delle Nazioni Unite si pone l'obiettivo di "favorire il conseguimento dei più alti livelli possibili di salute" per tutte le persone, per l'analisi delle violazioni del diritto alla salute.

* La Carta Europea dell'OMS, come riferimento per le violazioni del diritto alla salute che derivano dalle violazioni dei diritti e della tutela dell'ambiente. La prima Conferenza Europea su Ambiente e Salute dell'OMS tenutasi nel 1989, ha adottato questa Carta che detta i principi fondamentali del rapporto tra ambiente e salute, tenendo conto delle indicazioni della Commissione Mondiale su Ambiente e Sviluppo (World Commission on Environment and Development).[11]

L'integrazione tra norme ambientali e sanitarie è un tema di grande attualità, oggetto di uno specifico lavoro di approfondimento nell'ambito delle convenzioni ed accordi internazionali, ed è stata oggetto di una risoluzione delle Nazioni Unite.[12] Anche la Banca Mondiale ha adottato nel corso degli anni '90 precisi standard di riferimento da utilizzare quando un progetto coinvolge le popolazioni indigene o ha un impatto sociale o sull'ambiente significativo. Nel corso della trattazione verranno analizzate le violazioni a questa normativa interna, in particolare alle: * Direttive Operative della Banca Mondiale[13] che regolamentano la gestione di progetti che hanno delle ricadute sulle popolazioni indigene o che ne prevedono il reinsediamento forzato (Direttiva Operativa 4.20 e Direttiva Operativa 4.30). Tali standard, sono considerati di alto livello di tutela per l'ambiente e le popolazioni locali. Un accenno verrà anche fatto ai processi di revisione di questi standard in corso all'interno della Banca dal 1995 circa.[14] "Diritti Indigeni" e "Diritti dei Popoli" La tutela internazionale dei diritti collettivi, etnici e culturali passa poi anche attraverso il rispetto dell'ordinamento giuridico tradizionale indigeno da parte della società nazionale e dei suoi apparati legali e giuridici. Perciò abbiamo deciso di dedicare alcuni paragrafi specifici alla legislazione sulle popolazioni indigene degli stati nei quali le dighe sono state costruite. L'uso del termine "indigeno" ha suscitato un complesso dibattito internazionale tuttora aperto in organizzazioni quali l'ILO, l'ONU e la stessa Banca Mondiale.

Le difficoltà riguardano in particolare la definizione e l'uso del termine. La portata del termine "indigeno" definirà infatti anche il numero dei soggetti da tutelare, i diritti da rispettare e le azioni da intraprendere nei progetti di sviluppo e di sfruttamento delle risorse. Il dibattito sembra orientarsi al momento verso un riconoscimento del criterio di autodefinizione dei soggetti. In questo senso gli stessi gruppi indigeni hanno a lungo insistito affermando che un potere statale che classifichi dei gruppi come non indigeni è anche un potere in grado di estinguerne i diritti. La definizione è importante anche per l'applicazione del diritto internazionale all'interno degli stati. Molti governi non riconoscono l'esistenza di popolazioni indigene e in questo modo non consentono l'appello alla Convenzione 169 o agli altri strumenti di tutela. In questi casi risulta addirittura fondamentale il ruolo di monitoraggio preliminare da parte di organismi quali la la Banca Mondiale. Se applicate correttamente infatti, le linee guida della Banca impongono l'identificazione dei gruppi e la realizzazione di piani specifici di tutela, cui vincolare ogni successiva fase attuativa in caso di presenza di indigeni nell'area dei progetti.

Senza addentrarci nei particolari della discussione aperta sulla definizione, riportiamo di seguito i criteri definitori adottati in alcuni degli strumenti che abbiamo preso in considerazione:
- La Convenzione dell'ILO si applica alle "popolazioni tribali ... le cui condizioni sociali, culturali ed economiche li distinguono da altri settori della comunità nazionale e a coloro il cui status è regolato interamente o parzialmente dai loro propri costumi o tradizioni o leggi o regole speciali". Sono indigeni anche "... a motivo della loro discendenza dalle popolazioni che abitavano il paese al momento della conquista o della colonizzazione o della creazione delle presenti frontiere e che, a dispetto del loro status legale, mantengono almeno alcune delle loro istituzioni sociali, economiche culturali e politiche". La Convenzione stabilisce inoltre che "il criterio dell'autodefinizione ... deve essere considerato come fondamentale..."(art.1).
- La Dichiarazione Universale del Working Group on Indigenous Peoples, coerentemente con il riconoscimento dell'autodefinizione come criterio, non incorpora una definizione specifica. Lo "Studio sul problema della discriminazione sulle popolazioni indigene" condotto dal WGIP nel 1986 considera comunità indigene quelle che "con continuità storica..... si considerino distinte dagli altri settori delle società ...e determinate a preservare, sviluppare e trasmettere alle generazioni future i loro territori ancestrali e la loro identità etnica. La Direttiva Operativa 4.20 della Banca Mondiale adotta un criterio più economico sociale e meno storico: "gruppi sociali con una identità sociale culturale distinta da quella della società dominante che li rende vulnerabili e svantaggiati nel processo di sviluppo". Inoltre: "a causa dei differenti e mutevoli contesti... una singola definizione non può racchiudere la loro diversità. I popoli indigeni sono comunemente tra i segmenti più poveri della popolazione. Possono essere identificati dalla presenza in vari gradi delle seguenti caratteristiche:
a) un forte legame con i territori ancestrali e le risorse;
b) autoidentificazione e identificazione da parte degli altri come membri di un gruppo culturale distinto;
c) una lingua indigena;
d) presenza di istituzioni politiche e sociali tradizionali;
e) produzione primaria orientata alla sussistenza".

Il dibattito sulla definizione si intreccia a filo doppio con quello sulla definizione delle popolazioni indigene come "popoli". La tutela dei diritti umani collettivi internazionalmente riconosciuti è infatti limitata nella pratica dalla non attribuzione chiara ai gruppi indigeni di questa qualifica e del diritto all'autodeterminazione che ne deriva. Il diritto all'autodeterminazione dei popoli è stabilito da alcuni strumenti internazionali di tutela e trova la sua massima espressione nella Carta delle Nazioni Unite oltre che nella Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli[15] precedentemente citata. Come vedremo nel primo capitolo la Convenzione 169, unico strumento attualmente in vigore per la tutela dei diritti dei popoli indigeni, non riconosce in forma esplicita alle popolazioni indigene né il diritto ad essere definite popoli né il diritto all'autodeterminazione. Questo fatto non permette una formalizzazione giuridica cui appellarsi a livello internazionale. Tale condizione contribuisce a ridimensionare in partenza qualsiasi considerazione dei popoli indigeni in riferimento alle violazioni del diritto di autodeterminazione stabilito dalla Carta di Algeri del 1976, anche se all'interno dell'ONU vi sono stati alcuni autorevoli studi o seminari che si sono pronunciati in suo favore. Il perché questa attribuzione continui a non incontrare un'universale accettazione è facilmente intuibile; il moderno diritto internazionale accorda tre specie di diritti umani collettivi ai popoli (e non alle "popolazioni" o alle "minoranze", termini con i quali sono tuttora identificati gli indigeni nelle istanze internazionali): il diritto all'esistenza fisica, il diritto all'autodeterminazione e il diritto ad utilizzare le risorse naturali. I due principi fondamentali che hanno invece guidato la nostra analisi sono stati:
1) la considerazione dei diritti delle popolazioni indigene nella più vasta categoria dei diritti collettivi riferiti ad un fenomeno etnico particolare (diritti etnici e culturali);
2) l'attribuzione alle popolazioni indigene della qualifica di "popoli" e il conseguente riferimento a quegli strumenti che ufficialmente la riconoscono.

1. La progettazione di una diga .: su :.

La fase di pianificazione di una diga è legata a considerazioni politiche, economiche e culturali. Gli elementi principali sono: la scelta da parte dei governi di un modello di sviluppo basato sulla presenza di fonti energetiche concentrate, che in genere implica l'esistenza di poli industriali, le scelte delle agenzie di finanziamento, che influiscono sulle scelte dei paesi e ne determinano il futuro assetto economico, e la presenza dei potenti interessi politici ed economici delle imprese costruttrici di dighe, che contribuiscono ad evitare di prendere in considerazione possibili modelli alternativi.[16] Le violazioni che intervengono in questa fase sono conseguenza del mancato riconoscimento dei diritti delle comunità locali ed indigene, in particolare del diritto di decidere quali progetti vogliono sviluppare sul territorio. Alla radice vi è il diritto fondamentale ad essere considerate soggetti politici e quindi ad agire in maniera conseguente. Il mancato riconoscimento della qualifica di Popoli e dei diritti di autodeterminazione che ne derivano è la causa principale di molte delle violazioni di diritti umani, etnici e culturali cui le comunità vanno incontro. La negazione del diritto delle popolazioni di decidere sull'uso delle risorse naturali genera, a sua volta, gravi ripercussioni sull'ambiente e sulle condizioni di vita. Le violazioni che intervengono in questa fase sono così importanti che le abbiamo considerate causa di tutte le altre identificate nelle fasi successive dei progetti. In questa fase il mancato rispetto delle normative interne degli enti finanziatori e di quelle internazionali di tutela dell'ambiente genera i presupposti dei disastri ambientali che avranno il loro culmine nei momenti successivi.

1.1. Yacyretà .: su :.

La costruzione della diga sul fiume Paranà, al confine tra Argentina e Paraguay, venne decisa nel 1973, con il Trattato di Yacyretà, firmato dal Presidente Peron e dal dittatore paraguaiano Stroessner. Il Trattato stabilì la creazione della Entitad Binacional Yacyretà (EBY), cui venne attribuita "... la competenza giuridica, finanziaria e amministrativa, insieme alla responsabilità tecnica per lo studio, la progettazione, la gestione e l'esecuzione dei lavori".[17] Le sedi della EBY, a Buenos Aires, Asunciòn, Posadas ed Encarnaciòn sarebbero state responsabili del reinsediamento della popolazione dell'area interessata dal futuro bacino della diga. Lo scopo era quello di produrre energia elettrica per l'Argentina, che avrebbe pagato le spese della costruzione e guidato il progetto garantendo i prestiti internazionali. Nel 1983 la EBY annunciò la firma di un contratto da 1,4 miliardi di dollari per i lavori civili affidati al consorzio ERIDAY-UTE: United Enterprises Impregilo-Dumez and Associated for Yacyretà-Transitory Union of Enterprises. L'italiana Impregilo e la francese Dumez si erano aggiudicate il contratto sette anni dopo la gara d'appalto. La Banca Mondiale e l'Inter-American Development Bank, impegnarono nell'anno 1980 rispettivamente 900 milioni e 840 milioni di dollari per la costruzione della diga. La gara per le turbine dell'impianto idroelettrico venne vinta da un consorzio tra l'americana Allis Chalmers e la britannica Boving, già consorziata con l'argentina IMPSA. In un rapporto della Banca Mondiale del 1996[18] troviamo alcuni elementi utili per valutare la fase di pianificazione. Le alternative possibili per la produzione energetica vennero del tutto ignorate, in particolare l'esistenza di ampie riserve di gas naturale nella regione di Salta, scoperte prima dell'inizio dei lavori per la diga.[19] Il fabbisogno energetico dell'Argentina venne deliberatamente sopravvalutato.[20]

L'analisi economica e la valutazione dei costi fu del tutto errata: i costi del progetto aumentarono infatti di 4 volte per la parte ingegneristica e 7 volte per la parte amministrativa. Di conseguenza il costo finale della energia prodotta risultò tre volte più alto del costo medio internazionale. I lavori, il cui termine era previsto per il 1990, sono tuttora in corso. Yacyretà è stata definita dall'attuale Presidente Carlos Menem come "un monumento alla corruzione", considerato l'enorme aumento dei costi in tutto il lungo periodo dalla gara d'appalto alla fine dei lavori. Secondo il Performance Audit Report della Banca Mondiale (una valutazione finale del progetto) "sulla base di quanto esaminato si conclude che Yacyretà non era la soluzione a minor costo per espandere la capacità di produzione elettrica del paese e la sua importanza nel paese è stata irrilevante rispetto alle priorità. In varie occasioni la Banca avrebbe avuto la possibilità di bloccare il progetto prima che i principali lavori ingegneristici fossero troppo avanzati".[21]

Il riempimento della diga, terminata nel 1994, è stato bloccato ad un livello di 76 mt. slm., a causa dei problemi insorti con le persone da spostare nella zona, mentre il progetto prevedeva un'altezza di 83 mt. La popolazione locale, rappresentata dalla Organizzazione Non Governativa Sobrevivencia ha presentato nel 1996 un ricorso all'Inspection Panel della Banca Mondiale.[22] Nel ricorso si denuncia la violazione di politiche e linee guida della Banca Mondiale in tema di reinsediamento, valutazione di impatto ambientale, popolazioni indigene, supervisione dei progetti, valutazione e monitoraggio.[23] Banca Mondiale e governo non hanno svolto alcuna consultazione con le comunità locali nelle fasi preliminari dell'accordo del '73 per la costruzione della diga. Solo dopo 10 anni sembra siano avvenuti alcuni incontri tra l'EBY e alcune organizzazioni indigene[24] ai quali parteciparono anche degli esperti della Interamerican Development Bank. Questi incontri, sull'entità e la qualità dei quali non si hanno notizie chiare, non possono essere considerati consultazioni, anche perché manca qualsiasi tipo di documentazione da parte di EBY e IDB. I risultati di tali incontri non hanno comunque mai condotto ad alcuna revisione del progetto. La popolazione coinvolta: le comunità locali di Argentina e Paraguay e i Mbya Guaranì La diga, costruita tra i due stati di Argentina e Paraguay ha avuto effetti negativi soprattutto in territorio paraguaiano. Circa 13.000 persone sono già state direttamente coinvolte dal riempimento del bacino, sulle 52 mila inizialmente previste, per la maggior parte paraguaiane; come vedremo questa cifra aumenterà notevolmente nel corso del progetto.[25]

Secondo le stime iniziali della Banca Mondiale circa 10.400 famiglie si sarebbero dovute trasferire altrove. Il riempimento totale del bacino della diga di Yacyretà coinvolgerà soprattutto la popolazione urbana che vive nella pianeggiante area di Encarnaciòn (la seconda città del Paraguay con 55.000 abitanti) e in quella simile di Posadas (la capitale della provincia argentina di Misiones, 220.000 abitanti). Una popolazione indigena di etnia Guaranì sopravvissuta in questa zona del Sud America vive a cavallo dei due stati. Il gruppo Mbya Guaranì viveva sulle isole del fiume Paranà che sono state attualmente coperte dal bacino. Il gruppo ha lasciato le isole già all'inizio della costruzione della diga, disperdendosi nel territorio (principalmente insediandosi nelle città di Posadas ed Encarnaciòn) e, nell'ambito dei piani di reinsediamento, è stato poi "recuperato" in piccola parte e sistemato in una nuova area nel 1989. Le informazioni che abbiamo sulla situazione dei Mbya Guaranì coinvolti dal progetto di Yacyretà prima, durante e dopo la costruzione della diga, sul loro reinsediamento, sulle compensazioni e sulle attuali condizioni di vita sono poche ed indirette. Il ricorso all'Inspection Panel non approfondisce il caso dei Mbya Guaranì, mentre se ne trova notizia in alcuni carteggi tra Banca Mondiale e l'organizzazione paraguaiana Sobrevivencia, precedenti alla presentazione del ricorso. Altre informazioni provengono direttamente da funzionari della Banca Mondiale, da documenti interni e da alcuni rapporti presentati alla Banca Mondiale, all'IDB e all'EBY da organizzazioni che sostengono le popolazioni indigene.[26]

Nel 1993, nell'ambito dell'accordo sul prestito concesso da WB a EBY, venne commissionato uno studio sull'impatto sociale e antropologico del progetto di Yacyretà sulle popolazioni indigene. Avrebbe dovuto precedere ogni decisione sullo stanziamento di fondi per il completamento della diga, fornendo dati fondamentali per valutare l'impatto sulla popolazione. A tutt'oggi però questo documento non è stato reso pubblico né sembra che la Banca Mondiale sia disponibile a renderne note le conclusioni. Secondo le informazioni a nostra disposizione lo studio prevede una spesa elevata per le compensazioni alle popolazioni indigene reinsediate e da reinsediare, che la Banca Mondiale ritiene inaccettabile; presenta poi un'analisi dettagliata delle condizioni sociali e culturali delle popolazioni reinsediate dopo il 1987 ed evidenzia molti problemi, tra i quali il progressivo abbandono della lingua tradizionale, la mancanza di accesso alle risorse naturali, la perdita delle coltivazioni tradizionali, la mancanza di assistenza tecnica ed il deterioramento precoce delle case concesse come misura di compensazione. Il caso dei Mbya Guaranì viene inserito nel più vasto contesto della situazione delle popolazioni indigene a livello nazionale ed incluso in un Piano Nazionale di Recupero dei gruppi indigeni.[27] L'Argentina ed i diritti delle popolazioni indigene I diritti delle popolazioni indigene in Argentina sono oggi riconosciuti sia a livello centrale che provinciale. La Convenzione Costituente che nel 1994 riformò la Costituzione dell'Argentina incluse infatti il riconoscimento da parte dello stato dell'esistenza dei popoli indigeni e dei loro diritti in quanto cittadini argentini. Nel capitolo della nuova Costituzione riferito alle attribuzioni del Parlamento, l'art. 75 comma 17 recita: "Riconoscere la preesistenza etnica e culturale dei popoli indigeni argentini. Garantire il rispetto alla loro identità, il diritto ad un'educazione bilingue ed interculturale, riconoscere la personalità giuridica delle sue comunità, il possesso e la proprietà collettiva delle terre che occupano tradizionalmente e regolare lo svolgimento di altre azioni sufficienti per lo sviluppo umano. Nessuna di esse sarà inalienabile, trasmissibile o suscettibile di ipoteche o divieti. Assicurare la loro partecipazione alla gestione delle loro risorse naturali e delle altre questioni che li riguardano. Le province possono esercitare queste attribuzioni".

I Mbya Guaranì dell'Argentina coinvolti dal progetto Yacyretà, risiedono nella provincia di Misiones le cui autorità amministrative si sono rese responsabili , dal 1988, di costanti violazioni dei diritti indigeni. Questa provincia del nord-est dell'Argentina detiene oggi il record per violazioni dei diritti e repressione delle comunità indigene del Popolo Guaranì. Una legge provinciale (la 2435) emanata nel 1989 concede semi autonomia ai Guaranì e dispone la restituzione delle terre ancestrali (con un'estensione stimata di oltre 350.000 ha.) garantendo una rappresentanza presso il governo provinciale e prevedendo l'attuazione di piani speciali di sviluppo, educazione e residenza. Questa legge è stata accolta con favore dalle comunità Guaranì, poiché riconosce il loro sistema politico, sociale, culturale ed economico tradizionale ed il loro diritto di piena partecipazione alle decisioni che li riguardano. Non ha purtroppo avuto alcun esito se non quello di una restituzione puramente nominale di alcune terre (concesse con le leggi 2627, 2704 e 2900). La demarcazione dei 18.000 ha (nominalmente restituiti) non è mai avvenuta a causa dei numerosi conflitti tra coloni e compagnie del legname e di conflitti giurisdizionali, mentre non sono neppure stati concessi i titoli di proprietà previsti dalla legge. Negli ultimi anni una nuova legge (la 2727) o "Nueva Ley del aborigen" ha rimpiazzato la 2435 stabilendo, secondo le parole degli stessi Guaranì, un regime di "apartheid" ("Acta de la Asamblea de Comunidades Indigenas del Pueblo Guaranì" 11-12 November 1995). La "Nueva Ley del aborigen" stabilisce infatti la tutela ed il controllo dello stato attraverso la direzione Provinciale degli Affari Guaranì, che esercita ora un controllo diretto su tutte le comunità della provincia, e si occupa anche dello spostamento forzato di comunità (senza richiedere il loro consenso). Quest'ultima legge, al cui iter non hanno partecipato le comunità indigene locali, è in contraddizione con la nuova Costituzione nazionale e con la legislazione nazionale ed internazionale sui diritti indigeni vigente in Argentina (Legge nazionale 23302, Convenzioni n. 107 e 169 dell'OIL, i Patti e la Normativa Internazionale sui Diritti Umani).

Il Paraguay ed i diritti delle popolazioni indigene
Il Paraguay ha una popolazione di quattro milioni di abitanti, 70.000 dei quali sono indigeni, divisi in 17 gruppi etnici. Nonostante la terra sia stata invasa e la loro sussistenza seriamente minacciata, sono stati "... quasi completamente abbandonati dal governo e costretti a sopravvivere come forza lavoro stagionale e sottopagata (Stephen W. Kidd: "Total disregard for the indigenous peoples in Paraguay" Indigenous Affairs n.4, 1996). Gravi sono le conseguenze di questa emarginazione sociale. Gli indigeni sono esposti a gravi forme di malnutrizione e di tubercolosi, con incidenza più elevata rispetto al resto della popolazione. Gli indigeni ricevono salari inferiori al minimo legale e non hanno garanzie sociali di assistenza e sicurezza; i detenuti indigeni sono quelli che attendono più a lungo il processo in carcere. Ancor più grave è l'impossibilità di accedere alle terre tradizionali, anche se secondo la legislazione del Paraguay il governo dovrebbe garantire alle popolazioni indigene un titolo sulla terra dove vivono. Il diritto derivava da un decreto del 1825 con il quale si richiedeva a tutti i cittadini del Paraguay di presentare i titoli per le terre che occupavano. Le terre senza titoli di proprietà (quelle delle popolazioni indigene) vennero in questo modo dichiarate automaticamente proprietà dello stato. L'attitudine del governo nei confronti delle popolazioni indigene è sorprendente, considerando la cornice legale elaborata per proteggerne i diritti. Essa garantisce alle popolazioni indigene del Paraguay diritti alla terra, alla salute, all'educazione, alla libertà dallo sfruttamento, la protezione e lo sviluppo della loro cultura: è considerata una delle più avanzate in tutta l'America Latina. La Costituzione paraguaiana (adottata nel 1992 dopo la caduta del dittatore Alfredo Stroessner), contiene le seguenti disposizioni:
art. 63 " deve essere garantito alle popolazioni indigene del Paraguay, il diritto a preservare e sviluppare la loro identità etnica nel loro proprio habitat";
art. 64 "le popolazioni indigene del Paraguay hanno il diritto a possedere la terra in quantità e qualità sufficienti per la conservazione e lo sviluppo dei loro particolari modi di vita. Lo Stato dovrà fornire tali terre gratuitamente...

Il trasferimento della proprietà di queste terre è proibito senza il consenso espresso delle popolazioni indigene". Nel 1993, inoltre, il Paraguay ha sottoscritto la Convenzione 169 dell'ILO che stabilisce il diritto delle popolazioni indigene alla terra che "occupano tradizionalmente" (art. 14). Un altro strumento di protezione dei diritti territoriali indigeni all'interno della legislazione paraguaiana è lo "Statuto delle Comunità Indigene". Il primo articolo concede alle comunità indigene il diritto alla terra, mentre l'art. 20 stabilisce un tetto minimo di 100 ha. per famiglia. Questa estensione è al momento considerata dai gruppi indigeni insufficiente a garantire e mantenere "l'identità culturale e i particolari modi di vita" cui fanno riferimento i nuovi articoli della Costituzione: l'area sufficiente sarebbe invece di almeno 200 ha per famiglia. Alcuni avvocati che difendono i diritti indigeni tendono a considerarla come un minimo, mentre nella prassi essa è stata sempre considerata come la massima concessione. La media attuale calcolata sui vari gruppi indigeni del Paraguay è di circa 50 ha per famiglia, mentre solo 13 gruppi su 53 hanno più del minimo previsto (Stephen W. Kidd ). Infine, la legge 43/89 del Codice Penale del Paraguay consente agli indigeni di ottenere delle ingiunzioni del tribunale competente per prevenire violazioni sulle terre che reclamano. La legge proibisce infatti la deforestazione o l'uso di queste terre a scopo agricolo senza il loro previo consenso.

