Fondazione Internazionale Lelio Basso per il Diritto e la Liberazione dei Popoli Campagna per la rifoma della Banca Mondiale e della Fondazione Grandi dighe, diritti dei popoli e dell'ambiente pubblicato sulla rivista SEMI del Centro Internazionale Crocevia
Le dighe di Chixoy, Yacyretà e Katse, costruite dalla multinazionale Impregilo con il sostegno finanziario della Banca Mondiale, sono state e sono tuttora al centro di iniziative e campagne di denuncia delle Organizzazioni Non Governative che si occupano di ambiente e diritti umani, a causa dei danni che hanno provocato. Le grandi dighe sono simbolo di uno sviluppo distorto, che provoca le violazioni dei diritti dei popoli e dell'ambiente registrate nel corso della ricerca. La questione dello sviluppo sostenibile lungi dall'essere connessa a considerazioni di carattere puramente ecologico, appare con evidenza una questione politica. Vi trovano spazio, assieme alle questioni puramente tecniche, considerazioni relative alla democrazia ed a i diritti di ognuno - individuo, gruppo, popolo o realtà sociale - a partecipare attivamente come soggetto politico alle scelte. Un imperativo che si scontra quotidianamente con gli interessi di élite commerciali, economiche e politiche ansiose di perseguire i propri interessi particolari. Le grandi dighe, emblema di uno sviluppo centralizzato ed insostenibile racchiudono queste contraddizioni. In quest'ottica, il nostro documento cerca di fornire delle ulteriori chiavi di analisi ed approfondimento, in sostegno alle campagne delle organizzazioni e comunità locali per il rispetto del loro diritto ad uno sviluppo socialmente giusto ed ecologicamente durevole.
Le dighe sono state chiamate con una felice definizione "icone
del progresso". Come tali vogliamo considerarle e usarle come
esempio di una realtà che, pur in grande movimento, vede
riproporre chiari elementi di colonialismo, o di colonizzazione:
il sud del mondo rimane beneficiario/oggetto di uno sviluppo
disegnato da èlite economiche e commerciali dei paesi
ricchi che ne annullano le peculiarità, fornendo un
modello standardizzato e ricette uguali per tutti. La domanda
fondamentale che ci dobbiamo porre è se la tecnologia
porti necessariamente progresso. L'approccio ecologico è
stato di grande aiuto, per leggere alcuni fenomeni e svelare i
meccanismi di sfruttamento e rapina, non solo dell'uomo ma del
suo ambiente, che minano le possibilità di sopravvivenza
futura. I movimenti di opinione e molte delle rivendicazioni che
negli ultimi anni hanno sollecitato l'attenzione internazionale
hanno il loro fulcro nella richiesta di uno sviluppo di tipo
nuovo, che sia ecologicamente sostenibile, economicamente equo e
socialmente giusto: queste richieste, di cui la Campagna per la
riforma della Banca Mondiale si fa interprete, guidano l'analisi
che qui viene presentata, utilizzando un esempio, quello delle
dighe, in cui emergono con chiarezza le contraddizioni del
cosiddetto "sviluppo".
Il 14 marzo è la Giornata internazionale per i fiumi, le
acque e la vita, proposta nel 1997 a conclusione della Conferenza
Internazionale che ha visto riuniti a Curitiba in Brasile
rappresentanti delle popolazioni che in tutto il mondo subiscono
gli effetti della costruzione di grandi dighe. La "Dichiarazione
di Curitiba" sottoscritta in quell'occasione rivendica il diritto
alla vita e alla salute delle persone, chiedendo di fermare la
costruzione di nuove grandi dighe e di risolvere i gravi problemi
sociali, ambientali ed economici che ne derivano. La Campagna ha
presentato in Italia ad un anno di distanza il rapporto "Grandi
dighe, diritti dei popoli e dell'ambiente", che intende essere
strumento di informazione, di denuncia, di approfondimento sul
rapporto tra grandi progetti e diritto internazionale, esaminando
il caso delle grandi dighe. Il rapporto è una revisione ed
ampliamento del documento presentato al "Tribunale Internazionale
sulle popolazioni indigene", tenutosi a Denver, Colorado, tra il
17 e il 21 giugno 1997. Il Tribunale ha avuto le caratteristiche
di un tribunale di opinione, con un Panel di esperti di
Organizzazioni Non Governative di diversi paesi e rappresentanti
delle popolazioni indigene; ha preso in esame 11 testimonianze su
casi di violazione di diritti umani legati a interessi
industriali e progetti di sviluppo, nel sud e nord del mondo.
Come chiusura delle sessioni di presentazione per ciascuno dei
casi ci sono state delle "conclusioni", con suggerimenti di
azione; in allegato riportiamo le conclusioni relative al caso
presentato dalla Campagna per la riforma della Banca Mondiale e
dalla Fondazione Internazionale Lelio Basso. Tra i motivi
ispiratori del Tribunale di Denver leggiamo: "... a cinque anni
dalla Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo
(UNCED, 1992) ... il nuovo paradigma che si proponeva di spostare
il corso dello sviluppo mondiale da un modello puramente
consumistico verso la sostenibilità si fa strada con
lentezza. I paesi industrializzati sono molto lenti a cambiare il
modello di produzione e consumo che contribuisce a creare fame e
povertà. Fame e povertà continuano a provocare
degrado a livello mondiale.
Il proliferare delle multinazionali che deriva dalle politiche
economiche dei paesi G7 e della Russia[1] ha
creato nella maggior parte del mondo un'industrializzazione che
ha colpito le culture dei popoli indigeni e la
sostenibilità del sistema globale. La base delle
valutazioni che il Tribunale farà saranno i 27 principi
della Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo (UNCED, 1992) e
la Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli (Algeri,
1976)."[2] Il caso presentato a Denver
è quello di tre grandi dighe costruite dall'impresa
italiana Impregilo e finanziate dalla Banca Mondiale:
Yacyretà tra Argentina e Paraguay, Chixoy in Guatemala e
Katse in Lesotho. Le abbiamo scelte per i seguenti motivi. Primo,
considerate le violazioni dei diritti umani ed il degrado
ambientale provocato dalla costruzione di grandi dighe,[3] abbiamo ritenuto necessario esaminare e
discutere l'impatto di questo modello di sviluppo sulle
comunità locali, sulle popolazioni indigene e
sull'ambiente, tentando di identificare le responsabilità
dirette e indirette. Gli attori in campo sono molti: quelli che
hanno voce nelle scelte principali sono i governi dei paesi
beneficiari dei progetti, i finanziatori, i costruttori.
C'è poi chi subisce le scelte e soffre le conseguenze nel
lungo periodo: le popolazioni locali e l'ambiente. Secondo,
vorremmo fornire elementi di approfondimento sul ruolo dei fondi
pubblici destinati allo sviluppo, in particolare dei fondi delle
Banche di Sviluppo Multilaterali, che sono tra i protagonisti
chiave dell'economia mondiale.
Le tre dighe in oggetto sono state finanziate da fondi di Banca
Mondiale, fondi bilaterali di cooperazione allo sviluppo e/o
agenzie di credito all'esportazione italiane. Terzo,
perché le grandi dighe hanno catalizzato e motivato
movimenti di opposizione popolare e di base e campagne di
pressione politica nel sud e nel nord del pianeta. Da ricordare
tra le prime la campagna contro la diga di Narmada in India
(iniziata nel 1985) che ha avuto un impatto senza precedenti,
sollevando un dibattito internazionale sul ruolo della Banca
Mondiale, dei suoi progetti e delle sue politiche. Pensiamo sia
utile presentare un'analisi di come, nelle situazioni in esame,
dall'interazione tra interessi delle multinazionali e
finanziamenti pubblici derivi uno sfruttamento senza regole delle
risorse naturali e l'emarginazione delle comunità locali,
se non la loro eliminazione fisica. Abbiamo voluto identificare
il ruolo e i gradi di responsabilità da attribuire alla
istituzione finanziatrice - in questo caso la Banca Mondiale - ed
ai governi locali. Con particolare riferimento agli effetti sulle
popolazioni indigene, abbiamo voluto rilevare i tratti in comune
delle violazioni verificatesi in seguito alla costruzione di una
grande diga in un'area da esse abitata. Si è voluto con
ciò evidenziare il carattere peculiare delle violazioni
dei diritti umani per le popolazioni indigene: minacce nella loro
esistenza ed integrità etnica poiché gli Stati, la
Banca Mondiale e le imprese costruttrici non considerano la loro
particolare struttura economica, sociale e culturale. Le
responsabilità delle multinazionali messe sotto accusa nel
Tribunale di Denver può essere più o meno
diretta.
Nei tre casi di cui ci occuperemo non abbiamo rilevato prove del
coinvolgimento diretto delle multinazionali nella violazione dei
diritti umani e di quelli ambientali. Crediamo tuttavia che ci
siano sufficienti elementi per concludere che le imprese
coinvolte hanno funzionato da catalizzatore per tali violazioni.
Al di là del ruolo tecnico, infatti, le multinazionali
favoriscono scelte basate non tanto su prove certe di efficacia,
ma sulla convinzione che perfette teorie possano funzionare in
ogni contesto. Nei tre casi esaminati - ma ciò succede in
generale - le grandi dighe sono opere gigantesche, progettate
senza tenere conto delle condizioni locali, secondo un modello di
sviluppo "industrialista" che non contribuisce affatto ad
arricchire le società che dovrebbero beneficiarne. Ma
oltre a queste le responsabilità delle multinazionali
invece vanno al di là degli aspetti descritti sopra, della
costruzione materiale delle dighe e dell'attività di lobby
per ottenere l'appoggio della Banca Mondiale e dei governi
locali. Come vedremo le valutazioni di impatto ambientale dei
progetti sono state assai scarse, se non inesistenti, e alcune
valutazioni tecniche del territorio e quindi della costruzione
del tutto sbagliate. La presenza di interessi non dichiarati, sia
delle ditte che dei governi, e la cultura istituzionale della
Banca Mondiale, che spinge a finanziare il più
possibile,[4] non offrono sufficienti
garanzie di obiettività. La scarsa valutazione della
sismicità indotta dal bacino di Katse in Lesotho, è
emblematica da questo punto di vista. A Chixoy, che si trova in
area sismica, il governo del Guatemala ed il consorzio
controllato dall'Impregilo (allora Cogefar) hanno proseguito a
costruire la diga dopo ben due anni di interruzione a causa di
terremoti nell'area. Altri calcoli insufficienti sono relativi
alla fattibilità economica generale ed al costo finale
dell'energia. Dati come i flussi d'acqua necessari per il
riempimento dell'invaso e l'impatto della sedimentazione sono in
genere sottovalutati nel calcolo dei costi del progetto. Una
gestione sostenibile delle risorse prevederebbe un'analisi
costi/benefici e la considerazione di soluzioni alternative a
basso impatto.
Per Yacyretà la Banca Mondiale ha dovuto ammettere, ben
dopo l'inizio della costruzione della diga, che sarebbe stato
meglio non iniziarla mai, poiché erano già stati
scoperti giacimenti di gas naturale che avrebbero permesso la
produzione di energia a costi più bassi. Il progetto era
però avviato e potenti interessi economici e politici lo
mantennero in piedi contro ogni evidenza. Nel caso di Katse i
costi dell'acqua per il Sud Africa stanno diventando così
alti da risultare insostenibili per gli utenti: una gestione
razionale delle risorse e la riduzione degli sprechi renderebbe
inutile la diga già costruita, e ancor più le nuove
quattro previste. Se partiamo dal presupposto che lo sviluppo
sostenibile deve essere decentrato e bilanciato secondo le
esigenze di ciascun paese, le grandi dighe sono proprio tra i
progetti che vanno rimessi in discussione alla radice. Nei casi
che vedremo, possiamo affermare che le grandi dighe hanno portato
danni ed impoverito le comunità locali: non solo non hanno
contribuito al benessere dei paesi, ma hanno arricchito le
élite politiche locali e le multinazionali costruttrici.
La diga di Yacyretà per esempio è considerata un
modello di corruzione in America Latina. Nei tre casi l'idea che
le dighe siano un elemento di progresso si basa su una colpevole
negazione delle differenze culturali e sociali, se non su una
ideologia di mera omologazione culturale. Le dighe costruite con
grandi finanziamenti internazionali provocano conseguenze
devastanti sulle economie dei paesi. In Guatemala la diga di
Chixoy rimase bloccata per due anni con altissimi costi: la
società guatemalteca per l'energia, INDE, dovette comprare
carburante per la produzione di energia aumentando il già
consistente debito estero del paese. Nonostante ciò Banca
Mondiale e cooperazione italiana continuarono a finanziare
un'opera voluta dalla dittatura militare guatemalteca, che
costò la repressione e l'uccisione di centinaia di
contadini indigeni della regione di Alta Verapaz. I costi per la
costruzione di Chixoy arrivarono a pesare per un 40% sul debito
estero del paese.
Per protestare contro la costruzione di grandi dighe migliaia di
persone hanno negli ultimi anni manifestato in tutto il mondo,
creando un vero e proprio movimento che, a partire dall'India si
è collegato con associazioni ed ONG nel nord e nel sud del
pianeta. La mobilitazione internazionale ha costretto la Banca
Mondiale ad istituire l'Inspection Panel, un organismo interno
alla Banca, che per mandato svolge ispezioni e formula rapporti
indipendenti. Esso può essere convocato dalle
organizzazioni delle popolazioni locali che hanno subito gli
effetti di progetti finanziati dalla Banca. Fino ad arrivare nel
1997 alla "Dichiarazione di Curitiba delle Popolazioni Colpite
dalle Grandi Dighe", dichiarazione firmata da tutte le
associazioni che nel mondo lavorano per bloccare progetti
distruttivi, che riafferma il diritto alla vita e alla terra
delle persone colpite dalle dighe. Di seguito riportiamo alcuni
estratti della Dichiarazione di Curitiba: L'impatto delle dighe:
... le dighe ovunque costringono le persone a lasciare le loro
case, sommergono terre coltivabili fertili, foreste e luoghi
sacri, distruggono riserve ittiche e di acqua pulita, provocano
disintegrazione sociale e culturale ed impoveriscono le
comunità. .... Le dighe sono quasi sempre costate
più di quanto era stato previsto, anche senza considerare
i costi sociali e ambientali. Le dighe hanno prodotto meno
energia elettrica ed irrigato meno terra di quanto promesso.
Hanno provocato, invece di limitarle, inondazioni anche
più distruttive. Le dighe hanno portato benefici ai
latifondisti, alle multinazionali dell'agroindustria ed agli
speculatori. Hanno sottratto proprietà ai piccoli
contadini, ai lavoratori rurali, ai pescatori, alle
comunità tribali, indigene e tradizionali. Le richieste:
... chiediamo una vera democrazia che preveda la partecipazione
pubblica e la trasparenza nelle fasi di identificazione e di
attuazione delle politiche energetiche e delle acque, di pari
passo con il decentramento del potere politico ed il
rafforzamento delle comunità locali. Dobbiamo ridurre
l'ineguaglianza, con misure che prevedano un equo accesso alla
terra. Insistiamo anche sui diritti inalienabili delle
comunità a controllare e gestire l'acqua, la terra, le
foreste, le altre risorse e sul diritto di ogni persona ad un
ambiente sano. ... Dobbiamo lavorare per una società dove
gli esseri umani e la natura non siano più ridotti alle
logiche di mercato, in cui l'unico valore è quello delle
merci e l'unico fine il profitto. Dobbiamo tendere ad una
società che rispetti la diversità e che sia basata
su relazioni eque e giuste tra le persone, le regioni e le
nazioni. ... Chiediamo che i governi, le agenzie internazionali e
gli investitori attuino un'immediata moratoria sulla costruzione
di grandi dighe fino a che:
a) venga impedita ogni forma di violenza ed intimidazione contro
le persone interessate dalle dighe e contro le organizzazioni che
si oppongono ad esse;
b) vengano accordati risarcimenti che prevedano terre, case ed
infrastrutture sociali, che vengano negoziati con i milioni di
persone la cui vita è stata modificata dalla costruzione
delle dighe;
c) vengano intraprese azioni per ripristinare gli ambienti
naturali danneggiati dalle dighe - anche quando questo comporti
la rimozione delle dighe stesse;
d) vengano pienamente rispettati i diritti territoriali delle
popolazioni indigene, tribali, semi tribali e tradizionali
interessate dalle dighe, assegnando territori che permettano loro
di recuperare le condizioni culturali ed economiche precedenti -
questo può anche comportare la rimozione delle dighe
stesse. Il processo di privatizzazione che viene imposto ai paesi
in molte parti del mondo dalle istituzioni multilaterali sta
aumentando l'esclusione e l'ingiustizia sociale, economica e
politica.
Noi non accettiamo la tesi secondo cui questo percorso è
una soluzione alla corruzione, all'inefficienza e ad altri
problemi nel settore energetico ed idrico dove questi sono sotto
il controllo dello stato. La nostra priorità è il
controllo pubblico democratico ed effettivo e la regolamentazione
delle entità che forniscono energia elettrica ed acqua in
modo che vengano garantiti i bisogni e le aspettative delle
persone.
Il moderno programma dei diritti umani si indirizza in maniera
preponderante ai diritti ed alle libertà individuali,
cioè quelli goduti da ogni essere umano personalmente,
lasciando in ombra quelli collettivi, cioè quelli degli
individui in rapporto l'uno con l'altro in quanto
comunità, gruppo, minoranza o popolo. L'analisi svolta in
questo rapporto si concentrerà su questi ultimi
poiché riteniamo che le violazioni dei diritti umani che
sono state perpetrate sulle popolazioni indigene presenti nelle
aree di costruzione delle dighe siano meglio inquadrabili
prendendo in considerazione la dimensione collettiva delle
attività economiche, culturali e sociali che hanno
risentito di questi progetti. I diritti collettivi si trovano
però appena abbozzati negli strumenti internazionali in
vigore ed il godimento dei diritti umani da parte dei popoli
indigeni in particolare è tutelato direttamente solo da
pochi anni. Esiste infatti un unico strumento attualmente in
vigore: la Convenzione n. 169 dell'Organizzazione Internazionale
del Lavoro del 1989, Convezione su popoli indigeni e tribali in
stati indipendenti. Essa risente di alcuni limiti: tra i
più importanti quello di essere stata ratificata da un
esiguo numero di stati e di non essere sottoposta a procedure
adeguate di applicazione e monitoraggio; l'elaborazione, inoltre,
è avvenuta in ambito internazionale ONU e anche se alcuni
gruppi indigeni hanno partecipato indirettamente ai lavori per la
sua elaborazione,[5] non è uno
strumento elaborato da coloro che ne saranno i beneficiari; la
Convenzione inoltre non stabilisce il diritto
all'autodeteminazione dei popoli indigeni e non attribuisce loro
la qualifica di "popoli".
Coscienti quindi dei limiti dell'unico strumento in vigore,
abbiamo deciso di ampliare il nostro quadro di riferimento
giuridico. Abbiamo utilizzato quindi, oltre alla Convenzione 169,
anche uno strumento che è in corso di approvazione
all'interno di un forum ad hoc: la Dichiarazione Universale dei
Diritti delle Popolazioni Indigene, che, se ratificata,
diverrebbe l'unico strumento di valore universale. Le differenze
fondamentali tra i due strumenti sono le procedure di
approvazione e le modalità con le quali questi assumono
validità come strumento di diritto internazionale. Mentre
la Convenzione, approvata dall'ILO, per essere utilizzata deve
essere ratificata dagli stati e recepita dalla legislazione
nazionale, la Dichiarazione promulgata dalla Commissione dei
Diritti dell'Uomo e dall'Assemblea generale dell'ONU, assumerebbe
validità immediata come strumento di diritto
internazionale, con valore di indirizzo generale per la
comunità internazionale. Ci siamo anche riferiti ai
documenti elaborati dalla Fondazione Internazionale Lelio Basso e
durante le sessioni del Tribunale Permanente dei Popoli. Pur non
essendo questi ultimi tra i tipici strumenti di diritto
internazionale, riteniamo che il tentativo di promuovere nuovi
standard internazionali e nuove regole giuridiche da immettere
come principi nel corpus del diritto umanitario trovi in essi
un'importante espressione. Gli strumenti utilizzati nel rapporto
* La Convenzione n.169[6] approvata nel 1989
dall'ILO e in vigore dal 1991 è al momento ratificata da
14 stati (tra i quali Argentina, Paraguay e Guatemala).
Essa stabilisce alcuni diritti delle popolazioni indigene che
vanno dai diritti civili ed amministrativi al diritto alla non
discriminazione nelle sfere del "social welfare", al diritto alla
sicurezza sul lavoro ed alla sanità. La parte centrale,
sicuramente la più interessante ed innovativa, riguarda il
diritto alla terra e alle risorse, la tutela del loro valore
spirituale e culturale, il diritto ad essere consultati nei
processi di sviluppo e di goderne i benefici e regola lo
spostamento forzato e il diritto di ritorno. Questa convenzione
è considerata un punto di riferimento dalle organizzazioni
indigene internazionali, con i limiti cui abbiamo accennato e che
approfondiremo in seguito. Essa soffre in particolare gli effetti
di un complesso processo di ratifica da parte degli stati che,
per includerla all'interno della legislazione nazionale, dovranno
emendare sostanzialmente la loro Costituzione. Inoltre il livello
di applicazione da parte degli stati che l'hanno ratificata
è tuttora insoddisfacente.
* La Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli Indigeni[7] è stata approvata dal Working Group
on Indigenous Populations (WGIP) nel 1993. È un gruppo di
lavoro tra esperti ONU e rappresentanti indigeni, appartenenti ad
organizzazioni accreditate all'ONU e non, che dal 1980 si sono
riuniti annualmente per una settimana l'anno nella sede delle
Nazioni Unite. Ciononostante la Dichiarazione, dopo 13 anni di
lavoro congiunto, non è ancora parte del diritto
internazionale. Per la sua approvazione definitiva da parte delle
Nazioni Unite è necessario che segua la procedura
abituale: venga cioè di nuovo discussa e approvata in sede
di Commissione per i Diritti dell'Uomo e in Assemblea Generale.
Al momento un'approvazione non sembra imminente, almeno nei
termini auspicati dai rappresentanti dei popoli indigeni.. La
Dichiarazione Universale, per la sua chiarezza circa il
riconoscimento del diritto all'autodeterminazione dei popoli
indigeni e per il particolare processo di elaborazione che ha
seguito (con un'ampia partecipazione dei gruppi indigeni che si
sono avvicendati nel corso degli anni) resta comunque un
importante strumento di riferimento nel contesto
internazionale.
* La Carta sui Rischi Industriali e i Diritti Umani[8] è stata redatta a seguito della
sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli sul caso Bhopal
(1994) e approvata nel 1996. In questa Carta sono riportati
diritti di applicazione generale tra i quali: non discriminazione
per i gruppi più svantaggiati sul lavoro e nella
comunità, responsabilità delle compagnie
transnazionali, diritto di organizzazione in un contesto
lavorativo sotto controllo, diritto di rifiuto, e diritto alla
sovranità permanente sugli ambienti di vita. Essi vanno
utilizzati per l'analisi di situazioni ad alto rischio
industriale. All'interno di questa Carta sono poi definiti in
particolare i "Diritti delle Comunità": diritto ad un
ambiente di vita libero da rischi, all'informazione ambientale,
all'educazione comunitaria, al riconoscimento e gestione del
rischio, alla partecipazione al monitoraggio ambientale, ad
intentare azioni legali per il riconoscimento e la denuncia delle
responsabilità.[9]
* La Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli (Carta di
Algeri), è stata elaborata dalla Fondazione Internazionale
Lelio Basso per il Diritto e la Liberazione dei Popoli nel 1976.
Essa non si rivolge in particolare ai popoli indigeni ma
bensì ai movimenti di liberazione nazionali, per i quali
era stata concepita. Sin dall'inizio la Carta di Algeri ha
costituito un importante punto di riferimento nell'elaborazione
dei nuovi standard del diritto internazionale riguardo ai diritti
collettivi, dei popoli e all'autodeterminazione. Riteniamo che il
diritto all'autodeterminazione dei popoli in essa contenuto
assuma nel contesto attuale un significato di indirizzo generale.
Questo diritto viene infatti riferito - nelle riformulazioni in
corso a cura della Fondazione Internazionale Lelio Basso - ai
diritti economici e culturali dei popoli e alla riconsiderazione
del ruolo che gli stessi popoli e gli stati svolgono nel quadro
della globalizzazione e dell'espansione indiscriminata dei
mercati finanziari.