1.2. Chixoy .: su :.

Il Progetto Idroelettrico Chixoy venne sviluppato nel periodo della dittatura militare in Guatemala e della spietata guerra civile che vide di fronte i militari ed i movimenti di opposizione armata. La costruzione della diga risentì fortemente della guerra e della politica di "reinsediamento forzato" attuata dalla giunta militare per controllare la guerriglia nelle zone interne del paese, con "villaggi modello" militarizzati. Quasi 400 persone vennero uccise in scontri avvenuti in prossimità del cantiere della diga.[28] Nel 1975 l'Instituto Nacional De Electrificacion, INDE, annunciò pubblicamente il progetto, il cui obiettivo sarebbe stato quello di fornire una fonte di approvvigionamento energetico affidabile, economica e abbondante. In una fase di profonda crisi del settore in Guatemala le dighe previste dovevano servire ad eliminare gli altissimi costi per l'acquisto di petrolio. I fondi per il progetto provenivano da Banca Mondiale - già da molti anni coinvolta in una ristrutturazione del settore energetico guatemalteco -[29] e dalla Banca Interamericana di Sviluppo: 72 milioni US$ dalla prima, 105 milioni dalla seconda. Tra gli altri finanziatori del progetto la cooperazione bilaterale italiana, che nel '92 ha stanziato 14 miliardi di lire come credito di aiuto, per la manutenzione della centrale idroelettrica di Chixoy, a favore della Cogefar-Impresit. Il Consorcio Lami, consulente dell'INDE, pianificò la costruzione di quattro dighe per produrre 550 MW. La prima fase prevedeva la costruzione della diga di Pueblo Viejo, alta 100 metri, collegata ad un tunnel di 26 km. per portare l'acqua alle turbine di Quixal (300MW).

La spesa iniziale prevista era di 270 milioni di US$ ma, dopo il terremoto del 1976 che bloccò per 15 mesi la costruzione della diga, salì a 800 milioni, con importanti cambiamenti nel progetto, poiché la sismicità non era stata correttamente valutata.[30] La prima delle dighe rimase poi la sola costruita. I principali problemi rilevati nella fase di pianificazione sono stati: la mancata valutazione della sismicità nell'area, l'errata valutazione dei costi, in seguito aumentati del 300% per la sola fase costruttiva, la mancata valutazione dell'impatto ambientale nell'area e a valle della diga, da parte del Consorcio Lami. Soprattutto però il progetto ignorò completamente le persone spostate dalla diga, che non vennero consultate né informate. Nella fase di pianificazione, che si concluse nel 1975, non era stata prevista alcuna consultazione con i gruppi indigeni della zona. Nei documenti di progetto infatti si fa a malapena riferimento alle persone da reinsediare, mentre nei documenti di prefattibilità leggiamo "... la popolazione della zona è soprattutto indigena ... nell'area interessata non c'è praticamente nessun abitante".[31]

Le prime consultazioni avvennero solo nel '76, dopo l'inizio della costruzione della diga: i rappresentanti dell'INDE scesero su Rio Negro in elicottero per informare la popolazione che la diga sarebbe stata costruita ed il suo bacino avrebbe sommerso le terre dove abitavano. La comunità, dopo aver discusso a lungo, nominò allora un comitato per negoziare il reinsediamento. Ma le consultazioni avvennero in un clima di terrore ed intimidazione. Gli abitanti di Rio Negro sono stati più volte minacciati e raggirati dai rappresentanti governativi dell'INDE. Nel 1980 due rappresentanti che si recavano presso l'ufficio dell'INDE, sotto esplicita richiesta di quest'ultimo, per reclamare i diritti sulle loro terre vennero trovati mutilati e il documento che portavano come prova dei loro possedimenti (il "Libro de Acta") non venne mai ritrovato. La popolazione coinvolta: i Maya Achì La diga di Chixoy è stata costruita nell'area dove viveva da secoli il gruppo indigeno dei Maya Achì, nel dipartimento di Alta e Bassa Verapaz, una regione dove abitano circa 75.000 Maya di lingua Achì. La comunità più importante che viveva coltivando le terre lungo le sponde del Rio Chixoy, in quello che sarebbe stato il bacino della diga, era quella di Rio Negro. Alla fine degli anni settanta, quando venne progettata la diga, la comunità contava circa 500 persone. Ogni famiglia coltivava il proprio appezzamento di terra ed alcune allevavano bestiame e cavalli. Occasionalmente alcuni componenti delle famiglie di Rio Negro si univano alle migliaia di contadini guatemaltechi, lavoratori stagionali nelle piantagioni di cotone, zucchero e caffè della costa sud del Paese. Nessuna strada arrivava a Rio Negro: Rabinal, il mercato più vicino distava otto ore di cammino in montagna.

1.3. Katse .: su :.

Il Lesotho Highlands Water Project (LHWP) è stato istituito con un Trattato tra la Repubblica del Sud Africa ed il Governo del Lesotho nel 1986.[32] Il progetto nel complesso prevede 5 dighe, 200 km. di tunnel che attraversano le montagne Maluti e un impianto per la produzione idroelettrica da 72 MW che fornirà energia al Lesotho. Lo scopo principale del progetto è quello di fornire acqua alla provincia sudafricana del Guateng dai fiumi Malibamatso e Senqunyane, affluenti del grande Orange che arriva al mare Atlantico dopo aver percorso il confine tra Sud Africa e Angola. Il Guateng è area industriale e coltivata ad agricoltura intensiva. Il completamento del progetto era previsto per l'anno 2017. Secondo il Trattato il Sud Africa coprirà tutti i costi del progetto, esclusi quelli della produzione elettrica, e pagherà diritti al Lesotho per l'acqua che verrà portata nel paese. Il Trattato consentì di ricevere finanziamenti attraverso il Lesotho, aggirando le sanzioni internazionali allora in vigore contro il regime dell'apartheid. La Banca Mondiale (110 milioni di dollari per la fase 1A, 120 milioni per la fase 1B) è stata il catalizzatore della cooperazione tra i due paesi e dei finanziamenti internazionali di: Banca Africana per lo Sviluppo (50 milioni USD), Fondo Europeo per lo Sviluppo (57 milioni USD), Banca Sudafricana per lo Sviluppo (230 milioni USD). I fondi mobilitati nel complesso sono stati 8 miliardi di dollari. Per la fase 1B Rand Merchant Bank, Societe Generale, Nedcor, Investec e Lesotho Bank hanno garantito nel luglio '97 un prestito di 1,3 miliardi di Rand, mentre la Banca Mondiale ha approvato un prestito di 45 milioni di dollari per la fase 1b nel giugno del 1998. Attualmente è stata completata la prima diga, quella di Katse, alta 185 mt. (fase 1A del progetto) e il condotto di 48 km. per il trasporto dell'acqua all'impianto idroelettrico di Muela, mentre stanno iniziando i lavori per la diga di Mohale, alta 55 mt che porterà acqua al bacino di Katse con un tunnel di 16 km. (fase 1B). Da Muela l'acqua viene convogliata verso il Sud Africa. Il Progetto nel suo complesso viene gestito dalla Lesotho Highlands Development Authority, LHDA, responsabile del reinsediamento e della compensazione, della protezione ambientale e della gestione delle fasi costruttive. In Sud Africa il progetto è supervisionato dal Department of Water Affairs and Forestry ed è stata istituita la Joint Permanent Technical Commission, JPTC, in cui sono rappresentati entrambi i paesi. La Banca Mondiale deve dare l'approvazione in ogni fase del progetto, con missioni in loco, ma non ha autorità legale per bloccare le attività della LHDA; negli ultimi due anni la Banca Mondiale ha visitato la zona del progetto ogni 4-6 mesi. Non sono avvenute consultazioni con le popolazioni locali, né al momento della stipula del trattato tra Sud Africa e Lesotho (1986), né durante tutto lo sviluppo successivo del progetto, nonostante si tratti di un'opera molto più recente delle precedenti, e che le strutture ingegneristiche e di servizi siano all'avanguardia.

Contatti più frequenti con ONG locali sono avvenuti solo di recente ed in via informale, quando è risultato evidente il malcontento tra le popolazioni locali per l'impatto sociale ed ambientale della costruzione della diga. Si è quindi ritenuto necessario ripensare la politica delle compensazioni ed il Piano di Sviluppo Rurale previsto dall'Accordo per garantire l'approvazione del nuovo prestito per la fase 1B. La popolazione coinvolta: i Basotho L'area in cui è stata costruita la prima diga, quella di Katse, è una zona di alta montagna (tutto il Lesotho, grande come il Belgio, si trova al di sopra dei mille metri di altezza) in cui vive la popolazione Basotho, 24 mila persone nell'area di Katse. L'economia locale è basata sull'agricoltura di sussistenza e la pastorizia nomade. La produzione locale veniva integrata dalle rimesse degli emigrati stagionali in Sud Africa I contatti con popolazioni esterne alle Highlands erano poco frequenti. La valle sommersa dal bacino della diga contava 2.000 ettari di terra arabile e 4.500 ettari di pascolo, molto preziosi a queste altitudini: dopo il riempimento della diga la popolazione che ha perso la propria terra sopravvive con foraggio e cereali forniti come compensazione. La popolazione Basotho non è definita indigena, ma utilizzeremo, nell'analisi di questo caso alcuni degli strumenti specifici per le popolazioni indigene: vediamo perché. I Basotho che vivono nell'area di montagna non sono etnicamente differenti dal resto della popolazione e non hanno una storia di dominio o colonizzazione recente alle spalle: essi non sono quindi considerati come "indigeni" dalla Costituzione del Lesotho né dalla Banca Mondiale. Non ricadono nella definizione contenuta nel quinto paragrafo della Direttiva 4.20 sulle popolazioni indigene della Banca Mondiale: in essa si richiede che sia presente un'identità culturale e sociale distinta dalla società dominante, che sia applicabile il criterio della autoidentificazione o identificazione da parte di terzi come membri di un gruppo culturale distinto e che la lingua parlata sia differente dalla lingua nazionale.[33]

Anche alla luce della Convenzione 169 dell'ILO i Basotho delle Highlands non possono essere considerati indigeni, poiché la Convenzione stabilisce il "criterio della continuità storica": sono indigeni coloro che discendono dalla popolazione che abitava il paese al tempo di una conquista, di una colonizzazione, della definizione delle frontiere attuali e che, indipendentemente dal loro status legale, mantengono alcune delle istituzioni sociali, economiche, culturali e politiche distinte dal resto della comunità nazionale.[34] I Basotho delle montagne, tuttavia, a causa della loro povertà, del tipo di economia tradizionale e delle caratteristiche culturali e sociali, sono da sempre stati considerati dal resto della popolazione come arretrati e primitivi. Va sottolineato in particolare come la caratteristica di essere tra i segmenti più poveri della popolazione, la presenza di una produzione primaria orientata alla sussistenza, di una regolamentazione sociale e culturale particolare siano riconosciuti dalla Banca Mondiale e dalla Convezione 169 tra gli elementi di identificazione dei gruppi indigeni. Gli altri strumenti internazionali che abbiamo utilizzato si riferiscono invece alle comunità ed ai popoli in generale, considerando i diritti e le loro violazioni alla luce del diritto dei popoli e dei diritti collettivi: si applicano dunque al caso della popolazione di Katse. Tenendo presenti questi dati abbiamo deciso di analizzare l'impatto della costruzione della diga alla luce degli strumenti di diritto internazionale concepiti per la tutela dei popoli indigeni: le condizioni di estrema povertà in cui si trovano a vivere i Basotho delle montagne, la perdita di integrità culturale, il reinsediamento senza compenso adeguato, ma soprattutto l'isolamento in cui versavano i Basotho di quest'area ci hanno spinto a considerare questo tipo di analisi più adatto alle esigenze specifiche della comunità in questione.[35]

Il Lesotho e la Politica Ambientale Nazionale
Il Lesotho si è impegnato nel processo della pianificazione ambientale sostenibile nel 1989, con la formulazione del Piano di Azione Ambientale Nazionale (National Environmental Action Plan, NEAP) al quale ha fatto seguito un Piano di Azione Nazionale nel 1994 per applicare i principi dell'Agenda 21. Il NEAP comprende alcune norme per l'applicazione delle Convenzioni sulla Biodiversità, sui Cambiamenti Climatici e sul Controllo della Desertificazione. Tra i principali problemi che il NEAP intende affrontare troviamo: "... l'erosione del suolo che provoca degrado delle terre, perdita di terra coltivabile ed eventuale desertificazione; le periodiche siccità prolungate e la scarsità d'acqua per l'agricoltura; la crescente povertà rurale e urbana; l'inquinamento della terra e dei corsi d'acqua; il basso livello di consapevolezza dei problemi ambientali tra la classe politica, i decisori e la cittadinanza; il basso livello di capacità istituzionale in tema ambientale; la mancanza di partecipazione pubblica nella identificazione e gestione dei progetti." Il mandato sull'ambiente che autorizza la legislazione ambientale attuale deriva dalla sezione 36 della Costituzione del Lesotho la quale stabilisce che: "... il Lesotho adotterà politiche per proteggere e migliorare l'ambiente culturale e naturale a beneficio delle generazioni presenti e future ed assicurerà a tutti i cittadini un ambiente sano e sicuro, adeguato alla loro salute e benessere." Elenchiamo di seguito alcune delle priorità individuate dal piano nazionale per l'ambiente.
1) Combattere la povertà (4.1) recuperando le risorse degradate per promuoverne l'uso sostenibile per i bisogni umani primari.
2) Proteggere e promuovere la salute (4.3) controllando e proteggendo i gruppi vulnerabili dalle malattie trasmissibili e coinvolgendo le comunità nella progettazione di programmi per la salute.
3) Proteggere la salute e la sicurezza dei lavoratori (4.3; 4.4): specificare codici di condotta e linee guida occupazionali per la salute e la sicurezza basate sui livelli di rischio delle diverse attività industriali.
4) Integrare ambiente e sviluppo nel processo decisionale (4.6) per garantire che le valutazioni ambientali vengano considerate ad ogni livello decisionale, nella formulazione, elaborazione, realizzazione e gestione dei programmi di sviluppo e dei progetti.
5) Promuovere lo sviluppo sostenibile delle aree montane (4.9). Principi guida: le montagne sono ...instabili e fragili. Hanno bisogno di una gestione attenta. Nelle aree di montagna si trovano fauna e flora endemica vulnerabile che hanno bisogno di protezione. Il manto vegetale montano si rigenera con lentezza e richiede una gestione oculata ed una pianificazione di lungo periodo. Le aree di montagna sono ricche d'acqua e devono essere coperte di vegetazione.
6) Gestione delle risorse idriche (4.15): sviluppare un approccio integrato e coordinato, efficace ed efficiente per la conservazione e l'uso dell'acqua, e per promuoverne conservazione e disponibilità in quantità sufficiente e per lungo tempo. Tutti dovrebbero avere accesso ad acqua potabile. "... Lo sviluppo sostenibile di schemi di irrigazione su piccola scala, basati sull'uso di acque superficiali con la costruzione di piccole dighe e la deviazione di fiumi, dipende in modo totale dallo sviluppo e dalla stabilizzazione delle misure di conservazione e riforestazione nelle aree di captazione." Strategie per applicare questa politica: promuovere i quattro principi guida di uso razionale, protezione, conservazione, gestione delle risorse acquifere, sulla base dei bisogni della comunità e delle priorità delle politiche di sviluppo economico; proteggere e recuperare gli ecosistemi fragili di montagna e promuovere una pianificazione integrata a livello di bacino.
7) La Politica di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) (4.22): identificare i problemi ambientali, preparare progetti e supervisionare gli impatti attraverso la VIA.
8) ONG e settore industriale (4.25): rafforzare il ruolo delle ONG come partner dello sviluppo, coinvolgendo a tutti i livelli il settore dell'impresa e delle comunità rurali, dalla gestione politica alla realizzazione, per la protezione e conservazione delle risorse naturali nazionali. Il NEAP formalizza la creazione della Agenzia di Protezione Ambientale del Lesotho (Lesotho Environment Protection Authority, LEPA).

1.4. Le violazioni ai diritti delle popolazioni indigene e delle comunità locali durante la fase di progettazione .: su :.

Come già accennato in precedenza le particolari violazioni avvenute nella fase di pianificazione dei progetti rappresentano il presupposto di molte altre riscontrate nelle fasi successive. Anche fra le violazioni avvenute in questa fase si può stabilire un rapporto di derivazione concettuale. Il diritto all'autodeterminazione dei popoli legittima infatti tutta una serie di diritti delle popolazioni indigene e delle comunità locali: da quello ad essere consultate nei processi decisionali, di decidere le proprie priorità di sviluppo economico, sociale e culturale (mantenendo il proprio sistema di credenze, istituzioni e beni spirituali e conservando la gestione del patrimonio naturale che possiedono) a quello di mantenere il proprio "diritto consuetudinario" nelle decisioni politiche e nella risoluzione delle controversie interne. Con queste premesse, le violazioni dei diritti delle popolazioni indigene e delle comunità locali e gli strumenti che li riconoscono sono quindi i seguenti:

a. Il diritto all'autodeterminazione dei popoli, stabilito da alcuni strumenti internazionali di tutela e che trova la sua massima espressione nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli .[36] Anche i Patti Internazionali sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, i Patti Internazionali sui Diritti Civili e Politici e la Carta Africana dei Diritti dell'Uomo e dei Popoli sono tra gli strumenti di diritto internazionale che affermano il diritto di autodeterminazione dei popoli. L'applicazione di tale diritto alle popolazioni indigene è riconosciuta esplicitamente solo dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli Indigeni.37 L'art.3 recita: "Le popolazioni indigene hanno diritto all'autodeterminazione. In virtù di tale diritto possono liberamente determinare il loro status politico e scegliere il proprio sviluppo economico, sociale e culturale". Anche la Convenzione 169 dell'ILO usa il termine "Popoli" per identificare le popolazioni indigene. La portata di questa impostazione viene però ridotta dall'art. 3, secondo il quale: "l'uso del termine popoli in questa Convenzione non comporterà alcun riferimento ai diritti che il Diritto Internazionale riferisce a questo termine.[38] La Convenzione 169 non riconosce direttamente il diritto all'autonomia esterna, alla costituzione cioè di entità autonome e separate dallo Stato, mentre è decisamente più esplicita riguardo all'autonomia interna. In altre parole distingue la collettività indigena dall'insieme dei cittadini dello Stato; le due entità devono però essere armonizzate e tale armonizzazione passa attraverso il rispetto dei diritti fondamentali stabiliti dalla comunità statale.[39]

b. I diritti territoriali e i diritti di partecipazione:
b.1. Il diritto ad essere consultati ed a partecipare ai processi decisionali. Questi diritti sono riconosciuti dall'articolo 6 della Convenzione 169 dell'ILO che stabilisce il diritto ad essere consultati e a partecipare alle decisioni che riguardano le aree dove le popolazioni indigene vivono, attraverso le loro strutture rappresentative, liberamente scelte. Tali consultazioni devono avere per obiettivo quello di ottenere un consenso che sia "libero" ed "informato". Ad irrobustire il concetto di "consultazione" vi è poi il provvedimento sulla "cooperazione",[40] che, se pur rimane un termine mai realmente definito, implica il concetto di eguaglianza dei partner nella progettazione e nella gestione dei programmi governativi per le popolazioni indigene. L'art. 15, contenuto nella sezione dei diritti territoriali, stabilisce inoltre che: "... Nei casi in cui gli stati abbiano la proprietà delle risorse della terra, dovranno stabilire o mantenere procedure di consultazione con le popolazioni, con l'obiettivo di accertare se e in che modo i loro interessi potrebbero essere pregiudicati, prima di intraprendere o consentire alcun programma di esplorazione o sfruttamento delle risorse che appartengono alle loro terre". I medesimi diritti sono stabiliti anche dagli art.19 e 20 della Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli Indigeni. È interessante notare come in quest'ultima sia messa in risalto proprio la stretta relazione tra diritto di partecipazione e tutela dell'integrità politica, sociale e culturale delle popolazioni indigene.[41]

L'art. 9 della Carta sui Rischi Industriali e i Diritti Umani del Tribunale Permanente dei Popoli,[42] che analizzeremo ed useremo più ampiamente per le violazioni intervenute nella fase successiva, stabilisce più in generale i diritti di partecipazione delle comunità "... nella pianificazione e nei processi decisionali che riguardano il loro ambiente di vita" e sottolinea che a tal fine, le procedure di pianificazione dovranno essere: pubbliche, trasparenti, accessibili a tutti (sia in termini di tempi che di luogo), notificate in anticipo e diffusamente, in modo tale da non creare barriere linguistiche o difficoltà di comunicazione. L'Agenda 21 prevede un capitolo specifico sulla protezione delle popolazioni indigene (cap. 26) e come azione preliminare per lo sviluppo sostenibile stabilisce l'obbligo per i governi di seguire specifiche procedure per garantire la considerazione delle opinioni delle popolazioni nella progettazione e nell'applicazione delle politiche e programmi nazionali.