* I Protocolli Addizionali alla Convenzione sulla Prevenzione e
la Repressione del Crimine di Genocidio (1948) proposti dalla
Fondazione Internazionale Lelio Basso nel 1993 sono il risultato
della riflessione di una commissione di giuristi internazionali
sui lavori del seminario "Il concetto del genocidio oggi e nella
Convenzione del 9 dicembre del 1948" tenutosi a Napoli nel
dicembre 1993. I Protocolli, che sono stati poi trasmessi dalle
Nazioni Unite come raccomandazione agli stati, rivedono
l'articolo II della Convenzione sul Genocidio del 1948, che
prevede l'intenzionalità della distruzione fisica di un
gruppo come criterio di colpevolezza. Essi inoltre allargano la
rosa degli atti considerati crimini dalla Convenzione sul
Genocidio, includendo la distruzione delle possibilità di
autoriproduzione tradizionale o culturale di un gruppo etnico.
Riferimenti al particolare rapporto che le popolazioni indigene
hanno con l'ambiente e con il territorio e la tutela della
gestione comunitaria delle risorse si trovano anche in altri
documenti internazionali, che pertanto abbiamo tenuto in
considerazione. Per quanto riguarda il diritto delle
comunità ad un ambiente sano ed alla sua conservazione
abbiamo utilizzato gli strumenti più recenti elaborati a
partire dai lavori della Conferenza Mondiale su Sviluppo ed
Ambiente di Rio de Janeiro del 1992,[10] che
sono frutto dell'elaborazione scientifica, culturale e giuridica
maturata nei decenni precedenti:
* La Dichiarazione di Rio raccoglie in 27 princìpi le
preoccupazioni e le intenzioni dei paesi firmatari con
l'obiettivo di "... una nuova ed equa collaborazione mondiale con
la creazione di nuovi livelli di cooperazione tra stati, settori
chiave della società e dei popoli, lavorando con accordi
internazionali che rispettino gli interessi di tutti e proteggano
l'integrità dell'ambiente globale e del sistema evolutivo,
riconoscendo la natura integrata ed interdipendente della Terra,
nostra casa ...". Alle popolazioni indigene, e al loro ruolo
nella gestione ambientale e nello sviluppo, la Dichiarazione di
Rio dedica il principio 22.
* L'Agenda 21 elenca in 40 capitoli le azioni che gli stati
dovranno immediatamente iniziare ed i buoni propositi per il
prossimo millennio, per integrare le considerazioni ambientali e
lo sviluppo sostenibile nei processi decisionali. Essa prevede,
tra gli altri, un capitolo specifico sulla protezione delle
popolazioni indigene (il cap. 26), sulla lotta alla
povertà (cap.3), sulla conservazione della
biodiversità (cap. 15), sulla protezione e la gestione
delle acque (cap. 18) e sulla scienza per lo sviluppo sostenibile
(cap. 35).
* La Convenzione sulla Biodiversità, un altro degli
strumenti elaborati a Rio, è mirata alla salvaguardia
della più importante ricchezza dell'ambiente naturale: la
diversità delle specie nei diversi ecosistemi. Gli
obiettivi della Convenzione sono "... la conservazione della
diversità biologica, l'uso sostenibile delle sue
componenti, la giusta ed equa divisione dei benefici che derivano
dalle risorse genetiche ...". Al di là della concreta
applicazione della Convenzione e del dibattito suscitato - che si
è concentrato sull'accesso alle risorse genetiche e sul
trasferimento di tecnologia in un confronto tra nord e sud del
mondo - utilizzeremo questo strumento per la valutazione delle
violazioni dovute agli impatti negativi sull'ambiente causate
dalla mancata considerazione dei valori d'uso sostenibile della
diversità biologica. Per il diritto alla salute ci siamo
riferiti allo statuto dell'Orgenizzazione Mondiale della
Sanità e ai documenti elaborati nelle conferenze europee
ed internazionali organizzate dall'OMS e dalle Nazioni Unite sul
tema ambiente e salute. In particolare abbiamo utilizzato:
* La Costituzione della OMS che, in quanto agenzia delle Nazioni
Unite si pone l'obiettivo di "favorire il conseguimento dei
più alti livelli possibili di salute" per tutte le
persone, per l'analisi delle violazioni del diritto alla
salute.
* La Carta Europea dell'OMS, come riferimento per le violazioni
del diritto alla salute che derivano dalle violazioni dei diritti
e della tutela dell'ambiente. La prima Conferenza Europea su
Ambiente e Salute dell'OMS tenutasi nel 1989, ha adottato questa
Carta che detta i principi fondamentali del rapporto tra ambiente
e salute, tenendo conto delle indicazioni della Commissione
Mondiale su Ambiente e Sviluppo (World Commission on Environment
and Development).[11]
L'integrazione tra norme ambientali e sanitarie è un tema
di grande attualità, oggetto di uno specifico lavoro di
approfondimento nell'ambito delle convenzioni ed accordi
internazionali, ed è stata oggetto di una risoluzione
delle Nazioni Unite.[12] Anche la Banca Mondiale ha adottato nel
corso degli anni '90 precisi standard di riferimento da
utilizzare quando un progetto coinvolge le popolazioni indigene o
ha un impatto sociale o sull'ambiente significativo. Nel corso
della trattazione verranno analizzate le violazioni a questa
normativa interna, in particolare alle: * Direttive Operative
della Banca Mondiale[13] che regolamentano la gestione di
progetti che hanno delle ricadute sulle popolazioni indigene o
che ne prevedono il reinsediamento forzato (Direttiva Operativa
4.20 e Direttiva Operativa 4.30). Tali standard, sono considerati
di alto livello di tutela per l'ambiente e le popolazioni locali.
Un accenno verrà anche fatto ai processi di revisione di
questi standard in corso all'interno della Banca dal 1995
circa.[14] "Diritti Indigeni" e "Diritti dei Popoli" La tutela
internazionale dei diritti collettivi, etnici e culturali passa
poi anche attraverso il rispetto dell'ordinamento giuridico
tradizionale indigeno da parte della società nazionale e
dei suoi apparati legali e giuridici. Perciò abbiamo
deciso di dedicare alcuni paragrafi specifici alla legislazione
sulle popolazioni indigene degli stati nei quali le dighe sono
state costruite. L'uso del termine "indigeno" ha suscitato un
complesso dibattito internazionale tuttora aperto in
organizzazioni quali l'ILO, l'ONU e la stessa Banca
Mondiale.
Le difficoltà riguardano in particolare la definizione e
l'uso del termine. La portata del termine "indigeno"
definirà infatti anche il numero dei soggetti da tutelare,
i diritti da rispettare e le azioni da intraprendere nei progetti
di sviluppo e di sfruttamento delle risorse. Il dibattito sembra
orientarsi al momento verso un riconoscimento del criterio di
autodefinizione dei soggetti. In questo senso gli stessi gruppi
indigeni hanno a lungo insistito affermando che un potere statale
che classifichi dei gruppi come non indigeni è anche un
potere in grado di estinguerne i diritti. La definizione è
importante anche per l'applicazione del diritto internazionale
all'interno degli stati. Molti governi non riconoscono
l'esistenza di popolazioni indigene e in questo modo non
consentono l'appello alla Convenzione 169 o agli altri strumenti
di tutela. In questi casi risulta addirittura fondamentale il
ruolo di monitoraggio preliminare da parte di organismi quali la
la Banca Mondiale. Se applicate correttamente infatti, le linee
guida della Banca impongono l'identificazione dei gruppi e la
realizzazione di piani specifici di tutela, cui vincolare ogni
successiva fase attuativa in caso di presenza di indigeni
nell'area dei progetti.
Senza addentrarci nei particolari della discussione aperta sulla
definizione, riportiamo di seguito i criteri definitori adottati
in alcuni degli strumenti che abbiamo preso in
considerazione:
- La Convenzione dell'ILO si applica alle "popolazioni tribali
... le cui condizioni sociali, culturali ed economiche li
distinguono da altri settori della comunità nazionale e a
coloro il cui status è regolato interamente o parzialmente
dai loro propri costumi o tradizioni o leggi o regole speciali".
Sono indigeni anche "... a motivo della loro discendenza dalle
popolazioni che abitavano il paese al momento della conquista o
della colonizzazione o della creazione delle presenti frontiere e
che, a dispetto del loro status legale, mantengono almeno alcune
delle loro istituzioni sociali, economiche culturali e
politiche". La Convenzione stabilisce inoltre che "il criterio
dell'autodefinizione ... deve essere considerato come
fondamentale..."(art.1).
- La Dichiarazione Universale del Working Group on Indigenous
Peoples, coerentemente con il riconoscimento dell'autodefinizione
come criterio, non incorpora una definizione specifica. Lo
"Studio sul problema della discriminazione sulle popolazioni
indigene" condotto dal WGIP nel 1986 considera comunità
indigene quelle che "con continuità storica..... si
considerino distinte dagli altri settori delle società
...e determinate a preservare, sviluppare e trasmettere alle
generazioni future i loro territori ancestrali e la loro
identità etnica. La Direttiva Operativa 4.20 della Banca
Mondiale adotta un criterio più economico sociale e meno
storico: "gruppi sociali con una identità sociale
culturale distinta da quella della società dominante che
li rende vulnerabili e svantaggiati nel processo di sviluppo".
Inoltre: "a causa dei differenti e mutevoli contesti... una
singola definizione non può racchiudere la loro
diversità. I popoli indigeni sono comunemente tra i
segmenti più poveri della popolazione. Possono essere
identificati dalla presenza in vari gradi delle seguenti
caratteristiche:
a) un forte legame con i territori ancestrali e le risorse;
b) autoidentificazione e identificazione da parte degli altri
come membri di un gruppo culturale distinto;
c) una lingua indigena;
d) presenza di istituzioni politiche e sociali
tradizionali;
e) produzione primaria orientata alla sussistenza".
Il dibattito sulla definizione si intreccia a filo doppio con
quello sulla definizione delle popolazioni indigene come
"popoli". La tutela dei diritti umani collettivi
internazionalmente riconosciuti è infatti limitata nella
pratica dalla non attribuzione chiara ai gruppi indigeni di
questa qualifica e del diritto all'autodeterminazione che ne
deriva. Il diritto all'autodeterminazione dei popoli è
stabilito da alcuni strumenti internazionali di tutela e trova la
sua massima espressione nella Carta delle Nazioni Unite oltre che
nella Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli[15] precedentemente citata. Come vedremo nel
primo capitolo la Convenzione 169, unico strumento attualmente in
vigore per la tutela dei diritti dei popoli indigeni, non
riconosce in forma esplicita alle popolazioni indigene né
il diritto ad essere definite popoli né il diritto
all'autodeterminazione. Questo fatto non permette una
formalizzazione giuridica cui appellarsi a livello
internazionale. Tale condizione contribuisce a ridimensionare in
partenza qualsiasi considerazione dei popoli indigeni in
riferimento alle violazioni del diritto di autodeterminazione
stabilito dalla Carta di Algeri del 1976, anche se all'interno
dell'ONU vi sono stati alcuni autorevoli studi o seminari che si
sono pronunciati in suo favore. Il perché questa
attribuzione continui a non incontrare un'universale accettazione
è facilmente intuibile; il moderno diritto internazionale
accorda tre specie di diritti umani collettivi ai popoli (e non
alle "popolazioni" o alle "minoranze", termini con i quali sono
tuttora identificati gli indigeni nelle istanze internazionali):
il diritto all'esistenza fisica, il diritto
all'autodeterminazione e il diritto ad utilizzare le risorse
naturali. I due principi fondamentali che hanno invece guidato la
nostra analisi sono stati:
1) la considerazione dei diritti delle popolazioni indigene nella
più vasta categoria dei diritti collettivi riferiti ad un
fenomeno etnico particolare (diritti etnici e culturali);
2) l'attribuzione alle popolazioni indigene della qualifica di
"popoli" e il conseguente riferimento a quegli strumenti che
ufficialmente la riconoscono.
La fase di pianificazione di una diga è legata a considerazioni politiche, economiche e culturali. Gli elementi principali sono: la scelta da parte dei governi di un modello di sviluppo basato sulla presenza di fonti energetiche concentrate, che in genere implica l'esistenza di poli industriali, le scelte delle agenzie di finanziamento, che influiscono sulle scelte dei paesi e ne determinano il futuro assetto economico, e la presenza dei potenti interessi politici ed economici delle imprese costruttrici di dighe, che contribuiscono ad evitare di prendere in considerazione possibili modelli alternativi.[16] Le violazioni che intervengono in questa fase sono conseguenza del mancato riconoscimento dei diritti delle comunità locali ed indigene, in particolare del diritto di decidere quali progetti vogliono sviluppare sul territorio. Alla radice vi è il diritto fondamentale ad essere considerate soggetti politici e quindi ad agire in maniera conseguente. Il mancato riconoscimento della qualifica di Popoli e dei diritti di autodeterminazione che ne derivano è la causa principale di molte delle violazioni di diritti umani, etnici e culturali cui le comunità vanno incontro. La negazione del diritto delle popolazioni di decidere sull'uso delle risorse naturali genera, a sua volta, gravi ripercussioni sull'ambiente e sulle condizioni di vita. Le violazioni che intervengono in questa fase sono così importanti che le abbiamo considerate causa di tutte le altre identificate nelle fasi successive dei progetti. In questa fase il mancato rispetto delle normative interne degli enti finanziatori e di quelle internazionali di tutela dell'ambiente genera i presupposti dei disastri ambientali che avranno il loro culmine nei momenti successivi.
La costruzione della diga sul fiume Paranà, al confine
tra Argentina e Paraguay, venne decisa nel 1973, con il Trattato
di Yacyretà, firmato dal Presidente Peron e dal dittatore
paraguaiano Stroessner. Il Trattato stabilì la creazione
della Entitad Binacional Yacyretà (EBY), cui venne
attribuita "... la competenza giuridica, finanziaria e
amministrativa, insieme alla responsabilità tecnica per lo
studio, la progettazione, la gestione e l'esecuzione dei
lavori".[17] Le sedi della EBY, a Buenos Aires, Asunciòn,
Posadas ed Encarnaciòn sarebbero state responsabili del
reinsediamento della popolazione dell'area interessata dal futuro
bacino della diga. Lo scopo era quello di produrre energia
elettrica per l'Argentina, che avrebbe pagato le spese della
costruzione e guidato il progetto garantendo i prestiti
internazionali. Nel 1983 la EBY annunciò la firma di un
contratto da 1,4 miliardi di dollari per i lavori civili affidati
al consorzio ERIDAY-UTE: United Enterprises Impregilo-Dumez and
Associated for Yacyretà-Transitory Union of Enterprises.
L'italiana Impregilo e la francese Dumez si erano aggiudicate il
contratto sette anni dopo la gara d'appalto. La Banca Mondiale e
l'Inter-American Development Bank, impegnarono nell'anno 1980
rispettivamente 900 milioni e 840 milioni di dollari per la
costruzione della diga. La gara per le turbine dell'impianto
idroelettrico venne vinta da un consorzio tra l'americana Allis
Chalmers e la britannica Boving, già consorziata con
l'argentina IMPSA. In un rapporto della Banca Mondiale del
1996[18] troviamo alcuni elementi utili per valutare la fase di
pianificazione. Le alternative possibili per la produzione
energetica vennero del tutto ignorate, in particolare l'esistenza
di ampie riserve di gas naturale nella regione di Salta, scoperte
prima dell'inizio dei lavori per la diga.[19] Il fabbisogno
energetico dell'Argentina venne deliberatamente
sopravvalutato.[20]
L'analisi economica e la valutazione dei costi fu del tutto
errata: i costi del progetto aumentarono infatti di 4 volte per
la parte ingegneristica e 7 volte per la parte amministrativa. Di
conseguenza il costo finale della energia prodotta risultò
tre volte più alto del costo medio internazionale. I
lavori, il cui termine era previsto per il 1990, sono tuttora in
corso. Yacyretà è stata definita dall'attuale
Presidente Carlos Menem come "un monumento alla corruzione",
considerato l'enorme aumento dei costi in tutto il lungo periodo
dalla gara d'appalto alla fine dei lavori. Secondo il Performance
Audit Report della Banca Mondiale (una valutazione finale del
progetto) "sulla base di quanto esaminato si conclude che
Yacyretà non era la soluzione a minor costo per espandere
la capacità di produzione elettrica del paese e la sua
importanza nel paese è stata irrilevante rispetto alle
priorità. In varie occasioni la Banca avrebbe avuto la
possibilità di bloccare il progetto prima che i principali
lavori ingegneristici fossero troppo avanzati".[21]
Il riempimento della diga, terminata nel 1994, è stato
bloccato ad un livello di 76 mt. slm., a causa dei problemi
insorti con le persone da spostare nella zona, mentre il progetto
prevedeva un'altezza di 83 mt. La popolazione locale,
rappresentata dalla Organizzazione Non Governativa Sobrevivencia
ha presentato nel 1996 un ricorso all'Inspection Panel della
Banca Mondiale.[22] Nel ricorso si denuncia la violazione di
politiche e linee guida della Banca Mondiale in tema di
reinsediamento, valutazione di impatto ambientale, popolazioni
indigene, supervisione dei progetti, valutazione e
monitoraggio.[23] Banca Mondiale e governo non hanno svolto
alcuna consultazione con le comunità locali nelle fasi
preliminari dell'accordo del '73 per la costruzione della diga.
Solo dopo 10 anni sembra siano avvenuti alcuni incontri tra l'EBY
e alcune organizzazioni indigene[24] ai quali parteciparono anche
degli esperti della Interamerican Development Bank. Questi
incontri, sull'entità e la qualità dei quali non si
hanno notizie chiare, non possono essere considerati
consultazioni, anche perché manca qualsiasi tipo di
documentazione da parte di EBY e IDB. I risultati di tali
incontri non hanno comunque mai condotto ad alcuna revisione del
progetto. La popolazione coinvolta: le comunità locali di
Argentina e Paraguay e i Mbya Guaranì La diga, costruita
tra i due stati di Argentina e Paraguay ha avuto effetti negativi
soprattutto in territorio paraguaiano. Circa 13.000 persone sono
già state direttamente coinvolte dal riempimento del
bacino, sulle 52 mila inizialmente previste, per la maggior parte
paraguaiane; come vedremo questa cifra aumenterà
notevolmente nel corso del progetto.[25]
Secondo le stime iniziali della Banca Mondiale circa 10.400
famiglie si sarebbero dovute trasferire altrove. Il riempimento
totale del bacino della diga di Yacyretà
coinvolgerà soprattutto la popolazione urbana che vive
nella pianeggiante area di Encarnaciòn (la seconda
città del Paraguay con 55.000 abitanti) e in quella simile
di Posadas (la capitale della provincia argentina di Misiones,
220.000 abitanti). Una popolazione indigena di etnia
Guaranì sopravvissuta in questa zona del Sud America vive
a cavallo dei due stati. Il gruppo Mbya Guaranì viveva
sulle isole del fiume Paranà che sono state attualmente
coperte dal bacino. Il gruppo ha lasciato le isole già
all'inizio della costruzione della diga, disperdendosi nel
territorio (principalmente insediandosi nelle città di
Posadas ed Encarnaciòn) e, nell'ambito dei piani di
reinsediamento, è stato poi "recuperato" in piccola parte
e sistemato in una nuova area nel 1989. Le informazioni che
abbiamo sulla situazione dei Mbya Guaranì coinvolti dal
progetto di Yacyretà prima, durante e dopo la costruzione
della diga, sul loro reinsediamento, sulle compensazioni e sulle
attuali condizioni di vita sono poche ed indirette. Il ricorso
all'Inspection Panel non approfondisce il caso dei Mbya
Guaranì, mentre se ne trova notizia in alcuni carteggi tra
Banca Mondiale e l'organizzazione paraguaiana Sobrevivencia,
precedenti alla presentazione del ricorso. Altre informazioni
provengono direttamente da funzionari della Banca Mondiale, da
documenti interni e da alcuni rapporti presentati alla Banca
Mondiale, all'IDB e all'EBY da organizzazioni che sostengono le
popolazioni indigene.[26]
Nel 1993, nell'ambito dell'accordo sul prestito concesso da WB a
EBY, venne commissionato uno studio sull'impatto sociale e
antropologico del progetto di Yacyretà sulle popolazioni
indigene. Avrebbe dovuto precedere ogni decisione sullo
stanziamento di fondi per il completamento della diga, fornendo
dati fondamentali per valutare l'impatto sulla popolazione. A
tutt'oggi però questo documento non è stato reso
pubblico né sembra che la Banca Mondiale sia disponibile a
renderne note le conclusioni. Secondo le informazioni a nostra
disposizione lo studio prevede una spesa elevata per le
compensazioni alle popolazioni indigene reinsediate e da
reinsediare, che la Banca Mondiale ritiene inaccettabile;
presenta poi un'analisi dettagliata delle condizioni sociali e
culturali delle popolazioni reinsediate dopo il 1987 ed evidenzia
molti problemi, tra i quali il progressivo abbandono della lingua
tradizionale, la mancanza di accesso alle risorse naturali, la
perdita delle coltivazioni tradizionali, la mancanza di
assistenza tecnica ed il deterioramento precoce delle case
concesse come misura di compensazione. Il caso dei Mbya
Guaranì viene inserito nel più vasto contesto della
situazione delle popolazioni indigene a livello nazionale ed
incluso in un Piano Nazionale di Recupero dei gruppi
indigeni.[27] L'Argentina ed i diritti delle popolazioni indigene
I diritti delle popolazioni indigene in Argentina sono oggi
riconosciuti sia a livello centrale che provinciale. La
Convenzione Costituente che nel 1994 riformò la
Costituzione dell'Argentina incluse infatti il riconoscimento da
parte dello stato dell'esistenza dei popoli indigeni e dei loro
diritti in quanto cittadini argentini. Nel capitolo della nuova
Costituzione riferito alle attribuzioni del Parlamento, l'art. 75
comma 17 recita: "Riconoscere la preesistenza etnica e culturale
dei popoli indigeni argentini. Garantire il rispetto alla loro
identità, il diritto ad un'educazione bilingue ed
interculturale, riconoscere la personalità giuridica delle
sue comunità, il possesso e la proprietà collettiva
delle terre che occupano tradizionalmente e regolare lo
svolgimento di altre azioni sufficienti per lo sviluppo umano.
Nessuna di esse sarà inalienabile, trasmissibile o
suscettibile di ipoteche o divieti. Assicurare la loro
partecipazione alla gestione delle loro risorse naturali e delle
altre questioni che li riguardano. Le province possono esercitare
queste attribuzioni".
I Mbya Guaranì dell'Argentina coinvolti dal progetto
Yacyretà, risiedono nella provincia di Misiones le cui
autorità amministrative si sono rese responsabili , dal
1988, di costanti violazioni dei diritti indigeni. Questa
provincia del nord-est dell'Argentina detiene oggi il record per
violazioni dei diritti e repressione delle comunità
indigene del Popolo Guaranì. Una legge provinciale (la
2435) emanata nel 1989 concede semi autonomia ai Guaranì e
dispone la restituzione delle terre ancestrali (con un'estensione
stimata di oltre 350.000 ha.) garantendo una rappresentanza
presso il governo provinciale e prevedendo l'attuazione di piani
speciali di sviluppo, educazione e residenza. Questa legge
è stata accolta con favore dalle comunità
Guaranì, poiché riconosce il loro sistema politico,
sociale, culturale ed economico tradizionale ed il loro diritto
di piena partecipazione alle decisioni che li riguardano. Non ha
purtroppo avuto alcun esito se non quello di una restituzione
puramente nominale di alcune terre (concesse con le leggi 2627,
2704 e 2900). La demarcazione dei 18.000 ha (nominalmente
restituiti) non è mai avvenuta a causa dei numerosi
conflitti tra coloni e compagnie del legname e di conflitti
giurisdizionali, mentre non sono neppure stati concessi i titoli
di proprietà previsti dalla legge. Negli ultimi anni una
nuova legge (la 2727) o "Nueva Ley del aborigen" ha rimpiazzato
la 2435 stabilendo, secondo le parole degli stessi
Guaranì, un regime di "apartheid" ("Acta de la Asamblea de
Comunidades Indigenas del Pueblo Guaranì" 11-12 November
1995). La "Nueva Ley del aborigen" stabilisce infatti la tutela
ed il controllo dello stato attraverso la direzione Provinciale
degli Affari Guaranì, che esercita ora un controllo
diretto su tutte le comunità della provincia, e si occupa
anche dello spostamento forzato di comunità (senza
richiedere il loro consenso). Quest'ultima legge, al cui iter non
hanno partecipato le comunità indigene locali, è in
contraddizione con la nuova Costituzione nazionale e con la
legislazione nazionale ed internazionale sui diritti indigeni
vigente in Argentina (Legge nazionale 23302, Convenzioni n. 107 e
169 dell'OIL, i Patti e la Normativa Internazionale sui Diritti
Umani).
Il Paraguay ed i diritti delle popolazioni indigene
Il Paraguay ha una popolazione di quattro milioni di abitanti,
70.000 dei quali sono indigeni, divisi in 17 gruppi etnici.
Nonostante la terra sia stata invasa e la loro sussistenza
seriamente minacciata, sono stati "... quasi completamente
abbandonati dal governo e costretti a sopravvivere come forza
lavoro stagionale e sottopagata (Stephen W. Kidd: "Total
disregard for the indigenous peoples in Paraguay" Indigenous
Affairs n.4, 1996). Gravi sono le conseguenze di questa
emarginazione sociale. Gli indigeni sono esposti a gravi forme di
malnutrizione e di tubercolosi, con incidenza più elevata
rispetto al resto della popolazione. Gli indigeni ricevono salari
inferiori al minimo legale e non hanno garanzie sociali di
assistenza e sicurezza; i detenuti indigeni sono quelli che
attendono più a lungo il processo in carcere. Ancor
più grave è l'impossibilità di accedere alle
terre tradizionali, anche se secondo la legislazione del Paraguay
il governo dovrebbe garantire alle popolazioni indigene un titolo
sulla terra dove vivono. Il diritto derivava da un decreto del
1825 con il quale si richiedeva a tutti i cittadini del Paraguay
di presentare i titoli per le terre che occupavano. Le terre
senza titoli di proprietà (quelle delle popolazioni
indigene) vennero in questo modo dichiarate automaticamente
proprietà dello stato. L'attitudine del governo nei
confronti delle popolazioni indigene è sorprendente,
considerando la cornice legale elaborata per proteggerne i
diritti. Essa garantisce alle popolazioni indigene del Paraguay
diritti alla terra, alla salute, all'educazione, alla
libertà dallo sfruttamento, la protezione e lo sviluppo
della loro cultura: è considerata una delle più
avanzate in tutta l'America Latina. La Costituzione paraguaiana
(adottata nel 1992 dopo la caduta del dittatore Alfredo
Stroessner), contiene le seguenti disposizioni:
art. 63 " deve essere garantito alle popolazioni indigene del
Paraguay, il diritto a preservare e sviluppare la loro
identità etnica nel loro proprio habitat";
art. 64 "le popolazioni indigene del Paraguay hanno il diritto a
possedere la terra in quantità e qualità
sufficienti per la conservazione e lo sviluppo dei loro
particolari modi di vita. Lo Stato dovrà fornire tali
terre gratuitamente...
Il trasferimento della proprietà di queste terre è
proibito senza il consenso espresso delle popolazioni indigene".
Nel 1993, inoltre, il Paraguay ha sottoscritto la Convenzione 169
dell'ILO che stabilisce il diritto delle popolazioni indigene
alla terra che "occupano tradizionalmente" (art. 14). Un altro
strumento di protezione dei diritti territoriali indigeni
all'interno della legislazione paraguaiana è lo "Statuto
delle Comunità Indigene". Il primo articolo concede alle
comunità indigene il diritto alla terra, mentre l'art. 20
stabilisce un tetto minimo di 100 ha. per famiglia. Questa
estensione è al momento considerata dai gruppi indigeni
insufficiente a garantire e mantenere "l'identità
culturale e i particolari modi di vita" cui fanno riferimento i
nuovi articoli della Costituzione: l'area sufficiente sarebbe
invece di almeno 200 ha per famiglia. Alcuni avvocati che
difendono i diritti indigeni tendono a considerarla come un
minimo, mentre nella prassi essa è stata sempre
considerata come la massima concessione. La media attuale
calcolata sui vari gruppi indigeni del Paraguay è di circa
50 ha per famiglia, mentre solo 13 gruppi su 53 hanno più
del minimo previsto (Stephen W. Kidd ). Infine, la legge 43/89
del Codice Penale del Paraguay consente agli indigeni di ottenere
delle ingiunzioni del tribunale competente per prevenire
violazioni sulle terre che reclamano. La legge proibisce infatti
la deforestazione o l'uso di queste terre a scopo agricolo senza
il loro previo consenso.
Il Progetto Idroelettrico Chixoy venne sviluppato nel periodo
della dittatura militare in Guatemala e della spietata guerra
civile che vide di fronte i militari ed i movimenti di
opposizione armata. La costruzione della diga risentì
fortemente della guerra e della politica di "reinsediamento
forzato" attuata dalla giunta militare per controllare la
guerriglia nelle zone interne del paese, con "villaggi modello"
militarizzati. Quasi 400 persone vennero uccise in scontri
avvenuti in prossimità del cantiere della diga.[28] Nel
1975 l'Instituto Nacional De Electrificacion, INDE,
annunciò pubblicamente il progetto, il cui obiettivo
sarebbe stato quello di fornire una fonte di approvvigionamento
energetico affidabile, economica e abbondante. In una fase di
profonda crisi del settore in Guatemala le dighe previste
dovevano servire ad eliminare gli altissimi costi per l'acquisto
di petrolio. I fondi per il progetto provenivano da Banca
Mondiale - già da molti anni coinvolta in una
ristrutturazione del settore energetico guatemalteco -[29] e
dalla Banca Interamericana di Sviluppo: 72 milioni US$ dalla
prima, 105 milioni dalla seconda. Tra gli altri finanziatori del
progetto la cooperazione bilaterale italiana, che nel '92 ha
stanziato 14 miliardi di lire come credito di aiuto, per la
manutenzione della centrale idroelettrica di Chixoy, a favore
della Cogefar-Impresit. Il Consorcio Lami, consulente dell'INDE,
pianificò la costruzione di quattro dighe per produrre 550
MW. La prima fase prevedeva la costruzione della diga di Pueblo
Viejo, alta 100 metri, collegata ad un tunnel di 26 km. per
portare l'acqua alle turbine di Quixal (300MW).
La spesa iniziale prevista era di 270 milioni di US$ ma, dopo il
terremoto del 1976 che bloccò per 15 mesi la costruzione
della diga, salì a 800 milioni, con importanti cambiamenti
nel progetto, poiché la sismicità non era stata
correttamente valutata.[30] La prima delle dighe rimase poi la
sola costruita. I principali problemi rilevati nella fase di
pianificazione sono stati: la mancata valutazione della
sismicità nell'area, l'errata valutazione dei costi, in
seguito aumentati del 300% per la sola fase costruttiva, la
mancata valutazione dell'impatto ambientale nell'area e a valle
della diga, da parte del Consorcio Lami. Soprattutto però
il progetto ignorò completamente le persone spostate dalla
diga, che non vennero consultate né informate. Nella fase
di pianificazione, che si concluse nel 1975, non era stata
prevista alcuna consultazione con i gruppi indigeni della zona.
Nei documenti di progetto infatti si fa a malapena riferimento
alle persone da reinsediare, mentre nei documenti di
prefattibilità leggiamo "... la popolazione della zona
è soprattutto indigena ... nell'area interessata non
c'è praticamente nessun abitante".[31]
Le prime consultazioni avvennero solo nel '76, dopo l'inizio
della costruzione della diga: i rappresentanti dell'INDE scesero
su Rio Negro in elicottero per informare la popolazione che la
diga sarebbe stata costruita ed il suo bacino avrebbe sommerso le
terre dove abitavano. La comunità, dopo aver discusso a
lungo, nominò allora un comitato per negoziare il
reinsediamento. Ma le consultazioni avvennero in un clima di
terrore ed intimidazione. Gli abitanti di Rio Negro sono stati
più volte minacciati e raggirati dai rappresentanti
governativi dell'INDE. Nel 1980 due rappresentanti che si
recavano presso l'ufficio dell'INDE, sotto esplicita richiesta di
quest'ultimo, per reclamare i diritti sulle loro terre vennero
trovati mutilati e il documento che portavano come prova dei loro
possedimenti (il "Libro de Acta") non venne mai ritrovato. La
popolazione coinvolta: i Maya Achì La diga di Chixoy
è stata costruita nell'area dove viveva da secoli il
gruppo indigeno dei Maya Achì, nel dipartimento di Alta e
Bassa Verapaz, una regione dove abitano circa 75.000 Maya di
lingua Achì. La comunità più importante che
viveva coltivando le terre lungo le sponde del Rio Chixoy, in
quello che sarebbe stato il bacino della diga, era quella di Rio
Negro. Alla fine degli anni settanta, quando venne progettata la
diga, la comunità contava circa 500 persone. Ogni famiglia
coltivava il proprio appezzamento di terra ed alcune allevavano
bestiame e cavalli. Occasionalmente alcuni componenti delle
famiglie di Rio Negro si univano alle migliaia di contadini
guatemaltechi, lavoratori stagionali nelle piantagioni di cotone,
zucchero e caffè della costa sud del Paese. Nessuna strada
arrivava a Rio Negro: Rabinal, il mercato più vicino
distava otto ore di cammino in montagna.
Il Lesotho Highlands Water Project (LHWP) è stato
istituito con un Trattato tra la Repubblica del Sud Africa ed il
Governo del Lesotho nel 1986.[32] Il progetto nel complesso
prevede 5 dighe, 200 km. di tunnel che attraversano le montagne
Maluti e un impianto per la produzione idroelettrica da 72 MW che
fornirà energia al Lesotho. Lo scopo principale del
progetto è quello di fornire acqua alla provincia
sudafricana del Guateng dai fiumi Malibamatso e Senqunyane,
affluenti del grande Orange che arriva al mare Atlantico dopo
aver percorso il confine tra Sud Africa e Angola. Il Guateng
è area industriale e coltivata ad agricoltura intensiva.
Il completamento del progetto era previsto per l'anno 2017.
Secondo il Trattato il Sud Africa coprirà tutti i costi
del progetto, esclusi quelli della produzione elettrica, e
pagherà diritti al Lesotho per l'acqua che verrà
portata nel paese. Il Trattato consentì di ricevere
finanziamenti attraverso il Lesotho, aggirando le sanzioni
internazionali allora in vigore contro il regime dell'apartheid.
La Banca Mondiale (110 milioni di dollari per la fase 1A, 120
milioni per la fase 1B) è stata il catalizzatore della
cooperazione tra i due paesi e dei finanziamenti internazionali
di: Banca Africana per lo Sviluppo (50 milioni USD), Fondo
Europeo per lo Sviluppo (57 milioni USD), Banca Sudafricana per
lo Sviluppo (230 milioni USD). I fondi mobilitati nel complesso
sono stati 8 miliardi di dollari. Per la fase 1B Rand Merchant
Bank, Societe Generale, Nedcor, Investec e Lesotho Bank hanno
garantito nel luglio '97 un prestito di 1,3 miliardi di Rand,
mentre la Banca Mondiale ha approvato un prestito di 45 milioni
di dollari per la fase 1b nel giugno del 1998. Attualmente
è stata completata la prima diga, quella di Katse, alta
185 mt. (fase 1A del progetto) e il condotto di 48 km. per il
trasporto dell'acqua all'impianto idroelettrico di Muela, mentre
stanno iniziando i lavori per la diga di Mohale, alta 55 mt che
porterà acqua al bacino di Katse con un tunnel di 16 km.
(fase 1B). Da Muela l'acqua viene convogliata verso il Sud
Africa. Il Progetto nel suo complesso viene gestito dalla Lesotho
Highlands Development Authority, LHDA, responsabile del
reinsediamento e della compensazione, della protezione ambientale
e della gestione delle fasi costruttive. In Sud Africa il
progetto è supervisionato dal Department of Water Affairs
and Forestry ed è stata istituita la Joint Permanent
Technical Commission, JPTC, in cui sono rappresentati entrambi i
paesi. La Banca Mondiale deve dare l'approvazione in ogni fase
del progetto, con missioni in loco, ma non ha autorità
legale per bloccare le attività della LHDA; negli ultimi
due anni la Banca Mondiale ha visitato la zona del progetto ogni
4-6 mesi. Non sono avvenute consultazioni con le popolazioni
locali, né al momento della stipula del trattato tra Sud
Africa e Lesotho (1986), né durante tutto lo sviluppo
successivo del progetto, nonostante si tratti di un'opera molto
più recente delle precedenti, e che le strutture
ingegneristiche e di servizi siano all'avanguardia.
Contatti più frequenti con ONG locali sono avvenuti solo
di recente ed in via informale, quando è risultato
evidente il malcontento tra le popolazioni locali per l'impatto
sociale ed ambientale della costruzione della diga. Si è
quindi ritenuto necessario ripensare la politica delle
compensazioni ed il Piano di Sviluppo Rurale previsto
dall'Accordo per garantire l'approvazione del nuovo prestito per
la fase 1B. La popolazione coinvolta: i Basotho L'area in cui
è stata costruita la prima diga, quella di Katse, è
una zona di alta montagna (tutto il Lesotho, grande come il
Belgio, si trova al di sopra dei mille metri di altezza) in cui
vive la popolazione Basotho, 24 mila persone nell'area di Katse.
L'economia locale è basata sull'agricoltura di sussistenza
e la pastorizia nomade. La produzione locale veniva integrata
dalle rimesse degli emigrati stagionali in Sud Africa I contatti
con popolazioni esterne alle Highlands erano poco frequenti. La
valle sommersa dal bacino della diga contava 2.000 ettari di
terra arabile e 4.500 ettari di pascolo, molto preziosi a queste
altitudini: dopo il riempimento della diga la popolazione che ha
perso la propria terra sopravvive con foraggio e cereali forniti
come compensazione. La popolazione Basotho non è definita
indigena, ma utilizzeremo, nell'analisi di questo caso alcuni
degli strumenti specifici per le popolazioni indigene: vediamo
perché. I Basotho che vivono nell'area di montagna non
sono etnicamente differenti dal resto della popolazione e non
hanno una storia di dominio o colonizzazione recente alle spalle:
essi non sono quindi considerati come "indigeni" dalla
Costituzione del Lesotho né dalla Banca Mondiale. Non
ricadono nella definizione contenuta nel quinto paragrafo della
Direttiva 4.20 sulle popolazioni indigene della Banca Mondiale:
in essa si richiede che sia presente un'identità culturale
e sociale distinta dalla società dominante, che sia
applicabile il criterio della autoidentificazione o
identificazione da parte di terzi come membri di un gruppo
culturale distinto e che la lingua parlata sia differente dalla
lingua nazionale.[33]
Anche alla luce della Convenzione 169 dell'ILO i Basotho delle
Highlands non possono essere considerati indigeni, poiché
la Convenzione stabilisce il "criterio della continuità
storica": sono indigeni coloro che discendono dalla popolazione
che abitava il paese al tempo di una conquista, di una
colonizzazione, della definizione delle frontiere attuali e che,
indipendentemente dal loro status legale, mantengono alcune delle
istituzioni sociali, economiche, culturali e politiche distinte
dal resto della comunità nazionale.[34] I Basotho delle
montagne, tuttavia, a causa della loro povertà, del tipo
di economia tradizionale e delle caratteristiche culturali e
sociali, sono da sempre stati considerati dal resto della
popolazione come arretrati e primitivi. Va sottolineato in
particolare come la caratteristica di essere tra i segmenti
più poveri della popolazione, la presenza di una
produzione primaria orientata alla sussistenza, di una
regolamentazione sociale e culturale particolare siano
riconosciuti dalla Banca Mondiale e dalla Convezione 169 tra gli
elementi di identificazione dei gruppi indigeni. Gli altri
strumenti internazionali che abbiamo utilizzato si riferiscono
invece alle comunità ed ai popoli in generale,
considerando i diritti e le loro violazioni alla luce del diritto
dei popoli e dei diritti collettivi: si applicano dunque al caso
della popolazione di Katse. Tenendo presenti questi dati abbiamo
deciso di analizzare l'impatto della costruzione della diga alla
luce degli strumenti di diritto internazionale concepiti per la
tutela dei popoli indigeni: le condizioni di estrema
povertà in cui si trovano a vivere i Basotho delle
montagne, la perdita di integrità culturale, il
reinsediamento senza compenso adeguato, ma soprattutto
l'isolamento in cui versavano i Basotho di quest'area ci hanno
spinto a considerare questo tipo di analisi più adatto
alle esigenze specifiche della comunità in
questione.[35]
Il Lesotho e la Politica Ambientale Nazionale
Il Lesotho si è impegnato nel processo della
pianificazione ambientale sostenibile nel 1989, con la
formulazione del Piano di Azione Ambientale Nazionale (National
Environmental Action Plan, NEAP) al quale ha fatto seguito un
Piano di Azione Nazionale nel 1994 per applicare i principi
dell'Agenda 21. Il NEAP comprende alcune norme per l'applicazione
delle Convenzioni sulla Biodiversità, sui Cambiamenti
Climatici e sul Controllo della Desertificazione. Tra i
principali problemi che il NEAP intende affrontare troviamo: "...
l'erosione del suolo che provoca degrado delle terre, perdita di
terra coltivabile ed eventuale desertificazione; le periodiche
siccità prolungate e la scarsità d'acqua per
l'agricoltura; la crescente povertà rurale e urbana;
l'inquinamento della terra e dei corsi d'acqua; il basso livello
di consapevolezza dei problemi ambientali tra la classe politica,
i decisori e la cittadinanza; il basso livello di capacità
istituzionale in tema ambientale; la mancanza di partecipazione
pubblica nella identificazione e gestione dei progetti." Il
mandato sull'ambiente che autorizza la legislazione ambientale
attuale deriva dalla sezione 36 della Costituzione del Lesotho la
quale stabilisce che: "... il Lesotho adotterà politiche
per proteggere e migliorare l'ambiente culturale e naturale a
beneficio delle generazioni presenti e future ed
assicurerà a tutti i cittadini un ambiente sano e sicuro,
adeguato alla loro salute e benessere." Elenchiamo di seguito
alcune delle priorità individuate dal piano nazionale per
l'ambiente.
1) Combattere la povertà (4.1) recuperando le risorse
degradate per promuoverne l'uso sostenibile per i bisogni umani
primari.
2) Proteggere e promuovere la salute (4.3) controllando e
proteggendo i gruppi vulnerabili dalle malattie trasmissibili e
coinvolgendo le comunità nella progettazione di programmi
per la salute.
3) Proteggere la salute e la sicurezza dei lavoratori (4.3;
4.4): specificare codici di condotta e linee guida occupazionali
per la salute e la sicurezza basate sui livelli di rischio delle
diverse attività industriali.
4) Integrare ambiente e sviluppo nel processo decisionale (4.6)
per garantire che le valutazioni ambientali vengano considerate
ad ogni livello decisionale, nella formulazione, elaborazione,
realizzazione e gestione dei programmi di sviluppo e dei
progetti.
5) Promuovere lo sviluppo sostenibile delle aree montane (4.9).
Principi guida: le montagne sono ...instabili e fragili. Hanno
bisogno di una gestione attenta. Nelle aree di montagna si
trovano fauna e flora endemica vulnerabile che hanno bisogno di
protezione. Il manto vegetale montano si rigenera con lentezza e
richiede una gestione oculata ed una pianificazione di lungo
periodo. Le aree di montagna sono ricche d'acqua e devono essere
coperte di vegetazione.
6) Gestione delle risorse idriche (4.15): sviluppare un
approccio integrato e coordinato, efficace ed efficiente per la
conservazione e l'uso dell'acqua, e per promuoverne conservazione
e disponibilità in quantità sufficiente e per lungo
tempo. Tutti dovrebbero avere accesso ad acqua potabile. "... Lo
sviluppo sostenibile di schemi di irrigazione su piccola scala,
basati sull'uso di acque superficiali con la costruzione di
piccole dighe e la deviazione di fiumi, dipende in modo totale
dallo sviluppo e dalla stabilizzazione delle misure di
conservazione e riforestazione nelle aree di captazione."
Strategie per applicare questa politica: promuovere i quattro
principi guida di uso razionale, protezione, conservazione,
gestione delle risorse acquifere, sulla base dei bisogni della
comunità e delle priorità delle politiche di
sviluppo economico; proteggere e recuperare gli ecosistemi
fragili di montagna e promuovere una pianificazione integrata a
livello di bacino.
7) La Politica di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA)
(4.22): identificare i problemi ambientali, preparare progetti e
supervisionare gli impatti attraverso la VIA.
8) ONG e settore industriale (4.25): rafforzare il ruolo delle
ONG come partner dello sviluppo, coinvolgendo a tutti i livelli
il settore dell'impresa e delle comunità rurali, dalla
gestione politica alla realizzazione, per la protezione e
conservazione delle risorse naturali nazionali. Il NEAP
formalizza la creazione della Agenzia di Protezione Ambientale
del Lesotho (Lesotho Environment Protection Authority, LEPA).
Come già accennato in precedenza le particolari violazioni avvenute nella fase di pianificazione dei progetti rappresentano il presupposto di molte altre riscontrate nelle fasi successive. Anche fra le violazioni avvenute in questa fase si può stabilire un rapporto di derivazione concettuale. Il diritto all'autodeterminazione dei popoli legittima infatti tutta una serie di diritti delle popolazioni indigene e delle comunità locali: da quello ad essere consultate nei processi decisionali, di decidere le proprie priorità di sviluppo economico, sociale e culturale (mantenendo il proprio sistema di credenze, istituzioni e beni spirituali e conservando la gestione del patrimonio naturale che possiedono) a quello di mantenere il proprio "diritto consuetudinario" nelle decisioni politiche e nella risoluzione delle controversie interne. Con queste premesse, le violazioni dei diritti delle popolazioni indigene e delle comunità locali e gli strumenti che li riconoscono sono quindi i seguenti:
a. Il diritto all'autodeterminazione dei popoli, stabilito da alcuni strumenti internazionali di tutela e che trova la sua massima espressione nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli .[36] Anche i Patti Internazionali sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, i Patti Internazionali sui Diritti Civili e Politici e la Carta Africana dei Diritti dell'Uomo e dei Popoli sono tra gli strumenti di diritto internazionale che affermano il diritto di autodeterminazione dei popoli. L'applicazione di tale diritto alle popolazioni indigene è riconosciuta esplicitamente solo dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli Indigeni.37 L'art.3 recita: "Le popolazioni indigene hanno diritto all'autodeterminazione. In virtù di tale diritto possono liberamente determinare il loro status politico e scegliere il proprio sviluppo economico, sociale e culturale". Anche la Convenzione 169 dell'ILO usa il termine "Popoli" per identificare le popolazioni indigene. La portata di questa impostazione viene però ridotta dall'art. 3, secondo il quale: "l'uso del termine popoli in questa Convenzione non comporterà alcun riferimento ai diritti che il Diritto Internazionale riferisce a questo termine.[38] La Convenzione 169 non riconosce direttamente il diritto all'autonomia esterna, alla costituzione cioè di entità autonome e separate dallo Stato, mentre è decisamente più esplicita riguardo all'autonomia interna. In altre parole distingue la collettività indigena dall'insieme dei cittadini dello Stato; le due entità devono però essere armonizzate e tale armonizzazione passa attraverso il rispetto dei diritti fondamentali stabiliti dalla comunità statale.[39]
b. I diritti territoriali e i diritti di
partecipazione:
b.1. Il diritto ad essere consultati ed a partecipare ai
processi decisionali. Questi diritti sono riconosciuti
dall'articolo 6 della Convenzione 169 dell'ILO che stabilisce il
diritto ad essere consultati e a partecipare alle decisioni che
riguardano le aree dove le popolazioni indigene vivono,
attraverso le loro strutture rappresentative, liberamente scelte.