Nell'ambito di queste procedure le popolazioni indigene devono essere informate e consultate e deve essere loro permesso di partecipare alle decisioni nazionali e a quelle sui progetti di cooperazione internazionali (26.5, a). Come già rilevato le popolazioni indigene e le comunità locali non sono state consultate nelle fasi di studio e progettazione e nella definizione degli accordi conclusi tra le entità statali create ad hoc per gestire il progetto, la Banca Mondiale e i consorzi appaltatori dei lavori per la costruzione delle tre dighe. Nelle successive fasi di valutazione dei tre progetti, soprattutto al momento del rinnovo dei prestiti, sono intercorse solo alcune consultazioni informali. Queste consultazioni non rispondono alle norme che regolamentano il cosiddetto "processo partecipativo" delle popolazioni locali previste a livello internazionale, all'interno della Banca Mondiale e nelle legislazioni nazionali che le applicano.

b.2. il diritto di decidere le proprie priorità di sviluppo economico, sociale e culturale, e a sviluppare e gestire piani alternativi. L'art 7 (comma 1) della Convenzione 169 stabilisce per le popolazioni indigene il diritto di decidere e di controllare il proprio sviluppo e la formulazione, applicazione e valutazione dei piani di sviluppo nazionali e regionali che li coinvolgono direttamente. Il diritto di determinare liberamente il proprio sviluppo economico, politico e sociale e soprattutto di non essere ostacolati nelle proprie attività tradizionali ed economiche è contenuto nell'art. 21 della Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli Indigeni. Oltre a garantire un generale diritto di autodeterminazione ai popoli i Patti Internazionali sui Diritti Civili e Politici si riferiscono, all'art. 27, anche alle minoranze. Un'interpretazione estensiva di questo articolo, che tutela il diritto delle minoranze a conservare la propria cultura, può renderlo applicabile al caso delle popolazioni indigene,[43] includendo nel concetto di "cultura dei gruppi" anche le condizioni necessarie a preservarla e cioè le sue basi materiali.[44] Risultano in questo modo tutelati sia il mantenimento che lo sviluppo delle attività economiche tradizionali. Nella stessa ottica di tutela dell'autosviluppo l'Agenda 21 considera necessario, per assicurare lo sviluppo sostenibile, il rafforzamento del "capacity-building" per le popolazioni indigene, basato sull'adattamento e lo scambio di esperienza tradizionale, della conoscenza e delle pratiche di gestione delle risorse (26.3 - a- vii), e obbliga i governi a fornire l'assistenza finanziaria e tecnica necessaria per sostenerli (26.5, b). In tutti e tre i casi analizzati non è stato eseguito alcuno studio cooperativo e non è stato preso in considerazione nessun programma alternativo di sviluppo.

b.3. Il diritto a partecipare alla pianificazione e alla gestione di strategie di conservazione del territorio e del patrimonio naturale Nell'ambito della rinnovata attenzione all'ambiente, alla biodiversità ed alla gestione delle risorse naturali da parte degli organismi internazionali, riflessi nelle nuove norme su ambiente e sviluppo sostenibile, troviamo tutta una serie di enunciati - per lo più indicazioni di principio rivolte agli stati - che riguardano il ruolo delle popolazioni indigene nella gestione e conservazione dell'ambiente e l'importanza delle loro pratiche tradizionali. Ruolo che viene sempre più riconosciuto come determinante. La Dichiarazione di Rio sull'Ambiente e lo Sviluppo, al principio 22 enuncia le linee guida per le politiche nazionali ed internazionali che devono riconoscere e sostenere debitamente l'identità, la cultura e gli interessi delle popolazioni indigene per permetterne la partecipazione in programmi indirizzati allo sviluppo sostenibile. L'Agenda 21 riconosce come i valori, la conoscenza tradizionale e le pratiche di gestione delle risorse delle popolazioni indigene svolgano un ruolo determinante nella promozione dello sviluppo sostenibile (26.3, a, iii) e invita gli stati a sviluppare ed a rafforzare le consultazioni con le popolazioni indigene per coinvolgerli nelle politiche e nei programmi nazionali di gestione delle risorse, di conservazione o in altri programmi di sviluppo che li riguardano direttamente (26.6 (a)).

L'art. 8 della Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli riconosce ad ogni popolo il diritto esclusivo sulle proprie ricchezze e risorse naturali. L'art. 16 stabilisce il diritto di ogni popolo alla conservazione, alla protezione e al miglioramento del proprio ambiente. Alcuni strumenti internazionali indicano i passi da compiere per rispettare queste dichiarazioni di principi: L'art. 7 (comma 3) della Convenzione 169 stabilisce il dovere degli stati di intraprendere studi di impatto ambientale, sociale, culturale e spirituale, in collaborazione con le popolazioni indigene, per i progetti sul loro territorio. L'art. 15 primo comma, stabilendo il diritto dei popoli indigeni alle risorse delle terre che possiedono o che usano, sancisce il diritto a partecipare all'uso, alla gestione e alla conservazione di queste risorse. Il secondo comma ribadisce i medesimi diritti nel caso in cui le risorse naturali siano di proprietà dallo stato. L'articolo 14 della Carta sui Rischi Industriali e i Diritti Umani[45] riguarda i popoli indigeni ed enuncia il loro diritto alla protezione del proprio habitat dai rischi industriali e dalle pratiche distruttive dell'ambiente condotte da imprese. È stabilito il diritto di valutare il potenziale rischio ambientale e di opporsi alle attività industriali a rischio sulle loro terre. Nei tre casi le popolazioni indigene non sono state mai consultate per ciò che riguardava il controllo del territorio, le strategie di conservazione e di utilizzo delle risorse, né informate dei possibili rischi per l'ambiente. Non è stato eseguito nessuno studio d'impatto ambientale con la loro collaborazione.

La OD 4.20 "Popoli Indigeni" della Banca Mondiale e la fase di identificazione del progetto
La Direttiva Operativa 4.20 è il principale documento della Banca Mondiale sulle procedure da adottare quando i progetti finanziati coinvolgono popolazioni indigene. Questa Direttiva, adottata nel 1991 in sostituzione dell'Operational Manual Statment del 1982, è considerata tra le migliori delle Banche Multilaterali di Sviluppo. Viene applicata come strumento per promuovere e rafforzare i programmi di formazione per le popolazioni indigene ed in caso i progetti producano effetti negativi sulle popolazioni indigene o sui loro territori: "La direttiva fornisce linee guida per:
a) assicurare che le popolazioni indigene traggano beneficio dai progetti di sviluppo e b) evitare effetti potenzialmente dannosi sulle popolazioni indigene a causa di progetti della Banca. Si richiedono azioni particolari quando gli investimenti della Banca interessino popolazioni indigene, minoranze etniche o altri gruppi il cui status sociale o economico possa limitare la capacità di difendere i propri interessi e diritti sulla terra e sulle risorse produttive" (par. 2). Inoltre secondo la Direttiva 4.20:
- i criteri di definizione delle popolazioni indigene vengono ampliati e riflettono tutta la gamma di definizioni presenti negli stati membri della Banca Mondiale (par. 3-5);
- le popolazioni indigene non devono subire effetti negativi dei progetti della Banca e i benefici economici e sociali che ne ricevono devono essere in armonia con le loro preferenze culturali (par. 2,6, 14);
- la Banca e i governi devono assicurare la partecipazione "consapevole" delle popolazioni indigene nella preparazione dei piani di sviluppo e nell'implementazione dei progetti. Consultazioni dirette, considerazione delle conoscenze indigene nei progetti e utilizzo tempestivo di specialisti, sono altre indicazioni relative alla fase preliminare;
- le questioni riguardanti le popolazioni indigene dovranno essere considerate da quei dipartimenti ed uffici della Banca che "dialogano" con i governi (par.11);
- i governi destinatari dei finanziamenti devono preparare tempestivamente prima dell' approvazione del prestito un "Indigenous People Development Plan" coerente con le direttive della Banca. Secondo la Direttiva 4.20 durante la fase di identificazione del progetto la Banca Mondiale dovrà informare il governo dell'applicabilità della direttiva.

Sempre durante questa fase deve essere determinato il numero delle persone potenzialmente coinvolte e le aree dove vivono dovranno essere definite e rese visibili nella mappa del progetto. Lo status legale delle popolazioni indigene coinvolte deve essere identificato e discusso ed i responsabili devono contattare le agenzie governative, esaminare le politiche, le procedure, i programmi e i piani nazionali rivolti alle popolazioni indigene ed iniziare studi per identificare i bisogni e le preferenze locali. Il paragrafo 9 di questa direttiva "... la Banca non pianificherà progetti finchè i beneficiari non svilupperanno opportuni piani che vengano rivisti dalla Banca ...." significa in breve che qualsiasi azione di prestito andrà sospesa durante la fase iniziale di valutazione se sono stati individuati effetti negativi per le popolazioni indigene e non sono stati sviluppati piani sostenibili di riduzione dell'impatto sulle stesse. L'Indigenous People Development Plan di cui sopra deve poi includere alcuni prerequisiti circa la ricognizione del possesso o dell'uso delle terre e il rispetto dei diritti territoriali tradizionali d'uso. In questo senso è dovere della Banca, qualora fosse impossibile convertire l'uso tradizionale in diritto di proprietà (quando le terre sono legalmente dello stato) mettere in atto misure alternative di riconoscimento, prima di avviare procedure di reinsediamento e compensazioni che prevedono l'esistenza di titoli legalmente riconosciuti.

2. Costruzione della diga .: su :.

L'inizio della costruzione della diga, che avviene spesso dopo anni di attesa e di incertezze, coincide generalmente con il momento in cui le prime persone sono costrette ad abbandonare le case, le terre, le attività economiche. In questo momento anche coloro che non si erano resi conto della gravità della situazione o non ne erano mai stati informati prendono coscienza di quello che sta accadendo. Questa fase comporta una serie di problemi specifici, alcuni dei quali si ripercuotono sulle popolazioni indigene, le comunità locali e sull'ambiente. Bisogna considerare infatti come la presenza di lavoratori venuti dall'esterno porti spesso malattie e problemi di "coabitazione", come le condizioni salariali siano il più delle volte diverse per i lavoratori locali e per quelli esterni e come la creazione di infrastrutture abitative e strade di accesso muti completamente l'ambiente e le condizioni di vita precedenti. In alcuni casi l'impresa appaltatrice preferisce non impiegare i lavoratori locali a causa del loro basso livello di professionalizzazione, sfruttando così la mancata applicazione da parte dei governi delle leggi che regolano il lavoro indigeno. I lavoratori indigeni, quando sono assunti, si trovano a fronteggiare una situazione ancora più grave: essi soffrono della mancata protezione del diritto al lavoro: mancanza di professionalizzazione e formazione, impreparazione alla gestione del rischio, e subiscono discriminazioni a livello salariale. Durante la costruzione delle dighe per tutti i lavoratori temporaneamente residenti nell'area insorgono molti problemi sanitari, che, assieme ai disagi sopra elencati, si protrarranno anche dopo la fine della costruzione. L'inizio della costruzione è il momento cruciale nel quale prende forma un vero e proprio confronto/scontro, che vede da una parte la società costruttrice e l'ente governativo creato ad hoc e dall'altra il mondo delle popolazioni locali, i loro valori tradizionali ed il loro sistema di regolazione interna sociale. La lentezza dei lavori di costruzione, dipendenti da decisioni prese in altre sedi, il rapporto con lo staff delle società appaltatrici e quello con l'agenzia che gestisce i programmi di reinsediamento, che inizia in questo momento il suo lavoro, sono inoltre causa di stress ed instabilità psicologica tra le popolazioni locali. Esse aspettano da un momento all'altro di essere spostate, ma non sono mai tempestivamente informate degli eventi e delle decisioni relative alle loro terre, le loro case, la loro vita. L'integrità fisica e culturale futura dei lavoratori indigeni e dei residenti nell'area dei lavori è spesso compromessa proprio da queste decisioni.

2.1. Yacyretà
Secondo le informazioni riportate nel ricorso all'Inspection Panel[46] la popolazione di indios Mbya Guaranì che viveva nel particolare ecosistema delle isole sul fiume Paranà lasciò l'area intorno al 1987, durante la costruzione della diga, per vivere nell'area circostante il fiume. Secondo la EBY invece lo spostamento avvenne già nel 1974, al tempo della firma del Trattato di Yacyretà.[47] L'ecosistema fluviale, nel quale gli indios vivevano con un'economia di sussistenza basata sulla pesca e sul commercio locale di artigianato è stato completamente cancellato. Stime non confermate da ricerche sistematiche sul campo parlano di una popolazione precedente la costruzione di 500 persone appartenenti alla etnia Mbya.[48] Quando lasciarono la zona, i Mbya Guaranì si spostarono nell'area circostante il fiume e nelle città di Encarnaciòn e di Posadas. Il resto della popolazione e l'ambiente del fiume subirono le conseguenze più rilevanti nel successivo periodo del riempimento del bacino. Non sono disponibili testimonianze relative a problemi specifici legati alla costruzione della diga.

2.2. Chixoy
La diga di Chixoy è collocata in un'area remota del Guatemala, dove le popolazioni avevano contatti scarsi con il resto del paese: il villaggio più vicino si trovava ad alcune ore di cammino dalle comunità dell'area Maya Achì. La costruzione della diga portò a contatti più frequenti con la popolazione di lingua spagnola e comportò la necessità di un adattamento dell'organizzazione sociale tradizionale, con la nomina ad esempio di rappresentanti della popolazione, che gestissero i rapporti con i funzionari di governo, con il personale che costruiva la diga, con gli incaricati del reinsediamento. A tutto il 1976 erano già stati costruiti 70 km. di strada per raggiungere la zona del cantiere: il progetto Chixoy era ormai iniziato ufficialmente. I lavori proseguirono fin quando un terremoto bloccò la costruzione della diga per 15 mesi e rese necessario apportare delle modifiche al progetto iniziale. Inizialmente l'INDE offrì agli abitanti di Rio Negro la possibilità di trasferirsi in due località che però si rivelarono troppo distanti. Venne individuata allora un'area a Pacux, vicino alla città di Rabinal; la costruzione dell'insediamento iniziò nel '78 e dall' '80 gli abitanti poterono visitare le case. Tuttavia questa non fu una soluzione positiva, a causa della ridotta estensione del villaggio, della scarsa qualità delle abitazioni e della mancanza di terre coltivabili. Non a caso la popolazione esprimeva già da allora un forte disagio e si rifiutava di spostarsi negli insediamenti preparati. I problemi di reinsediamento non erano però i soli a creare forti tensioni nella comunità.

All'inizio degli anni '80 una missione di archeologi francesi, incaricata dall'INDE, visitò la zona ed effettuò per due anni scavi nell'area, con l'obiettivo di recuperare tesori archeologici che sarebbero stati sommersi dal bacino. Anche in questo caso la popolazione non venne consultata e, nonostante alcuni abitanti di Rio Negro fossero stati assunti per i lavori di scavo, la comunità sentì la presenza degli archeologi come un'invasione e gli scavi come un furto al loro patrimonio culturale. Venne proibito agli archeologi di scavare vicino al villaggio e gli archeologi accusarono alcune persone di aver rubato oggetti della cultura Maya ritrovati nella zona. Durante la costruzione della diga di Chixoy vennero prelevati sabbia e materiali da costruzione nelle terre comuni dei villaggi di Rio Negro, Pajales e Xococ. Vennero dati 120.000 USD come compensazione, dopo le proteste degli abitanti, ma il denaro fu distribuito in modo non equo, provocando conflitti tra le comunità. E ancora: vennero sottratti con l'inganno i titoli di proprietà della terra degli abitanti di Rio Negro e la zona subì le conseguenze della guerra civile in corso nel paese. Proprio in questo periodo l'INDE iniziò ad accusare la comunità di far parte della guerriglia.

La campagna di terrore nei confronti degli indigeni Maya Achì della comunità di Rio Negro iniziò nel 1980 proprio dopo il rifiuto della comunità di spostarsi nel sito previsto dall'INDE. Nel marzo '80 sette persone vennero uccise durante una riunione; la stessa sorte toccò nel luglio dello stesso anno a due rappresentanti che andavano a dimostrare i loro titoli. Nel febbraio '82, 73 persone tra uomini e donne vennero costretti a recarsi nel villaggio vicino di Xoco'c, un villaggio con una lunga storia di ostilità con Rio Negro e qui massacrati dalle Pattuglie di Difesa Civile (PAC), una delle note unità paramilitari usate dal governo come squadroni della morte. A marzo 70 donne e 107 bambini vennero violentati e uccisi. Prima del settembre successivo vennero uccisi altri 117 abitanti del villaggio di Rio Negro. Il riempimento del bacino iniziò subito dopo l'ultimo massacro. Prima della fine dei lavori di costruzione della diga e dello spostamento della popolazione, tra i mesi di febbraio e settembre '82 gli squadroni della morte della dittatura guatemalteca trucidarono così 400 uomini, donne e bambini del villaggio di Rio Negro, durante attacchi giustificati dal governo come attività di controinsurrezione. Nonostante i massacri e le prove della corruzione[49] sia la Banca Mondiale che la Banca Interamericana di Sviluppo continuarono a finanziare il progetto,[50] omettendo qualsiasi riferimento ai fatti accaduti nei loro documenti e relazioni.[51] Fatti di cui tutti, secondo moltissime testimonianze, erano invece in quel periodo a conoscenza. Le testimonianze sostengono inoltre che anche l'INDE era a conoscenza dei massacri e minimizzò la portata dell'accaduto; più probabilmente incoraggiò l'esercito e le PAC ad eliminare l'ostacolo rappresentato dalle comunità organizzate di Rio Negro.[52]

2.3. Katse
Le zone remote degli altipiani del Lesotho, le Highlands, che si trovano al di sopra dei 1.800 metri di altezza, hanno subìto dei cambiamenti sostanziali dall'inizio del progetto. Circa 20.000 persone sono arrivate per lavorare nella zona, quasi raddoppiando la popolazione presente, di poco superiore alle 24.000 di etnia Basotho. Nelle fasi iniziali della costruzione della diga, si verificò il primo scontro culturale, quello cioè tra l'economia basata sullo scambio monetario e quelle locali: discutendo con le autorità che proponevano i risarcimenti è stato difficile quantificare le perdite, le modalità di reinsediamento, il pagamento per cibo e foraggio. Le soluzioni proposte, come si verificherà con il tempo, non erano adeguate e non tenevano conto delle condizioni reali della popolazione. La maggior parte della forza lavoro assunta per la costruzione della diga di Katse proveniva dal Sud Africa. Venne assunta anche manodopera del Lesotho, ma le loro condizioni di lavoro sono di solito diverse da quelle delle maestranze sudafricane. I lavoratori locali del cantiere di Butha Buthe (per la costruzione di infrastrutture collegate al progetto LHWP) organizzarono uno sciopero che portò nel settembre '96 all'uccisione di 5 lavoratori Basotho. Nella settimana seguente il massacro, oltre 1.000 lavoratori trovarono rifugio nella locale chiesa cattolica.[53] Il grave fatto è stato denunciato all'opinione pubblica internazionale da Amnesty International, e la stessa Banca Mondiale si era impegnata ad indagare sull'accaduto. Nel maggio '97 un altro attivista sindacale venne ucciso, e si sospetta ci sia un legame con le precedenti uccisioni. L'inchiesta seguita agli scioperi non accertò se l'azione della polizia fosse o meno giustificata da un attacco dei lavoratori alle forze dell'ordine. Il Ministero delle Risorse Naturali aveva assicurato la Banca Mondiale che avrebbe incaricato una commissione indipendente d'inchiesta. La formazione di questa commissione sarebbe stata - secondo dichiarazioni della BM del gennaio '97 - condizione per il proseguimento e l'approvazione di qualunque attività della fase 1B. Per le fasi successive si dovrà accertare inoltre che la LHDA abbia esperti di relazioni industriali che possano seguire il progetto.[54]

In Lesotho è stata adottata una politica discriminatoria nei confronti dei lavoratori locali, sia per quel che riguarda l'impiego nella costruzione che la retribuzione. Infatti, secondo la LNDC, un'agenzia incaricata di collaborare con la LHDA per assicurare appalti alle compagnie Basotho, solo pochi contratti vennero affidati a società locali. Il motivo addotto era la scarsa collaborazione della LHDA aggravata da casi di corruzione e nell'attribuzione dei contratti alle compagnie sudafricane.[55] Per ciò che concerne la formazione della forza lavoro (capacity-building) il programma destinato a promuovere competenze locali è fallito, poiché molti dei possibili beneficiari hanno lasciato il paese per lavorare in Sud Africa, e non sono state prese misure per evitare che ciò succedesse. Anche da documenti della Banca Mondiale si rileva che pochi contratti sono stati sottoscritti con ditte e fornitori locali. Non è chiaro quanti lavoratori non specializzati saranno necessari per la fase seguente, e non è chiaro se queste maestranze saranno disponibili nella zona per la fase 1B e se quelli già impiegati per la fase 1A potranno spostarsi. Rimane aperto in particolare il problema dei salari. Se i datori di lavoro volessero imporre i salari minimi del Lesotho, ciò significherebbe una riduzione del 50% rispetto a quelli versati della fase 1A. In tale situazione è presumibile un aggravarsi delle tensioni.[56] Da un documento interno della Banca Mondiale leggiamo infatti: "... Nella fase 1A i salari erano calcolati con riferimento al minimo salariale applicato in Sud Africa, se la fase 1B prevedesse il minimo del Lesotho ci potrebbero essere problemi con i lavoratori e con il proseguimento del lavoro".[57] Uno dei problemi più gravi causati dalla presenza massiccia di lavoratori stranieri è stata l'introduzione nell'area di nuove malattie: l'AIDS si diffuse nella zona - un lavoratore su 20 risultava malato dalle rilevazioni fatte nel '92 - la prostituzione e l'alcolismo aumentarono sensibilmente. Nonostante fossero state create strutture sanitarie per i lavoratori, non sono state svolte campagne di prevenzione per alcolismo, AIDS, polmoniti, i bambini non sono stati vaccinati, né sono stati promossi programmi di terapia adeguati dopo il manifestarsi delle malattie.

2.4. Violazioni alla normativa internazionale di tutela dei diritti dell'uomo e dei diritti dei lavoratori durante la fase della costruzione della diga
In questa fase possono essere considerate tutte le violazioni a carico delle comunità e dei lavoratori sottoposti ai pericoli di un progetto ad alto rischio come quello della costruzione di una diga e di quelli che hanno sofferto le conseguenze della mancata formazione, prevenzione ed informazione sul rischio e degli effetti che si sono in seguito verificati. Dal momento che molti lavoratori indigeni hanno partecipato alla costruzione delle dighe, li considereremo di seguito come vittime di queste violazioni sia ai sensi della normativa internazionale di tutela dei lavoratori che di quella che tutela i lavoratori indigeni. Considereremo in questa fase anche le violazioni subite dalle popolazioni locali e dai lavoratori non indigeni. In alcuni casi proprio in questa fase è avvenuta la violazione del più importante tra i diritti dell'uomo: il diritto alla vita. Come abbiamo visto nel caso dei massacri di Chixoy, tale violazione è stata così grave da poter configurare l'esistenza di un vero e proprio genocidio. a. la violazione del diritto alla vita stabilito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (art. 3) Nel caso di Chixoy la violazione di questo diritto è particolarmente grave, in considerazione dell'alto numero di vittime e del fatto che si inserisce nel più ampio contesto di violenze indiscriminate verso le popolazioni civili guatemalteche. La campagna controrivoluzionaria condotta dall'esercito governativo nel periodo tra '80 ed '84 provocò 72.000 vittime tra morti o dispersi. Bisogna però sottolineare come "... anche se i massacri sono stati attribuiti alla guerra controrivoluzionaria, esaminando attentamente i fatti di Rio Negro si può pensare che gli abitanti vennero uccisi perché bloccavano il " progresso" del progetto Chixoy. Molte testimonianze concordano in questo senso". [58]

b. violazioni del diritti dei lavoratori stabiliti dalle convenzioni dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro.
b.1. violazione del diritto di associazione, di riunione, di manifestazione e di sciopero stabilito dalla Convenzione sulle libertà di Associazione e la Protezione del Diritto di Organizzarsi dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro. Gravi incidenti sono avvenuti nel 1980 a Chixoy, in occasione di riunioni nelle quali i rappresentanti di comunità locali discutevano le proposte dell'INDE: l'esercito uccise sette membri della comunità locale.
b.2. violazioni dei diritti dei lavoratori e delle comunità in progetti industriali ad alto rischio al monitoraggio ambientale, alla salute e alla sicurezza e dei diritti delle persone in qualche modo sottoposte agli effetti di tali progetti. La Carta su Rischi Industriali e Diritti Umani contiene una sezione sui "Diritti delle Comunità" e una sezione sui "Diritti dei lavoratori" che stabiliscono: il diritto ad un ambiente di vita e di lavoro libero da rischi (art. 7 e 16), il diritto al monitoraggio ambientale (art. 10) e delle salute e sicurezza (art. 19), il diritto alla conoscenza delle procedure necessarie per prepararsi all'emergenza (art. 12 e 21), e il diritto al rispetto delle leggi ambientali e sulla salute e la sicurezza (art. 13 e 22). La stessa Carta contiene poi un articolo specifico sui popoli indigeni all'interno della sezione sulle comunità (art. 14); ciò significa che essi sono compresi tra i soggetti dei diritti enunciati in questa sezione. Anche l'ILO ha adottato una Convenzione sulla Prevenzione degli Incidenti Industriali Gravi che però, a differenza della Carta appena illustrata, non fa riferimento al concetto di comunità. Nota Bene: Il Codice del lavoro del Lesotho del '93, preparato con l'assistenza dell'ILO, richiede ai datori di lavoro di minimizzare il rischio di pregiudizio fisico legato soprattutto alla manutenzione e uso dei macchinari pericolosi. In pratica, come riporta il Rapporto sui Diritti Umani del '96, "... i datori di lavoro applicano generalmente queste norme solo nelle aree urbane". Lo stesso Codice però è particolarmente debole in quanto non protegge esplicitamente il diritto dei lavoratori a rifiutare inaccettabili condizioni di rischio senza pregiudicarne il diritto a mantenere il posto di lavoro. In tutti i casi analizzati le violazioni di questi diritti sono dirette (durante il periodo di costruzione della diga) o indirette (a causa degli effetti sull'ambiente e sulla salute successivi alla costruzione della diga) causate dalla mancata verifica del rischio e dagli effetti indiretti del reinsediamento delle popolazioni (in proposito si veda il capitolo seguente).
b.3. violazioni al diritto ad essere informati in modo adeguato su qualsiasi progetto pericoloso per la salute o l'ambiente di lavoro e di vita e sul rischio da questo derivante. Si possono considerare a riguardo le violazioni del diritto delle comunità e dei lavoratori enunciate dalla Carta su Rischi Industriali e Diritti Umani. Tra questi: il diritto all'informazione adeguata (nella propria lingua) su ogni progetto che mira a stabilire, espandere o modificare un'industria pericolosa in un luogo che possa mettere a rischio la salute pubblica o l'ambiente di vita, il diritto delle comunità locali ad essere informati ed educati sui rischi che le riguardano,[59] il diritto ad essere informati, nella propria lingua, sui rischi per la propria salute e sicurezza ed a ricevere una formazione pratica sul potenziale di rischio e sulle procedure di emergenza.[60] Nei casi analizzati le procedure di pianificazione dei progetti non sono state né trasparenti né pubbliche. Prima dell'inizio dei lavori, non sono stati svolti corsi di formazione, la valutazione del rischio non è mai avvenuta nelle fasi preliminari della progettazione, né con consultazioni locali. Le comunità infine non sono mai state informate sul mancato rispetto delle scadenze previste dai finanziatori e dai governi.
c. violazione del diritto dei popoli indigeni alla salute in seguito al contatto forzato tra gli indigeni e i lavoratori estranei durante il periodo della costruzione della diga, alla malnutrizione ed alla negligenza sanitaria (in proposito vedi anche il cap. 4). La Convenzione 169, art 7(comma 2), afferma la necessità di dare priorità a programmi sanitari e di formazione per le popolazioni indigene nell'ambito dello sviluppo dell'area dove vivono. L'art. 25, nella quinta sezione sulla sicurezza e la salute, stabilisce inoltre che questi programmi e servizi devono essere sotto la responsabilità e il controllo delle stesse popolazioni indigene e gestiti in maniera comunitaria, tenendo in considerazione le condizioni economiche, geografiche, sociali, culturali e le pratiche tradizionali preventive e curative. La Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli Indigeni pone una particolare enfasi sugli gli stessi diritti e la necessità che essi li amministrino attraverso le proprie istituzioni (art. 23). In nessuno dei casi sopra elencati sono stati attivati programmi specifici per la salute e l'educazione sanitaria delle popolazioni indigene.
d. violazione dei diritti dei lavoratori indigeni ad un trattamento equo L'articolo 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli Indigeni stabilisce che "... i popoli indigeni hanno il diritto di godere pienamente di tutti i diritti stabiliti dalle leggi del lavoro internazionali e nazionali. Gli indigeni hanno il diritto a non essere soggetti a condizioni discriminatorie di lavoro, reclutamento e salario." La Convenzione 169 garantisce protezione effettiva sul reclutamento e sulle condizioni di impiego dei lavoratori indigeni, laddove questi non siano protetti dalle leggi applicabili ai lavoratori in generale. I governi devono con ciò prevenire la discriminazione riguardo a: ammissione al lavoro, professionalizzazione, remunerazione, assistenza medica e sociale, alloggiamento, godimento del diritto di associazione, della libertà di svolgere attività sindacali e di negoziare contratti collettivi (art. 20). Anche la normativa sulla sicurezza sociale deve essere applicata senza discriminazioni (art 24). Nei casi di Yacyretà e di Chixoy l'assenza di lavoratori indigeni durante la costruzione della diga potrebbe essere considerata come violazione del diritto a ricevere un trattamento equo anche per quel che riguarda la possibilità di accesso al lavoro su basi uguali agli altri lavoratori (professionalizzazione, reclutamento ecc).

3. Riempimento del bacino .: su :.

Durante la fase di riempimento del bacino si verifica quello che è sicuramente il principale danno per le popolazioni presenti nell'area: lo spostamento forzato, la perdita della terra e dell'ecosistema nel quale vivono. Lo spostamento viene imposto e la popolazione si trova obbligata a riadattarsi alla nuova situazione senza una preparazione sufficiente, le attività agricole e l'allevamento risentono direttamente della perdita di terra; l'ecosistema cambia in modo radicale e improvviso, con conseguenze che si manifesteranno nel tempo, sia nel bacino che a valle di esso: perdita di habitat per le popolazioni terrestri ed acquatiche, diminuzione della portata del fiume, inquinamento delle acque a causa delle fabbriche sommerse e dell'assenza di scorrimento. Altre conseguenze come la presenza di sedimentazione del bacino e i terremoti, si manifestano nella fase successiva alla conclusione del riempimento. In alcuni casi il reinsediamento "forzato" avviene in maniera pacifica, addirittura con il consenso da parte delle popolazioni, in altri con l'uso della forza. Come risulta anche dal documento di revisione della politica di reinsediamento della Banca Mondiale del 1994 "... la collocazione remota di molte dighe spesso in aree abitate da popolazioni indigene, minoranze etniche, gruppi pastorali, spiega perché le questioni relative alle differenze tribali e culturali siano così importanti nel reinsediamento".[61]

Va sottolineato come, in presenza di gruppi indigeni, la situazione diventi particolarmente grave e le popolazioni coinvolte non siano solo quelle che abitano nelle aree che verranno inondate, a causa degli effetti indiretti del reinsediamento. Nei tre casi considerati in questo studio, lo spostamento forzato di popolazioni ha avuto effetti estremamente negativi sia sulle persone che vivevano nell'area sia su quelle che la frequentavano per motivi economici, culturali, spirituali e sociali. Le persone coinvolte sono infatti anche quelle che usufruiscono di queste zone per le attività di caccia, raccolta o per il loro valore sacro (ad esempio come luoghi di sepoltura degli antenati). I benefici previsti dalle dighe non compensano mai le perdite subite dalle popolazioni indigene: le dighe infatti non sono progettate per loro. Alcune forme di compensazione e risarcimento sono di solito previste dall'agenzia nazionale di sviluppo assieme all'ente finanziatore. Purtroppo però esse non sono quasi mai sufficienti sia in termini qualitativi che quantitativi a compensare le perdite e soprattutto non cancellano le violazioni subite. Le misure applicate non tengono conto del particolare significato spirituale e materiale che riveste la terra per le popolazioni indigene e quindi dell'importanza del diritto consuetudinario. Le risorse economiche che restano disponibili per l'uso da parte della popolazione locale non sono spesso più sufficienti a soddisfarne i bisogni primari. La distruzione delle forme di economia tradizionali e dell'ecosistema minaccia la sopravvivenza del gruppo reinsediato e a volte anche di quelli che indirettamente sono toccati dagli effetti negativi del reinsediamento sulle popolazioni limitrofe. Si può forse parlare in questo caso di vero e proprio genocidio culturale o etnocidio. Gli effetti del reinsediamento sulla salute delle comunità indigene obbligate a vivere lontano dai territori tradizionali ed in aree ecologicamente differenti saranno descritti nel capitolo seguente, insieme alle violazioni del diritto alla salute di tutte le comunità coinvolte nei progetti.

3.1. Yacyretà
Nel caso di Yacyretà lo spostamento di quei gruppi indigeni che vivevano sulle isole del fiume Paranà inondate dal riempimento del bacino è avvenuto in assenza di un piano di reinsediamento, mentre la popolazione urbana di Encarnaciòn e Posadas è stata coinvolta nei piani di reinsediamento fin dall'inizio. L'adozione di programmi specifici per le popolazioni indigene è stata a lungo rinviata (dal 1980 al 1992) così come i progetti di contenimento delle conseguenze negative della diga. Causa principale è stata la mancanza di fondi dovuta alla grave crisi finanziaria argentina. Come succede spesso in questo tipo di progetti, che durano molto più del previsto, la stima preventiva totale della popolazione da reinsediare è aumentata dalle 33.000 unità previste nel 1978 alle 80.000 attuali. Non è chiaro se questa discrepanza sia dovuta ad errori di calcolo dell'EBY sulla portata del reinsediamento, o, come afferma la Banca Mondiale, per lo spostamento di circa 3.145 cosiddette "famiglie aggiuntive" che si sono insediate abusivamente nell'area che dovrà essere riempita dal bacino.[62] L' "Action Plan for Resettlement and Rehabilitation" (Piano d'Azione per il reinsediamento ed il recupero), il cui inizio era previsto per il '92, non è stato ancora realizzato, come anche denunciato dalle popolazioni che hanno firmato il ricorso all'Inspection Panel della Banca Mondiale. Il piano prevedeva: la costruzione di abitazioni con corrente elettrica, la costruzione di scuole, servizi medici e programmi di vaccinazione, un programma di supporto agricolo per individuare coltivazioni ad alta produttività. Uno dei maggiori problemi occorsi durante il reinsediamento è stato causato dalla mancanza di titoli di proprietà sulle terre e sulle case destinate ad essere sommerse. Nel '79 la EBY condusse un censimento per stabilire il numero di persone coinvolte dal progetto e determinare coloro che avrebbero potuto ricevere i "benefici del progetto": una scelta tra soldi o una nuova casa in cambio della proprietà originale.[63] Solo molti anni dopo, quando vennero invitati a presentare i loro titoli di fronte a legali, si scoprì che la maggioranza di coloro che si erano dichiarati proprietari non aveva titoli per dimostrare la proprietà e che le vendite non erano mai state ufficialmente registrate. Questa situazione contribuì a disorientare le persone coinvolte, creando ansia e sfiducia, ritardando ulteriormente il processo di reinsediamento e di compensazione previsto.

Il ricorso all'Inspection Panel segnala i seguenti problemi soprattutto economici e sanitari: il reinsediamento è avvenuto in case piccole e di cattiva qualità, situate lontano dalle precedenti, il che ha comportato la rottura degli equilibri precedenti e difficoltà di sussistenza; la comunità sopravviveva anche con la piccola coltivazione che è andata perduta; i legami sociali si sono spezzati ed il costo dei trasporti, per raggiungere le scuole o il lavoro, è aumentato; un'economia di piccola scala strettamente interconnessa è andata perduta: l'inquinamento delle acque ha impoverito drasticamente la pesca, le cave di argilla usate dai produttori di ceramica e di mattoni sono state sommerse. Carpentieri, idraulici, panificatori, trasportatori hanno perso il loro lavoro, senza trovarne uno nuovo. Nelle nuove case le condizioni sanitarie sono peggiorate, ma è soprattutto il nuovo bacino a portare conseguenze negative, come vedremo più avanti. Nel 1989, venne individuato e reinsediato un gruppo di 20 famiglie (75 persone) dell'etnia Mbya Guaranì, che aveva lasciato le isole del fiume Paranà durante la costruzione. Secondo informazioni della Banca Mondiale, che ha seguito la sistemazione degli indigeni, si è svolto un processo di consultazione, in seguito al quale è stata scelta una zona di 370 ettari, in località Pindo: la zona si trova tra una strada di grande comunicazione (la Nazionale 1) e una linea di trasmissione elettrica (che corre tra Trinidad ed Ayolas). Secondo la Banca Mondiale[64] la comunità scelse la zona per avere accesso all'elettricità per le scuole serali, e per poter vendere direttamente sulla strada il cotone prodotto sulla terra loro affidata. Nel ricorso all'Inspection Panel la zona è invece definita come particolarmente inospitale: "... le famiglie Mbya sono state spostate a Pindo con altri gruppi Mbya, che avevano vissuto in zone completamente diverse. La terra su cui sono stati collocati è insufficiente al loro sostentamento, perché è troppo piccola e non offre risorse adeguate". Altre fonti riportano che alcuni indigeni sono tornati a vivere su piccola area della Isola di Yacyretà non ancora sommersa. Tra gli effetti diretti che subirono le popolazioni indigene Mbya Guaranì in seguito all'allagamento e alla scomparsa delle isole su cui vivevano, c'è la perdita di case, terre coltivabili, pesca, boschi e altre risorse essenziali per la sopravvivenza. Tra gli effetti indiretti invece, che coinvolgono una fascia assai più ampia di comunità in Argentina e Paraguay, quelli derivati dalla perdita di accesso a luoghi di caccia e pesca, a luoghi di valore culturale o religioso per il popolo Guaranì, tra questi resti archeologici e cimiteri.[65]

3.2. Chixoy
Dopo i massacri dell' '82 iniziò il riempimento della diga e la popolazione dovette cominciare a spostarsi. Il nuovo villaggio di Pacux era costruito come uno dei "villaggi modello" che i militari guatemaltechi allestivano per controllare la guerriglia, accanto ad una base militare, che sorvegliava la popolazione costantemente. Le direttive della Banca Mondiale stabiliscono che le condizioni precedenti al reinsediamento forzato vanno totalmente recuperate, ma anche a Chixoy ciò non successe affatto. Il villaggio era inospitale, angusto, senza alberi, le case mal costruite, la terra insufficiente alla popolazione residente: invece dei 561 acri promessi ne vennero dati solo 240, parte dei quali inutilizzabili per la coltivazione. Venne garantita la fornitura di acqua ed elettricità, ma a pagamento ed a fasi alterne. Le popolazioni hanno vissuto e vivono tuttora in condizioni di estrema povertà: oltre alla diminuzione delle terre non c'è lavoro nella zona, e gli uomini sono costretti ad emigrare nei periodo di semina e raccolta nelle grandi piantagioni. Al momento il lavoro più remunerativo per un giovane di Pacux sembra essere il servizio di leva triennale nell'esercito che garantisce vestiti, casa, cibo ed un salario di 60 USD al mese. Per crudele ironia della sorte i figli di coloro che vennero massacrati dall'esercito nei primi anni '80 diventano ora parte dell'apparato militare. Come nel caso di Yacyretà, frustrate dalle condizioni di vita a Pacux, 18 famiglie tornarono a vivere sulle rive del bacino nel luogo, in case di paglia, pescando, cacciando e coltivando la poca terra disponibile sulle sponde. Nella nuova Rio Negro la vita è difficile (non c'è elettricità e cibo insufficiente) ma in molti la preferiscono a Pacux dove non vi era spazio sufficiente per allevare gli animali, per coltivare o per accendere il fuoco comune.

3.3. Katse
2.000 abitanti della zona hanno subìto le conseguenze dirette del riempimento di Katse perdendo 300 abitazioni, 1.000 ha di terra coltivabile, 3.000 ettari di pascolo e con questi la loro economia di sussistenza basata su agricoltura e pastorizia. La pastorizia per le comunità Basotho ha una significato tradizionale e culturale profondo ed è dunque difficile tradurre in denaro il valore delle mandrie e del complesso sistema economico sociale che ruota intorno a questa attività. Il cambiamento forzato del territorio e dei termini di riferimento socioeconomici ha avuto un impatto culturale drammatico.[66] La necessità di spostarsi ha creato problemi così gravi che la stessa Banca Mondiale ha dovuto ammettere che non potranno essere ristabilite in alcun modo le condizioni di partenza, come invece le previsto dalle "politiche di reinsediamento".[67] La LHDA, Lesotho Highlands Development Authority, ha la responsabilità del reinsediamento e delle compensazioni, della protezione ambientale e della gestione complessiva delle opere di costruzione. Il progetto LHWP ha previsto due tipi di compensazione: una diretta ed un Piano di Sviluppo Rurale (Rural Development Plan, RDP). La compensazione diretta comprende le case, una fornitura annuale di cereali e legumi o denaro per 50 anni per le persone e di foraggio per gli animali; la quantità si basa sugli ettari persi e sul raccolto medio. Chi ha perso alberi, appezzamenti di terra o altro ha avuto ulteriori compensazioni in denaro. La perdita di terra è particolarmente grave e non esistono reali possibilità di equa compensazione, considerando che solo il 9-10% della terra del Lesotho è coltivabile. La costruzione delle case è stata molto lenta: le case per chi viveva lungo la linea elettrica costruita nel 1990-91 non erano ancora pronte nell'ottobre '95, secondo le notizie riportate dalla stessa Banca Mondiale.[68]

Ancor più complessa è l'individuazione di mezzi si sostentamento per il futuro per la popolazione: il Piano di Sviluppo Rurale, che dovrebbe essere finanziato con i diritti per la vendita dell'acqua, ha lo scopo di identificare possibilità alternative di produzione di reddito e miglioramento delle condizioni di vita in campo agricolo ed infrastrutturale. Non esistono al momento dati sul livello di avanzamento del Piano di Sviluppo Rurale, né le ONG locali hanno la possibilità di ottenere informazioni sulle possibilità di sostentamento e ripresa delle attività economiche dopo il periodo di compensazione. Secondo un rapporto del '93 della LHDA la maggioranza delle persone si ritengono molto insoddisfatte delle misure di compensazione, sia di denaro che di cibo: il valore nutrizionale - 97% di cereali e 3% di legumi - è molto basso e si stanno diffondendo malattie provocate dalla denutrizione. Una indagine di campo svolta dalla HCGA, una organizzazione di base del Lesotho nel 1997 su 93 famiglie coinvolte nella prima fase delle compensazioni contiene dati piuttosto preoccupanti, che dimostrano l'inefficacia della politica di compensazione effettuata finora[69]. Le conclusioni del rapporto e delle interviste, in cui si elencano i danni subiti e le richieste rimaste senza risposta, danno un'idea dell'inadeguatezza dei piani delle autorità (Rural Development Plan, LHDA Community Forestry Programme) e del grado di stima di cui gode oggi la LHDA in generale. La fase 1A è terminata e la nuova politica di compensazione attesa per la fase 1B si prospetta differente poiché comprenderà l'opzione "terra in cambio di terra" per le perdite di terra coltivabile, oltre alla possibilità di un pagamento in moneta o in cereali. La nuova politica considera inoltre tra i beneficiari anche coloro che hanno perduto le risorse comuni quali pascoli, piante medicinali, legname. Restano molti dubbi sulla possibilità di applicare in maniera efficace la nuova politica, dal momento che il governo del Lesotho e la LHDA si mostrano reticenti ad impegnare le risorse economiche necessarie.

3.4. Violazioni alla normativa internazionale di tutela dei popoli indigeni durante la fase del riempimento del bacino
Le violazioni si riferiscono sia alla normativa internazionale sul reinsediamento forzato sia a quella sui diritti territoriali delle popolazioni indigene che si trovavano nell'area di costruzione della diga e nelle zone a monte e valle della stessa. Alcuni strumenti internazionali regolano il reinsediamento forzato di popolazioni indigene , prevedendo tra l'altro la possibilità delle comunità locali di ritornare alle proprie terre di origine, ove questo sia possibile. Diritti violati in questa fase: * il diritto di partecipare alle decisioni sull'utilizzo e la gestione della terra tradizionalmente occupata e delle risorse; * il diritto delle popolazioni indigene a dare il consenso preventivo per attività che si svolgeranno sulle loro terre * il diritto a beneficiare di tali attività; * il diritto ad un compenso o rimborso equo. Questi diritti non riguardano solo il caso in cui la terra è posseduta dalle popolazioni indigene (ed è riconosciuto un titolo legale) ma anche quello della terra usata tradizionalmente o occupata stagionalmente. Il concetto di proprietà è per lo più sconosciuto alle strutture legali tradizionali indigene, ed il possesso è un diritto molto più importante. Tuttavia, la legislazione nazionale e internazionale non consente di verificare l'applicazione di regole che si basano su presupposti diversi. Analizziamo in questa fase solo le violazioni del diritto al compenso e del diritto per le popolazioni locali ad un beneficio adeguato, poiché il diritto alla consultazione e alla partecipazione alle decisioni sul progetto è stato già analizzato in precedenza.

a. Violazioni alla normativa internazionale sul reinsediamento forzato e diritto di ritorno
La Convenzione 169 considera il reinsediamento come una misura eccezionale e non prevede nessuna possibilità di autorizzazione automatica. Il governo nazionale deve infatti prima ottenere il consenso "libero e informato" delle popolazioni interessate, intendendo con ciò che esse debbano prima capire e poi acconsentire alle proposte (art. 16). Le popolazioni hanno inoltre il diritto di ritornare sulle loro terre appena la causa dello spostamento venga meno. La Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli Indigeni stabilisce ugualmente che "... I popoli indigeni non saranno spostati a forza dalle loro terre. Non avverrà alcuno spostamento senza un consenso libero ed informato dei popoli indigeni in questione e dopo un accordo su una compensazione equa e giusta e dove possibile lasciando loro la scelta di ritornare" (art.10). La Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli afferma all'articolo 3 che "Ogni popolo ha il diritto di conservare pacificamente il proprio territorio e di ritornarvi in caso di espulsione". Nel caso di Yacyretà alcuni esperti della Banca Mondiale hanno considerato il reinsediamento della popolazione di Yacyretà come un successo poiché, a paragone con altri casi, la popolazione non ha manifestato molta resistenza a lasciare le proprie terre. Pertanto, il caso Yacyretà veniva considerato come un precedente positivo, indice di una buona pianificazione del processo di spostamento della popolazione.[70] La mancanza di resistenza, sottolineano invece gli antropologi e gli esperti delle ONG che hanno valutato il caso da un punto di vista indipendente, può essere meglio spiegata considerando che la maggioranza delle persone coinvolte desiderava spostarsi in nuove case da lungo tempo.[71] Il ritorno di alcuni gruppi indigeni sulle isole non inondate non è stato regolamentato. Il diritto di ritorno sulle proprie terre non è stato riconosciuto poiché quelle terre verranno inondate solo quando il livello di riempimento del bacino arriverà a 83 mt. I gruppi indigeni potrebbero forse reclamare quella terra alla luce degli articoli sopra citati della Convenzione 169, sottoscritta sia dall'Argentina che dal Paraguay, a causa dei ritardi del riempimento del bacino che si protraggono da molti anni. La motivazione dello spostamento potrebbe considerarsi decaduta, almeno per il momento. Nel caso di Chixoy, come risulta evidente dall'analisi dei fatti che abbiamo esposto, la politica seguita dal governo, dall'INDE e dalla Banca Mondiale ha evidentemente violato la normativa internazionale che pone il consenso "libero ed informato" delle popolazioni coinvolte come requisito preliminare ad ogni spostamento.

b. Violazioni dei diritti territoriali
Circa la questione del "compenso equo" gli strumenti internazionali di tutela dei diritti delle popolazioni indigene stabiliscono che debba essere data in cambio nuova terra, per vivere e sviluppare le attività economiche tradizionali: il principio della "terra in cambio di terra". In questo contesto è importante che questa definizione consideri il valore della terra all'interno della più ampia accezione di territorio. "Territorio", o meglio ancora "territorialità", descrive infatti la complessa interrelazione tra le popolazioni indigene e la terra, le acque, i mari, le banchine di ghiacci, le piante, gli animali e le altre risorse naturali che contribuisce a definire il "background" sociale, culturale, materiale e spirituale della vita delle popolazioni indigene. Gli strumenti internazionali di tutela dei diritti delle popolazioni indigene che abbiamo preso in considerazione sono volti a tutelare il diritto a conservare il territorio attraverso le generazioni e la possibilità di difenderlo da abusi da parte dello stato o privati. Il reinsediamento forzato e le compensazioni, qualora siano imprescindibili, devono in ogni caso tenere in conto gli aspetti ambientali della terra perduta e di quella ricevuta in cambio. Gli articoli che possono essere utili per affrontare questo tipo di problema sono: Art. 14 della Convenzione 169: rivolto in particolare al riconoscimento delle caratteristiche specifiche del rapporto degli indigeni con la terra, stabilisce le procedure necessarie per definire la loro regolamentazione e il dovere dei governi di salvaguardare il diritto a mantenere la terra tradizionalmente occupata o utilizzata. I governi devono identificare queste terre prima di stabilire ogni altra misura. L'art 16 stabilisce che le compensazioni devono comprendere terre di qualità e status legale almeno equivalente a quella posseduta. Nel caso le popolazioni locali esprimano una preferenza per le compensazioni in denaro esse devono essere compensate stabilendo delle garanzie appropriate.