Tali consultazioni devono avere per obiettivo quello di ottenere
un consenso che sia "libero" ed "informato". Ad irrobustire il
concetto di "consultazione" vi è poi il provvedimento
sulla "cooperazione",[40] che, se pur rimane un termine mai
realmente definito, implica il concetto di eguaglianza dei
partner nella progettazione e nella gestione dei programmi
governativi per le popolazioni indigene. L'art. 15, contenuto
nella sezione dei diritti territoriali, stabilisce inoltre che:
"... Nei casi in cui gli stati abbiano la proprietà delle
risorse della terra, dovranno stabilire o mantenere procedure di
consultazione con le popolazioni, con l'obiettivo di accertare se
e in che modo i loro interessi potrebbero essere pregiudicati,
prima di intraprendere o consentire alcun programma di
esplorazione o sfruttamento delle risorse che appartengono alle
loro terre". I medesimi diritti sono stabiliti anche dagli art.19
e 20 della Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli
Indigeni. È interessante notare come in quest'ultima sia
messa in risalto proprio la stretta relazione tra diritto di
partecipazione e tutela dell'integrità politica, sociale e
culturale delle popolazioni indigene.[41]
L'art. 9 della Carta sui Rischi Industriali e i Diritti Umani del Tribunale Permanente dei Popoli,[42] che analizzeremo ed useremo più ampiamente per le violazioni intervenute nella fase successiva, stabilisce più in generale i diritti di partecipazione delle comunità "... nella pianificazione e nei processi decisionali che riguardano il loro ambiente di vita" e sottolinea che a tal fine, le procedure di pianificazione dovranno essere: pubbliche, trasparenti, accessibili a tutti (sia in termini di tempi che di luogo), notificate in anticipo e diffusamente, in modo tale da non creare barriere linguistiche o difficoltà di comunicazione. L'Agenda 21 prevede un capitolo specifico sulla protezione delle popolazioni indigene (cap. 26) e come azione preliminare per lo sviluppo sostenibile stabilisce l'obbligo per i governi di seguire specifiche procedure per garantire la considerazione delle opinioni delle popolazioni nella progettazione e nell'applicazione delle politiche e programmi nazionali.
Nell'ambito di queste procedure le popolazioni indigene devono essere informate e consultate e deve essere loro permesso di partecipare alle decisioni nazionali e a quelle sui progetti di cooperazione internazionali (26.5, a). Come già rilevato le popolazioni indigene e le comunità locali non sono state consultate nelle fasi di studio e progettazione e nella definizione degli accordi conclusi tra le entità statali create ad hoc per gestire il progetto, la Banca Mondiale e i consorzi appaltatori dei lavori per la costruzione delle tre dighe. Nelle successive fasi di valutazione dei tre progetti, soprattutto al momento del rinnovo dei prestiti, sono intercorse solo alcune consultazioni informali. Queste consultazioni non rispondono alle norme che regolamentano il cosiddetto "processo partecipativo" delle popolazioni locali previste a livello internazionale, all'interno della Banca Mondiale e nelle legislazioni nazionali che le applicano.
b.2. il diritto di decidere le proprie priorità di sviluppo economico, sociale e culturale, e a sviluppare e gestire piani alternativi. L'art 7 (comma 1) della Convenzione 169 stabilisce per le popolazioni indigene il diritto di decidere e di controllare il proprio sviluppo e la formulazione, applicazione e valutazione dei piani di sviluppo nazionali e regionali che li coinvolgono direttamente. Il diritto di determinare liberamente il proprio sviluppo economico, politico e sociale e soprattutto di non essere ostacolati nelle proprie attività tradizionali ed economiche è contenuto nell'art. 21 della Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli Indigeni. Oltre a garantire un generale diritto di autodeterminazione ai popoli i Patti Internazionali sui Diritti Civili e Politici si riferiscono, all'art. 27, anche alle minoranze. Un'interpretazione estensiva di questo articolo, che tutela il diritto delle minoranze a conservare la propria cultura, può renderlo applicabile al caso delle popolazioni indigene,[43] includendo nel concetto di "cultura dei gruppi" anche le condizioni necessarie a preservarla e cioè le sue basi materiali.[44] Risultano in questo modo tutelati sia il mantenimento che lo sviluppo delle attività economiche tradizionali. Nella stessa ottica di tutela dell'autosviluppo l'Agenda 21 considera necessario, per assicurare lo sviluppo sostenibile, il rafforzamento del "capacity-building" per le popolazioni indigene, basato sull'adattamento e lo scambio di esperienza tradizionale, della conoscenza e delle pratiche di gestione delle risorse (26.3 - a- vii), e obbliga i governi a fornire l'assistenza finanziaria e tecnica necessaria per sostenerli (26.5, b). In tutti e tre i casi analizzati non è stato eseguito alcuno studio cooperativo e non è stato preso in considerazione nessun programma alternativo di sviluppo.
b.3. Il diritto a partecipare alla pianificazione e alla gestione di strategie di conservazione del territorio e del patrimonio naturale Nell'ambito della rinnovata attenzione all'ambiente, alla biodiversità ed alla gestione delle risorse naturali da parte degli organismi internazionali, riflessi nelle nuove norme su ambiente e sviluppo sostenibile, troviamo tutta una serie di enunciati - per lo più indicazioni di principio rivolte agli stati - che riguardano il ruolo delle popolazioni indigene nella gestione e conservazione dell'ambiente e l'importanza delle loro pratiche tradizionali. Ruolo che viene sempre più riconosciuto come determinante. La Dichiarazione di Rio sull'Ambiente e lo Sviluppo, al principio 22 enuncia le linee guida per le politiche nazionali ed internazionali che devono riconoscere e sostenere debitamente l'identità, la cultura e gli interessi delle popolazioni indigene per permetterne la partecipazione in programmi indirizzati allo sviluppo sostenibile. L'Agenda 21 riconosce come i valori, la conoscenza tradizionale e le pratiche di gestione delle risorse delle popolazioni indigene svolgano un ruolo determinante nella promozione dello sviluppo sostenibile (26.3, a, iii) e invita gli stati a sviluppare ed a rafforzare le consultazioni con le popolazioni indigene per coinvolgerli nelle politiche e nei programmi nazionali di gestione delle risorse, di conservazione o in altri programmi di sviluppo che li riguardano direttamente (26.6 (a)).
L'art. 8 della Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli riconosce ad ogni popolo il diritto esclusivo sulle proprie ricchezze e risorse naturali. L'art. 16 stabilisce il diritto di ogni popolo alla conservazione, alla protezione e al miglioramento del proprio ambiente. Alcuni strumenti internazionali indicano i passi da compiere per rispettare queste dichiarazioni di principi: L'art. 7 (comma 3) della Convenzione 169 stabilisce il dovere degli stati di intraprendere studi di impatto ambientale, sociale, culturale e spirituale, in collaborazione con le popolazioni indigene, per i progetti sul loro territorio. L'art. 15 primo comma, stabilendo il diritto dei popoli indigeni alle risorse delle terre che possiedono o che usano, sancisce il diritto a partecipare all'uso, alla gestione e alla conservazione di queste risorse. Il secondo comma ribadisce i medesimi diritti nel caso in cui le risorse naturali siano di proprietà dallo stato. L'articolo 14 della Carta sui Rischi Industriali e i Diritti Umani[45] riguarda i popoli indigeni ed enuncia il loro diritto alla protezione del proprio habitat dai rischi industriali e dalle pratiche distruttive dell'ambiente condotte da imprese. È stabilito il diritto di valutare il potenziale rischio ambientale e di opporsi alle attività industriali a rischio sulle loro terre. Nei tre casi le popolazioni indigene non sono state mai consultate per ciò che riguardava il controllo del territorio, le strategie di conservazione e di utilizzo delle risorse, né informate dei possibili rischi per l'ambiente. Non è stato eseguito nessuno studio d'impatto ambientale con la loro collaborazione.
La OD 4.20 "Popoli Indigeni" della Banca Mondiale e la fase
di identificazione del progetto
La Direttiva Operativa 4.20 è il principale documento
della Banca Mondiale sulle procedure da adottare quando i
progetti finanziati coinvolgono popolazioni indigene. Questa
Direttiva, adottata nel 1991 in sostituzione dell'Operational
Manual Statment del 1982, è considerata tra le migliori
delle Banche Multilaterali di Sviluppo. Viene applicata come
strumento per promuovere e rafforzare i programmi di formazione
per le popolazioni indigene ed in caso i progetti producano
effetti negativi sulle popolazioni indigene o sui loro territori:
"La direttiva fornisce linee guida per:
a) assicurare che le popolazioni indigene traggano beneficio dai
progetti di sviluppo e b) evitare effetti potenzialmente dannosi
sulle popolazioni indigene a causa di progetti della Banca. Si
richiedono azioni particolari quando gli investimenti della Banca
interessino popolazioni indigene, minoranze etniche o altri
gruppi il cui status sociale o economico possa limitare la
capacità di difendere i propri interessi e diritti sulla
terra e sulle risorse produttive" (par. 2). Inoltre secondo la
Direttiva 4.20:
- i criteri di definizione delle popolazioni indigene vengono
ampliati e riflettono tutta la gamma di definizioni presenti
negli stati membri della Banca Mondiale (par. 3-5);
- le popolazioni indigene non devono subire effetti negativi dei
progetti della Banca e i benefici economici e sociali che ne
ricevono devono essere in armonia con le loro preferenze
culturali (par. 2,6, 14);
- la Banca e i governi devono assicurare la partecipazione
"consapevole" delle popolazioni indigene nella preparazione dei
piani di sviluppo e nell'implementazione dei progetti.
Consultazioni dirette, considerazione delle conoscenze indigene
nei progetti e utilizzo tempestivo di specialisti, sono altre
indicazioni relative alla fase preliminare;
- le questioni riguardanti le popolazioni indigene dovranno
essere considerate da quei dipartimenti ed uffici della Banca che
"dialogano" con i governi (par.11);
- i governi destinatari dei finanziamenti devono preparare
tempestivamente prima dell' approvazione del prestito un
"Indigenous People Development Plan" coerente con le direttive
della Banca. Secondo la Direttiva 4.20 durante la fase di
identificazione del progetto la Banca Mondiale dovrà
informare il governo dell'applicabilità della
direttiva.
Sempre durante questa fase deve essere determinato il numero
delle persone potenzialmente coinvolte e le aree dove vivono
dovranno essere definite e rese visibili nella mappa del
progetto. Lo status legale delle popolazioni indigene coinvolte
deve essere identificato e discusso ed i responsabili devono
contattare le agenzie governative, esaminare le politiche, le
procedure, i programmi e i piani nazionali rivolti alle
popolazioni indigene ed iniziare studi per identificare i bisogni
e le preferenze locali. Il paragrafo 9 di questa direttiva "...
la Banca non pianificherà progetti finchè i
beneficiari non svilupperanno opportuni piani che vengano rivisti
dalla Banca ...." significa in breve che qualsiasi azione di
prestito andrà sospesa durante la fase iniziale di
valutazione se sono stati individuati effetti negativi per le
popolazioni indigene e non sono stati sviluppati piani
sostenibili di riduzione dell'impatto sulle stesse. L'Indigenous
People Development Plan di cui sopra deve poi includere alcuni
prerequisiti circa la ricognizione del possesso o dell'uso delle
terre e il rispetto dei diritti territoriali tradizionali d'uso.
In questo senso è dovere della Banca, qualora fosse
impossibile convertire l'uso tradizionale in diritto di
proprietà (quando le terre sono legalmente dello stato)
mettere in atto misure alternative di riconoscimento, prima di
avviare procedure di reinsediamento e compensazioni che prevedono
l'esistenza di titoli legalmente riconosciuti.
L'inizio della costruzione della diga, che avviene spesso dopo anni di attesa e di incertezze, coincide generalmente con il momento in cui le prime persone sono costrette ad abbandonare le case, le terre, le attività economiche. In questo momento anche coloro che non si erano resi conto della gravità della situazione o non ne erano mai stati informati prendono coscienza di quello che sta accadendo. Questa fase comporta una serie di problemi specifici, alcuni dei quali si ripercuotono sulle popolazioni indigene, le comunità locali e sull'ambiente. Bisogna considerare infatti come la presenza di lavoratori venuti dall'esterno porti spesso malattie e problemi di "coabitazione", come le condizioni salariali siano il più delle volte diverse per i lavoratori locali e per quelli esterni e come la creazione di infrastrutture abitative e strade di accesso muti completamente l'ambiente e le condizioni di vita precedenti. In alcuni casi l'impresa appaltatrice preferisce non impiegare i lavoratori locali a causa del loro basso livello di professionalizzazione, sfruttando così la mancata applicazione da parte dei governi delle leggi che regolano il lavoro indigeno. I lavoratori indigeni, quando sono assunti, si trovano a fronteggiare una situazione ancora più grave: essi soffrono della mancata protezione del diritto al lavoro: mancanza di professionalizzazione e formazione, impreparazione alla gestione del rischio, e subiscono discriminazioni a livello salariale. Durante la costruzione delle dighe per tutti i lavoratori temporaneamente residenti nell'area insorgono molti problemi sanitari, che, assieme ai disagi sopra elencati, si protrarranno anche dopo la fine della costruzione. L'inizio della costruzione è il momento cruciale nel quale prende forma un vero e proprio confronto/scontro, che vede da una parte la società costruttrice e l'ente governativo creato ad hoc e dall'altra il mondo delle popolazioni locali, i loro valori tradizionali ed il loro sistema di regolazione interna sociale. La lentezza dei lavori di costruzione, dipendenti da decisioni prese in altre sedi, il rapporto con lo staff delle società appaltatrici e quello con l'agenzia che gestisce i programmi di reinsediamento, che inizia in questo momento il suo lavoro, sono inoltre causa di stress ed instabilità psicologica tra le popolazioni locali. Esse aspettano da un momento all'altro di essere spostate, ma non sono mai tempestivamente informate degli eventi e delle decisioni relative alle loro terre, le loro case, la loro vita. L'integrità fisica e culturale futura dei lavoratori indigeni e dei residenti nell'area dei lavori è spesso compromessa proprio da queste decisioni.
2.1. Yacyretà
Secondo le informazioni riportate nel ricorso all'Inspection
Panel[46] la popolazione di indios Mbya Guaranì che viveva
nel particolare ecosistema delle isole sul fiume Paranà
lasciò l'area intorno al 1987, durante la costruzione
della diga, per vivere nell'area circostante il fiume. Secondo la
EBY invece lo spostamento avvenne già nel 1974, al tempo
della firma del Trattato di Yacyretà.[47] L'ecosistema
fluviale, nel quale gli indios vivevano con un'economia di
sussistenza basata sulla pesca e sul commercio locale di
artigianato è stato completamente cancellato. Stime non
confermate da ricerche sistematiche sul campo parlano di una
popolazione precedente la costruzione di 500 persone appartenenti
alla etnia Mbya.[48] Quando lasciarono la zona, i Mbya
Guaranì si spostarono nell'area circostante il fiume e
nelle città di Encarnaciòn e di Posadas. Il resto
della popolazione e l'ambiente del fiume subirono le conseguenze
più rilevanti nel successivo periodo del riempimento del
bacino. Non sono disponibili testimonianze relative a problemi
specifici legati alla costruzione della diga.
2.2. Chixoy
La diga di Chixoy è collocata in un'area remota del
Guatemala, dove le popolazioni avevano contatti scarsi con il
resto del paese: il villaggio più vicino si trovava ad
alcune ore di cammino dalle comunità dell'area Maya
Achì. La costruzione della diga portò a contatti
più frequenti con la popolazione di lingua spagnola e
comportò la necessità di un adattamento
dell'organizzazione sociale tradizionale, con la nomina ad
esempio di rappresentanti della popolazione, che gestissero i
rapporti con i funzionari di governo, con il personale che
costruiva la diga, con gli incaricati del reinsediamento. A tutto
il 1976 erano già stati costruiti 70 km. di strada per
raggiungere la zona del cantiere: il progetto Chixoy era ormai
iniziato ufficialmente. I lavori proseguirono fin quando un
terremoto bloccò la costruzione della diga per 15 mesi e
rese necessario apportare delle modifiche al progetto iniziale.
Inizialmente l'INDE offrì agli abitanti di Rio Negro la
possibilità di trasferirsi in due località che
però si rivelarono troppo distanti. Venne individuata
allora un'area a Pacux, vicino alla città di Rabinal; la
costruzione dell'insediamento iniziò nel '78 e dall' '80
gli abitanti poterono visitare le case. Tuttavia questa non fu
una soluzione positiva, a causa della ridotta estensione del
villaggio, della scarsa qualità delle abitazioni e della
mancanza di terre coltivabili. Non a caso la popolazione
esprimeva già da allora un forte disagio e si rifiutava di
spostarsi negli insediamenti preparati. I problemi di
reinsediamento non erano però i soli a creare forti
tensioni nella comunità.
All'inizio degli anni '80 una missione di archeologi francesi,
incaricata dall'INDE, visitò la zona ed effettuò
per due anni scavi nell'area, con l'obiettivo di recuperare
tesori archeologici che sarebbero stati sommersi dal bacino.
Anche in questo caso la popolazione non venne consultata e,
nonostante alcuni abitanti di Rio Negro fossero stati assunti per
i lavori di scavo, la comunità sentì la presenza
degli archeologi come un'invasione e gli scavi come un furto al
loro patrimonio culturale. Venne proibito agli archeologi di
scavare vicino al villaggio e gli archeologi accusarono alcune
persone di aver rubato oggetti della cultura Maya ritrovati nella
zona. Durante la costruzione della diga di Chixoy vennero
prelevati sabbia e materiali da costruzione nelle terre comuni
dei villaggi di Rio Negro, Pajales e Xococ. Vennero dati 120.000
USD come compensazione, dopo le proteste degli abitanti, ma il
denaro fu distribuito in modo non equo, provocando conflitti tra
le comunità. E ancora: vennero sottratti con l'inganno i
titoli di proprietà della terra degli abitanti di Rio
Negro e la zona subì le conseguenze della guerra civile in
corso nel paese. Proprio in questo periodo l'INDE iniziò
ad accusare la comunità di far parte della
guerriglia.
La campagna di terrore nei confronti degli indigeni Maya
Achì della comunità di Rio Negro iniziò nel
1980 proprio dopo il rifiuto della comunità di spostarsi
nel sito previsto dall'INDE. Nel marzo '80 sette persone vennero
uccise durante una riunione; la stessa sorte toccò nel
luglio dello stesso anno a due rappresentanti che andavano a
dimostrare i loro titoli. Nel febbraio '82, 73 persone tra uomini
e donne vennero costretti a recarsi nel villaggio vicino di
Xoco'c, un villaggio con una lunga storia di ostilità con
Rio Negro e qui massacrati dalle Pattuglie di Difesa Civile
(PAC), una delle note unità paramilitari usate dal governo
come squadroni della morte. A marzo 70 donne e 107 bambini
vennero violentati e uccisi. Prima del settembre successivo
vennero uccisi altri 117 abitanti del villaggio di Rio Negro. Il
riempimento del bacino iniziò subito dopo l'ultimo
massacro. Prima della fine dei lavori di costruzione della diga e
dello spostamento della popolazione, tra i mesi di febbraio e
settembre '82 gli squadroni della morte della dittatura
guatemalteca trucidarono così 400 uomini, donne e bambini
del villaggio di Rio Negro, durante attacchi giustificati dal
governo come attività di controinsurrezione. Nonostante i
massacri e le prove della corruzione[49] sia la Banca Mondiale
che la Banca Interamericana di Sviluppo continuarono a finanziare
il progetto,[50] omettendo qualsiasi riferimento ai fatti
accaduti nei loro documenti e relazioni.[51] Fatti di cui tutti,
secondo moltissime testimonianze, erano invece in quel periodo a
conoscenza. Le testimonianze sostengono inoltre che anche l'INDE
era a conoscenza dei massacri e minimizzò la portata
dell'accaduto; più probabilmente incoraggiò
l'esercito e le PAC ad eliminare l'ostacolo rappresentato dalle
comunità organizzate di Rio Negro.[52]
2.3. Katse
Le zone remote degli altipiani del Lesotho, le Highlands, che si
trovano al di sopra dei 1.800 metri di altezza, hanno
subìto dei cambiamenti sostanziali dall'inizio del
progetto. Circa 20.000 persone sono arrivate per lavorare nella
zona, quasi raddoppiando la popolazione presente, di poco
superiore alle 24.000 di etnia Basotho. Nelle fasi iniziali della
costruzione della diga, si verificò il primo scontro
culturale, quello cioè tra l'economia basata sullo scambio
monetario e quelle locali: discutendo con le autorità che
proponevano i risarcimenti è stato difficile quantificare
le perdite, le modalità di reinsediamento, il pagamento
per cibo e foraggio. Le soluzioni proposte, come si
verificherà con il tempo, non erano adeguate e non
tenevano conto delle condizioni reali della popolazione. La
maggior parte della forza lavoro assunta per la costruzione della
diga di Katse proveniva dal Sud Africa. Venne assunta anche
manodopera del Lesotho, ma le loro condizioni di lavoro sono di
solito diverse da quelle delle maestranze sudafricane. I
lavoratori locali del cantiere di Butha Buthe (per la costruzione
di infrastrutture collegate al progetto LHWP) organizzarono uno
sciopero che portò nel settembre '96 all'uccisione di 5
lavoratori Basotho. Nella settimana seguente il massacro, oltre
1.000 lavoratori trovarono rifugio nella locale chiesa
cattolica.[53] Il grave fatto è stato denunciato
all'opinione pubblica internazionale da Amnesty International, e
la stessa Banca Mondiale si era impegnata ad indagare
sull'accaduto. Nel maggio '97 un altro attivista sindacale venne
ucciso, e si sospetta ci sia un legame con le precedenti
uccisioni. L'inchiesta seguita agli scioperi non accertò
se l'azione della polizia fosse o meno giustificata da un attacco
dei lavoratori alle forze dell'ordine. Il Ministero delle Risorse
Naturali aveva assicurato la Banca Mondiale che avrebbe
incaricato una commissione indipendente d'inchiesta. La
formazione di questa commissione sarebbe stata - secondo
dichiarazioni della BM del gennaio '97 - condizione per il
proseguimento e l'approvazione di qualunque attività della
fase 1B. Per le fasi successive si dovrà accertare inoltre
che la LHDA abbia esperti di relazioni industriali che possano
seguire il progetto.[54]
In Lesotho è stata adottata una politica discriminatoria
nei confronti dei lavoratori locali, sia per quel che riguarda
l'impiego nella costruzione che la retribuzione. Infatti, secondo
la LNDC, un'agenzia incaricata di collaborare con la LHDA per
assicurare appalti alle compagnie Basotho, solo pochi contratti
vennero affidati a società locali. Il motivo addotto era
la scarsa collaborazione della LHDA aggravata da casi di
corruzione e nell'attribuzione dei contratti alle compagnie
sudafricane.[55] Per ciò che concerne la formazione della
forza lavoro (capacity-building) il programma destinato a
promuovere competenze locali è fallito, poiché
molti dei possibili beneficiari hanno lasciato il paese per
lavorare in Sud Africa, e non sono state prese misure per evitare
che ciò succedesse. Anche da documenti della Banca
Mondiale si rileva che pochi contratti sono stati sottoscritti
con ditte e fornitori locali. Non è chiaro quanti
lavoratori non specializzati saranno necessari per la fase
seguente, e non è chiaro se queste maestranze saranno
disponibili nella zona per la fase 1B e se quelli già
impiegati per la fase 1A potranno spostarsi. Rimane aperto in
particolare il problema dei salari. Se i datori di lavoro
volessero imporre i salari minimi del Lesotho, ciò
significherebbe una riduzione del 50% rispetto a quelli versati
della fase 1A. In tale situazione è presumibile un
aggravarsi delle tensioni.[56] Da un documento interno della
Banca Mondiale leggiamo infatti: "... Nella fase 1A i salari
erano calcolati con riferimento al minimo salariale applicato in
Sud Africa, se la fase 1B prevedesse il minimo del Lesotho ci
potrebbero essere problemi con i lavoratori e con il
proseguimento del lavoro".[57] Uno dei problemi più gravi
causati dalla presenza massiccia di lavoratori stranieri è
stata l'introduzione nell'area di nuove malattie: l'AIDS si
diffuse nella zona - un lavoratore su 20 risultava malato dalle
rilevazioni fatte nel '92 - la prostituzione e l'alcolismo
aumentarono sensibilmente. Nonostante fossero state create
strutture sanitarie per i lavoratori, non sono state svolte
campagne di prevenzione per alcolismo, AIDS, polmoniti, i bambini
non sono stati vaccinati, né sono stati promossi programmi
di terapia adeguati dopo il manifestarsi delle malattie.
2.4. Violazioni alla normativa internazionale di tutela dei
diritti dell'uomo e dei diritti dei lavoratori durante la fase
della costruzione della diga
In questa fase possono essere considerate tutte le violazioni a
carico delle comunità e dei lavoratori sottoposti ai
pericoli di un progetto ad alto rischio come quello della
costruzione di una diga e di quelli che hanno sofferto le
conseguenze della mancata formazione, prevenzione ed informazione
sul rischio e degli effetti che si sono in seguito verificati.
Dal momento che molti lavoratori indigeni hanno partecipato alla
costruzione delle dighe, li considereremo di seguito come vittime
di queste violazioni sia ai sensi della normativa internazionale
di tutela dei lavoratori che di quella che tutela i lavoratori
indigeni. Considereremo in questa fase anche le violazioni subite
dalle popolazioni locali e dai lavoratori non indigeni. In alcuni
casi proprio in questa fase è avvenuta la violazione del
più importante tra i diritti dell'uomo: il diritto alla
vita. Come abbiamo visto nel caso dei massacri di Chixoy, tale
violazione è stata così grave da poter configurare
l'esistenza di un vero e proprio genocidio. a. la violazione del
diritto alla vita stabilito dalla Dichiarazione Universale dei
Diritti dell'Uomo (art. 3) Nel caso di Chixoy la violazione di
questo diritto è particolarmente grave, in considerazione
dell'alto numero di vittime e del fatto che si inserisce nel
più ampio contesto di violenze indiscriminate verso le
popolazioni civili guatemalteche. La campagna
controrivoluzionaria condotta dall'esercito governativo nel
periodo tra '80 ed '84 provocò 72.000 vittime tra morti o
dispersi. Bisogna però sottolineare come "... anche se i
massacri sono stati attribuiti alla guerra controrivoluzionaria,
esaminando attentamente i fatti di Rio Negro si può
pensare che gli abitanti vennero uccisi perché bloccavano
il " progresso" del progetto Chixoy. Molte testimonianze
concordano in questo senso". [58]
b. violazioni del diritti dei lavoratori stabiliti dalle
convenzioni dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro.
b.1. violazione del diritto di associazione, di riunione, di
manifestazione e di sciopero stabilito dalla Convenzione sulle
libertà di Associazione e la Protezione del Diritto di
Organizzarsi dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro. Gravi
incidenti sono avvenuti nel 1980 a Chixoy, in occasione di
riunioni nelle quali i rappresentanti di comunità locali
discutevano le proposte dell'INDE: l'esercito uccise sette membri
della comunità locale.
b.2. violazioni dei diritti dei lavoratori e delle
comunità in progetti industriali ad alto rischio al
monitoraggio ambientale, alla salute e alla sicurezza e dei
diritti delle persone in qualche modo sottoposte agli effetti di
tali progetti. La Carta su Rischi Industriali e Diritti Umani
contiene una sezione sui "Diritti delle Comunità" e una
sezione sui "Diritti dei lavoratori" che stabiliscono: il diritto
ad un ambiente di vita e di lavoro libero da rischi (art. 7 e
16), il diritto al monitoraggio ambientale (art. 10) e delle
salute e sicurezza (art. 19), il diritto alla conoscenza delle
procedure necessarie per prepararsi all'emergenza (art. 12 e 21),
e il diritto al rispetto delle leggi ambientali e sulla salute e
la sicurezza (art. 13 e 22). La stessa Carta contiene poi un
articolo specifico sui popoli indigeni all'interno della sezione
sulle comunità (art. 14); ciò significa che essi
sono compresi tra i soggetti dei diritti enunciati in questa
sezione. Anche l'ILO ha adottato una Convenzione sulla
Prevenzione degli Incidenti Industriali Gravi che però, a
differenza della Carta appena illustrata, non fa riferimento al
concetto di comunità. Nota Bene: Il Codice del lavoro del
Lesotho del '93, preparato con l'assistenza dell'ILO, richiede ai
datori di lavoro di minimizzare il rischio di pregiudizio fisico
legato soprattutto alla manutenzione e uso dei macchinari
pericolosi. In pratica, come riporta il Rapporto sui Diritti
Umani del '96, "... i datori di lavoro applicano generalmente
queste norme solo nelle aree urbane". Lo stesso Codice
però è particolarmente debole in quanto non
protegge esplicitamente il diritto dei lavoratori a rifiutare
inaccettabili condizioni di rischio senza pregiudicarne il
diritto a mantenere il posto di lavoro. In tutti i casi
analizzati le violazioni di questi diritti sono dirette (durante
il periodo di costruzione della diga) o indirette (a causa degli
effetti sull'ambiente e sulla salute successivi alla costruzione
della diga) causate dalla mancata verifica del rischio e dagli
effetti indiretti del reinsediamento delle popolazioni (in
proposito si veda il capitolo seguente).
b.3. violazioni al diritto ad essere informati in modo adeguato
su qualsiasi progetto pericoloso per la salute o l'ambiente di
lavoro e di vita e sul rischio da questo derivante. Si possono
considerare a riguardo le violazioni del diritto delle
comunità e dei lavoratori enunciate dalla Carta su Rischi
Industriali e Diritti Umani. Tra questi: il diritto
all'informazione adeguata (nella propria lingua) su ogni progetto
che mira a stabilire, espandere o modificare un'industria
pericolosa in un luogo che possa mettere a rischio la salute
pubblica o l'ambiente di vita, il diritto delle comunità
locali ad essere informati ed educati sui rischi che le
riguardano,[59] il diritto ad essere informati, nella propria
lingua, sui rischi per la propria salute e sicurezza ed a
ricevere una formazione pratica sul potenziale di rischio e sulle
procedure di emergenza.[60] Nei casi analizzati le procedure di
pianificazione dei progetti non sono state né trasparenti
né pubbliche. Prima dell'inizio dei lavori, non sono stati
svolti corsi di formazione, la valutazione del rischio non
è mai avvenuta nelle fasi preliminari della progettazione,
né con consultazioni locali. Le comunità infine non
sono mai state informate sul mancato rispetto delle scadenze
previste dai finanziatori e dai governi.
c. violazione del diritto dei popoli indigeni alla salute in
seguito al contatto forzato tra gli indigeni e i lavoratori
estranei durante il periodo della costruzione della diga, alla
malnutrizione ed alla negligenza sanitaria (in proposito vedi
anche il cap. 4). La Convenzione 169, art 7(comma 2), afferma la
necessità di dare priorità a programmi sanitari e
di formazione per le popolazioni indigene nell'ambito dello
sviluppo dell'area dove vivono. L'art. 25, nella quinta sezione
sulla sicurezza e la salute, stabilisce inoltre che questi
programmi e servizi devono essere sotto la responsabilità
e il controllo delle stesse popolazioni indigene e gestiti in
maniera comunitaria, tenendo in considerazione le condizioni
economiche, geografiche, sociali, culturali e le pratiche
tradizionali preventive e curative. La Dichiarazione Universale
dei Diritti dei Popoli Indigeni pone una particolare enfasi sugli
gli stessi diritti e la necessità che essi li amministrino
attraverso le proprie istituzioni (art. 23). In nessuno dei casi
sopra elencati sono stati attivati programmi specifici per la
salute e l'educazione sanitaria delle popolazioni indigene.
d. violazione dei diritti dei lavoratori indigeni ad un
trattamento equo L'articolo 18 della Dichiarazione Universale dei
Diritti dei Popoli Indigeni stabilisce che "... i popoli indigeni
hanno il diritto di godere pienamente di tutti i diritti
stabiliti dalle leggi del lavoro internazionali e nazionali. Gli
indigeni hanno il diritto a non essere soggetti a condizioni
discriminatorie di lavoro, reclutamento e salario." La
Convenzione 169 garantisce protezione effettiva sul reclutamento
e sulle condizioni di impiego dei lavoratori indigeni, laddove
questi non siano protetti dalle leggi applicabili ai lavoratori
in generale. I governi devono con ciò prevenire la
discriminazione riguardo a: ammissione al lavoro,
professionalizzazione, remunerazione, assistenza medica e
sociale, alloggiamento, godimento del diritto di associazione,
della libertà di svolgere attività sindacali e di
negoziare contratti collettivi (art. 20). Anche la normativa
sulla sicurezza sociale deve essere applicata senza
discriminazioni (art 24). Nei casi di Yacyretà e di Chixoy
l'assenza di lavoratori indigeni durante la costruzione della
diga potrebbe essere considerata come violazione del diritto a
ricevere un trattamento equo anche per quel che riguarda la
possibilità di accesso al lavoro su basi uguali agli altri
lavoratori (professionalizzazione, reclutamento ecc).
Durante la fase di riempimento del bacino si verifica quello
che è sicuramente il principale danno per le popolazioni
presenti nell'area: lo spostamento forzato, la perdita della
terra e dell'ecosistema nel quale vivono. Lo spostamento viene
imposto e la popolazione si trova obbligata a riadattarsi alla
nuova situazione senza una preparazione sufficiente, le
attività agricole e l'allevamento risentono direttamente
della perdita di terra; l'ecosistema cambia in modo radicale e
improvviso, con conseguenze che si manifesteranno nel tempo, sia
nel bacino che a valle di esso: perdita di habitat per le
popolazioni terrestri ed acquatiche, diminuzione della portata
del fiume, inquinamento delle acque a causa delle fabbriche
sommerse e dell'assenza di scorrimento. Altre conseguenze come la
presenza di sedimentazione del bacino e i terremoti, si
manifestano nella fase successiva alla conclusione del
riempimento. In alcuni casi il reinsediamento "forzato" avviene
in maniera pacifica, addirittura con il consenso da parte delle
popolazioni, in altri con l'uso della forza. Come risulta anche
dal documento di revisione della politica di reinsediamento della
Banca Mondiale del 1994 "... la collocazione remota di molte
dighe spesso in aree abitate da popolazioni indigene, minoranze
etniche, gruppi pastorali, spiega perché le questioni
relative alle differenze tribali e culturali siano così
importanti nel reinsediamento".[61]
Va sottolineato come, in presenza di gruppi indigeni, la
situazione diventi particolarmente grave e le popolazioni
coinvolte non siano solo quelle che abitano nelle aree che
verranno inondate, a causa degli effetti indiretti del
reinsediamento. Nei tre casi considerati in questo studio, lo
spostamento forzato di popolazioni ha avuto effetti estremamente
negativi sia sulle persone che vivevano nell'area sia su quelle
che la frequentavano per motivi economici, culturali, spirituali
e sociali. Le persone coinvolte sono infatti anche quelle che
usufruiscono di queste zone per le attività di caccia,
raccolta o per il loro valore sacro (ad esempio come luoghi di
sepoltura degli antenati). I benefici previsti dalle dighe non
compensano mai le perdite subite dalle popolazioni indigene: le
dighe infatti non sono progettate per loro. Alcune forme di
compensazione e risarcimento sono di solito previste dall'agenzia
nazionale di sviluppo assieme all'ente finanziatore. Purtroppo
però esse non sono quasi mai sufficienti sia in termini
qualitativi che quantitativi a compensare le perdite e
soprattutto non cancellano le violazioni subite. Le misure
applicate non tengono conto del particolare significato
spirituale e materiale che riveste la terra per le popolazioni
indigene e quindi dell'importanza del diritto consuetudinario. Le
risorse economiche che restano disponibili per l'uso da parte
della popolazione locale non sono spesso più sufficienti a
soddisfarne i bisogni primari. La distruzione delle forme di
economia tradizionali e dell'ecosistema minaccia la sopravvivenza
del gruppo reinsediato e a volte anche di quelli che
indirettamente sono toccati dagli effetti negativi del
reinsediamento sulle popolazioni limitrofe. Si può forse
parlare in questo caso di vero e proprio genocidio culturale o
etnocidio. Gli effetti del reinsediamento sulla salute delle
comunità indigene obbligate a vivere lontano dai territori
tradizionali ed in aree ecologicamente differenti saranno
descritti nel capitolo seguente, insieme alle violazioni del
diritto alla salute di tutte le comunità coinvolte nei
progetti.
3.1. Yacyretà
Nel caso di Yacyretà lo spostamento di quei gruppi
indigeni che vivevano sulle isole del fiume Paranà
inondate dal riempimento del bacino è avvenuto in assenza
di un piano di reinsediamento, mentre la popolazione urbana di
Encarnaciòn e Posadas è stata coinvolta nei piani
di reinsediamento fin dall'inizio. L'adozione di programmi
specifici per le popolazioni indigene è stata a lungo
rinviata (dal 1980 al 1992) così come i progetti di
contenimento delle conseguenze negative della diga. Causa
principale è stata la mancanza di fondi dovuta alla grave
crisi finanziaria argentina. Come succede spesso in questo tipo
di progetti, che durano molto più del previsto, la stima
preventiva totale della popolazione da reinsediare è
aumentata dalle 33.000 unità previste nel 1978 alle 80.000
attuali. Non è chiaro se questa discrepanza sia dovuta ad
errori di calcolo dell'EBY sulla portata del reinsediamento, o,
come afferma la Banca Mondiale, per lo spostamento di circa 3.145
cosiddette "famiglie aggiuntive" che si sono insediate
abusivamente nell'area che dovrà essere riempita dal
bacino.[62] L' "Action Plan for Resettlement and Rehabilitation"
(Piano d'Azione per il reinsediamento ed il recupero), il cui
inizio era previsto per il '92, non è stato ancora
realizzato, come anche denunciato dalle popolazioni che hanno
firmato il ricorso all'Inspection Panel della Banca Mondiale. Il
piano prevedeva: la costruzione di abitazioni con corrente
elettrica, la costruzione di scuole, servizi medici e programmi
di vaccinazione, un programma di supporto agricolo per
individuare coltivazioni ad alta produttività. Uno dei
maggiori problemi occorsi durante il reinsediamento è
stato causato dalla mancanza di titoli di proprietà sulle
terre e sulle case destinate ad essere sommerse. Nel '79 la EBY
condusse un censimento per stabilire il numero di persone
coinvolte dal progetto e determinare coloro che avrebbero potuto
ricevere i "benefici del progetto": una scelta tra soldi o una
nuova casa in cambio della proprietà originale.[63] Solo
molti anni dopo, quando vennero invitati a presentare i loro
titoli di fronte a legali, si scoprì che la maggioranza di
coloro che si erano dichiarati proprietari non aveva titoli per
dimostrare la proprietà e che le vendite non erano mai
state ufficialmente registrate. Questa situazione
contribuì a disorientare le persone coinvolte, creando
ansia e sfiducia, ritardando ulteriormente il processo di
reinsediamento e di compensazione previsto.
Il ricorso all'Inspection Panel segnala i seguenti problemi
soprattutto economici e sanitari: il reinsediamento è
avvenuto in case piccole e di cattiva qualità, situate
lontano dalle precedenti, il che ha comportato la rottura degli
equilibri precedenti e difficoltà di sussistenza; la
comunità sopravviveva anche con la piccola coltivazione
che è andata perduta; i legami sociali si sono spezzati ed
il costo dei trasporti, per raggiungere le scuole o il lavoro,
è aumentato; un'economia di piccola scala strettamente
interconnessa è andata perduta: l'inquinamento delle acque
ha impoverito drasticamente la pesca, le cave di argilla usate
dai produttori di ceramica e di mattoni sono state sommerse.
Carpentieri, idraulici, panificatori, trasportatori hanno perso
il loro lavoro, senza trovarne uno nuovo. Nelle nuove case le
condizioni sanitarie sono peggiorate, ma è soprattutto il
nuovo bacino a portare conseguenze negative, come vedremo
più avanti. Nel 1989, venne individuato e reinsediato un
gruppo di 20 famiglie (75 persone) dell'etnia Mbya
Guaranì, che aveva lasciato le isole del fiume
Paranà durante la costruzione. Secondo informazioni della
Banca Mondiale, che ha seguito la sistemazione degli indigeni, si
è svolto un processo di consultazione, in seguito al quale
è stata scelta una zona di 370 ettari, in località
Pindo: la zona si trova tra una strada di grande comunicazione
(la Nazionale 1) e una linea di trasmissione elettrica (che corre
tra Trinidad ed Ayolas). Secondo la Banca Mondiale[64] la
comunità scelse la zona per avere accesso
all'elettricità per le scuole serali, e per poter vendere
direttamente sulla strada il cotone prodotto sulla terra loro
affidata. Nel ricorso all'Inspection Panel la zona è
invece definita come particolarmente inospitale: "... le famiglie
Mbya sono state spostate a Pindo con altri gruppi Mbya, che
avevano vissuto in zone completamente diverse. La terra su cui
sono stati collocati è insufficiente al loro
sostentamento, perché è troppo piccola e non offre
risorse adeguate". Altre fonti riportano che alcuni indigeni sono
tornati a vivere su piccola area della Isola di Yacyretà
non ancora sommersa. Tra gli effetti diretti che subirono le
popolazioni indigene Mbya Guaranì in seguito
all'allagamento e alla scomparsa delle isole su cui vivevano,
c'è la perdita di case, terre coltivabili, pesca, boschi e
altre risorse essenziali per la sopravvivenza. Tra gli effetti
indiretti invece, che coinvolgono una fascia assai più
ampia di comunità in Argentina e Paraguay, quelli derivati
dalla perdita di accesso a luoghi di caccia e pesca, a luoghi di
valore culturale o religioso per il popolo Guaranì, tra
questi resti archeologici e cimiteri.[65]
3.2. Chixoy
Dopo i massacri dell' '82 iniziò il riempimento della diga
e la popolazione dovette cominciare a spostarsi. Il nuovo
villaggio di Pacux era costruito come uno dei "villaggi modello"
che i militari guatemaltechi allestivano per controllare la
guerriglia, accanto ad una base militare, che sorvegliava la
popolazione costantemente. Le direttive della Banca Mondiale
stabiliscono che le condizioni precedenti al reinsediamento
forzato vanno totalmente recuperate, ma anche a Chixoy ciò
non successe affatto. Il villaggio era inospitale, angusto, senza
alberi, le case mal costruite, la terra insufficiente alla
popolazione residente: invece dei 561 acri promessi ne vennero
dati solo 240, parte dei quali inutilizzabili per la
coltivazione. Venne garantita la fornitura di acqua ed
elettricità, ma a pagamento ed a fasi alterne. Le
popolazioni hanno vissuto e vivono tuttora in condizioni di
estrema povertà: oltre alla diminuzione delle terre non
c'è lavoro nella zona, e gli uomini sono costretti ad
emigrare nei periodo di semina e raccolta nelle grandi
piantagioni. Al momento il lavoro più remunerativo per un
giovane di Pacux sembra essere il servizio di leva triennale
nell'esercito che garantisce vestiti, casa, cibo ed un salario di
60 USD al mese. Per crudele ironia della sorte i figli di coloro
che vennero massacrati dall'esercito nei primi anni '80 diventano
ora parte dell'apparato militare. Come nel caso di
Yacyretà, frustrate dalle condizioni di vita a Pacux, 18
famiglie tornarono a vivere sulle rive del bacino nel luogo, in
case di paglia, pescando, cacciando e coltivando la poca terra
disponibile sulle sponde. Nella nuova Rio Negro la vita è
difficile (non c'è elettricità e cibo
insufficiente) ma in molti la preferiscono a Pacux dove non vi
era spazio sufficiente per allevare gli animali, per coltivare o
per accendere il fuoco comune.
3.3. Katse
2.000 abitanti della zona hanno subìto le conseguenze
dirette del riempimento di Katse perdendo 300 abitazioni, 1.000
ha di terra coltivabile, 3.000 ettari di pascolo e con questi la
loro economia di sussistenza basata su agricoltura e pastorizia.
La pastorizia per le comunità Basotho ha una significato
tradizionale e culturale profondo ed è dunque difficile
tradurre in denaro il valore delle mandrie e del complesso
sistema economico sociale che ruota intorno a questa
attività. Il cambiamento forzato del territorio e dei
termini di riferimento socioeconomici ha avuto un impatto
culturale drammatico.[66] La necessità di spostarsi ha
creato problemi così gravi che la stessa Banca Mondiale ha
dovuto ammettere che non potranno essere ristabilite in alcun
modo le condizioni di partenza, come invece le previsto dalle
"politiche di reinsediamento".[67] La LHDA, Lesotho Highlands
Development Authority, ha la responsabilità del
reinsediamento e delle compensazioni, della protezione ambientale
e della gestione complessiva delle opere di costruzione. Il
progetto LHWP ha previsto due tipi di compensazione: una diretta
ed un Piano di Sviluppo Rurale (Rural Development Plan, RDP). La
compensazione diretta comprende le case, una fornitura annuale di
cereali e legumi o denaro per 50 anni per le persone e di
foraggio per gli animali; la quantità si basa sugli ettari
persi e sul raccolto medio. Chi ha perso alberi, appezzamenti di
terra o altro ha avuto ulteriori compensazioni in denaro. La
perdita di terra è particolarmente grave e non esistono
reali possibilità di equa compensazione, considerando che
solo il 9-10% della terra del Lesotho è coltivabile. La
costruzione delle case è stata molto lenta: le case per
chi viveva lungo la linea elettrica costruita nel 1990-91 non
erano ancora pronte nell'ottobre '95, secondo le notizie
riportate dalla stessa Banca Mondiale.[68]
Ancor più complessa è l'individuazione di mezzi si
sostentamento per il futuro per la popolazione: il Piano di
Sviluppo Rurale, che dovrebbe essere finanziato con i diritti per
la vendita dell'acqua, ha lo scopo di identificare
possibilità alternative di produzione di reddito e
miglioramento delle condizioni di vita in campo agricolo ed
infrastrutturale. Non esistono al momento dati sul livello di
avanzamento del Piano di Sviluppo Rurale, né le ONG locali
hanno la possibilità di ottenere informazioni sulle
possibilità di sostentamento e ripresa delle
attività economiche dopo il periodo di compensazione.
Secondo un rapporto del '93 della LHDA la maggioranza delle
persone si ritengono molto insoddisfatte delle misure di
compensazione, sia di denaro che di cibo: il valore nutrizionale
- 97% di cereali e 3% di legumi - è molto basso e si
stanno diffondendo malattie provocate dalla denutrizione. Una
indagine di campo svolta dalla HCGA, una organizzazione di base
del Lesotho nel 1997 su 93 famiglie coinvolte nella prima fase
delle compensazioni contiene dati piuttosto preoccupanti, che
dimostrano l'inefficacia della politica di compensazione
effettuata finora[69]. Le conclusioni del rapporto e delle
interviste, in cui si elencano i danni subiti e le richieste
rimaste senza risposta, danno un'idea dell'inadeguatezza dei
piani delle autorità (Rural Development Plan, LHDA
Community Forestry Programme) e del grado di stima di cui gode
oggi la LHDA in generale. La fase 1A è terminata e la
nuova politica di compensazione attesa per la fase 1B si
prospetta differente poiché comprenderà l'opzione
"terra in cambio di terra" per le perdite di terra coltivabile,
oltre alla possibilità di un pagamento in moneta o in
cereali. La nuova politica considera inoltre tra i beneficiari
anche coloro che hanno perduto le risorse comuni quali pascoli,
piante medicinali, legname. Restano molti dubbi sulla
possibilità di applicare in maniera efficace la nuova
politica, dal momento che il governo del Lesotho e la LHDA si
mostrano reticenti ad impegnare le risorse economiche
necessarie.
3.4. Violazioni alla normativa internazionale di tutela dei
popoli indigeni durante la fase del riempimento del
bacino
Le violazioni si riferiscono sia alla normativa internazionale
sul reinsediamento forzato sia a quella sui diritti territoriali
delle popolazioni indigene che si trovavano nell'area di
costruzione della diga e nelle zone a monte e valle della stessa.
Alcuni strumenti internazionali regolano il reinsediamento
forzato di popolazioni indigene , prevedendo tra l'altro la
possibilità delle comunità locali di ritornare alle
proprie terre di origine, ove questo sia possibile. Diritti
violati in questa fase: * il diritto di partecipare alle
decisioni sull'utilizzo e la gestione della terra
tradizionalmente occupata e delle risorse; * il diritto delle
popolazioni indigene a dare il consenso preventivo per
attività che si svolgeranno sulle loro terre * il diritto
a beneficiare di tali attività; * il diritto ad un
compenso o rimborso equo. Questi diritti non riguardano solo il
caso in cui la terra è posseduta dalle popolazioni
indigene (ed è riconosciuto un titolo legale) ma anche
quello della terra usata tradizionalmente o occupata
stagionalmente. Il concetto di proprietà è per lo
più sconosciuto alle strutture legali tradizionali
indigene, ed il possesso è un diritto molto più
importante. Tuttavia, la legislazione nazionale e internazionale
non consente di verificare l'applicazione di regole che si basano
su presupposti diversi. Analizziamo in questa fase solo le
violazioni del diritto al compenso e del diritto per le
popolazioni locali ad un beneficio adeguato, poiché il
diritto alla consultazione e alla partecipazione alle decisioni
sul progetto è stato già analizzato in
precedenza.
a. Violazioni alla normativa internazionale sul reinsediamento
forzato e diritto di ritorno
La Convenzione 169 considera il reinsediamento come una misura
eccezionale e non prevede nessuna possibilità di
autorizzazione automatica. Il governo nazionale deve infatti
prima ottenere il consenso "libero e informato" delle popolazioni
interessate, intendendo con ciò che esse debbano prima
capire e poi acconsentire alle proposte (art. 16). Le popolazioni
hanno inoltre il diritto di ritornare sulle loro terre appena la
causa dello spostamento venga meno. La Dichiarazione Universale
dei Diritti dei Popoli Indigeni stabilisce ugualmente che "... I
popoli indigeni non saranno spostati a forza dalle loro terre.