La sezione IV ("Diritti comuni al soccorso") della Carta su Rischi Industriali e Diritti Umani contiene un articolo che indica una politica sulle compensazioni innovativa rispetto agli altri strumenti analizzati:[72] riguarda infatti non solo le persone che hanno subìto danni, ma si estende a tutte le persone che hanno subìto rischi potenziali, comprese le persone ancora non nate e quelle colpite indirettamente. Le compensazioni non si dovranno limitare al risarcimento equo del danno subito, ma devono includere l'avvio di strategie e la concessione di garanzie di risarcimento. Seppure queste indicazioni si riferiscano in particolare al rischio di incidente industriale ed abbiano come controparte l'impresa appaltatrice, possono essere applicate anche al caso in cui il rischio sia causato dalla costruzione di una grande diga (come vedremo meglio nell'analisi degli effetti sull'ambiente e sulla salute svolta nel capitolo successivo) e che lo stato sia il diretto responsabile per le politiche delle compensazioni. Nota Bene: Anche a livello nazionale gli accordi di costituzione delle entità preposte alla gestione dei progetti hanno considerato e regolamentato la questione del compenso. L'Accordo del 1983 tra Argentina e Paraguay specifica che "habitat di uguale carattere e grandezza di quelli che verranno presi con il futuro bacino, devono essere dichiarati aree protette". Il Trattato costitutivo della Lesotho Highland Water Project (LHWP) garantisce che le popolazioni avrebbero potuto mantenere standard di vita non inferiori a quelli che avevano al momento in cui sono stati coinvolti (art. 7, par. 18).

La OD 4.30 della Banca Mondiale sul "Reinsediamento involontario"
La Direttiva 4.30 è entrata in vigore nel 1990, dopo una serie di revisioni di politiche precedenti, che avevano lo scopo di ampliare la gamma dei progetti considerati (inizialmente erano solo progetti di dighe ed irrigazione). Il problema del reinsediamento è stato infatti uno dei più gravi che la Banca si è trovata ad affrontare, come il par. 2 della direttiva recita, "...i progetti di sviluppo che danno luogo a spostamenti involontari di persone sollevano gravi problemi sociali, economici ed ambientali: i sistemi di produzione sono smantellati, le fonti di guadagno vengono perse, le persone reinsediate in ambienti in cui non possono esercitare le loro capacità, le strutture comunitarie e le reti sociali sono indebolite... Il reinsediamento può causare grave impoverimento e danno all'ambiente a meno che non siano messe in atto misure appropriate". La Direttiva 4.30 si prefigge in prima istanza di evitare il reinsediamento forzato o di minimizzarne gli effetti quando non questo sia possibile. Tutti i progetti che richiedono uno spostamento di popolazioni richiedono inoltre che venga effettuata una valutazione di impatto ambientale (VIA) preliminare, con consultazioni e partecipazione delle comunità coinvolte già dalle prime fasi della progettazione, secondo quanto stabilisce anche la direttiva 4.01 sull'Impatto Ambientale. Il governo che riceve il prestito dalla Banca ha la responsabilità della pianificazione e realizzazione di un Piano di Reinsediamento, che prevede misure per migliorare o mantenere appieno gli standard di vita precedenti, le capacità di guadagno ed i livelli di produzione. Prima della valutazione del progetto il governo deve sottoporre alla revisione della Banca il Piano di Reinsediamento, che deve in ogni caso essere reso pubblico.

La direttiva contiene anche alcune clausole specifiche per le popolazioni indigene. Il par. 3e stabilisce che le compensazioni (case, infrastrutture ed altro) devono riguardare anche la perdita di terre che non erano di proprietà ma erano solo usate o alle quali si applicavano diritti consuetudinari di possesso. In questi casi l'assenza di un titolo legale sulla terra non deve impedire le compensazioni. La direttiva è anche esplicita sul fatto che le popolazioni indigene, oltre al diritto ad essere informate sui piani di reinsediamento, hanno anche quello di poter scegliere tra diverse alternative (par. 8). Si preferisce l'applicazione del principio "terra in cambio di terra" e cioè di un tipo di compensazioni in terre e beni durevoli invece che in denaro o altri beni con un ciclo di consumo più breve. Nel '94 la Banca ha condotto una revisione interna di questa direttiva, che ha dimostrato uno scarso livello di applicazione delle stesse da parte della Banca e dei governi. Le popolazioni reinsediate erano risultate il più delle volte ancora più povere di quanto fossero prima del reinsediamento: "... L'impatto ambientale più significativo delle operazioni di reinsediamento, svolte in modo inadeguato è l'impoverimento ed il degrado ambientale prodotto dalla povertà". (World Bank "Resettlement and Development: The Bankwide Review of Projects Involving Involuntary Resettlement 1986-1993"). Nell'ambito del processo di revisione e semplificazione delle direttive operative, iniziato nel 1993 al fine di renderle più semplici e meno vincolanti per lo staff, la BM ha pubblicato nel 1997 una bozza di testo contenente numerosi emendamenti, giudicati preoccupanti dalle ONG. Tra l'altro: 1. viene sottovalutato il peso dei reinsediamenti involontari nelle politiche complessive; 2. viene rivista la priorità data alla "land-for-land compensation": non sarà più necessario che la terra concessa sia produttiva come quella abbandonata; 3. Lo staff non sarà più tenuto a svolgere una valutazione preventiva del numero e delle condizioni di vita delle persone da reinsediare. Ogni strumento di garanzia è lasciato alla piena discrezione delle agenzie responsabili per l'attuazione del progetto o nelle mani dei funzionari della BM; 4. non prevede più l'attuazione obbligatoria di valutazioni dell'impatto ambientale nelle aree identificate per il reinsediamento.

4. Dopo il riempimento .: su :.

La costruzione di una diga è uno degli interventi più pesanti sul territorio e sull'ecosistema, poiché altera in modo irreversibile l'ambiente, non solo nell'area del bacino ma anche a valle. Molti problemi ambientali derivano dalla mancanza di valutazione di impatto ambientale e da una stima non corretta dei costi e dei benefici derivanti dal progetto. I problemi tecnico ambientali - quali i terremoti nel caso di Katse - che mettono in pericolo gli abitanti e la stessa opera costruita sono da attribuire a chi ha elaborato il progetto ed alle compagnie costruttrici, responsabili del completamento e del funzionamento della diga. Esistono poi una serie di problemi ambientali, propri della costruzione di ogni grande diga, che colpiscono le comunità quali il cambiamento della morfologia del fiume a monte e a valle del bacino, il cambiamento della qualità dell'acqua e la riduzione della biodiversità. La salute della popolazione risente di questi mutamenti a diversi livelli: gli impatti che si sono verificati nei casi qui in esame sono stati fortemente negativi, mentre i benefici della "modernizzazione", quali l'accesso all'elettricità o lo sviluppo di nuove vie di comunicazione, sono rimasti sulla carta. In particolare nel caso di Yacyretà, dopo la costruzione delle infrastrutture non erano più disponibili fondi per finanziare i piani di reinsediamento e di miglioramento ambientale, mentre a Chixoy è mancata la volontà politica di migliorare le condizioni della popolazione. Per il Lesotho sono in corso trattative per mettere a punto nuove misure di risarcimento: quelle offerte si sono infatti rivelate del tutto insufficienti.

4.1. Yacyretà
Nel 1994 il bacino della diga di Yacyretà è stato riempito ad un'altezza di 76 mt., nonostante il fatto che nessun piano di compensazione e di riduzione dell'impatto ambientale fosse stato correttamente applicato. Il bacino ha coperto un'area di circa 100.000 ettari di terre incontaminate fino ad oggi, in gran parte nello stato del Paraguay. La Banca Mondiale fornisce precise indicazioni sulla necessità di identificare e proteggere un'area equivalente a quella che viene persa nel corso del progetto, specificando che ciò va fatto fin dai primi stadi del ciclo di progetto.[73] In questo caso soltanto 9.000 ettari sono stati individuati come area protetta, sul lato paraguaiano del fiume Paranà. La terra individuata è degradata dall'allevamento intensivo di bestiame, dalla pratica di agricoltura "taglia e brucia" ed entro i confini della "riserva" esiste una base militare, la discarica della città di Ayolas e un'area distrutta dalle escavazioni fatte per la costruzione della diga. È stato più volte sollecitato l'acquisto di altra terra, ma questa è l'unica al momento posseduta dalla EBY. Sono state proposte e concordate nuove acquisizioni di territori limitrofi, che però non sono state ancora realizzate. Tra gli ulteriori effetti negativi sull'ambiente vanno ricordati: la riduzione delle specie animali, in particolare la fauna ittica - le stime calcolano il rischio di estinzione per 60 specie animali - e vegetali; gli effetti a valle sul corso del Paranà, che ha visto calare la sua portata; gli effetti su un ramo del Paranà, chiamato Ana Cuna, che con il tempo è destinato a rimanere in secca, assieme all'ecosistema di piccole isole ancora rimaste a valle della diga; gli effetti sulla falda acquifera, che si sta sollevando, soprattutto durante il periodo delle piogge; infine l'effetto di grave inquinamento, a causa delle fabbriche sommerse e dei reflui urbani non depurati.[74]

Secondo Sobrevivencia una delle cause che hanno permesso lo spostamento "consenziente" da Encarnaciòn è stata proprio la presenza di acqua fortemente inquinata da vegetazione putrefatta e reflui urbani. Tutto ciò sta provocando l'insorgenza di patologie poco diffuse in precedenza - malattie del sistema digestivo, della pelle, febbri e malattie respiratorie che, secondo i dati del Ministero della Sanità del Paraguay sono aumentate tra 1990 e 1994 - mentre si teme l'arrivo di malaria e schistosomiasi, tipiche delle aree lacustri a queste latitudini. La qualità delle acque dei pozzi è peggiorata in modo evidente e la riduzione del pescato ha causato fenomeni di denutrizione nella popolazione più povera. A Yacyretà la situazione di rischio è stata verificata nel dicembre '96 dalla missione congiunta di Banca Mondiale e Banca Interamericana di Sviluppo e denunciata nel ricorso di Sobrevivencia all'Inspection Panel.[75] In particolare il rischio deriva dalle piene che fanno salire il livello dell'acqua del bacino e di conseguenza i pozzi superficiali vengono inquinati dalle acque di fognatura. Il bacino è inquinato dalle acque urbane e dai reflui industriali che non sono depurati. I tassi di mortalità e di malattie legate all'acqua sono molto alti, con picchi nella stagione umida. I servizi di sanità pubblica sono del tutto insufficienti e non sono stati potenziati all'interno dei piani di reinsediamento. Nel caso di Yacyretà si può configurare l'ipotesi di trasferimento del rischio ambientale fuori del territorio nazionale, considerando l'energia prodotta viene utilizzata in Argentina mentre la maggior parte degli effetti ambientali vengono subiti dalle popolazioni in Paraguay,

4.2. Chixoy
Dopo il riempimento del bacino della diga nell' '83 la centrale elettrica cominciò a funzionare. Dopo cinque mesi venne bloccata, poiché si temeva il crollo del tunnel che porta l'acqua dal bacino alla centrale elettrica. La diga venne riaperta alla fine dei lavori di consolidamento, nell' '85, ma la centrale non funzionò mai oltre al 70% della potenza prevista. Le spese di manutenzione della centrale sono molto più alte di quelle pianificate ed ulteriori problemi tecnici hanno richiesto lavori di consolidamento. Il reinsediamento ha provocato il peggioramento delle condizioni di vita e della qualità dell'alimentazione delle comunità locali: questa si può considerare una conseguenza diretta della diga, anche se si verifica ad una certa distanza da essa. La scarsa conoscenza dell'ecosistema locale ha reso impossibile una valutazione adeguata dell'impatto ambientale della diga: le informazioni attuali ci indicano che le rive del bacino sono state seriamente deforestate e si stanno trasformando in un deserto a causa della fragilità del terreno; sono falliti diversi tentativi di riforestazione, svolti probabilmente troppo tardi. Per quanto riguarda il bacino la sedimentazione registrata è molto più alta del previsto e la diga si riempirà in tempi brevi di detriti: la diga potrebbe avere quindi una vita molto più breve del previsto, alcune fonti parlano di non più di 20 anni. Sia la Banca Mondiale che l'INDE non hanno effettuato valutazioni preventive di impatto ambientale né piani di salvaguardia, e le conseguenze pesano sia sull'ambiente locale che sulle possibilità di funzionamento della diga. A Chixoy la situazione abitativa della popolazione è in generale peggiorata, e la produzione di cibo su terreni poco fertili e di piccola estensione può provocare uno stato di denutrizione cronica nella comunità. Emerge in questo caso nel modo più chiaro come la violazione del diritto ad un ambiente sano derivi dalla non conoscenza del territorio, delle sue ricchezze e dei pericoli che corre.

4.3. Katse
Dopo il riempimento del bacino di Katse nell'ottobre '95 si sono verificati una serie di terremoti: 95 scosse in 16 mesi, provocate dalla pressione dei 350 milioni di tonnellate dell'acqua. Una faglia di 1,5 km. si è aperta nel villaggio di Mapeleng. Inoltre si sono essiccate le fonti di acqua potabile naturale. Questi effetti hanno ulteriormente aggravato le preoccupazioni delle comunità locali, già colpite dalle conseguenze del reinsediamento e scettiche sull'attendibilità degli studi relativi all'impatto della costruzione della diga. Le valutazioni ufficiali si pronunciano in modo piuttosto vago sulla sismicità indotta dal bacino della diga a Katse in risposta alle preoccupazioni della popolazione, sostenendo che la sismicità decresce con il tempo ed "alla fine le masse rocciose che circondano il bacino raggiungono uno stato di equilibrio e l'attività cessa".[76] Il progetto è iniziato senza una valutazione di impatto ambientale complessiva, anche se sono stati effettuati ben 35 studi della flora e fauna dell'area dopo l'inizio della costruzione. I principali problemi, denunciati durante la costruzione e dopo il riempimento del bacino, sono stati: i terremoti. La perdita di specie autoctone, piante e animali acquatici tipici del particolare ecosistema, uccelli rapaci, la cui esistenza dipende dall'equilibrio di prede presenti e anche dalla tranquillità dell'area. La carenza di studi limnologici, cioè sulla temperatura e condizioni del bacino (una carenza rilevata dalla stessa Banca Mondiale nel suo rapporto del marzo '96) che permetterebbero di valutare il nuovo ambiente di vita per la flora e la fauna, e sono importanti specialmente per un bacino profondo come quello di Katse. Altro problema di grande rilievo è l'insufficiente valutazione della sedimentazione nel bacino, che comporta un problema per la diga, se i sedimenti dovessero accumularsi tanto da modificare sostanzialmente l'altezza delle acque, e un problema a valle, per l'alterazione della composizione biologica delle acque (sostanze nutritive e alterazione dell'acidità) ed il trasporto naturale di sedimenti. A Katse è prevista l'apertura di un giardino botanico con 350 diverse specie recuperate dall'area del bacino e una sorveglianza sistematica delle specie a rischio. Dopo le prime critiche si sono svolti corsi di "consapevolezza ambientale" per le comunità locali, che comprendono corsi interattivi e video. Alcuni osservatori considerano offensivo questo tipo di approccio: si vorrebbero istruire le persone che già conoscono il loro ambiente. Se fossero state effettivamente consultate avrebbero potuto dare indicazioni utili per la gestione delle risorse naturali della zona.[77]

Ultimo problema di cruciale importanza è quello dell'uso dell'acqua e riguarda l'effettiva utilità dell'acqua che deve essere portata dal Lesotho in Sud Africa: l'agricoltura intensiva, l'uso industriale, gli sprechi nelle aree urbane sono problemi che riguardano in modo diretto l'ambiente e la cura per la risorsa chiave per il mantenimento della vita sul pianeta. Gli effetti indiretti sulla popolazione in un'area ben più vasta di quella del bacino sono i terremoti e la perdita di terreno, che veniva usato come terra comune per pastorizia, agricoltura ed approvvigionamento di legname. Le condizioni sanitarie sono in generale peggiorate, come conseguenza dei fatti descritti e della scarsa qualità e quantità delle derrate alimentari fornite come compensazione. La drastica diminuzione della pastorizia e l'impossibilità di coltivare provocano un peggioramento dello stato di salute delle comunità. L'emergenza sanitaria più grave esplose comunque durante la costruzione della diga, quando si diffusero AIDS, prostituzione, alcolismo.[78] Nonostante la gravità dei problemi sia nei documenti preparatori che in quelli di valutazione del progetto si fa scarsa menzione del tema salute: nel rapporto del '96 della Banca Mondiale si cita invece il maggiore accesso agli ospedali, che le nuove strade rendono possibile, come un fattore positivo del progetto, senza analizzare in modo approfondito i rischi presenti e le possibili soluzioni. Per la prossima fase del LHWP esistono misure più accurate[79] ed un budget apposito per campagne informative e prevenzione: "... durante la fase 1A non è stato fornito un sistema integrato di protezione della salute; si sono sviluppati nell'area due sistemi di sanità paralleli, uno per la forza lavoro assunta appositamente e l'altro per la popolazione locale; la fase 1B dovrebbe fornire un sistema di sanità integrato sia per la forza lavoro che per la popolazione locale".[80]

4.4. Violazioni delle normative internazionali di tutela dell'ambiente, della biodiversità e della salute
La normativa internazionale sulla tutela dell'ambiente e per lo sviluppo sostenibile adottata di recente si rivolge ai governi e riguarda la gestione delle risorse all'interno degli stati e la gestione delle risorse ambientali globali tra gli stati, confinanti e non. La mancanza di studi preventivi e di valutazione di impatto ambientale da parte dei governi e delle imprese costruttrici è causa dei più gravi danni alle comunità locali e all'ecosistema, insieme alla mancata consultazione delle comunità, che anche oggi potrebbero fornire un aiuto importante. Il diritto alla salute a sua volta non può prescindere dalla tutela dell'ambiente: la sua violazione non si verifica però soltanto nella fase successiva al riempimento del bacino ma assume ora, assieme alla violazione dei diritti ambientali, un carattere di permanenza: si accumulano problemi non affrontati nelle fasi precedenti, mettendo in pericolo la sopravvivenza futura delle comunità. Le violazioni specifiche del diritto alla salute per quel che riguarda le comunità locali e i lavoratori nei cantieri sono state già viste nel secondo capitolo alla luce della Carta sui Rischi Industriali e i Diritti Umani. Per il caso specifico delle popolazioni indigene le violazioni del diritto ad un ambiente sano ed alla salute sono invece state trattate rispettivamente nel primo e nel secondo capitolo.

a. Violazioni della normativa, delle convenzioni e delle dichiarazioni internazionali per la protezione dell'ambiente e della diversità biologica
Gli accordi e gli strumenti internazionali violati sono nello specifico: La "Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo (1992), in particolare i principi
1: "Gli esseri umani sono la principale preoccupazione dello sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto ad una vita sana e produttiva in armonia con la natura";
3: diritto allo sviluppo per il presente e il futuro;
4: la protezione ambientale deve essere parte integrante dello sviluppo;
9: gli stati devono collaborare per rafforzare le capacità endogene e le conoscenze locali;
11: gli stati devono applicare legislazioni ambientali efficaci; 13: si devono prevedere compensazioni per danni ambientali;
15: si deve applicare l'approccio precauzionale (non mettere in atto alcuna attività di cui non sia provata la innocuità);
16: si devono considerare nelle valutazioni economiche i costi ambientali;
17: le valutazioni di impatto ambientale andranno svolte prima di ogni progetto;
22: le comunità indigene e le comunità locali hanno un ruolo chiave nella gestione ambientale e nello sviluppo.
L'"Agenda 21" (1992) nei capitoli:
8: integrazione di ambiente e sviluppo nelle decisioni;
15: conservazione della diversità biologica;
18: protezione della qualità e fornitura di acqua dolce, applicazione di approcci integrati allo sviluppo, gestione e uso delle risorse acquifere;
35: scienza per lo sviluppo sostenibile.
La "Carta su Rischi Industriali e Diritti Umani":
art. 6: sovranità permanente sugli ambienti di vita. In esso è stabilito che nessuno stato può esercitare il suo diritto in modo da danneggiare la salute o l'ambiente di vita delle sue popolazioni, né provocare danni all'ambiente di altri stati o territori al di fuori della sua giurisdizione nazionale. Lo stesso articolo stabilisce l'obbligo di monitorare l'attività delle imprese pericolose o potenzialmente pericolose.
La Convenzione sulla Biodiversità, in particolare agli articoli:
10 sull'uso sostenibile delle componenti della diversità biologica e
14: valutazione degli impatti e minimizzazione degli impatti negativi.
Il primo stabilisce l'importanza della valutazione, della conservazione e dell'uso sostenibile delle risorse biologiche nei processi decisionali nazionali, e l'adozione di misure tali da evitare o minimizzare l'impatto sulla diversità biologica, puntualizzando come vadano salvaguardati gli usi tradizionali ed il sostegno alle popolazioni locali che lo praticano. Il secondo stabilisce invece, tra l'altro, la necessità di notificare e informare sul potenziale di rischio per la diversità biologica ad altri stati e alla comunità internazionale. Nella progettazione delle dighe i governi in esame non hanno tenuto conto dei bisogni ambientali delle generazioni future e così facendo hanno compromesso l'ecosistema dell'area. Lo stesso vale per le politiche energetiche, che non sono servite a migliorare le condizioni della popolazione locale. Gli stati coinvolti come beneficiari dell'energia prodotta o dell'acqua convogliata non hanno rispettato le attuali norme internazionali sulla limitazione dei danni ambientali degli stati confinanti. I paesi industrializzati che finanziano i progetti, direttamente o indirettamente in quanto stati membri del Consiglio Direttivo della Banca Mondiale, non si sono in nessun modo sentiti responsabili delle minacce all'ambiente e delle tecnologie ad alto rischio esportate. Non effettuando le valutazioni e i monitoraggi necessari e vincolanti, le imprese costruttrici hanno contribuito al danno ambientale in maniera seppur indiretta.

b. Violazioni del diritto alla salute
Le violazioni sono relative a: "Agenda 21", capitolo 6: proteggere e promuovere la salute umana, con particolare riferimento a: soddisfacimento dei bisogni sanitari, in particolare nelle aree urbane, controllo delle "malattie comunicabili" (quelle note e che si possono curare con la prevenzione), protezione dei gruppi vulnerabili e riduzione del rischio da inquinamento e pericoli ambientali. La Costituzione della OMS nei suoi principi di base, in particolare: "La salute di tutte le persone è fondamentale per la pace e la sicurezza e dipende dalla piena cooperazione di tutti gli individui e gli stati", e che specifica che "I governi hanno la responsabilità della salute delle popolazioni che si può ottenere solo mettendo in opera misure sociali e sanitarie adeguate". L'OMS ha anche svolto un'analisi del capitolo citato dell'Agenda 21,[81] sottolineando gli effetti sulla salute: "Gli effetti dell'energia idroelettrica sulla salute sono principalmente indiretti e collegati ai cambiamenti ambientali derivanti dalla costruzione di grandi dighe. Queste possono portare molti benefici oltre a quello di produrre elettricità. L'acqua imbrigliata dalle dighe viene spesso usata anche per controllare le inondazioni e per fornire acqua potabile e per l'irrigazione. Tuttavia possono registrarsi alti costi i costi sanitari, riguardanti soprattutto le comunità rurali più povere. Questi comprendono gli incidenti, le malattie e le morti dei lavoratori durante la costruzione della diga e lo spostamento dei residenti per fare spazio al bacino. ...Le persone trasferite soffrono spesso di stress psicologico dovuto alla perdita dell'occupazione e delle relazioni sociali, allo sradicamento dalla vita ordinaria, e allo smembramento delle loro famiglie. Altri problemi sanitari sono associati al deterioramento delle scorte alimentari e alla mancanza di alloggi ed ambienti di vita salubri nelle aree dove le popolazioni vengono reinsediate." Vengono poi spiegati i danni diretti all'ambiente: "... quando l'acqua viene ottenuta sbarrando un torrente o un fiume, l'accumularsi di bacini idrici di grandi dimensioni e quasi stazionari può, nei paesi tropicali, favorire la diffusione di malattie portate da vettori. La ritenzione dell'acqua del fiume con grandi dighe può avere effetti a valle come la riduzione dei nutrienti ... In aree dove la popolazione dipende da pozzi per il fabbisogno quotidiano di acqua potabile si verifica l'abbassamento delle falde acquifere ...". I principali problemi riportati sono quelli che nella trattazione abbiamo verificato ed esposto. La Carta Europea dell'Ambiente e della salute stabilisce, nella sessione "diritti ed obblighi", il dovere dei governi di condividere la comune responsabilità per la salvaguardia dell'ambiente globale nell'applicazione delle direttive in essa contenute. Esse si riferiscono in particolare alla regolamentazione di: approvvigionamento di acqua potabile, qualità dell'acqua, sicurezza microbiologica e chimica, impatti sull'ambiente e sulla salute delle differenti opzioni adottate in materia energetica, preparazione alle situazioni di emergenza, utilizzo di tecnologie sostenibili.