Non avverrà alcuno spostamento senza un consenso libero ed
informato dei popoli indigeni in questione e dopo un accordo su
una compensazione equa e giusta e dove possibile lasciando loro
la scelta di ritornare" (art.10). La Dichiarazione Universale dei
Diritti dei Popoli afferma all'articolo 3 che "Ogni popolo ha il
diritto di conservare pacificamente il proprio territorio e di
ritornarvi in caso di espulsione". Nel caso di Yacyretà
alcuni esperti della Banca Mondiale hanno considerato il
reinsediamento della popolazione di Yacyretà come un
successo poiché, a paragone con altri casi, la popolazione
non ha manifestato molta resistenza a lasciare le proprie terre.
Pertanto, il caso Yacyretà veniva considerato come un
precedente positivo, indice di una buona pianificazione del
processo di spostamento della popolazione.[70] La mancanza di
resistenza, sottolineano invece gli antropologi e gli esperti
delle ONG che hanno valutato il caso da un punto di vista
indipendente, può essere meglio spiegata considerando che
la maggioranza delle persone coinvolte desiderava spostarsi in
nuove case da lungo tempo.[71] Il ritorno di alcuni gruppi
indigeni sulle isole non inondate non è stato
regolamentato. Il diritto di ritorno sulle proprie terre non
è stato riconosciuto poiché quelle terre verranno
inondate solo quando il livello di riempimento del bacino
arriverà a 83 mt. I gruppi indigeni potrebbero forse
reclamare quella terra alla luce degli articoli sopra citati
della Convenzione 169, sottoscritta sia dall'Argentina che dal
Paraguay, a causa dei ritardi del riempimento del bacino che si
protraggono da molti anni. La motivazione dello spostamento
potrebbe considerarsi decaduta, almeno per il momento. Nel caso
di Chixoy, come risulta evidente dall'analisi dei fatti che
abbiamo esposto, la politica seguita dal governo, dall'INDE e
dalla Banca Mondiale ha evidentemente violato la normativa
internazionale che pone il consenso "libero ed informato" delle
popolazioni coinvolte come requisito preliminare ad ogni
spostamento.
b. Violazioni dei diritti territoriali
Circa la questione del "compenso equo" gli strumenti
internazionali di tutela dei diritti delle popolazioni indigene
stabiliscono che debba essere data in cambio nuova terra, per
vivere e sviluppare le attività economiche tradizionali:
il principio della "terra in cambio di terra". In questo contesto
è importante che questa definizione consideri il valore
della terra all'interno della più ampia accezione di
territorio. "Territorio", o meglio ancora
"territorialità", descrive infatti la complessa
interrelazione tra le popolazioni indigene e la terra, le acque,
i mari, le banchine di ghiacci, le piante, gli animali e le altre
risorse naturali che contribuisce a definire il "background"
sociale, culturale, materiale e spirituale della vita delle
popolazioni indigene. Gli strumenti internazionali di tutela dei
diritti delle popolazioni indigene che abbiamo preso in
considerazione sono volti a tutelare il diritto a conservare il
territorio attraverso le generazioni e la possibilità di
difenderlo da abusi da parte dello stato o privati. Il
reinsediamento forzato e le compensazioni, qualora siano
imprescindibili, devono in ogni caso tenere in conto gli aspetti
ambientali della terra perduta e di quella ricevuta in cambio.
Gli articoli che possono essere utili per affrontare questo tipo
di problema sono: Art. 14 della Convenzione 169: rivolto in
particolare al riconoscimento delle caratteristiche specifiche
del rapporto degli indigeni con la terra, stabilisce le procedure
necessarie per definire la loro regolamentazione e il dovere dei
governi di salvaguardare il diritto a mantenere la terra
tradizionalmente occupata o utilizzata. I governi devono
identificare queste terre prima di stabilire ogni altra misura.
L'art 16 stabilisce che le compensazioni devono comprendere terre
di qualità e status legale almeno equivalente a quella
posseduta. Nel caso le popolazioni locali esprimano una
preferenza per le compensazioni in denaro esse devono essere
compensate stabilendo delle garanzie appropriate.
La sezione IV ("Diritti comuni al soccorso") della Carta su
Rischi Industriali e Diritti Umani contiene un articolo che
indica una politica sulle compensazioni innovativa rispetto agli
altri strumenti analizzati:[72] riguarda infatti non solo le
persone che hanno subìto danni, ma si estende a tutte le
persone che hanno subìto rischi potenziali, comprese le
persone ancora non nate e quelle colpite indirettamente. Le
compensazioni non si dovranno limitare al risarcimento equo del
danno subito, ma devono includere l'avvio di strategie e la
concessione di garanzie di risarcimento. Seppure queste
indicazioni si riferiscano in particolare al rischio di incidente
industriale ed abbiano come controparte l'impresa appaltatrice,
possono essere applicate anche al caso in cui il rischio sia
causato dalla costruzione di una grande diga (come vedremo meglio
nell'analisi degli effetti sull'ambiente e sulla salute svolta
nel capitolo successivo) e che lo stato sia il diretto
responsabile per le politiche delle compensazioni. Nota Bene:
Anche a livello nazionale gli accordi di costituzione delle
entità preposte alla gestione dei progetti hanno
considerato e regolamentato la questione del compenso. L'Accordo
del 1983 tra Argentina e Paraguay specifica che "habitat di
uguale carattere e grandezza di quelli che verranno presi con il
futuro bacino, devono essere dichiarati aree protette". Il
Trattato costitutivo della Lesotho Highland Water Project (LHWP)
garantisce che le popolazioni avrebbero potuto mantenere standard
di vita non inferiori a quelli che avevano al momento in cui sono
stati coinvolti (art. 7, par. 18).
La OD 4.30 della Banca Mondiale sul "Reinsediamento
involontario"
La Direttiva 4.30 è entrata in vigore nel 1990, dopo una
serie di revisioni di politiche precedenti, che avevano lo scopo
di ampliare la gamma dei progetti considerati (inizialmente erano
solo progetti di dighe ed irrigazione). Il problema del
reinsediamento è stato infatti uno dei più gravi
che la Banca si è trovata ad affrontare, come il par. 2
della direttiva recita, "...i progetti di sviluppo che danno
luogo a spostamenti involontari di persone sollevano gravi
problemi sociali, economici ed ambientali: i sistemi di
produzione sono smantellati, le fonti di guadagno vengono perse,
le persone reinsediate in ambienti in cui non possono esercitare
le loro capacità, le strutture comunitarie e le reti
sociali sono indebolite... Il reinsediamento può causare
grave impoverimento e danno all'ambiente a meno che non siano
messe in atto misure appropriate". La Direttiva 4.30 si prefigge
in prima istanza di evitare il reinsediamento forzato o di
minimizzarne gli effetti quando non questo sia possibile. Tutti i
progetti che richiedono uno spostamento di popolazioni richiedono
inoltre che venga effettuata una valutazione di impatto
ambientale (VIA) preliminare, con consultazioni e partecipazione
delle comunità coinvolte già dalle prime fasi della
progettazione, secondo quanto stabilisce anche la direttiva 4.01
sull'Impatto Ambientale. Il governo che riceve il prestito dalla
Banca ha la responsabilità della pianificazione e
realizzazione di un Piano di Reinsediamento, che prevede misure
per migliorare o mantenere appieno gli standard di vita
precedenti, le capacità di guadagno ed i livelli di
produzione. Prima della valutazione del progetto il governo deve
sottoporre alla revisione della Banca il Piano di Reinsediamento,
che deve in ogni caso essere reso pubblico.
La direttiva contiene anche alcune clausole specifiche per le
popolazioni indigene. Il par. 3e stabilisce che le compensazioni
(case, infrastrutture ed altro) devono riguardare anche la
perdita di terre che non erano di proprietà ma erano solo
usate o alle quali si applicavano diritti consuetudinari di
possesso. In questi casi l'assenza di un titolo legale sulla
terra non deve impedire le compensazioni. La direttiva è
anche esplicita sul fatto che le popolazioni indigene, oltre al
diritto ad essere informate sui piani di reinsediamento, hanno
anche quello di poter scegliere tra diverse alternative (par. 8).
Si preferisce l'applicazione del principio "terra in cambio di
terra" e cioè di un tipo di compensazioni in terre e beni
durevoli invece che in denaro o altri beni con un ciclo di
consumo più breve. Nel '94 la Banca ha condotto una
revisione interna di questa direttiva, che ha dimostrato uno
scarso livello di applicazione delle stesse da parte della Banca
e dei governi. Le popolazioni reinsediate erano risultate il
più delle volte ancora più povere di quanto fossero
prima del reinsediamento: "... L'impatto ambientale più
significativo delle operazioni di reinsediamento, svolte in modo
inadeguato è l'impoverimento ed il degrado ambientale
prodotto dalla povertà". (World Bank "Resettlement and
Development: The Bankwide Review of Projects Involving
Involuntary Resettlement 1986-1993"). Nell'ambito del processo di
revisione e semplificazione delle direttive operative, iniziato
nel 1993 al fine di renderle più semplici e meno
vincolanti per lo staff, la BM ha pubblicato nel 1997 una bozza
di testo contenente numerosi emendamenti, giudicati preoccupanti
dalle ONG. Tra l'altro: 1. viene sottovalutato il peso dei
reinsediamenti involontari nelle politiche complessive; 2. viene
rivista la priorità data alla "land-for-land
compensation": non sarà più necessario che la terra
concessa sia produttiva come quella abbandonata; 3. Lo staff non
sarà più tenuto a svolgere una valutazione
preventiva del numero e delle condizioni di vita delle persone da
reinsediare. Ogni strumento di garanzia è lasciato alla
piena discrezione delle agenzie responsabili per l'attuazione del
progetto o nelle mani dei funzionari della BM; 4. non prevede
più l'attuazione obbligatoria di valutazioni dell'impatto
ambientale nelle aree identificate per il reinsediamento.
La costruzione di una diga è uno degli interventi più pesanti sul territorio e sull'ecosistema, poiché altera in modo irreversibile l'ambiente, non solo nell'area del bacino ma anche a valle. Molti problemi ambientali derivano dalla mancanza di valutazione di impatto ambientale e da una stima non corretta dei costi e dei benefici derivanti dal progetto. I problemi tecnico ambientali - quali i terremoti nel caso di Katse - che mettono in pericolo gli abitanti e la stessa opera costruita sono da attribuire a chi ha elaborato il progetto ed alle compagnie costruttrici, responsabili del completamento e del funzionamento della diga. Esistono poi una serie di problemi ambientali, propri della costruzione di ogni grande diga, che colpiscono le comunità quali il cambiamento della morfologia del fiume a monte e a valle del bacino, il cambiamento della qualità dell'acqua e la riduzione della biodiversità. La salute della popolazione risente di questi mutamenti a diversi livelli: gli impatti che si sono verificati nei casi qui in esame sono stati fortemente negativi, mentre i benefici della "modernizzazione", quali l'accesso all'elettricità o lo sviluppo di nuove vie di comunicazione, sono rimasti sulla carta. In particolare nel caso di Yacyretà, dopo la costruzione delle infrastrutture non erano più disponibili fondi per finanziare i piani di reinsediamento e di miglioramento ambientale, mentre a Chixoy è mancata la volontà politica di migliorare le condizioni della popolazione. Per il Lesotho sono in corso trattative per mettere a punto nuove misure di risarcimento: quelle offerte si sono infatti rivelate del tutto insufficienti.
4.1. Yacyretà
Nel 1994 il bacino della diga di Yacyretà è stato
riempito ad un'altezza di 76 mt., nonostante il fatto che nessun
piano di compensazione e di riduzione dell'impatto ambientale
fosse stato correttamente applicato. Il bacino ha coperto un'area
di circa 100.000 ettari di terre incontaminate fino ad oggi, in
gran parte nello stato del Paraguay. La Banca Mondiale fornisce
precise indicazioni sulla necessità di identificare e
proteggere un'area equivalente a quella che viene persa nel corso
del progetto, specificando che ciò va fatto fin dai primi
stadi del ciclo di progetto.[73] In questo caso soltanto 9.000
ettari sono stati individuati come area protetta, sul lato
paraguaiano del fiume Paranà. La terra individuata
è degradata dall'allevamento intensivo di bestiame, dalla
pratica di agricoltura "taglia e brucia" ed entro i confini della
"riserva" esiste una base militare, la discarica della
città di Ayolas e un'area distrutta dalle escavazioni
fatte per la costruzione della diga. È stato più
volte sollecitato l'acquisto di altra terra, ma questa è
l'unica al momento posseduta dalla EBY. Sono state proposte e
concordate nuove acquisizioni di territori limitrofi, che
però non sono state ancora realizzate. Tra gli ulteriori
effetti negativi sull'ambiente vanno ricordati: la riduzione
delle specie animali, in particolare la fauna ittica - le stime
calcolano il rischio di estinzione per 60 specie animali - e
vegetali; gli effetti a valle sul corso del Paranà, che ha
visto calare la sua portata; gli effetti su un ramo del
Paranà, chiamato Ana Cuna, che con il tempo è
destinato a rimanere in secca, assieme all'ecosistema di piccole
isole ancora rimaste a valle della diga; gli effetti sulla falda
acquifera, che si sta sollevando, soprattutto durante il periodo
delle piogge; infine l'effetto di grave inquinamento, a causa
delle fabbriche sommerse e dei reflui urbani non
depurati.[74]
Secondo Sobrevivencia una delle cause che hanno permesso lo
spostamento "consenziente" da Encarnaciòn è stata
proprio la presenza di acqua fortemente inquinata da vegetazione
putrefatta e reflui urbani. Tutto ciò sta provocando
l'insorgenza di patologie poco diffuse in precedenza - malattie
del sistema digestivo, della pelle, febbri e malattie
respiratorie che, secondo i dati del Ministero della
Sanità del Paraguay sono aumentate tra 1990 e 1994 -
mentre si teme l'arrivo di malaria e schistosomiasi, tipiche
delle aree lacustri a queste latitudini. La qualità delle
acque dei pozzi è peggiorata in modo evidente e la
riduzione del pescato ha causato fenomeni di denutrizione nella
popolazione più povera. A Yacyretà la situazione di
rischio è stata verificata nel dicembre '96 dalla missione
congiunta di Banca Mondiale e Banca Interamericana di Sviluppo e
denunciata nel ricorso di Sobrevivencia all'Inspection Panel.[75]
In particolare il rischio deriva dalle piene che fanno salire il
livello dell'acqua del bacino e di conseguenza i pozzi
superficiali vengono inquinati dalle acque di fognatura. Il
bacino è inquinato dalle acque urbane e dai reflui
industriali che non sono depurati. I tassi di mortalità e
di malattie legate all'acqua sono molto alti, con picchi nella
stagione umida. I servizi di sanità pubblica sono del
tutto insufficienti e non sono stati potenziati all'interno dei
piani di reinsediamento. Nel caso di Yacyretà si
può configurare l'ipotesi di trasferimento del rischio
ambientale fuori del territorio nazionale, considerando l'energia
prodotta viene utilizzata in Argentina mentre la maggior parte
degli effetti ambientali vengono subiti dalle popolazioni in
Paraguay,
4.2. Chixoy
Dopo il riempimento del bacino della diga nell' '83 la centrale
elettrica cominciò a funzionare. Dopo cinque mesi venne
bloccata, poiché si temeva il crollo del tunnel che porta
l'acqua dal bacino alla centrale elettrica. La diga venne
riaperta alla fine dei lavori di consolidamento, nell' '85, ma la
centrale non funzionò mai oltre al 70% della potenza
prevista. Le spese di manutenzione della centrale sono molto
più alte di quelle pianificate ed ulteriori problemi
tecnici hanno richiesto lavori di consolidamento. Il
reinsediamento ha provocato il peggioramento delle condizioni di
vita e della qualità dell'alimentazione delle
comunità locali: questa si può considerare una
conseguenza diretta della diga, anche se si verifica ad una certa
distanza da essa. La scarsa conoscenza dell'ecosistema locale ha
reso impossibile una valutazione adeguata dell'impatto ambientale
della diga: le informazioni attuali ci indicano che le rive del
bacino sono state seriamente deforestate e si stanno trasformando
in un deserto a causa della fragilità del terreno; sono
falliti diversi tentativi di riforestazione, svolti probabilmente
troppo tardi. Per quanto riguarda il bacino la sedimentazione
registrata è molto più alta del previsto e la diga
si riempirà in tempi brevi di detriti: la diga potrebbe
avere quindi una vita molto più breve del previsto, alcune
fonti parlano di non più di 20 anni. Sia la Banca Mondiale
che l'INDE non hanno effettuato valutazioni preventive di impatto
ambientale né piani di salvaguardia, e le conseguenze
pesano sia sull'ambiente locale che sulle possibilità di
funzionamento della diga. A Chixoy la situazione abitativa della
popolazione è in generale peggiorata, e la produzione di
cibo su terreni poco fertili e di piccola estensione può
provocare uno stato di denutrizione cronica nella
comunità. Emerge in questo caso nel modo più chiaro
come la violazione del diritto ad un ambiente sano derivi dalla
non conoscenza del territorio, delle sue ricchezze e dei pericoli
che corre.
4.3. Katse
Dopo il riempimento del bacino di Katse nell'ottobre '95 si sono
verificati una serie di terremoti: 95 scosse in 16 mesi,
provocate dalla pressione dei 350 milioni di tonnellate
dell'acqua. Una faglia di 1,5 km. si è aperta nel
villaggio di Mapeleng. Inoltre si sono essiccate le fonti di
acqua potabile naturale. Questi effetti hanno ulteriormente
aggravato le preoccupazioni delle comunità locali,
già colpite dalle conseguenze del reinsediamento e
scettiche sull'attendibilità degli studi relativi
all'impatto della costruzione della diga. Le valutazioni
ufficiali si pronunciano in modo piuttosto vago sulla
sismicità indotta dal bacino della diga a Katse in
risposta alle preoccupazioni della popolazione, sostenendo che la
sismicità decresce con il tempo ed "alla fine le masse
rocciose che circondano il bacino raggiungono uno stato di
equilibrio e l'attività cessa".[76] Il progetto è
iniziato senza una valutazione di impatto ambientale complessiva,
anche se sono stati effettuati ben 35 studi della flora e fauna
dell'area dopo l'inizio della costruzione. I principali problemi,
denunciati durante la costruzione e dopo il riempimento del
bacino, sono stati: i terremoti. La perdita di specie autoctone,
piante e animali acquatici tipici del particolare ecosistema,
uccelli rapaci, la cui esistenza dipende dall'equilibrio di prede
presenti e anche dalla tranquillità dell'area. La carenza
di studi limnologici, cioè sulla temperatura e condizioni
del bacino (una carenza rilevata dalla stessa Banca Mondiale nel
suo rapporto del marzo '96) che permetterebbero di valutare il
nuovo ambiente di vita per la flora e la fauna, e sono importanti
specialmente per un bacino profondo come quello di Katse. Altro
problema di grande rilievo è l'insufficiente valutazione
della sedimentazione nel bacino, che comporta un problema per la
diga, se i sedimenti dovessero accumularsi tanto da modificare
sostanzialmente l'altezza delle acque, e un problema a valle, per
l'alterazione della composizione biologica delle acque (sostanze
nutritive e alterazione dell'acidità) ed il trasporto
naturale di sedimenti. A Katse è prevista l'apertura di un
giardino botanico con 350 diverse specie recuperate dall'area del
bacino e una sorveglianza sistematica delle specie a rischio.
Dopo le prime critiche si sono svolti corsi di "consapevolezza
ambientale" per le comunità locali, che comprendono corsi
interattivi e video. Alcuni osservatori considerano offensivo
questo tipo di approccio: si vorrebbero istruire le persone che
già conoscono il loro ambiente. Se fossero state
effettivamente consultate avrebbero potuto dare indicazioni utili
per la gestione delle risorse naturali della zona.[77]
Ultimo problema di cruciale importanza è quello dell'uso
dell'acqua e riguarda l'effettiva utilità dell'acqua che
deve essere portata dal Lesotho in Sud Africa: l'agricoltura
intensiva, l'uso industriale, gli sprechi nelle aree urbane sono
problemi che riguardano in modo diretto l'ambiente e la cura per
la risorsa chiave per il mantenimento della vita sul pianeta. Gli
effetti indiretti sulla popolazione in un'area ben più
vasta di quella del bacino sono i terremoti e la perdita di
terreno, che veniva usato come terra comune per pastorizia,
agricoltura ed approvvigionamento di legname. Le condizioni
sanitarie sono in generale peggiorate, come conseguenza dei fatti
descritti e della scarsa qualità e quantità delle
derrate alimentari fornite come compensazione. La drastica
diminuzione della pastorizia e l'impossibilità di
coltivare provocano un peggioramento dello stato di salute delle
comunità. L'emergenza sanitaria più grave esplose
comunque durante la costruzione della diga, quando si diffusero
AIDS, prostituzione, alcolismo.[78] Nonostante la gravità
dei problemi sia nei documenti preparatori che in quelli di
valutazione del progetto si fa scarsa menzione del tema salute:
nel rapporto del '96 della Banca Mondiale si cita invece il
maggiore accesso agli ospedali, che le nuove strade rendono
possibile, come un fattore positivo del progetto, senza
analizzare in modo approfondito i rischi presenti e le possibili
soluzioni. Per la prossima fase del LHWP esistono misure
più accurate[79] ed un budget apposito per campagne
informative e prevenzione: "... durante la fase 1A non è
stato fornito un sistema integrato di protezione della salute; si
sono sviluppati nell'area due sistemi di sanità paralleli,
uno per la forza lavoro assunta appositamente e l'altro per la
popolazione locale; la fase 1B dovrebbe fornire un sistema di
sanità integrato sia per la forza lavoro che per la
popolazione locale".[80]
4.4. Violazioni delle normative internazionali di tutela
dell'ambiente, della biodiversità e della salute
La normativa internazionale sulla tutela dell'ambiente e per lo
sviluppo sostenibile adottata di recente si rivolge ai governi e
riguarda la gestione delle risorse all'interno degli stati e la
gestione delle risorse ambientali globali tra gli stati,
confinanti e non. La mancanza di studi preventivi e di
valutazione di impatto ambientale da parte dei governi e delle
imprese costruttrici è causa dei più gravi danni
alle comunità locali e all'ecosistema, insieme alla
mancata consultazione delle comunità, che anche oggi
potrebbero fornire un aiuto importante. Il diritto alla salute a
sua volta non può prescindere dalla tutela dell'ambiente:
la sua violazione non si verifica però soltanto nella fase
successiva al riempimento del bacino ma assume ora, assieme alla
violazione dei diritti ambientali, un carattere di permanenza: si
accumulano problemi non affrontati nelle fasi precedenti,
mettendo in pericolo la sopravvivenza futura delle
comunità. Le violazioni specifiche del diritto alla salute
per quel che riguarda le comunità locali e i lavoratori
nei cantieri sono state già viste nel secondo capitolo
alla luce della Carta sui Rischi Industriali e i Diritti Umani.
Per il caso specifico delle popolazioni indigene le violazioni
del diritto ad un ambiente sano ed alla salute sono invece state
trattate rispettivamente nel primo e nel secondo capitolo.
a. Violazioni della normativa, delle convenzioni e delle
dichiarazioni internazionali per la protezione dell'ambiente e
della diversità biologica
Gli accordi e gli strumenti internazionali violati sono nello
specifico: La "Dichiarazione di Rio su Ambiente e Sviluppo
(1992), in particolare i principi
1: "Gli esseri umani sono la principale preoccupazione dello
sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto ad una vita sana e
produttiva in armonia con la natura";
3: diritto allo sviluppo per il presente e il futuro;
4: la protezione ambientale deve essere parte integrante dello
sviluppo;
9: gli stati devono collaborare per rafforzare le capacità
endogene e le conoscenze locali;
11: gli stati devono applicare legislazioni ambientali efficaci;
13: si devono prevedere compensazioni per danni ambientali;
15: si deve applicare l'approccio precauzionale (non mettere in
atto alcuna attività di cui non sia provata la
innocuità);
16: si devono considerare nelle valutazioni economiche i costi
ambientali;
17: le valutazioni di impatto ambientale andranno svolte prima di
ogni progetto;
22: le comunità indigene e le comunità locali hanno
un ruolo chiave nella gestione ambientale e nello sviluppo.
L'"Agenda 21" (1992) nei capitoli:
8: integrazione di ambiente e sviluppo nelle decisioni;
15: conservazione della diversità biologica;
18: protezione della qualità e fornitura di acqua dolce,
applicazione di approcci integrati allo sviluppo, gestione e uso
delle risorse acquifere;
35: scienza per lo sviluppo sostenibile.
La "Carta su Rischi Industriali e Diritti Umani":
art. 6: sovranità permanente sugli ambienti di vita. In
esso è stabilito che nessuno stato può esercitare
il suo diritto in modo da danneggiare la salute o l'ambiente di
vita delle sue popolazioni, né provocare danni
all'ambiente di altri stati o territori al di fuori della sua
giurisdizione nazionale. Lo stesso articolo stabilisce l'obbligo
di monitorare l'attività delle imprese pericolose o
potenzialmente pericolose.
La Convenzione sulla Biodiversità, in particolare agli
articoli:
10 sull'uso sostenibile delle componenti della diversità
biologica e
14: valutazione degli impatti e minimizzazione degli impatti
negativi.
Il primo stabilisce l'importanza della valutazione, della
conservazione e dell'uso sostenibile delle risorse biologiche nei
processi decisionali nazionali, e l'adozione di misure tali da
evitare o minimizzare l'impatto sulla diversità biologica,
puntualizzando come vadano salvaguardati gli usi tradizionali ed
il sostegno alle popolazioni locali che lo praticano. Il secondo
stabilisce invece, tra l'altro, la necessità di notificare
e informare sul potenziale di rischio per la diversità
biologica ad altri stati e alla comunità internazionale.
Nella progettazione delle dighe i governi in esame non hanno
tenuto conto dei bisogni ambientali delle generazioni future e
così facendo hanno compromesso l'ecosistema dell'area. Lo
stesso vale per le politiche energetiche, che non sono servite a
migliorare le condizioni della popolazione locale. Gli stati
coinvolti come beneficiari dell'energia prodotta o dell'acqua
convogliata non hanno rispettato le attuali norme internazionali
sulla limitazione dei danni ambientali degli stati confinanti. I
paesi industrializzati che finanziano i progetti, direttamente o
indirettamente in quanto stati membri del Consiglio Direttivo
della Banca Mondiale, non si sono in nessun modo sentiti
responsabili delle minacce all'ambiente e delle tecnologie ad
alto rischio esportate. Non effettuando le valutazioni e i
monitoraggi necessari e vincolanti, le imprese costruttrici hanno
contribuito al danno ambientale in maniera seppur indiretta.
b. Violazioni del diritto alla salute
Le violazioni sono relative a: "Agenda 21", capitolo 6:
proteggere e promuovere la salute umana, con particolare
riferimento a: soddisfacimento dei bisogni sanitari, in
particolare nelle aree urbane, controllo delle "malattie
comunicabili" (quelle note e che si possono curare con la
prevenzione), protezione dei gruppi vulnerabili e riduzione del
rischio da inquinamento e pericoli ambientali. La Costituzione
della OMS nei suoi principi di base, in particolare: "La salute
di tutte le persone è fondamentale per la pace e la
sicurezza e dipende dalla piena cooperazione di tutti gli
individui e gli stati", e che specifica che "I governi hanno la
responsabilità della salute delle popolazioni che si
può ottenere solo mettendo in opera misure sociali e
sanitarie adeguate". L'OMS ha anche svolto un'analisi del
capitolo citato dell'Agenda 21,[81] sottolineando gli effetti
sulla salute: "Gli effetti dell'energia idroelettrica sulla
salute sono principalmente indiretti e collegati ai cambiamenti
ambientali derivanti dalla costruzione di grandi dighe. Queste
possono portare molti benefici oltre a quello di produrre
elettricità. L'acqua imbrigliata dalle dighe viene spesso
usata anche per controllare le inondazioni e per fornire acqua
potabile e per l'irrigazione. Tuttavia possono registrarsi alti
costi i costi sanitari, riguardanti soprattutto le
comunità rurali più povere. Questi comprendono gli
incidenti, le malattie e le morti dei lavoratori durante la
costruzione della diga e lo spostamento dei residenti per fare
spazio al bacino. ...Le persone trasferite soffrono spesso di
stress psicologico dovuto alla perdita dell'occupazione e delle
relazioni sociali, allo sradicamento dalla vita ordinaria, e allo
smembramento delle loro famiglie. Altri problemi sanitari sono
associati al deterioramento delle scorte alimentari e alla
mancanza di alloggi ed ambienti di vita salubri nelle aree dove
le popolazioni vengono reinsediate." Vengono poi spiegati i danni
diretti all'ambiente: "... quando l'acqua viene ottenuta
sbarrando un torrente o un fiume, l'accumularsi di bacini idrici
di grandi dimensioni e quasi stazionari può, nei paesi
tropicali, favorire la diffusione di malattie portate da vettori.
La ritenzione dell'acqua del fiume con grandi dighe può
avere effetti a valle come la riduzione dei nutrienti ... In aree
dove la popolazione dipende da pozzi per il fabbisogno quotidiano
di acqua potabile si verifica l'abbassamento delle falde
acquifere ...". I principali problemi riportati sono quelli che
nella trattazione abbiamo verificato ed esposto. La Carta Europea
dell'Ambiente e della salute stabilisce, nella sessione "diritti
ed obblighi", il dovere dei governi di condividere la comune
responsabilità per la salvaguardia dell'ambiente globale
nell'applicazione delle direttive in essa contenute. Esse si
riferiscono in particolare alla regolamentazione di:
approvvigionamento di acqua potabile, qualità dell'acqua,
sicurezza microbiologica e chimica, impatti sull'ambiente e sulla
salute delle differenti opzioni adottate in materia energetica,
preparazione alle situazioni di emergenza, utilizzo di tecnologie
sostenibili.
Le conseguenze della costruzione delle grandi dighe si fanno sentire nel tempo, non solo perché cambia in modo irreversibile l'ambiente: in Argentina e Paraguay, Guatemala e Lesotho non sono stati risolti i problemi urgenti di reinsediamento e compensazione e le popolazioni locali continuano a rimanere sostanzialmente estranee ai processi decisionali. Nei tre casi i problemi che si sono presentati sono stati puntualmente denunciati dalle Organizzazioni Non Governative locali e da quelle internazionali, che lavorano per appoggiare le loro richieste. Si è infatti stabilita una collaborazione che vede interagire la denuncia locale e le richieste nei paesi donatori: ai finanziatori delle grandi opere - la Banca Mondiale, le altre banche multilaterali e quelle private - le ONG chiedono di controllare l'utilizzo dei fondi e di essere responsabili della cattiva gestione, convogliando le risorse su progetti sostenibili dal punto di vista sociale ed ambientale. In tutti e tre i casi molto rimane da fare, e si tratta di esperienze da utilizzare nel modo migliore, perché gli stessi errori non vengano ripetuti in futuro.
5. 1. Yacyretà
La diga di Yacyretà sta funzionando per la produzione di
energia elettrica: al momento lavorano parzialmente le 20 turbine
previste, ai due terzi del potenziale. Argentina e Paraguay
dovranno trovare i fondi per attuare l'Environment Mitigation
Plan previsto nel '92,[82] che ha l'obiettivo di proteggere
l'ambiente nelle aree destinate alla compensazione. L'EBY
dovrebbe anche ultimare gli acquisti di terreni da privati. Al
momento attuale entrambe queste misure sembrano inattuabili a
causa della crisi economica e del protrarsi delle discussioni
sulle misure di compensazione da parte dei funzionari della Banca
Mondiale, che ha già esaminato i risultati del ricorso
all'Inspection Panel da parte della popolazione. In Argentina nel
corso del '97 si sono svolte trattative per privatizzazione la
gestione della diga e la produzione energetica, che però
non si sono concluse. La privatizzazione potrebbe pregiudicare la
possibilità, già precaria, dei governi di concedere
i risarcimenti per le perdite subite dalle popolazioni locali: si
prevedeva infatti di ottenere i fondi necessari dai proventi
della gestione dell'impianto. La ONG paraguaiana Sobrevivencia ha
sottoposto nel settembre 1996 un ricorso all'Inspection Panel
della Banca Mondiale ed alla Banca Interamericana di Sviluppo, i
due finanziatori della diga di Yacyretà, per la violazione
di politiche e procedure durante il ciclo di progetto. Il ricorso
è stato esaminato dalle due Banche con procedure diverse,
anche perché solo la Banca Mondiale ha un corpo di
valutazione autonomo, l'Inspection Panel. Nel febbraio del '97 l'
Inspection Panel accoglie il ricorso ed il Consiglio dei
Direttori Esecutivi della Banca Mondiale autorizza una "revisione
e verifica" del progetto. Non si tratta di un'indagine completa
ma di un esame e valutazione della violazione delle procedure
della Banca Mondiale: viene omessa la violazione delle politiche,
come aveva chiesto la popolazione. L'incarico all'Inspection
Panel comprende una valutazione dei Piani di Azione su
reinsediamento e ambiente preparati dai funzionari della Banca
Mondiale. A settembre '97 l'Inspection Panel invia il rapporto
finale[83] al Consiglio dei Direttori della Banca Mondiale. In
esso si propongono una serie di misure da adottare
immediatamente. Primi di dicembre '97: si discute il rapporto. In
quella occasione il Consiglio dei Direttori Esecutivi non prende
una decisione: ha valutato che esistono progressi, impegnandosi
in prima persona a monitorare gli sviluppi della situazione nei
successivi sei mesi. Il riempimento della diga è stato
sospeso al livello di 76 metri; nel progetto è previsto un
successivo riempimento fino a 78 metri ed un'ultima fase a 83
metri sul livello del mare. La Banca Mondiale riconosce la
necessità di garantire un'applicazione efficace delle
misure di compensazione ancora in sospeso e di assicurare le
compensazioni per l'ulteriore innalzamento del bacino. A tal fine
la Banca ha concordato con la EBY un Piano d'Azione ("piano B")
per il periodo 1997-2001: sulla sua applicazione si è
impegnato anche il governo argentino.[84] Resta in sospeso la
definizione dell'entità dei costi mentre il governo
paraguaiano non ha preso alcun impegno. Il documento che illustra
il "piano B" non è stato mai reso pubblico e questo ha
provocato la protesta delle comunità locali, che lamentano
la totale mancanza di consultazione e la disinformazione, di cui
sono responsabili gli stessi rappresentanti della Banca Mondiale
per l'area., mentre l'Inspection Panel ha espresso riserve sulla
sua validità. La Banca Interamericana di Sviluppo (IDB) ha
nominato una Commissione di tre esperti per la revisione del
progetto, le cui conclusioni, contenute in un rapporto, sono
state trasmesse il 25 settembre '97 ai Direttori Esecutivi. Il
rapporto del Panel è stato reso pubblico solo nel febbraio
'98.[85] Contemporaneamente i Direttori Esecutivi della IDB hanno
presentato i loro commenti. Nel suo rapporto, la Commissione ha
ritenuto insoddisfacente il lavoro di EBY e delle Banche
finanziatrici per limitare i problemi insorti nel corso del
progetto, ribadendo la necessità di coinvolgere più
direttamente ed informare le popolazioni locali e proponendo
alcune soluzioni ai problemi registrati. I prestiti già
erogati non saranno sufficienti a coprire tutte le spese
necessarie e sarà necessario un intervento ulteriore dei
governi interessati. Il rapporto inoltre raccomanda di completare
gli studi di valutazione socio ambientale di base. Nella sua
risposta, il management dell'IDB, a differenza della Banca
Mondiale, afferma che provvederà affinché i governi
mantengano gli impegni presi, che le azioni intraprese siano
adeguate e che vengano effettuate ulteriori verifiche. La
partecipazione attiva della popolazione locale viene riconosciuta
come condizione fondamentale per l'erogazione del prestito
già approvato.[86]
Tutto il lavoro di Sobrevivencia, il lavoro del Panel e le
riunioni del Consiglio dei Direttori Esecutivi delle Banche
interessate sono stati accompagnati da un'attività di
informazione al pubblico delle ONG internazionali, che nei paesi
donatori della Banca Mondiale hanno sollecitato attenzione sul
tema. Il Direttore Esecutivo italiano è stato informato,
con l'invio di lettere e aggiornamenti continui e diversi membri
della Camera e del Senato italiani si sono mobilitati a loro
volta mandando direttamente lettere al rappresentante italiano
alla Banca Mondiale. Una interrogazione è stata inoltrata
al Senato il 16 gennaio 1997[87] ed ha ricevuto risposta dal
Ministro del Tesoro il 30 gennaio 1998, dove si afferma che "...
nel corso delle discussioni preliminari (sul ricorso della
comunità locali all'Inspection Panel) si è
verificata una spaccatura tra i paesi beneficiari e quelli
industrializzati. I primi si sono schierati contro l'ispezione,
che potrebbe trasformarsi in un'indagine ed una pura valutazione
sulle scelte del Governo argentino. I paesi industrializzati si
sono, invece, espressi in linea di massima a favore
dell'ispezione. ... (si è proposto che) l'Inspection Panel
della Banca Mondiale ... concentri la propria indagine sulle
misure da intraprendere in futuro per contenere al massimo i
danni all'ambiente ed alle popolazioni locali derivanti dallo
sfruttamento integrale del bacino idrico".[88] L'Inspection Panel
Dopo proteste che dall'India rimbalzarono nel mondo intero la
Banca Mondiale istituì una commissione d'inchiesta sulla
diga di Narmada, presieduta da Branford Morse. La commissione
concluse i suoi lavori nel 1992 con un rapporto che definiva il
comportamento della Banca e del governo indiano "in tutto e per
tutto delinquenziale". In seguito alle raccomandazioni del
rapporto Morse, la Banca Mondiale si ritirò dal progetto
ed istituì un organismo indipendente di controllo: doveva
funzionare come una sorta di corte d'appello, a cui potessero far
ricorso le popolazioni locali. L'Inspection Panel ha iniziato le
sue attività nell'agosto 1994. Conta tre membri eletti dal
Consiglio dei Direttori Esecutivi su raccomandazione del
Presidente, che hanno la possibilità di indagare su
progetti finanziati da IBRD (International Bank for
Reconstruction and Development) e IDA (International Development
Agency). Il Panel può indagare su ricorsi presentati da
individui o gruppi che si ritengono danneggiati dalla mancata
osservanza delle politiche e procedure interne della Banca e dal
mancato rispetto degli accordi di prestito con i paesi. Appena
ricevuto il ricorso, il Panel può raccomandare l'inizio di
un'indagine al Consiglio dei Direttori Esecutivi, che la devono
autorizzare. Dopo l'indagine, il Panel pubblica un rapporto con
le sue conclusioni ai funzionari ed al personale della Banca
Mondiale I funzionari dovranno rispondere entro sei mesi,
comunicando le proprie raccomandazioni ai Direttori Esecutivi che
decideranno le azioni da intraprendere.
Il Panel rappresenta la più importante innovazione
introdotta dalla Banca Mondiale per aumentare il livello di
controllo democratico, partecipazione e trasparenza delle
decisioni. È un importante precedente per la legislazione
internazionale, e lo stesso meccanismo di controllo potrebbe
essere adottato da altre Istituzioni Finanziarie Internazionali.
Fino ad oggi solo Asian Development Bank e Interamerican
Development Bank hanno messo in opera procedure di ispezione.
L'Inspection Panel può indagare oggi sui progetti
finanziati da IBRD e IDA, mentre acquistano un ruolo sempre
maggiore i progetti promossi dall'IFC (International Financial
Corporation) e garantiti dalla MIGA (Multilateral Investment
Guarantee Agency), sportelli della Banca Mondiale che finanziano
il settore privato. È molto importante che in futuro
questo settore venga sottoposto alle stesse procedure e che si
aumenti la trasparenza, il controllo da parte dei cittadini e la
qualità dei progetti. In tre anni di attività
l'Inspection Panel ha contribuito in parte a migliorare la
qualità dei progetti in esame. Nella situazione attuale
resta l'unica garanzia che le popolazioni locali hanno di un
intervento indipendente in loro difesa, quando si vedano
minacciate da progetti della Banca Mondiale. Le attività
dell'Inspection Panel non sono sempre accolte con favore dal
management della Banca Mondiale e talvolta dai Direttori
Esecutivi. Attualmente è in corso una revisione delle sue
competenze, e le ONG internazionali sono preoccupate che venga
garantita l'indipendenza del sue attività, rafforzata la
capacità di intervenire per proporre soluzioni ai problemi
oggetto dei ricorsi ed allargata la competenza anche alle
attività di IFC e MIGA.
5.2. Chixoy
La diga si è rivelata un disastro dal punto di vista
finanziario e non serve a coprire le necessità energetiche
del paese: anche se la dipendenza dal petrolio è
diminuita, il Guatemala continua a spendere ogni anno 150 milioni
di dollari per la produzione elettrica. Il progetto Chixoy costa
per il mantenimento delle strutture un minimo di 8 milioni di
dollari l'anno e solo quando funziona appieno copre dal 50 al 70%
delle necessità del paese. Il costo dell'energia per gli
abitanti è aumentato costantemente negli ultimi anni, ma
solo il 30% della popolazione dispone finora di energia
elettrica. Una valutazione della Banca Mondiale condotta nel '96
indica "... la media di produzione elettrica annuale a Chixoy
è stata di 1.300 GW, da quando l'impianto è stato
completato nel 1985"[89] e il Rapporto di Progetto della Banca
Mondiale per Chixoy fornisce una stima della produzione totale di
energia elettrica per tutti gli impianti del paese tra il 1986 ed
il 1988 pari a solo 1.188 GWh/anno" secondo lo stesso documento
"Circa un terzo della capacità del Guatemala si produce in
impianti diversi da Chixoy".
Secondo Patrick McCully, che ha condotto una critica del
documento della Banca nel 1996 "Il documento 'Profiles of Large
Dams' sottolinea che la media di 1.300 GW l'anno è ben al
di sotto del potenziale previsto, 1.540 GW, ma questo fatto non
è neppure menzionato nel documento di valutazione
finale".[90] Il costo finale del progetto non è ancora
chiaramente definito: diverse stime vanno dai 1,2 miliardi di
dollari (521% più alto del costo previsto) ai 2,5 miliardi
di dollari. Il motivo di questi aumenti va dalle ragioni
tecniche, che hanno fatto rinviare e cambiare il progetto, alla
svalutazione del quetzal, alla corruzione. Alla fine il debito
pubblico del paese è aumentato sostanzialmente a causa di
questa diga, ed è la popolazione quella che pagherà
i veri costi di tutta l'operazione: l'INDE ha contratto 404
milioni di dollari di debito - nel 1991 il debito dell'INDE
costituiva il 45% del debito estero del Guatemala. La Banca
Mondiale ha effettuato nel '96 una verifica sul campo: ha
concluso che gli abitanti non sono mai stati correttamente
compensati ed ha sollecitato l'acquisto di altra terra. Per
quanto riguarda i massacri della popolazione civile del 1982, la
Banca Mondiale ha ammesso i fatti, pur negando ogni conoscenza
della situazione al momento ed ogni responsabilità: la
motivazione è ricondotta costantemente ai "problemi
interni" del Guatemala. Tutto ciò è avvenuto dopo
venti anni dall'inizio del progetto e solo dopo la pubblicazione
del rapporto di Witness for Peace.[91] La comunità di
Pacux ha tentato di negoziare con l'INDE le compensazioni
concordate nel 1982 - ben 16 anni fa - con il governo del
Guatemala, in particolare per i titoli di proprietà della
terra e le nuove terre da acquisire. Fino ad oggi però la
maggior parte degli abitanti non ha ancora ricevuto i titoli di
proprietà per le case né per le terre, documenti
essenziali per ricevere le compensazioni, cifre che variano (con
valutazioni ormai molto vecchie) dagli 8 ai 172 dollari. Le
consultazioni sulle compensazioni e il reinsediamento avvengono
oggi, in una situazione in cui procede un processo di
pacificazione e di dialogo nazionale, con la mediazione della
organizzazione cattolica "Pastoral Social" della Diocesi di
Verapaz e della organizzazione guatemalteca FONAPAZ (Fondazione
Nazionale per la Pace). Le condizioni in cui versa l'INDE,
l'azienda di stato per l'energia elettrica, sono però
molto difficili: la stessa Banca Mondiale ha ammesso, dopo la sua
visita sul campo nel '96, di dubitare che l'azienda possa
soddisfare le richieste finora inevase. È in corso inoltre
la privatizzazione dell'INDE, che si dividerà in 3
istituzioni separate: anche il referente per le negoziazioni
potrebbe quindi presto venire a mancare.
5.3. Katse
Rimangono aperti a tutt'oggi diversi problemi legati alla prima
fase del progetto Lesotho Highlands Water Project (LHWP): si
tratta dei danni alle case provocati dal terremoto, delle
compensazioni che sono insufficienti al sostentamento di molte
persone, della mancanza di acque dai pozzi, che si sono esauriti,
della qualità dell'acqua del bacino e dei trasporti
attraverso il nuovo lago che si è formato. Dal riempimento
del bacino infatti, hanno cominciato a funzionare delle piccole
barche per il trasporto delle persone, per evitare la lunga
strada di 70 km. che circonda il lago; ci sono al momento
problemi di sicurezza e mantenimento delle imbarcazioni, di
istruzione delle persone che le guidano, di programmazione di un
servizio regolare. Ci sono inoltre piccoli ponti per il passaggio
pedonale che sono considerati poco sicuri.[92] Attualmente la
diga di Katse sta funzionando, dopo una serie di modifiche
tecniche per contenere gli effetti dei terremoti sulla
stabilità dell'opera. Il 22 gennaio 1998 è stata
inaugurata la prima fornitura di acqua al Sud Africa. Per quanto
riguarda gli sviluppi futuri - sia la fase 1B che le altre dighe
previste - due valutazioni della situazione stanno animando la
discussione. Da una parte considerazioni tecniche sulla portata
degli affluenti fanno ritenere troppo ottimistiche le stime
iniziali: non ci sarebbe dunque nelle Highlands abbastanza acqua
per alimentare le cinque dighe previste.[93] Dall'altra le
dichiarazioni di Archer Davis, direttore del Rand Water Board
(RWB, Agenzia sudafricana per le acque del settembre del '97
secondo le quali il Sud Africa non avrà bisogno per i
prossimi 15-20 anni dell'acqua del Lesotho, se riuscirà ad
applicare corrette misure di gestione delle acque.[94] L'RWB,
secondo le dichiarazioni del direttore, ha elaborato un piano per
posporre il progetto di 10 anni, fornendo compensazioni per le
mancate entrate al Lesotho, al termine dei quali si sarebbe
proceduto ad un riesame della fattibilità complessiva. La
fase 1B del progetto sta procedendo, con i primi lavori di
costruzione della diga di Mohale e la LHDA ha provveduto ad
assumere una persona che si occupa del rapporto con le
comunità locali, che dovrebbe aiutare ad evitare molti dei
problemi che si sono presentati fino ad oggi. Si tratta
però di un'attività di pubbliche relazioni, non di
reale coinvolgimento delle comunità, poiché la
decisione di realizzare un progetto di tale impatto sociale ed
ambientale è stata presa senza una consultazione
preventiva. Le ONG locali e sudafricane hanno espresso le loro
preoccupazioni in un comunicato stampa diffuso il giorno
dell'inaugurazione della distribuzione di acqua da Katse alla
regione del Guateng in Sud Africa. Second questo documento il
costo dell'acqua del Lesotho per il Sud Africa risulta molto
alto: gli stessi soldi dovrebbero essere investiti in piani di
contenimento delle perdite e controllo dei consumi; oggi solo un
quinto della popolazione viene rifornito di acqua: gli
investimenti dovrebbero andare per un uso responsabile e per
garantire l'acqua a tutti, mentre le spese previste per le future
fasi del LHWP renderanno tutto ciò impossibile; le
compensazioni non sono state soddisfatte per la prima fase (diga
di Katse). La prossima fase, la costruzione della diga di Mohale,
colpirà direttamente 1.500 persone nel distretto di Thaba
Tseka, uno dei più poveri del Lesotho, e non c'è
alcuna garanzia che le compensazioni verranno effettuate in modo
corretto.