5. Dopo la diga: la situazione attuale .: su :.

Le conseguenze della costruzione delle grandi dighe si fanno sentire nel tempo, non solo perché cambia in modo irreversibile l'ambiente: in Argentina e Paraguay, Guatemala e Lesotho non sono stati risolti i problemi urgenti di reinsediamento e compensazione e le popolazioni locali continuano a rimanere sostanzialmente estranee ai processi decisionali. Nei tre casi i problemi che si sono presentati sono stati puntualmente denunciati dalle Organizzazioni Non Governative locali e da quelle internazionali, che lavorano per appoggiare le loro richieste. Si è infatti stabilita una collaborazione che vede interagire la denuncia locale e le richieste nei paesi donatori: ai finanziatori delle grandi opere - la Banca Mondiale, le altre banche multilaterali e quelle private - le ONG chiedono di controllare l'utilizzo dei fondi e di essere responsabili della cattiva gestione, convogliando le risorse su progetti sostenibili dal punto di vista sociale ed ambientale. In tutti e tre i casi molto rimane da fare, e si tratta di esperienze da utilizzare nel modo migliore, perché gli stessi errori non vengano ripetuti in futuro.

5. 1. Yacyretà
La diga di Yacyretà sta funzionando per la produzione di energia elettrica: al momento lavorano parzialmente le 20 turbine previste, ai due terzi del potenziale. Argentina e Paraguay dovranno trovare i fondi per attuare l'Environment Mitigation Plan previsto nel '92,[82] che ha l'obiettivo di proteggere l'ambiente nelle aree destinate alla compensazione. L'EBY dovrebbe anche ultimare gli acquisti di terreni da privati. Al momento attuale entrambe queste misure sembrano inattuabili a causa della crisi economica e del protrarsi delle discussioni sulle misure di compensazione da parte dei funzionari della Banca Mondiale, che ha già esaminato i risultati del ricorso all'Inspection Panel da parte della popolazione. In Argentina nel corso del '97 si sono svolte trattative per privatizzazione la gestione della diga e la produzione energetica, che però non si sono concluse. La privatizzazione potrebbe pregiudicare la possibilità, già precaria, dei governi di concedere i risarcimenti per le perdite subite dalle popolazioni locali: si prevedeva infatti di ottenere i fondi necessari dai proventi della gestione dell'impianto. La ONG paraguaiana Sobrevivencia ha sottoposto nel settembre 1996 un ricorso all'Inspection Panel della Banca Mondiale ed alla Banca Interamericana di Sviluppo, i due finanziatori della diga di Yacyretà, per la violazione di politiche e procedure durante il ciclo di progetto. Il ricorso è stato esaminato dalle due Banche con procedure diverse, anche perché solo la Banca Mondiale ha un corpo di valutazione autonomo, l'Inspection Panel. Nel febbraio del '97 l' Inspection Panel accoglie il ricorso ed il Consiglio dei Direttori Esecutivi della Banca Mondiale autorizza una "revisione e verifica" del progetto. Non si tratta di un'indagine completa ma di un esame e valutazione della violazione delle procedure della Banca Mondiale: viene omessa la violazione delle politiche, come aveva chiesto la popolazione. L'incarico all'Inspection Panel comprende una valutazione dei Piani di Azione su reinsediamento e ambiente preparati dai funzionari della Banca Mondiale. A settembre '97 l'Inspection Panel invia il rapporto finale[83] al Consiglio dei Direttori della Banca Mondiale. In esso si propongono una serie di misure da adottare immediatamente. Primi di dicembre '97: si discute il rapporto. In quella occasione il Consiglio dei Direttori Esecutivi non prende una decisione: ha valutato che esistono progressi, impegnandosi in prima persona a monitorare gli sviluppi della situazione nei successivi sei mesi. Il riempimento della diga è stato sospeso al livello di 76 metri; nel progetto è previsto un successivo riempimento fino a 78 metri ed un'ultima fase a 83 metri sul livello del mare. La Banca Mondiale riconosce la necessità di garantire un'applicazione efficace delle misure di compensazione ancora in sospeso e di assicurare le compensazioni per l'ulteriore innalzamento del bacino. A tal fine la Banca ha concordato con la EBY un Piano d'Azione ("piano B") per il periodo 1997-2001: sulla sua applicazione si è impegnato anche il governo argentino.[84] Resta in sospeso la definizione dell'entità dei costi mentre il governo paraguaiano non ha preso alcun impegno. Il documento che illustra il "piano B" non è stato mai reso pubblico e questo ha provocato la protesta delle comunità locali, che lamentano la totale mancanza di consultazione e la disinformazione, di cui sono responsabili gli stessi rappresentanti della Banca Mondiale per l'area., mentre l'Inspection Panel ha espresso riserve sulla sua validità. La Banca Interamericana di Sviluppo (IDB) ha nominato una Commissione di tre esperti per la revisione del progetto, le cui conclusioni, contenute in un rapporto, sono state trasmesse il 25 settembre '97 ai Direttori Esecutivi. Il rapporto del Panel è stato reso pubblico solo nel febbraio '98.[85] Contemporaneamente i Direttori Esecutivi della IDB hanno presentato i loro commenti. Nel suo rapporto, la Commissione ha ritenuto insoddisfacente il lavoro di EBY e delle Banche finanziatrici per limitare i problemi insorti nel corso del progetto, ribadendo la necessità di coinvolgere più direttamente ed informare le popolazioni locali e proponendo alcune soluzioni ai problemi registrati. I prestiti già erogati non saranno sufficienti a coprire tutte le spese necessarie e sarà necessario un intervento ulteriore dei governi interessati. Il rapporto inoltre raccomanda di completare gli studi di valutazione socio ambientale di base. Nella sua risposta, il management dell'IDB, a differenza della Banca Mondiale, afferma che provvederà affinché i governi mantengano gli impegni presi, che le azioni intraprese siano adeguate e che vengano effettuate ulteriori verifiche. La partecipazione attiva della popolazione locale viene riconosciuta come condizione fondamentale per l'erogazione del prestito già approvato.[86]

Tutto il lavoro di Sobrevivencia, il lavoro del Panel e le riunioni del Consiglio dei Direttori Esecutivi delle Banche interessate sono stati accompagnati da un'attività di informazione al pubblico delle ONG internazionali, che nei paesi donatori della Banca Mondiale hanno sollecitato attenzione sul tema. Il Direttore Esecutivo italiano è stato informato, con l'invio di lettere e aggiornamenti continui e diversi membri della Camera e del Senato italiani si sono mobilitati a loro volta mandando direttamente lettere al rappresentante italiano alla Banca Mondiale. Una interrogazione è stata inoltrata al Senato il 16 gennaio 1997[87] ed ha ricevuto risposta dal Ministro del Tesoro il 30 gennaio 1998, dove si afferma che "... nel corso delle discussioni preliminari (sul ricorso della comunità locali all'Inspection Panel) si è verificata una spaccatura tra i paesi beneficiari e quelli industrializzati. I primi si sono schierati contro l'ispezione, che potrebbe trasformarsi in un'indagine ed una pura valutazione sulle scelte del Governo argentino. I paesi industrializzati si sono, invece, espressi in linea di massima a favore dell'ispezione. ... (si è proposto che) l'Inspection Panel della Banca Mondiale ... concentri la propria indagine sulle misure da intraprendere in futuro per contenere al massimo i danni all'ambiente ed alle popolazioni locali derivanti dallo sfruttamento integrale del bacino idrico".[88] L'Inspection Panel Dopo proteste che dall'India rimbalzarono nel mondo intero la Banca Mondiale istituì una commissione d'inchiesta sulla diga di Narmada, presieduta da Branford Morse. La commissione concluse i suoi lavori nel 1992 con un rapporto che definiva il comportamento della Banca e del governo indiano "in tutto e per tutto delinquenziale". In seguito alle raccomandazioni del rapporto Morse, la Banca Mondiale si ritirò dal progetto ed istituì un organismo indipendente di controllo: doveva funzionare come una sorta di corte d'appello, a cui potessero far ricorso le popolazioni locali. L'Inspection Panel ha iniziato le sue attività nell'agosto 1994. Conta tre membri eletti dal Consiglio dei Direttori Esecutivi su raccomandazione del Presidente, che hanno la possibilità di indagare su progetti finanziati da IBRD (International Bank for Reconstruction and Development) e IDA (International Development Agency). Il Panel può indagare su ricorsi presentati da individui o gruppi che si ritengono danneggiati dalla mancata osservanza delle politiche e procedure interne della Banca e dal mancato rispetto degli accordi di prestito con i paesi. Appena ricevuto il ricorso, il Panel può raccomandare l'inizio di un'indagine al Consiglio dei Direttori Esecutivi, che la devono autorizzare. Dopo l'indagine, il Panel pubblica un rapporto con le sue conclusioni ai funzionari ed al personale della Banca Mondiale I funzionari dovranno rispondere entro sei mesi, comunicando le proprie raccomandazioni ai Direttori Esecutivi che decideranno le azioni da intraprendere.

Il Panel rappresenta la più importante innovazione introdotta dalla Banca Mondiale per aumentare il livello di controllo democratico, partecipazione e trasparenza delle decisioni. È un importante precedente per la legislazione internazionale, e lo stesso meccanismo di controllo potrebbe essere adottato da altre Istituzioni Finanziarie Internazionali. Fino ad oggi solo Asian Development Bank e Interamerican Development Bank hanno messo in opera procedure di ispezione. L'Inspection Panel può indagare oggi sui progetti finanziati da IBRD e IDA, mentre acquistano un ruolo sempre maggiore i progetti promossi dall'IFC (International Financial Corporation) e garantiti dalla MIGA (Multilateral Investment Guarantee Agency), sportelli della Banca Mondiale che finanziano il settore privato. È molto importante che in futuro questo settore venga sottoposto alle stesse procedure e che si aumenti la trasparenza, il controllo da parte dei cittadini e la qualità dei progetti. In tre anni di attività l'Inspection Panel ha contribuito in parte a migliorare la qualità dei progetti in esame. Nella situazione attuale resta l'unica garanzia che le popolazioni locali hanno di un intervento indipendente in loro difesa, quando si vedano minacciate da progetti della Banca Mondiale. Le attività dell'Inspection Panel non sono sempre accolte con favore dal management della Banca Mondiale e talvolta dai Direttori Esecutivi. Attualmente è in corso una revisione delle sue competenze, e le ONG internazionali sono preoccupate che venga garantita l'indipendenza del sue attività, rafforzata la capacità di intervenire per proporre soluzioni ai problemi oggetto dei ricorsi ed allargata la competenza anche alle attività di IFC e MIGA.

5.2. Chixoy
La diga si è rivelata un disastro dal punto di vista finanziario e non serve a coprire le necessità energetiche del paese: anche se la dipendenza dal petrolio è diminuita, il Guatemala continua a spendere ogni anno 150 milioni di dollari per la produzione elettrica. Il progetto Chixoy costa per il mantenimento delle strutture un minimo di 8 milioni di dollari l'anno e solo quando funziona appieno copre dal 50 al 70% delle necessità del paese. Il costo dell'energia per gli abitanti è aumentato costantemente negli ultimi anni, ma solo il 30% della popolazione dispone finora di energia elettrica. Una valutazione della Banca Mondiale condotta nel '96 indica "... la media di produzione elettrica annuale a Chixoy è stata di 1.300 GW, da quando l'impianto è stato completato nel 1985"[89] e il Rapporto di Progetto della Banca Mondiale per Chixoy fornisce una stima della produzione totale di energia elettrica per tutti gli impianti del paese tra il 1986 ed il 1988 pari a solo 1.188 GWh/anno" secondo lo stesso documento "Circa un terzo della capacità del Guatemala si produce in impianti diversi da Chixoy".

Secondo Patrick McCully, che ha condotto una critica del documento della Banca nel 1996 "Il documento 'Profiles of Large Dams' sottolinea che la media di 1.300 GW l'anno è ben al di sotto del potenziale previsto, 1.540 GW, ma questo fatto non è neppure menzionato nel documento di valutazione finale".[90] Il costo finale del progetto non è ancora chiaramente definito: diverse stime vanno dai 1,2 miliardi di dollari (521% più alto del costo previsto) ai 2,5 miliardi di dollari. Il motivo di questi aumenti va dalle ragioni tecniche, che hanno fatto rinviare e cambiare il progetto, alla svalutazione del quetzal, alla corruzione. Alla fine il debito pubblico del paese è aumentato sostanzialmente a causa di questa diga, ed è la popolazione quella che pagherà i veri costi di tutta l'operazione: l'INDE ha contratto 404 milioni di dollari di debito - nel 1991 il debito dell'INDE costituiva il 45% del debito estero del Guatemala. La Banca Mondiale ha effettuato nel '96 una verifica sul campo: ha concluso che gli abitanti non sono mai stati correttamente compensati ed ha sollecitato l'acquisto di altra terra. Per quanto riguarda i massacri della popolazione civile del 1982, la Banca Mondiale ha ammesso i fatti, pur negando ogni conoscenza della situazione al momento ed ogni responsabilità: la motivazione è ricondotta costantemente ai "problemi interni" del Guatemala. Tutto ciò è avvenuto dopo venti anni dall'inizio del progetto e solo dopo la pubblicazione del rapporto di Witness for Peace.[91] La comunità di Pacux ha tentato di negoziare con l'INDE le compensazioni concordate nel 1982 - ben 16 anni fa - con il governo del Guatemala, in particolare per i titoli di proprietà della terra e le nuove terre da acquisire. Fino ad oggi però la maggior parte degli abitanti non ha ancora ricevuto i titoli di proprietà per le case né per le terre, documenti essenziali per ricevere le compensazioni, cifre che variano (con valutazioni ormai molto vecchie) dagli 8 ai 172 dollari. Le consultazioni sulle compensazioni e il reinsediamento avvengono oggi, in una situazione in cui procede un processo di pacificazione e di dialogo nazionale, con la mediazione della organizzazione cattolica "Pastoral Social" della Diocesi di Verapaz e della organizzazione guatemalteca FONAPAZ (Fondazione Nazionale per la Pace). Le condizioni in cui versa l'INDE, l'azienda di stato per l'energia elettrica, sono però molto difficili: la stessa Banca Mondiale ha ammesso, dopo la sua visita sul campo nel '96, di dubitare che l'azienda possa soddisfare le richieste finora inevase. È in corso inoltre la privatizzazione dell'INDE, che si dividerà in 3 istituzioni separate: anche il referente per le negoziazioni potrebbe quindi presto venire a mancare.

5.3. Katse
Rimangono aperti a tutt'oggi diversi problemi legati alla prima fase del progetto Lesotho Highlands Water Project (LHWP): si tratta dei danni alle case provocati dal terremoto, delle compensazioni che sono insufficienti al sostentamento di molte persone, della mancanza di acque dai pozzi, che si sono esauriti, della qualità dell'acqua del bacino e dei trasporti attraverso il nuovo lago che si è formato. Dal riempimento del bacino infatti, hanno cominciato a funzionare delle piccole barche per il trasporto delle persone, per evitare la lunga strada di 70 km. che circonda il lago; ci sono al momento problemi di sicurezza e mantenimento delle imbarcazioni, di istruzione delle persone che le guidano, di programmazione di un servizio regolare. Ci sono inoltre piccoli ponti per il passaggio pedonale che sono considerati poco sicuri.[92] Attualmente la diga di Katse sta funzionando, dopo una serie di modifiche tecniche per contenere gli effetti dei terremoti sulla stabilità dell'opera. Il 22 gennaio 1998 è stata inaugurata la prima fornitura di acqua al Sud Africa. Per quanto riguarda gli sviluppi futuri - sia la fase 1B che le altre dighe previste - due valutazioni della situazione stanno animando la discussione. Da una parte considerazioni tecniche sulla portata degli affluenti fanno ritenere troppo ottimistiche le stime iniziali: non ci sarebbe dunque nelle Highlands abbastanza acqua per alimentare le cinque dighe previste.[93] Dall'altra le dichiarazioni di Archer Davis, direttore del Rand Water Board (RWB, Agenzia sudafricana per le acque del settembre del '97 secondo le quali il Sud Africa non avrà bisogno per i prossimi 15-20 anni dell'acqua del Lesotho, se riuscirà ad applicare corrette misure di gestione delle acque.[94] L'RWB, secondo le dichiarazioni del direttore, ha elaborato un piano per posporre il progetto di 10 anni, fornendo compensazioni per le mancate entrate al Lesotho, al termine dei quali si sarebbe proceduto ad un riesame della fattibilità complessiva. La fase 1B del progetto sta procedendo, con i primi lavori di costruzione della diga di Mohale e la LHDA ha provveduto ad assumere una persona che si occupa del rapporto con le comunità locali, che dovrebbe aiutare ad evitare molti dei problemi che si sono presentati fino ad oggi. Si tratta però di un'attività di pubbliche relazioni, non di reale coinvolgimento delle comunità, poiché la decisione di realizzare un progetto di tale impatto sociale ed ambientale è stata presa senza una consultazione preventiva. Le ONG locali e sudafricane hanno espresso le loro preoccupazioni in un comunicato stampa diffuso il giorno dell'inaugurazione della distribuzione di acqua da Katse alla regione del Guateng in Sud Africa. Second questo documento il costo dell'acqua del Lesotho per il Sud Africa risulta molto alto: gli stessi soldi dovrebbero essere investiti in piani di contenimento delle perdite e controllo dei consumi; oggi solo un quinto della popolazione viene rifornito di acqua: gli investimenti dovrebbero andare per un uso responsabile e per garantire l'acqua a tutti, mentre le spese previste per le future fasi del LHWP renderanno tutto ciò impossibile; le compensazioni non sono state soddisfatte per la prima fase (diga di Katse). La prossima fase, la costruzione della diga di Mohale, colpirà direttamente 1.500 persone nel distretto di Thaba Tseka, uno dei più poveri del Lesotho, e non c'è alcuna garanzia che le compensazioni verranno effettuate in modo corretto.

Le richieste delle ONG ai governi sono le seguenti:
risolvere immediatamente i problemi aperti con le passate compensazioni; aprire un confronto pubblico sulla necessità di proseguire il progetto LHWP oggi (costruzione della diga di Mohale); rinunciare alle successive fasi (costruzione di altre tre dighe); mettere in atto in Sud Africa misure di limitazione degli sprechi e di uso sostenibile dell'acqua. Alla Banca Mondiale si chiede di non finanziare più il progetto così come era stato definito, poiché era servito ad evitare le sanzioni internazionali al regime sudafricano e di accertarsi che siano applicate le misure sopra descritte prima di esaminare altre richieste di finanziamento, per rispettare le stesse politiche della Banca in materia di costruzione di dighe.[95] Nel febbraio del '98, per dar maggior vigore a queste richieste alcune ONG sudafricane hanno presentato un ricorso all'Inspection Panel, che ne dovrà valutare l'ammissibilità. Ancora nel '98 alcuni abitanti della township di Alexandra, in Sud Africa hanno presentato un ricorso contro l'approvazione del prestito della Banca Mondiale per la fase 1B, La situazione è quindi in evoluzione e i futuri sviluppi decideranno del progetto nel suo complesso. Il crimine di etnocidio o "genocidio culturale" secondo i Protocolli Addizionali Provvisori della Fondazione Lelio Basso e la sua applicazione ai popoli indigeni.

I Protocolli Addizionali sono stati proposti dalla Fondazione Internazionale Lelio Basso per il diritto e la liberazione dei popoli nel 1993: sono il risultato della riflessione di una commissione di giuristi internazionali sui lavori del seminario "Il concetto del genocidio oggi e nella Convenzione del 9 dicembre del 1948" tenutosi a Napoli nel dicembre 1993. I protocolli, che sono stati indirizzati come raccomandazione agli stati dalle Nazioni Unite, rivedono l'articolo II della Convenzione sul Genocidio del 1948, dove si prevede l'intenzionalità della distruzione fisica di un gruppo. Il crimine di genocidio ha ormai assunto forme completamente nuove, con i cambiamenti della società e del sistema economico attuale. Esistono diversi modi di distruggere la possibilità di autoriproduzione di un gruppo: dalla distruzione sistematica delle istituzioni loro proprie, dei siti o dei monumenti che racchiudono la memoria del passato, all'espulsione dal territorio tradizionale, alla distruzione delle attività economiche. Il secondo dei Protocolli Addizionali considera in particolare crimini di diritto internazionale tutti quegli atti che hanno il fine o l'effetto di distruggere l'integrità culturale dei gruppi protetti, anche nel caso in cui questi atti siano avvenuti senza l'intenzione esplicita di distruggere l'identità culturale del gruppo, a condizione che fosse ragionevole supporre che questi fossero gli effetti. Questo protocollo mira a reprimere ogni attentato all'integrità culturale non solo nel senso stretto del termine (lingua, religione, produzione letteraria ed artistica, ma considera l'identità culturale come effetto di un sistema di valori che si esprime su diversi piani: quello dell'ambiente di vita, dei mezzi di produzione e delle relazioni di lavoro, dell'ordine legale, delle istituzioni politiche e sociali. Definendo in modo così ampio la nozione di cultura, tale protocollo si riferisce in particolare alle popolazioni indigene ed alla violazione del loro sistema di valori. Il secondo Protocollo contiene una lista di esempi per chiarire quale azione può portare alla distruzione dell'identità culturale di un gruppo. Ci riferiamo in particolare ai seguenti paragrafi:
".... c) l'interruzione forzata dei rapporti tradizionali che uniscono il gruppo con la terra o il territorio, privandolo della terra o delle sue risorse;
d) un'aggressione all'ambiente che causi cambiamenti sostanziali ed irreversibili delle condizioni di vita del gruppo senza il loro consenso;
e) ogni trasferimento del gruppo se l'intento o l'effetto sia quello di violare o pregiudicare i loro diritti;
f) la distruzione della proprietà culturale del gruppo (monumenti storici, luoghi di culto...) o l'interdizione al loro uso.
N.B. Una definizione simile di etnocidio, e una lista simile di azioni che lo possono determinare, è contenuta nella versione provvisoria della Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Indigeni elaborata nel 1993 dal Gruppo di lavoro sulle popolazioni indigene delle Nazioni Unite.

Conclusioni .: su :.

Il lavoro di ricerca della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale e della Fondazione Internazionale Lelio Basso, oltre a consentire una ricostruzione storica e politica degli avvenimenti che hanno caratterizzato lo sviluppo dei progetti di costruzione delle dighe di Yacyretà, Chixoy e Katse, analizza il loro impatto sociale e ambientale e denuncia le violazioni ai diritti dell'uomo, dei popoli e dell'ambiente che hanno comportato. L'accusa è esplicita: gli autori dei progetti (Banca Mondiale, governi, imprese multinazionali costruttrici) hanno violato, direttamente o indirettamente, i diritti delle popolazioni che risiedevano nell'area di costruzione delle dighe. Tra i più importanti il diritto ad essere consultate e partecipare ai processi decisionali, a non essere reinsediati a forza, a beneficiare delle attività che si svolgono sulle proprie terre e ad un compenso equo nel caso di perdite; il diritto all'informazione sui rischi per la salute e per l'ambiente di vita e in ultimo, ma non meno importante, la violazione dei diritti etnici e culturali. Gli strumenti di riferimento sono quelli del diritto internazionale, che tutela i diritti collettivi e quelli dell'ambiente: tra gli altri la Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli, la Convenzione n. 169 dell'ILO sui Diritti dei Popoli Indigeni e Tribali, l'Agenda 21, la Convenzione sulla Biodiversità, lo Statuto dell'OMS. Una particolare attenzione viene riservata alla violazione delle normative interne sul reisediamento (O.P.4.30) e sulle popolazioni indigene (O.P.4.20) che la stessa Banca Mondiale si è data negli ultimi anni per rispondere alle critiche che le provenivano dalle organizzazioni ambientaliste e di sviluppo internazionali di fronte all'inefficacia, e spesso all'impatto disastroso, della maggior parte dei cosiddetti "progetti di lotta alla povertà".

Il tipo di analisi utilizzato nel rapporto, a metà tra il diritto e l'antropologia (nell'area di costruzione delle dighe erano infatti presenti popolazioni "indigene") permette di identificare gli effetti che un modello di sviluppo forzato, come quello delle grandi dighe, ha sulle condizioni di vita e sulle future possibilità di autoriproduzione fisica, ed come gruppo etnico, delle popolazioni locali. L'entità degli impatti negativi provocati da questo tipo di progetti, non solo rende ormai quasi impossibile, a coloro che li subiscono, soddisfare i bisogni primari (a causa della perdita delle economie tradizionali, della casa e della terra) ma genera anche meccanismi di disgregazione del complesso e delicato sistema di regolazione interna tradizionale e culturale degli stessi gruppi (perdita di importanza del diritto tradizionale e del ruolo decisionale dei capi, perdita di accesso ai siti di valore simbolico e religioso). In questo contesto risulta centrale il problema della perdita di terra conseguente alle politiche di reinsediamento forzato. Nel caso in cui siano presenti popolazioni indigene, alcuni degli impatti negativi risultano acuiti proprio dal particolare rapporto che questi gruppi hanno con la terra e con l'ambiente in cui vivono da generazioni: la minaccia per la sopravvivenza è in questo caso ulteriormente aggravata dalla scarsa considerazione della vulnerabilità di fronte ai meccanismi dello "sviluppo". Non esistono nei casi esaminati nel rapporto, o non sono pubblici, gli studi di impatto antropologico e sociale che, secondo una direttiva della stessa Banca Mondiale, devono essere effettuati quando ci si trova a dover reinsediare popolazioni indigene.

Nei casi esaminati l'attenzione non dovrebbe concentrarsi solo sugli effetti nell'area del futuro al bacino ma dovrebbero essere previsti gli effetti sull'ecosistema e sui residenti, di un'area molto più estesa, quella a monte e a valle delle diga. Merito principale di questa analisi critica è proprio quello di rendere evidnete l'ampiezza e la portata degli impatti verificatisi e d i quelli possibili. Questo tipo di analisi è carente proprio da parte di chi progetta e finanzia: per la Banca Mondiale i disastri naturali e sociali che si verificano sono stati sempre, e rimangono, "inaspettati". La perdita del territorio (inteso come possibilità di utilizzo dell'intero ecosistema) seppure genera gli stessi problemi tipici della perdita della terra (sradicamento culturale del gruppo, instabilità psicologica derivata dall'incertezza che generalmente accompagna il reinsediamento, perdita dell'autosufficienza alimentare, conflitti con le comunità confinanti ecc.) li estende però ad un numero crescente di persone. Vengono compromesse infatti anche le attività economiche, religiose e culturali tradizionali svolte nell'area di riempimento anche da coloro che risiedono nelle zone confinanti (effetti indiretti del reinsediamento).

Addirittura simbolico è, in merito, il problema delle compensazioni. Dopo tanti anni esse non sono state corrisposte pienamente, ma il fatto più grave è che gli stessi criteri di assegnazione sono viziati alla base. Le compensazioni (in genere denaro, case, derrate alimentari) sono infatti assegnate solo a coloro che vivevano nell'area del bacino della diga, mentre l'impatto è nella realtà molto più ampio. La cosiddetta politica della "terra in cambio di denaro" (rifiutata in linea di principio, ma poi adottata nella pratica dalla Banca) è criticata aspramente: i rimborsi in denaro e alimenti sottintendono una logica economica monetaria che è di difficile applicazione per le comunità locali e indigene, per le quali sarebbe più adatta una politica di compensazione del tipo "terra in cambio di terra". Le compensazioni in denaro infatti non soddisfano adeguatamente la perdita delle attività tradizionali, dei pascoli e della legna da ardere, compromettendo le capacità di sussistenza nel lungo periodo (ad esempio in Lesotho). La stessa demarcazione di riserve ecologiche protette non compensa la perdita di un ecosistema più vasto (100.000 ettari nel caso di Yacyretà) e la mancanza di titoli ufficialmente riconosciuti dal governo non permette l'identificazione dell'esatto numero di coloro che devono ricevere le compensazioni (Yacyretà, Chixoy). Gli impatti sociali si intrecciano poi a filo doppio con quelli, spesso irreversibili, sull'ecosistema circostante, sulla salute e la sicurezza alimentare. L'impossibilità per le popolazioni locali di gestire e di accedere direttamente alle risorse naturali provoca infatti gravi ripercussioni sull'ambiente e le condizioni di vita.

Di particolare gravità nei tre casi analizzati è stata la mancanza di Valutazioni di Impatto Ambientale (VIA) in fase di analisi della fattibilità dei progetti e prima dello stanziamento di prestiti da parte delle Banca Mondiale ai governi dell'Argentina, Guatemala e Lesotho. Mancano tuttora dati certi sulla morfologia delle zone, sui rischi ambientali e per la salute, in particolare per quel che riguarda la perdita di biodiversità, l'inquinamento delle acque potabili, le malattie ed i terremoti. Le Banche finanziatrici hanno dato priorità al proseguimento a tutti i costi dei progetti, anche in presenza di impatti disastrosi: ciò ha portato alla violazione delle stesse legislazioni nazionali di tutela delle popolazioni indigene e dell'ambiente. In questi casi, le responsabilità delle Banche Multilaterali di Sviluppo e soprattutto quelle dalle imprese multinazionali di costruzione, sono ben difficili da identificare e, non ricadendo nella giurisdizione interna degli stati, difficili da sanzionare. Le popolazioni reinsediate non sono di norma mai state consultate e non hanno partecipato ai processi decisionali.

I progetti sono stati decisi infatti a livello centrale per esigenze particolari, senza valutare i bisogni locali ed hanno pesato fortemente le decisioni e la disponibilità delle agenzie di finanziamento insieme agli interessi economici delle imprese costruttrici. Questi fattori hanno contribuito ad evitare di prendere in considerazione possibili modelli alternativi. Durante la fase di pianificazione, prima che la costruzione abbia inizio, si consuma quello che è il dramma di uno sviluppo centrato su valutazioni economiche che prescindono dalla partecipazione. Quello che ne risulta è la mancata considerazione delle popolazioni presenti come soggetti in grado, e con il pieno diritto, a decidere le proprie priorità di sviluppo economico, sociale e culturale, a portare avanti piani di sviluppo alternativi ed a partecipare alla gestione e alla conservazione del patrimonio naturale. Emerge oggi, in tutta la sua gravità, il rischio di estinzione fisica e culturale dei gruppi che un tempo vivevano nell'area dove è stata costruita una grande diga. Considerazioni finali: le dighe e i movimenti di protesta nel mondo Il business globale delle grandi dighe ha portato alla nascita ed alla crescita di movimenti di protesta e pressione politica della società civile nei paesi donatori e in quelli destinatari dei prestiti.

Queste nuove alleanze tra movimenti di base, Organizzazioni Non Governative ed ambientaliste hanno aperto la strada a cambiamenti sostanziali nelle politiche e negli atteggiamenti di grandi istituzioni di sviluppo quali la Banca Mondiale e ad una maggiore attenzione nei confronti dell'ambiente e dei diritti delle comunità locali. Basti pensare all'effetto a catena causato dal già citato caso Narmada, che diede uno scossone senza precedenti alla statica burocrazia della Banca Mondiale, portando alla luce del sole carenze e lacune nelle attività di un personale per troppi anni uso ad agire senza nessun vincolo di responsabilità. Nel 1985 La Banca Mondiale si era impegnata a finanziare con un prestito di 450 milioni di dollari una diga gigante a Sardar Sarovar, in una delle valli sacre dell'India. Il progetto rientrava in un piano più ambizioso, il Narmada Valley Project, che prevedeva la costruzione di ben 30 megadighe, 135 dighe di medie dimensioni e 3.000 piccole dighe, allo scopo di fornire elettricità ed acqua a 40 milioni di persone. L'impianto avrebbe però causato l'espulsione di 250.000 persone (un milione se tutto il progetto fosse stato completato). Per anni gli attivisti del Narmada Bachao Andolan (movimento per la salvezza della valle di Narmada, NBA) scesero in piazza minacciando di lasciarsi travolgere dalle acque del bacino della diga. Digiuni di protesta (satyagraha) in India ed in tutto il mondo ed una campagna di pressione capillare, sostenuta dal carisma della leader storica del NBA, Medha Patkar, portarono la Banca Mondiale ad istituire una commissione d'inchiesta con a capo Branford Morse, che concluse i suoi lavori nel 1992. Secondo il rapporto, che portò poi al ritiro della Banca dal progetto, il nocciolo della questione era che la Banca Mondiale è "più preoccupata di accondiscendere alle pressioni provenienti dai paesi destinatari del prestito piuttosto che di garantire l'attuazione delle proprie politiche".

Il rapporto Morse rese evidente la necessità di un organismo indipendente di controllo che funzionasse come una sorta di corte d'appello, alla quale potessero far ricorso le popolazioni locali in caso di progetti nei quali la Banca avesse violato le proprie direttive. Iniziarono così le discussioni per l'istituzione di quello che poi verrà chiamato Inspection Panel, sollecitata dal Congresso USA e dalle associazioni ambientaliste ed ONG di tutto il mondo. Il primo caso che il Panel si trovò a dover affrontare nel 1995 riguardava di nuovo una diga, quella progettata ma non ancora costruita di Arun III, nella valle omonima in Nepal. In questo caso alla tenacia delle organizzazioni locali ed alla fattiva collaborazione con le associazioni del nord del mondo si aggiunse un altro elemento decisivo, ovvero la presenza di un piano articolato di sviluppo alternativo per la valle, basato su impianti di piccola scala. Da pochi giorni James Wolfensohn era entrato nella stanza dei bottoni della Banca Mondiale e come segno di buona volontà decise unilateralmente di cancellare il progetto, dopo una forte campagna di pressione in Nepal e soprattutto negli Stati Uniti ed in Germania. La mossa a sorpresa di Wolfensohn lasciò la Cogefar - impresa appaltatrice dei lavori - a bocca asciutta. Per poco però. Dopo qualche tempo l'impresa italiana riuscì a vincere l'appalto per una altra megadiga nella regione nepalese del Mustang, stavolta finanziata dall'Asian Development Bank, la diga di Kali Gandaki. Nel caso di Arun come in quello di Narmada erano chiare le lacune nelle valutazioni dei costi benefici, degli effetti del progetto sull'ambiente e degli effetti del reinsediamento forzato sulle popolazioni locali. A parte il caso di Yacyretà, ben illustrato nel rapporto, un altro ricorso intentato presso l'Inspection Panel su un progetto idroelettrico servì in una certa maniera a richiamare l'attenzione su un aspetto fino ad allora poco evidente, relativo al controllo delle attività della Banca in sostegno al settore privato. Il ricorso per la diga di Pangue sul fiume Bio-Bio in Cile (altra diga nella quale ha partecipato l'Impregilo/Cogefar Impresit) venne respinto dal Panel perché è competente solo sui progetti finanziati dalle due strutture della Banca denominate IDA ed IBRD.

La diga di Bio-Bio avrebbe dovuto infatti essere sostenuta dai finanziamenti dell'International Finance Corporation (IFC, "sportello" della Banca Mondiale destinato a finanziare gli investimenti del settore privato). Ciononostante il Presidente della Banca Mondiale James Wolfensohn decise di commissionare un'analisi indipendente del progetto. Il rapporto Hair fu per l'IFC quello che il rapporto della Commissione Morse fu per la Banca Mondiale: un atto di accusa senza precedenti ed una denuncia delle responsabilità e delle lacune istituzionali dell'IFC nella valutazione dell'impatto socio ambientale, nelle procedure di consultazione e di accesso all'informazione. Il resto é storia dei nostri giorni. Proprio nel momento in cui questo rapporto va alla stampa, l'IFC, spinta da molti governi donatori e dalla pressione esterna delle campagne per la riforma, sta ridefinendo le sue politiche socio ambientali, come raccomandato nel rapporto Hair e discutendo della possibilità di istituire un meccanismo di ispezione del tipo Inspection Panel. Bio-Bio é stata comunque una parziale vittoria, poiché alle pressanti richieste della Banca Mondiale di applicare standard socio ambientali più elevati il governo cileno rispose cancellando la sua richiesta di sostegno all'IFC e rivolgendosi a banche private per il finanziamento. Tutto ciò deve indurre ad una approfondita riflessione sulle nuove sfide cui si troverà di fronte il movimento ambientalista e dei diritti umani. Il panorama finanziario globale é ormai caratterizzato dalla crescita a dismisura degli investimenti privati e dal calo sostanziale dei flussi di cooperazione pubblica allo sviluppo. Ed allora andranno aperti nuovi fronti, affrontando con la stessa competenza e decisione le attività di banche commerciali ed agenzie di credito all'esportazione che sostengono progetti devastanti quali le grandi dighe, allorché istituzioni finanziarie quali la Banca Mondiale ritirano il loro sostegno. È il caso attuale della diga delle Tre Gole in Cina, dalla quale la Banca Mondiale preferì ritirarsi, che è ora finanziata da banche commerciali e da fondi pensione gestiti da Lehman Brothers, C.S. First Boston, J.P. Morgan, Morgan Stanley, Smith Barney, e BankAmerican Corporation ed è sostenuta da crediti all'esportazione della Hermes tedesca, della SACE italiana e dall'agenzia di credito all'esportazione svizzera a garanzia della multinazionale ABB. Ed il caso della Dresdner Bank, che ha preso il posto della IFC nella diga di Bio-Bio. In ultima istanza, le campagne sulle grandi dighe hanno contribuito in maniera determinante alla maturazione della capacità di analisi del movimento ambientalista e delle ONG riguardo ai mercati finanziari e alle nuove frontiere degli investimenti privati nel settore delle grandi infrastrutture nei PVS.

In Svizzera come in Germania, negli Stati Uniti come in Giappone le campagne sulle Istituzioni Finanziarie Internazionali si stanno evolvendo in campagne sui mercati finanziari, con interessanti nuove prospettive per il controllo e la possibile "riforma" di un settore finora lasciato alla esclusiva legge del profitto e della speculazione. Non a caso mentre nella dichiarazione di Manibeli del 1994 le Organizzazioni Non Governative di tutto il mondo chiedevano una moratoria ai finanziamenti della sola Banca Mondiale, in quella più recente di Curitiba nel 1997 i rappresentanti delle popolazioni minacciate dalle grandi dighe alzano il tiro rivolgendosi anche agli altri finanziatori: banche commerciali ed agenzie di credito all'esportazione. La dichiarazione di Curitiba chiede tra l'altro una moratoria al finanziamento e costruzione di grandi dighe finché non sia stata effettuata una valutazione indipendente del loro impatto e di possibili alternative. Il 1998 potrebbe segnare un importante passo in avanti in tal senso. A febbraio infatti é stato finalmente raggiunto un accordo sulla composizione della cosiddetta World Commission on Dams (WCD), un'iniziativa che ha preso forma dopo un primo incontro tra Banca Mondiale, IUCN e rappresentanti di ONG del sud e del nord del mondo, tenutosi in Svizzera nel 1997. Un incontro chiesto a gran voce dalle ONG in seguito alla pubblicazione di una prima bozza di valutazione di alcune dighe finanziate dalla Banca Mondiale da parte dell' Operations Evaluation Department della stessa Banca. Un documento ritenuto inaccettabile e poco obiettivo dalle ONG, che hanno denunciato in quell'occasione la scarsa trasparenza, e la mancata consultazione con le comunità locali ed il mondo non governativo. Ora la WCD, composta da rappresentanti di Banca Mondiale, governi, industria, comunità locali, antropologi , esperti in materia ed associazioni ambientaliste e dei popoli indigeni inizierà i suoi lavori. Nel frattempo però le ONG hanno reiterato la loro richiesta di una moratoria ai finanziamenti ed alla costruzione di nuove grandi dighe finché la WCD non abbia analizzato a fondo gli effetti di queste "icone del progresso" e suggerito alternative sostenibili. La lotta per i diritti delle comunità locali e la difesa delle acque non può passare esclusivamente attraverso le discussioni teoriche e la diplomazia informale. Senza la continua mobilitazione popolare, il controllo e la denuncia della società civile, l'attività della WCD rischia di trasformarsi in un ulteriore inutile esercizio accademico. È in questo senso che va interpretata la prima giornata di mobilitazione in solidarietà alle popolazioni minacciate dalla grandi dighe, alla quale la Campagna per la riforma della Banca Mondiale la Fondazione Internazionale Lelio Basso hanno voluto contribuire con questo rapporto. E sarà questo l'impegno con il quale le decine e decine di ONG che hanno aderito alla giornata mondiale continueranno le loro campagne nei prossimi mesi. A ricordarcelo ed a darci forza sono le 20.000 persone che in India sono riuscite a fermare nel febbraio 1998 la costruzione della grande diga di Maheshwar con dimostrazioni pacifiche e digiuni di protesta richiamando alla mente la grande vittoria di Narmada.

Tribunale Internazionale dei Popoli Indigeni di Denver, giugno 1997
Sentenza nel caso della Campagna per la riforma della Banca Mondiale - Italia relativa alla costruzione di dighe da parte della Impregilo in Africa ed America Latina e della presunta distruzione di terre indigene; ascoltate le deposizioni di Liliana Cori e Francesco Martone in rappresentanza della Campagna per la riforma della Banca Mondiale, Italia e della Fondazione Internazionale Lelio Basso per il Diritto e la Liberazione dei popoli.

(...) Il Tribunale Internazionale, richiamando i principi contenuti nella Dichiarazione di Rio, nella Dichiarazione Universale dei diritti dei popoli (Algeri 1976) e altre convenzioni pertinenti, e prendendo in considerazione le decisioni di Tribunali precedenti; il Tribunale nota la discrepanza tra le politiche della Banca Mondiale e le misure adottate per garantirela partecipazione di ONG e popoli indigeni. Il Tribunale chiede alla Banca Mondiale di: garantire un'applicazione trasparente, effettiva ed aperta alla partecipazione delle politiche di valutazione dell'impatto ambientale, sicurezza delle dighe, reinsediamento delle comunità espulse dalle loro terre e diritti dei popoli indigeni, nonché di condurre una indagine indipendente delle denunce formulate dai ricorrenti. Nel caso di Yacyretà i funzionari ed i Direttori Esecutivi della Banca Mondiale dovrebbero garantire il completamento di un'indagine dell'Inspection Panel fornendo tutto il sostegno necessario. Nel caso di Chixoy la Banca Mondiale dovrebbe prendere tutte le misure necessarie per la conversione del debito causato dalla costruzione della diga in programmi sociali ed ambientali volti a ripristinare le condizioni di vita originali delle popolazioni Maya Achì danneggiate dal progetto. Questi programmi dovrebbero essere preparati ed attuati con la piena consultazione e partecipazione delle comunità locali. Nel caso di Katse la Banca Mondiale dovrebbe immediatamente intraprendere un'indagine per accertare le responsablità delle presunte violazioni dei diritti dei lavoratori nei cantieri. Dovranno essere prese misure più efficaci per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, la sicurezza e le condizioni sanitarie. La prossima fase del progetto (Fase 1b) non dovrà iniziare prima dell'identificazione delle responsabilità e della raccolta di dati relativi al possibile impatto delle infrastrutture e dell'invaso dal punto di vista sociale, ambientale, scientifico e sismologico. Il Tribunale chiede al governo italiano di: disporre un'indagine per accertare le responsabilità dei funzionari pubblici nei tre casi menzionati; effettuare una valutazione indipendente di ogni diga finanziata, assicurando la partecipazione delle comunità coinvolte; identificare misure necessarie per garantire la coerenza delle attività della cooperazione bilaterale italiana e della Agenzia di Credito all'Esportazione con gli impegni internazionali presi dal paese in materia di ambiente, diritti umani e dei popoli indigeni; adottare linee guida sui popoli indigeni per ciò che riguarda le attività di cooperazione bilaterale.

(...) Il Tribunale chiede all'Impregilo di: definire criteri ambientali efficaci e trasparenti per le proprie attività, al fine di garantire la protezione della biodiversità, delle risorse idriche e prevenire gli impatti delle dighe a valle; sviluppare criteri sociali trasparenti ed efficaci per garantire la partecipazione ed il controllo pubblico, tenendo in dovuta considerazione la diversità culturale, l'autodeterminazione, il miglioramento delle condizioni di vita ed un equo accesso a risorse idriche e terra per le comunità locali, le comunità indigene dovrebbero ricevere garanzie di poter mantenere le condizioni economiche e culturali precedenti la costruzione; usare il proprio notevole know-how tecnico per sviluppare e dare priorità a tecnologie a basso impatto e sostenibili nelle fasi del progetto; il patrimonio di conoscenza tradizionale dovrà essere tenuto in considerazione, insieme alla necessità di ridurre lo spreco e l'utilizzo eccessivo di risorse naturali. Il Tribunale chiede a Banca Mondiale, governo italiano ed Impregilo di provvedere al risarcimento, inclusa la concessione di terra, alloggio ed infrastrutture sociali, da negoziare con le comunità locali e di iniziare programmi per il recupero delle aree danneggiate dalle dighe. Il Tribunale rileva come l'impatto distruttivo dei progetti finanziati dalla Banca Mondiale (...) rafforzi la necessità di politiche efficaci per prevenire i disastri culturali ed ambientali Il Tribunale raccomanda inoltre alla Campagna per la riforma della Banca Mondiale di impegnarsi in un dialogo intenso con le associazioni internazionali che si occupano di diritti umani ed indigeni e di ambiente, diritto sostenibile e diritti cultural e spirituali nell'ambito della Commissione per lo Sviluppo Sostenibile. In particolare raccomanda di contattare la World Federation of United Nations Associations di New York. Sulak Sivaraksa Vice Presidente del Tribunale 19 giugno 1997.

Note

[1] Dall'incontro di Denver (giugno '97) ai sette paesi più ricchi si è infatti aggiunta la Russia;
[2] Global Response, Environmental Action and Education Network, P.O. Box 7490, Boulder, Colorado, U.S.A. 80306-7490, phone: 303/4440306, fax: 303/4499794, E-mail: globresponse@igc.apc.org. Website: http://www.globalresponse.org;
[3] Grandi dighe sono definite dalla Commissione Internazionale sulle Grandi Dighe (ICOLD, International Commission on Large Dams) quelle alte oltre 15 metri dalla base;
[4] La "cultura della quantità" opposta alla cultura della qualità, ben analizzata da Bruce Rich in "Mortgaging the Earth, the World Bank, Environmental Impoverishment and the Crisis of Development", Beacon Press, Boston, 1994;
[5] La procedura per l'adozione delle convenzioni dell'ILO prevede la discussione e l'approvazione da parte dei tre gruppi costitutivi: le associazioni dei lavoratori, le associazioni dei datori di lavoro e i governi. In occasione dell'approvazione della convenzione n. 169 il gruppo dei lavoratori si è fatto portavoce delle istanze di alcuni rappresentanti di organizzazioni indigene internazionali accreditate all'ONU.
[6] Organizzazione Internazionale del Lavoro "Convention n. 169 concerning indigenous and tribal peoples in Indipendent Countries", 1989.
[7] ONU, Universal Declaration on Indigenous Peoples Rights, Doc. E/CN.4/Sub.2/1993/29.
[8] Tribunale Permanente dei Popoli: "Charter on Industial Hazards and Human Rights" in "Session on Industrial and Environmental Hazards and Human Rights ( Bhopal- Londra 1994)" 1996.
[9] Per quel che riguarda le violazioni subite in generale dalle comunità e le implicazioni per l'ambiente e la salute in progetti di cooperazione multilaterale, riteniamo necessario menzionare anche le altre le sentenze del Tribunale Permanente dei Popoli sull'Amazzonia sulle politiche del Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale e su Chernobyl. Tribunale Permanente dei Popoli: "Session on:the Brazilian Amazon", Paris, 12-16 October 1990; " session on the FMI and the WB politics", Madrid, 1-3 October 1994;"Session on: Chernobyl: Environmental, Healt and Human Rights Implications", Vienna , 12- 15 Aprile 1996;
[10] UNCED: United Nation Conference on Environment and Development, Rio de Janeiro, 3-14 June 1992;
[11] World Health Organization Ragional Office for Europe, Environment and Health. The European Charter and Commentary, Copenhagen, 1989;
[12] United Nations General Assembly, res. 42/187, 11 Dec. 1987;
[13] A riguardo si vedano i riferimenti in box del capitolo 1 e 3.
[14] Va infatti notato che la Banca Mondiale sta trasformando le "Opertational Directives" in "Good Practices" e "Operational Policies". Per maggiori dettagli vedi L. Jordan: "World Bank Policies Conversion: An Overview" in The World Bank Inspection Panel: a three year review by Lori Udall, Bank Information Center, October 1997;
[15] L'articolo 5 stabilisce infatti che: "Ogni popolo ha un diritto imprescrittibile e inalienabile all'autodeterminazione..."; Universal Declaration of the Rights of Peoples, Algiers, 4 July 1976;
[16] Si veda a questo proposito, in particolare per le dighe finanziate dalla Banca Mondiale e sul problema dell'indebitamento dei paesi interessati: P. McCully, P. Sklar "Damming the Rivers- the World Bank Lending for Large Dams" International Rivers Network, Working Paper 5, November 1994;
[17] "Tratado de Yacyretà y normas complementarias", Buenos Aires - Asuncion, EBY, 1986;
[18] "Performance Audit Report. Aegentina. Yacyretà Hydroelectrical Project (Loan 1761-AR). Electric Power Sector Project (Loan 2998-AR)", The World Bank, 1996;
[19] "the combined-cycle gas alternative looked better technically and economically in the face of uncertain demand since it could be implemented in small increments closely matched to demand" WB 1996, p. 14;
[20] "By 1982, the actual demand for electricity was already lagging 25 percent behind the original foracast, and there was no sign of a swift demand recovery. There was no longer the same urgency to build Yacyretà", WB, 1996, p. 14; [21] WB, 1996, p. 16;
[22] L'Inspection Panel è formato da un gruppo di esperti indipendenti che, su richiesta delle popolazioni colpite e dopo aver avuto l'autorizzazione dei Direttori Esecutivi, può esaminare progetti della Banca Mondiale e consigliare azioni per la riparazione dei danni provocati. (Vedi quadro sull'Inspection Panel);
[23] Inspection Panel Claim, Sobrevivencia, 1996.
[24] Ci riferiamo ad alcuni incontri informali che si sono verificati nel 1992 tra rappresentanti dell'Asociaciòn de Comunidades de Pueblo Guaranì, il Centro Mocovì e l'EBY. È stato in seguito riscontrato che quest'ultimo non era rappresentante legittimo delle popolazioni guarani' locali;
[25] G. Switkes: "Yacyretà Inspection Panel Claim Undermined" di prossima pubblicazione su World Rivers Review;
[26] Un rapporto della IDB del 1992 (FONTE) cita due riunioni avvenute tra i rappresentanti delle due organizzazioni indigene locali con IDB e successivamente con EBY ed una "nota formale" che sarebbe pervenuta all'EBY, sempre nel 1992, sugli effetti diretti ed indiretti che il progetto aveva prodotto su 135 famiglie Guaranì (analizzeremo questi effetti nel capitolo 3). Questa "nota" era stata indirizzata alla Banca Mondiale dall'Associazione di Comunità del Popolo Guaranì il 19 settembre 1992 assieme ad un documento intitolato "Resumen de la situaciòn generada al Pueblo Guaranì por la Represa Hidroeléctrica da Yacyretà y otros emprendimientos hidroelécticos en Argentina"; ci siamo inoltre riferiti anche agli "Acta de la Asamblea de Comunidades Indigenas del Pueblo Guaranì" (11-12 November 1995);
[27] Comunicazione personale con un'esperto della Banca Mondiale;
[28] Le informazioni sono tratte principalmente da: Witness for Peace, "A People Dammed. The impact of the World Bank Project in Guatemala", 1996;
[29] "Quando nel 1978 l'INDE chiese un prestito per il progetto di Chixoy la Banca Mondiale aveva già investito 18 anni e 77 milioni di USD per sviluppare il settore idroelettrico in Guatemala, con scarsi sucessi fino a quel momento". Witness for Peace, "A People Dammed", 1996, p. 12;
[30] Il metodo per la scelta del sito e la valutazione finanziaria è definito "come un gioco alla lotteria" nel rapporto di Witness for Peace, 1996, pg. 13;
[31] Witness for Peace, People Dammed pg. 13;
[32] La fattibilità del progetto era stata ipotizzata già nei primi anni '50 (HCAG Report, marzo 1997);
[33] Apparentemente i Basotho delle montagne sono un piccolo segmento delle 1.217.000 di persone che parlano la lingua Sotho del Sud;
[34] Nota bene: questa argomentazione è rischiosa poiché è stata usata in più occasioni da stati (per lo più in Asia) che non riconoscono di avere al loro interno popolazioni indigene, che invece sono e si definiscono tali;
[35] Come vedremo, il sistema compensatorio adottato e le valutazioni di impatto ambientale effettuate non hanno tenuto conto del valore culturale e spirituale della terra e dell'ecosistema in cui vivevano i Basotho delle montagne, né delle trasformazioni sociali e culturali causate dal contatto con i lavoratori stranieri e dal reinsediamento. Questi criteri sono invece previsti nel caso in cui siano coinvolte popolazioni indigene ufficialmente riconosciute;
[36] L'articolo 5 stabilisce infatti che: "Ogni popolo ha un diritto imprescrittibile e inalienabile all'autodeterminazione..."; Universal Declaration of the Rights of Peoples, Algiers, 4 July 1976;
[37] Vi sono stati anche autorevoli casi all'interno delle Nazioni Unite: un seminario tecnico nel 1989, concludeva a favore dell'autodeterminazione per gli indigeni: "the principle of self-determination as set forth in the Charter of the United Nations... is essential to enjoyment of all human rights by indigenous peoples." ONU: Report on the United Nations Seminar on the effects of racism and racial discrimination on the social and economic relations between indigenous peoples and States, U.N. Doc. E / CN. 4 / 1989 / 22, Conclusions (e). Inoltre sempre all'interno delle Nazioni Unite lo studio del problema della discriminazione contro le popolazioni indigene, preparato dal Relatore speciale della "Sottocommissione per la Prevenzione delle Discriminazioni e la Protezione delle Minoranze", Martinez Cobo, aveva riconosciuto la libera determinazione come condizione essenziale per le popolazioni indigene nel determinare il proprio futuro specificando come si riferisse a fattori economici, sociali e culturali, oltre che politici e che non implicasse necessariamente la facoltà di separarsi dallo Stato e di costituirsi in entità sovrana. La forma di questa facoltà poteva invece essere una diversa forma di autonomia dentro lo Stato, compreso il diritto individuale e collettivo ad essere differenti riconosciuto dalla "Dichiarazione sulla razza e i pregiudizi razziali", approvata dall'UNESCO nel 1978;
[38] La stessa clausola appare all'art. I comma 3 della Draft American Convention on the Rights of Indigenous Peoples che è stata approvata dall'Inter-American Commission on Human Rights nel febbraio del 1997 ed attende la successiva approvazione dell'Organizzazione degli Stati Americani (OAS), di cui è un organo;
[39] Le disposizioni della Convenzione, riconoscono la comunità indigena sia come comunità culturale, di tradizioni o di lingua, trattandola come "minoranza", sia in quanto regolata da un suo diritto proprio ("...due regard shall be had to their customs or customary laws", art. 8). E' riconosciuto anche il "sistema giudiziario" dei popoli indigeni ("...the methods customarly practised by the peoples concerned for dealing with offences committed by their members shall be respected", art. 9), il che vuol dire riconoscerne l'insieme della comunità giuridica, come comunità non soltanto di diritto materiale, ma anche di diritto formale per la tutela della soluzione dei diritti;
[40] Convenzione n 169, art. 33.2. Nella premessa abbiamo visto essere il diritto alle risorse naturali per lo sviluppo, uno dei tre riconosciuti a livello internazionale come accordati direttamente ai Popoli;
[41] All'art.4 della Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli Indigeni leggiamo infatti: " Indigenous peoples have the right to maintain and strengthen their distinct political, economic, social and cultural characteristics, as well as their legal systems, while retaining their rights to participate fully, if they so choose, in the political, economic, social and cultural life of the State";
[42] Carta su Rischi Industriali e Diritti Umani, art. 9: "diritto di partecipazione della comunità";
[43] W.J. Assies: Self-determination and the "new partnership"- The Politics of Indigenous People and States;
[44] N. Lerner: Group Rights and Discrimination in International Law, Dordrecht, Boston, London, Martinus Nijhoff, 1991;
[45] Carta su Rischi Industriali e Diritti Umani, art. 14: "diritto dei popoli indigeni";
[46] Ispection Panel Claim, Sobrevivencia, 1996;
[47] "Yacyretà II. Environmental Assessment. Executive Summary", Dept. of Resetlement and Environment, EBY, April 1992;
[48] Guillermo Sequera, etnologo paraguaiano, comunicazione personale;
[49] ".. tutti i responsabili del progetto, dai pesci piccoli a quelli grandi, rubarono a man bassa ... Non c'è dubbio che l'INDE incoraggiò - e trasse beneficio - dai massacri", P. McCully, "World Bank to Investigate Chixoy Dam Massacre", Bankcheck Quarterly, Sept., 1996, 13;
[50] Nel 1985, a soli tre anni dai massacri, la Banca concede un altro prestito di 44.6 milioni di US$. L'IDB nel 1981 aveva concesso un prestito di 70 milioni di US$;
[51] Il "Project Complection Report" di Chixoy della Banca Mondiale del 1991 menziona i massacri di massa solo indirettamente puntualizzando i problemi intercorsi "..due to intensive insurgency activity in the project area during the years 1980-1983-..two resettlement officiers were killed while performing their duties..." World Bank, Project Complection Report on Guatemala Chixoy Hydroelectric Power Project December 31, 1991;
[52] WFP, pg. 19;
[53] The Ecologist, vol 26, n. 5, Sept. Oct. 1996;
[54] da Lesotho Highlands Water Project, press Briefing, The World Bank, January 27, 1997;
[55] LHWP, IBRD Supervision Mission October 1995;
[56] Nel Human Rights Report 1996 di Amnesty International troviamo la notizia che in Lesotho il salario minimo per i lavoratori non specializzati è di 68 $ al mese, una cifra insufficiente ad assicurare uno standard di vita decente per i lavoratori e le loro famiglie;
[57] Lettera della World Bank a Mr. Marumo, Chief Executive, LHDA, January 1997;
[58] Witness for Peace, A People Dammed, 1996, p.18;
[59] Carta su Rischi Industriali e Diritti Umani art. 8 "Diritto a vivere in un ambiente libero da rischi" e art. 11: "diritto al monitoraggio ambientale";
[60] Carta su Rischi Industriali e Diritti Umani art 17: "diritto a lavorare in un ambiente libero da rischi", art. 20 "diritto alla salute e al monitoraggio della sicurezza", art. 21: "diritto all'istruzione e alla formazione pratica";
[61] World Bank "Resettlement and Development: The Bankwide Review of Projects Involving Involuntary Resettlement 1986-1993" cap. 2, pag. 9;
[62] The World Bank, February 3, 1997 Argentina: Second Yacyreta' Hydroelectric Project (Loan 3520-AR) Progress Report;
[63] Entidad Binacional Yacyretà 1982;
[64] Funzionario della Banca Mondiale, comunicazione personale;
[65] IDB "Relocalizaciones y eventuales afectaciones a comunidades aborigenes en la margen argentina" Dr. L. Bartolomé, 1992;
[66] J. Ferguson, "The anti-Politics Machine. Development and Bureaucratic Power in Lesotho", in The Ecologist , vol 24, n. 5, 1994;
[67] LHWP Aide Memoire, World Bank, April 1996;
[68] ibid;
[69] Highland Church Action Group (HCAG) Grievance Follow-up Study 24 October - 6 November 1997;
[70] World Bank: "...the Mbya expressed satisfaction with the resettlement location given them" in "Yacyretà II: Envirronmental Assesment, Executive Summary, 1992";
[71] Carmen Ferradàs: "The Encounter between Planning Agents and the Population in Relocation Process";
[72] Carta su Rischi Industriali e Diritti Umani: art. 23 "diritti comuni di soccorso e di compenso";
[73] Politiche sulle terre selvatiche OPN 11.02 /on Wildlands;
[74] Inspection Panel Claim, Sobrevivencia, 1996. I problemi ambientali sono anche riconosciuti dalla Banca Mondiale in "Argentina: second Yacyretà Hydroelectric Project, Loan 3520 -AR, Progress Report 1997".
[75] Argentina: Second Yacyretà Hydroelectrical Project Progress Report, IBRD, Feb. 1997;
[76] The World Bank, LHWP Aide Memoire, June 1996;
[77] The World Bank, LHWP Aide Memoire, June 1996; IRN, letters, factsheets and documents on LHWP, 1995, 1996, 1997;
[78] Lesotho Highland Water Project, IBRD Supervision Mission, October 1996, World Bank;
[79] LHDA, Environment Division, Lesotho Highlands Water Project Phase 1B Environmental Impact Assessment, Draft Final Report, October 1996;
[80] LHDA, Lesotho Highlands Water Project Phase 1B. Interim Environmental Action Plan, March 1997;
[81] "Our Planet, Our Health", World Health Organization, 1992;
[82] EBY: Plan de Manejo Ambiental Proyecto Hidroelectrico Yacyretà (14 Agosto 1992)
[83] Inspection Panel report:"Review of problems and assessment of action plans: Argentina/Paraguay: Yacyretà hydroelectric project", Sept. 16, 1997;
[84] Da comunicazione personale con un funzionario della Banca Mondiale;
[85] IDB Indendent Investigative Mechanism: Yacyretà Hydroelectric Project. Report of the Review Panel, September 15, 1997;
[86] IDB, Management's comments on the Review Panel's report, Yacyretà Hydroelectric project, 24 ottobre 1997;
[87] Interrogazione n.4-03714 del Senatore Giovanni Russo Spena;
[88] Lettera del Ministro del Tesoro al Senatore Giovanni Russo Spena, 30 gennaio 1998;
[89] "The World Bank's Experience with Large Dams: a Preliminary Review of Impacts" (World Bank Operations Evaluation Department, August 15, 1996);
[90] Patrick McCully IRN: A Critique of "The World Bank's experience with large dams: a preliminary review of impacts" (World Bank Operations Evaluation Department, August 15, 1996), April 11, 1997;
[91] Organizzazione Non Governativa statunitense;
[92] Highlands Church Action Group (HCAG), rapporto sul campo, novembre 1997. Il rapporto esamina la situazione attuale e la risposta alle 93 richieste fatte dalla popolazione alla LHDA, tra il 1993 e il 1994, per la soluzione di situazioni specifiche: sono state pienamente soddisfatte due richieste, parzialmente soddisfatte 53 richieste,e rimaste inevase 38 richieste. Si è verificato inoltre che le condizioni di vita della popolazione sono in generale peggiorate;
[93] J. Rosenthal, The Caper Times, 29 Oct 1997;
[94] Demand Side Management, gestione della domanda: uno dei nuovi approcci di razionalizzazione e corretto uso delle risorse che può permettere risparmio e uso sostenibile. Fonte: IRN;
[95] Comunicato stampa e rapporto informativo, 22 gennaio 1998, Group for Environmental Monitoring (GEM), Alexandra Civic Organisation, Soweto SANCO, Earthlife Africa Johannesburg (ELA JHB), Environmental Justice Networking Forum Guateng Provincial Steering Committee (EJNF Guateng), Highland Church Solidarity and Action Group (HCAG), International Ribers Network.

Il rapporto "Grandi dighe, diritti dei popoli e dell'ambiente" è pubblicato come contributo della Campagna per la riforma della Banca Mondiale e della Fondazione Internazionale Lelio Basso per il Diritto e la Liberazione dei Popoli alla giornata internazionale per i fiumi, le acque, la vita del 14 marzo del 1998. Raccoglie ed approfondisce la testimonianza resa dalla Campagna e dalla Fondazione al Tribunale dei Popoli Indigeni, che ha tenuto la sua sessione in occasione del Vertice dei G7 di Denver 1997.

È stato scritto da Liliana Cori e Francesco Martone, coordinatori della Campagna per la riforma della Banca Mondiale, e da Jaroslava Colajacomo, ricercatrice della Fondazione Internazionale Lelio Basso per il Diritto e la Liberazione dei Popoli, con la collaborazione delle organizzazioni internazionali e locali che da molti anni lavorano raccogliendo informazioni, elaborando rapporti scientifici, stilando proposte e diffondendo informazioni sulle grandi dighe costruite nei paesi del sud del mondo.

Vogliamo ringraziare in particolare: Patrick McCully, dell'International Rivers Network, che ha scritto Silenced Rivers (1996, Zed Books) un testo fondamentale per comprendere la storia, l'impatto sociale, ambientale, le alternative alle grandi dighe nel mondo (patrick@irn.org);
Lori Pottinger dell'International Rivers Network 1847 Berkeley Way, Berkeley CA 94703, USA, lori@irn.org;
Kay Treakle del Bank Information Centre 2025 I Street, NW, Suite 400, Washington DC, 20006 USA ktreakle@igc.apc.org;
Dana Clark del Centre for International Environmental Law 1621 Connecticut Avenue, NW, Suite 300, Washington DC 20009, USA, cieldlc@igc.apc.org;
Korinna Horta dell'Environmental Defense Fund 1875 Connecticut Avenue, NW, Suite 1016, Washington DC 20009, korinna@edf.org;
Elias Diaz Peña, Sobrevivencia (Amigos de la Tierra Paraguay) Survive@quanta.com.py;
Ryan Hoover, del Lesotho Highland Church Action Group, Maseru, men@lesoff.co.za;
Jonathan Eoloff di Witness for Peace 110 Maryland NE, Suite 304, Washington DC 20002-5611, witness@igc.apc.org.


HasankeyfVedi anche:
* www.gfbv.it:
- Dighe e genocidio: Il caso Vajont: una calamità artificiale >>>
- ADIVASI - L'altra faccia dell'India >>>
- La Convenzione ILO 169: un importante standard di tutela per i popoli indigeni >>>

* www:
>>> - Sito dell'ILO
>>> - Progetto PPP in Messico
>>> - Progetto Maheshwar, Narmada India
>>> - Del diritto alla buona acqua (Fond. Franceschi)

ILISU
>>> - The Ilisu dam project (Foto, Link)
>>> - TURCHIA: Una diga contro Maometto
>>> - Web site of the Campaigne Ilisu (by Kurdish Human Rights Project, The CornerHouse, Friends of the Earth and Mark Thomas.)
>>> - The CornerHouse
>>> - Mark Thomas' Ilisu page
>>> - Kurdish Media
>>> - Save Hasankeyf
>>> - Friends of the Earth UK
>>> - Berne Declaration, Ilisu campaign, Switzerland
>>> - HERMES campaign, Germany
>>> - Friends of the Earth US
>>> - International Rivers Network
>>> - Environmental Defense, US
>>> - Export Credit campaign - ECA-Watch
>>> - Friends of the Earth, Sweden
>>> - Kurdistan Web
>>> - ERN European River Network "Ilisu campaign"
>>> - UK Export Credit Guarantee Department web-site
>>> - Kurdistan Web Database - Environment, Dams

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