Le richieste delle ONG ai governi sono le seguenti:
risolvere immediatamente i problemi aperti con le passate
compensazioni; aprire un confronto pubblico sulla
necessità di proseguire il progetto LHWP oggi (costruzione
della diga di Mohale); rinunciare alle successive fasi
(costruzione di altre tre dighe); mettere in atto in Sud Africa
misure di limitazione degli sprechi e di uso sostenibile
dell'acqua. Alla Banca Mondiale si chiede di non finanziare
più il progetto così come era stato definito,
poiché era servito ad evitare le sanzioni internazionali
al regime sudafricano e di accertarsi che siano applicate le
misure sopra descritte prima di esaminare altre richieste di
finanziamento, per rispettare le stesse politiche della Banca in
materia di costruzione di dighe.[95] Nel febbraio del '98, per
dar maggior vigore a queste richieste alcune ONG sudafricane
hanno presentato un ricorso all'Inspection Panel, che ne
dovrà valutare l'ammissibilità. Ancora nel '98
alcuni abitanti della township di Alexandra, in Sud Africa hanno
presentato un ricorso contro l'approvazione del prestito della
Banca Mondiale per la fase 1B, La situazione è quindi in
evoluzione e i futuri sviluppi decideranno del progetto nel suo
complesso. Il crimine di etnocidio o "genocidio culturale"
secondo i Protocolli Addizionali Provvisori della Fondazione
Lelio Basso e la sua applicazione ai popoli indigeni.
I Protocolli Addizionali sono stati proposti dalla Fondazione
Internazionale Lelio Basso per il diritto e la liberazione dei
popoli nel 1993: sono il risultato della riflessione di una
commissione di giuristi internazionali sui lavori del seminario
"Il concetto del genocidio oggi e nella Convenzione del 9
dicembre del 1948" tenutosi a Napoli nel dicembre 1993. I
protocolli, che sono stati indirizzati come raccomandazione agli
stati dalle Nazioni Unite, rivedono l'articolo II della
Convenzione sul Genocidio del 1948, dove si prevede
l'intenzionalità della distruzione fisica di un gruppo. Il
crimine di genocidio ha ormai assunto forme completamente nuove,
con i cambiamenti della società e del sistema economico
attuale. Esistono diversi modi di distruggere la
possibilità di autoriproduzione di un gruppo: dalla
distruzione sistematica delle istituzioni loro proprie, dei siti
o dei monumenti che racchiudono la memoria del passato,
all'espulsione dal territorio tradizionale, alla distruzione
delle attività economiche. Il secondo dei Protocolli
Addizionali considera in particolare crimini di diritto
internazionale tutti quegli atti che hanno il fine o l'effetto di
distruggere l'integrità culturale dei gruppi protetti,
anche nel caso in cui questi atti siano avvenuti senza
l'intenzione esplicita di distruggere l'identità culturale
del gruppo, a condizione che fosse ragionevole supporre che
questi fossero gli effetti. Questo protocollo mira a reprimere
ogni attentato all'integrità culturale non solo nel senso
stretto del termine (lingua, religione, produzione letteraria ed
artistica, ma considera l'identità culturale come effetto
di un sistema di valori che si esprime su diversi piani: quello
dell'ambiente di vita, dei mezzi di produzione e delle relazioni
di lavoro, dell'ordine legale, delle istituzioni politiche e
sociali. Definendo in modo così ampio la nozione di
cultura, tale protocollo si riferisce in particolare alle
popolazioni indigene ed alla violazione del loro sistema di
valori. Il secondo Protocollo contiene una lista di esempi per
chiarire quale azione può portare alla distruzione
dell'identità culturale di un gruppo. Ci riferiamo in
particolare ai seguenti paragrafi:
".... c) l'interruzione forzata dei rapporti tradizionali che
uniscono il gruppo con la terra o il territorio, privandolo della
terra o delle sue risorse;
d) un'aggressione all'ambiente che causi cambiamenti sostanziali
ed irreversibili delle condizioni di vita del gruppo senza il
loro consenso;
e) ogni trasferimento del gruppo se l'intento o l'effetto sia
quello di violare o pregiudicare i loro diritti;
f) la distruzione della proprietà culturale del gruppo
(monumenti storici, luoghi di culto...) o l'interdizione al loro
uso.
N.B. Una definizione simile di etnocidio, e una lista simile di
azioni che lo possono determinare, è contenuta nella
versione provvisoria della Dichiarazione dei Diritti dei Popoli
Indigeni elaborata nel 1993 dal Gruppo di lavoro sulle
popolazioni indigene delle Nazioni Unite.
Il lavoro di ricerca della Campagna per la Riforma della Banca
Mondiale e della Fondazione Internazionale Lelio Basso, oltre a
consentire una ricostruzione storica e politica degli avvenimenti
che hanno caratterizzato lo sviluppo dei progetti di costruzione
delle dighe di Yacyretà, Chixoy e Katse, analizza il loro
impatto sociale e ambientale e denuncia le violazioni ai diritti
dell'uomo, dei popoli e dell'ambiente che hanno comportato.
L'accusa è esplicita: gli autori dei progetti (Banca
Mondiale, governi, imprese multinazionali costruttrici) hanno
violato, direttamente o indirettamente, i diritti delle
popolazioni che risiedevano nell'area di costruzione delle dighe.
Tra i più importanti il diritto ad essere consultate e
partecipare ai processi decisionali, a non essere reinsediati a
forza, a beneficiare delle attività che si svolgono sulle
proprie terre e ad un compenso equo nel caso di perdite; il
diritto all'informazione sui rischi per la salute e per
l'ambiente di vita e in ultimo, ma non meno importante, la
violazione dei diritti etnici e culturali. Gli strumenti di
riferimento sono quelli del diritto internazionale, che tutela i
diritti collettivi e quelli dell'ambiente: tra gli altri la
Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli, la Convenzione
n. 169 dell'ILO sui Diritti dei Popoli Indigeni e Tribali,
l'Agenda 21, la Convenzione sulla Biodiversità, lo Statuto
dell'OMS. Una particolare attenzione viene riservata alla
violazione delle normative interne sul reisediamento (O.P.4.30) e
sulle popolazioni indigene (O.P.4.20) che la stessa Banca
Mondiale si è data negli ultimi anni per rispondere alle
critiche che le provenivano dalle organizzazioni ambientaliste e
di sviluppo internazionali di fronte all'inefficacia, e spesso
all'impatto disastroso, della maggior parte dei cosiddetti
"progetti di lotta alla povertà".
Il tipo di analisi utilizzato nel rapporto, a metà tra il
diritto e l'antropologia (nell'area di costruzione delle dighe
erano infatti presenti popolazioni "indigene") permette di
identificare gli effetti che un modello di sviluppo forzato, come
quello delle grandi dighe, ha sulle condizioni di vita e sulle
future possibilità di autoriproduzione fisica, ed come
gruppo etnico, delle popolazioni locali. L'entità degli
impatti negativi provocati da questo tipo di progetti, non solo
rende ormai quasi impossibile, a coloro che li subiscono,
soddisfare i bisogni primari (a causa della perdita delle
economie tradizionali, della casa e della terra) ma genera anche
meccanismi di disgregazione del complesso e delicato sistema di
regolazione interna tradizionale e culturale degli stessi gruppi
(perdita di importanza del diritto tradizionale e del ruolo
decisionale dei capi, perdita di accesso ai siti di valore
simbolico e religioso). In questo contesto risulta centrale il
problema della perdita di terra conseguente alle politiche di
reinsediamento forzato. Nel caso in cui siano presenti
popolazioni indigene, alcuni degli impatti negativi risultano
acuiti proprio dal particolare rapporto che questi gruppi hanno
con la terra e con l'ambiente in cui vivono da generazioni: la
minaccia per la sopravvivenza è in questo caso
ulteriormente aggravata dalla scarsa considerazione della
vulnerabilità di fronte ai meccanismi dello "sviluppo".
Non esistono nei casi esaminati nel rapporto, o non sono
pubblici, gli studi di impatto antropologico e sociale che,
secondo una direttiva della stessa Banca Mondiale, devono essere
effettuati quando ci si trova a dover reinsediare popolazioni
indigene.
Nei casi esaminati l'attenzione non dovrebbe concentrarsi solo
sugli effetti nell'area del futuro al bacino ma dovrebbero essere
previsti gli effetti sull'ecosistema e sui residenti, di un'area
molto più estesa, quella a monte e a valle delle diga.
Merito principale di questa analisi critica è proprio
quello di rendere evidnete l'ampiezza e la portata degli impatti
verificatisi e d i quelli possibili. Questo tipo di analisi
è carente proprio da parte di chi progetta e finanzia: per
la Banca Mondiale i disastri naturali e sociali che si verificano
sono stati sempre, e rimangono, "inaspettati". La perdita del
territorio (inteso come possibilità di utilizzo
dell'intero ecosistema) seppure genera gli stessi problemi tipici
della perdita della terra (sradicamento culturale del gruppo,
instabilità psicologica derivata dall'incertezza che
generalmente accompagna il reinsediamento, perdita
dell'autosufficienza alimentare, conflitti con le comunità
confinanti ecc.) li estende però ad un numero crescente di
persone. Vengono compromesse infatti anche le attività
economiche, religiose e culturali tradizionali svolte nell'area
di riempimento anche da coloro che risiedono nelle zone
confinanti (effetti indiretti del reinsediamento).
Addirittura simbolico è, in merito, il problema delle
compensazioni. Dopo tanti anni esse non sono state corrisposte
pienamente, ma il fatto più grave è che gli stessi
criteri di assegnazione sono viziati alla base. Le compensazioni
(in genere denaro, case, derrate alimentari) sono infatti
assegnate solo a coloro che vivevano nell'area del bacino della
diga, mentre l'impatto è nella realtà molto
più ampio. La cosiddetta politica della "terra in cambio
di denaro" (rifiutata in linea di principio, ma poi adottata
nella pratica dalla Banca) è criticata aspramente: i
rimborsi in denaro e alimenti sottintendono una logica economica
monetaria che è di difficile applicazione per le
comunità locali e indigene, per le quali sarebbe
più adatta una politica di compensazione del tipo "terra
in cambio di terra". Le compensazioni in denaro infatti non
soddisfano adeguatamente la perdita delle attività
tradizionali, dei pascoli e della legna da ardere, compromettendo
le capacità di sussistenza nel lungo periodo (ad esempio
in Lesotho). La stessa demarcazione di riserve ecologiche
protette non compensa la perdita di un ecosistema più
vasto (100.000 ettari nel caso di Yacyretà) e la mancanza
di titoli ufficialmente riconosciuti dal governo non permette
l'identificazione dell'esatto numero di coloro che devono
ricevere le compensazioni (Yacyretà, Chixoy). Gli impatti
sociali si intrecciano poi a filo doppio con quelli, spesso
irreversibili, sull'ecosistema circostante, sulla salute e la
sicurezza alimentare. L'impossibilità per le popolazioni
locali di gestire e di accedere direttamente alle risorse
naturali provoca infatti gravi ripercussioni sull'ambiente e le
condizioni di vita.
Di particolare gravità nei tre casi analizzati è
stata la mancanza di Valutazioni di Impatto Ambientale (VIA) in
fase di analisi della fattibilità dei progetti e prima
dello stanziamento di prestiti da parte delle Banca Mondiale ai
governi dell'Argentina, Guatemala e Lesotho. Mancano tuttora dati
certi sulla morfologia delle zone, sui rischi ambientali e per la
salute, in particolare per quel che riguarda la perdita di
biodiversità, l'inquinamento delle acque potabili, le
malattie ed i terremoti. Le Banche finanziatrici hanno dato
priorità al proseguimento a tutti i costi dei progetti,
anche in presenza di impatti disastrosi: ciò ha portato
alla violazione delle stesse legislazioni nazionali di tutela
delle popolazioni indigene e dell'ambiente. In questi casi, le
responsabilità delle Banche Multilaterali di Sviluppo e
soprattutto quelle dalle imprese multinazionali di costruzione,
sono ben difficili da identificare e, non ricadendo nella
giurisdizione interna degli stati, difficili da sanzionare. Le
popolazioni reinsediate non sono di norma mai state consultate e
non hanno partecipato ai processi decisionali.
I progetti sono stati decisi infatti a livello centrale per
esigenze particolari, senza valutare i bisogni locali ed hanno
pesato fortemente le decisioni e la disponibilità delle
agenzie di finanziamento insieme agli interessi economici delle
imprese costruttrici. Questi fattori hanno contribuito ad evitare
di prendere in considerazione possibili modelli alternativi.
Durante la fase di pianificazione, prima che la costruzione abbia
inizio, si consuma quello che è il dramma di uno sviluppo
centrato su valutazioni economiche che prescindono dalla
partecipazione. Quello che ne risulta è la mancata
considerazione delle popolazioni presenti come soggetti in grado,
e con il pieno diritto, a decidere le proprie priorità di
sviluppo economico, sociale e culturale, a portare avanti piani
di sviluppo alternativi ed a partecipare alla gestione e alla
conservazione del patrimonio naturale. Emerge oggi, in tutta la
sua gravità, il rischio di estinzione fisica e culturale
dei gruppi che un tempo vivevano nell'area dove è stata
costruita una grande diga. Considerazioni finali: le dighe e i
movimenti di protesta nel mondo Il business globale delle grandi
dighe ha portato alla nascita ed alla crescita di movimenti di
protesta e pressione politica della società civile nei
paesi donatori e in quelli destinatari dei prestiti.
Queste nuove alleanze tra movimenti di base, Organizzazioni Non
Governative ed ambientaliste hanno aperto la strada a cambiamenti
sostanziali nelle politiche e negli atteggiamenti di grandi
istituzioni di sviluppo quali la Banca Mondiale e ad una maggiore
attenzione nei confronti dell'ambiente e dei diritti delle
comunità locali. Basti pensare all'effetto a catena
causato dal già citato caso Narmada, che diede uno
scossone senza precedenti alla statica burocrazia della Banca
Mondiale, portando alla luce del sole carenze e lacune nelle
attività di un personale per troppi anni uso ad agire
senza nessun vincolo di responsabilità. Nel 1985 La Banca
Mondiale si era impegnata a finanziare con un prestito di 450
milioni di dollari una diga gigante a Sardar Sarovar, in una
delle valli sacre dell'India. Il progetto rientrava in un piano
più ambizioso, il Narmada Valley Project, che prevedeva la
costruzione di ben 30 megadighe, 135 dighe di medie dimensioni e
3.000 piccole dighe, allo scopo di fornire elettricità ed
acqua a 40 milioni di persone. L'impianto avrebbe però
causato l'espulsione di 250.000 persone (un milione se tutto il
progetto fosse stato completato). Per anni gli attivisti del
Narmada Bachao Andolan (movimento per la salvezza della valle di
Narmada, NBA) scesero in piazza minacciando di lasciarsi
travolgere dalle acque del bacino della diga. Digiuni di protesta
(satyagraha) in India ed in tutto il mondo ed una campagna di
pressione capillare, sostenuta dal carisma della leader storica
del NBA, Medha Patkar, portarono la Banca Mondiale ad istituire
una commissione d'inchiesta con a capo Branford Morse, che
concluse i suoi lavori nel 1992. Secondo il rapporto, che
portò poi al ritiro della Banca dal progetto, il nocciolo
della questione era che la Banca Mondiale è "più
preoccupata di accondiscendere alle pressioni provenienti dai
paesi destinatari del prestito piuttosto che di garantire
l'attuazione delle proprie politiche".
Il rapporto Morse rese evidente la necessità di un
organismo indipendente di controllo che funzionasse come una
sorta di corte d'appello, alla quale potessero far ricorso le
popolazioni locali in caso di progetti nei quali la Banca avesse
violato le proprie direttive. Iniziarono così le
discussioni per l'istituzione di quello che poi verrà
chiamato Inspection Panel, sollecitata dal Congresso USA e dalle
associazioni ambientaliste ed ONG di tutto il mondo. Il primo
caso che il Panel si trovò a dover affrontare nel 1995
riguardava di nuovo una diga, quella progettata ma non ancora
costruita di Arun III, nella valle omonima in Nepal. In questo
caso alla tenacia delle organizzazioni locali ed alla fattiva
collaborazione con le associazioni del nord del mondo si aggiunse
un altro elemento decisivo, ovvero la presenza di un piano
articolato di sviluppo alternativo per la valle, basato su
impianti di piccola scala. Da pochi giorni James Wolfensohn era
entrato nella stanza dei bottoni della Banca Mondiale e come
segno di buona volontà decise unilateralmente di
cancellare il progetto, dopo una forte campagna di pressione in
Nepal e soprattutto negli Stati Uniti ed in Germania. La mossa a
sorpresa di Wolfensohn lasciò la Cogefar - impresa
appaltatrice dei lavori - a bocca asciutta. Per poco però.
Dopo qualche tempo l'impresa italiana riuscì a vincere
l'appalto per una altra megadiga nella regione nepalese del
Mustang, stavolta finanziata dall'Asian Development Bank, la diga
di Kali Gandaki. Nel caso di Arun come in quello di Narmada erano
chiare le lacune nelle valutazioni dei costi benefici, degli
effetti del progetto sull'ambiente e degli effetti del
reinsediamento forzato sulle popolazioni locali. A parte il caso
di Yacyretà, ben illustrato nel rapporto, un altro ricorso
intentato presso l'Inspection Panel su un progetto idroelettrico
servì in una certa maniera a richiamare l'attenzione su un
aspetto fino ad allora poco evidente, relativo al controllo delle
attività della Banca in sostegno al settore privato. Il
ricorso per la diga di Pangue sul fiume Bio-Bio in Cile (altra
diga nella quale ha partecipato l'Impregilo/Cogefar Impresit)
venne respinto dal Panel perché è competente solo
sui progetti finanziati dalle due strutture della Banca
denominate IDA ed IBRD.
La diga di Bio-Bio avrebbe dovuto infatti essere sostenuta dai
finanziamenti dell'International Finance Corporation (IFC,
"sportello" della Banca Mondiale destinato a finanziare gli
investimenti del settore privato). Ciononostante il Presidente
della Banca Mondiale James Wolfensohn decise di commissionare
un'analisi indipendente del progetto. Il rapporto Hair fu per
l'IFC quello che il rapporto della Commissione Morse fu per la
Banca Mondiale: un atto di accusa senza precedenti ed una
denuncia delle responsabilità e delle lacune istituzionali
dell'IFC nella valutazione dell'impatto socio ambientale, nelle
procedure di consultazione e di accesso all'informazione. Il
resto é storia dei nostri giorni. Proprio nel momento in
cui questo rapporto va alla stampa, l'IFC, spinta da molti
governi donatori e dalla pressione esterna delle campagne per la
riforma, sta ridefinendo le sue politiche socio ambientali, come
raccomandato nel rapporto Hair e discutendo della
possibilità di istituire un meccanismo di ispezione del
tipo Inspection Panel. Bio-Bio é stata comunque una
parziale vittoria, poiché alle pressanti richieste della
Banca Mondiale di applicare standard socio ambientali più
elevati il governo cileno rispose cancellando la sua richiesta di
sostegno all'IFC e rivolgendosi a banche private per il
finanziamento. Tutto ciò deve indurre ad una approfondita
riflessione sulle nuove sfide cui si troverà di fronte il
movimento ambientalista e dei diritti umani. Il panorama
finanziario globale é ormai caratterizzato dalla crescita
a dismisura degli investimenti privati e dal calo sostanziale dei
flussi di cooperazione pubblica allo sviluppo. Ed allora andranno
aperti nuovi fronti, affrontando con la stessa competenza e
decisione le attività di banche commerciali ed agenzie di
credito all'esportazione che sostengono progetti devastanti quali
le grandi dighe, allorché istituzioni finanziarie quali la
Banca Mondiale ritirano il loro sostegno. È il caso
attuale della diga delle Tre Gole in Cina, dalla quale la Banca
Mondiale preferì ritirarsi, che è ora finanziata da
banche commerciali e da fondi pensione gestiti da Lehman
Brothers, C.S. First Boston, J.P. Morgan, Morgan Stanley, Smith
Barney, e BankAmerican Corporation ed è sostenuta da
crediti all'esportazione della Hermes tedesca, della SACE
italiana e dall'agenzia di credito all'esportazione svizzera a
garanzia della multinazionale ABB. Ed il caso della Dresdner
Bank, che ha preso il posto della IFC nella diga di Bio-Bio. In
ultima istanza, le campagne sulle grandi dighe hanno contribuito
in maniera determinante alla maturazione della capacità di
analisi del movimento ambientalista e delle ONG riguardo ai
mercati finanziari e alle nuove frontiere degli investimenti
privati nel settore delle grandi infrastrutture nei PVS.
In Svizzera come in Germania, negli Stati Uniti come in Giappone
le campagne sulle Istituzioni Finanziarie Internazionali si
stanno evolvendo in campagne sui mercati finanziari, con
interessanti nuove prospettive per il controllo e la possibile
"riforma" di un settore finora lasciato alla esclusiva legge del
profitto e della speculazione. Non a caso mentre nella
dichiarazione di Manibeli del 1994 le Organizzazioni Non
Governative di tutto il mondo chiedevano una moratoria ai
finanziamenti della sola Banca Mondiale, in quella più
recente di Curitiba nel 1997 i rappresentanti delle popolazioni
minacciate dalle grandi dighe alzano il tiro rivolgendosi anche
agli altri finanziatori: banche commerciali ed agenzie di credito
all'esportazione. La dichiarazione di Curitiba chiede tra l'altro
una moratoria al finanziamento e costruzione di grandi dighe
finché non sia stata effettuata una valutazione
indipendente del loro impatto e di possibili alternative. Il 1998
potrebbe segnare un importante passo in avanti in tal senso. A
febbraio infatti é stato finalmente raggiunto un accordo
sulla composizione della cosiddetta World Commission on Dams
(WCD), un'iniziativa che ha preso forma dopo un primo incontro
tra Banca Mondiale, IUCN e rappresentanti di ONG del sud e del
nord del mondo, tenutosi in Svizzera nel 1997. Un incontro
chiesto a gran voce dalle ONG in seguito alla pubblicazione di
una prima bozza di valutazione di alcune dighe finanziate dalla
Banca Mondiale da parte dell' Operations Evaluation Department
della stessa Banca. Un documento ritenuto inaccettabile e poco
obiettivo dalle ONG, che hanno denunciato in quell'occasione la
scarsa trasparenza, e la mancata consultazione con le
comunità locali ed il mondo non governativo. Ora la WCD,
composta da rappresentanti di Banca Mondiale, governi, industria,
comunità locali, antropologi , esperti in materia ed
associazioni ambientaliste e dei popoli indigeni inizierà
i suoi lavori. Nel frattempo però le ONG hanno reiterato
la loro richiesta di una moratoria ai finanziamenti ed alla
costruzione di nuove grandi dighe finché la WCD non abbia
analizzato a fondo gli effetti di queste "icone del progresso" e
suggerito alternative sostenibili. La lotta per i diritti delle
comunità locali e la difesa delle acque non può
passare esclusivamente attraverso le discussioni teoriche e la
diplomazia informale. Senza la continua mobilitazione popolare,
il controllo e la denuncia della società civile,
l'attività della WCD rischia di trasformarsi in un
ulteriore inutile esercizio accademico. È in questo senso
che va interpretata la prima giornata di mobilitazione in
solidarietà alle popolazioni minacciate dalla grandi
dighe, alla quale la Campagna per la riforma della Banca Mondiale
la Fondazione Internazionale Lelio Basso hanno voluto contribuire
con questo rapporto. E sarà questo l'impegno con il quale
le decine e decine di ONG che hanno aderito alla giornata
mondiale continueranno le loro campagne nei prossimi mesi. A
ricordarcelo ed a darci forza sono le 20.000 persone che in India
sono riuscite a fermare nel febbraio 1998 la costruzione della
grande diga di Maheshwar con dimostrazioni pacifiche e digiuni di
protesta richiamando alla mente la grande vittoria di
Narmada.
Tribunale Internazionale dei Popoli Indigeni di Denver,
giugno 1997
Sentenza nel caso della Campagna per la riforma della Banca
Mondiale - Italia relativa alla costruzione di dighe da parte
della Impregilo in Africa ed America Latina e della presunta
distruzione di terre indigene; ascoltate le deposizioni di
Liliana Cori e Francesco Martone in rappresentanza della Campagna
per la riforma della Banca Mondiale, Italia e della Fondazione
Internazionale Lelio Basso per il Diritto e la Liberazione dei
popoli.
(...) Il Tribunale Internazionale, richiamando i principi
contenuti nella Dichiarazione di Rio, nella Dichiarazione
Universale dei diritti dei popoli (Algeri 1976) e altre
convenzioni pertinenti, e prendendo in considerazione le
decisioni di Tribunali precedenti; il Tribunale nota la
discrepanza tra le politiche della Banca Mondiale e le misure
adottate per garantirela partecipazione di ONG e popoli indigeni.
Il Tribunale chiede alla Banca Mondiale di: garantire
un'applicazione trasparente, effettiva ed aperta alla
partecipazione delle politiche di valutazione dell'impatto
ambientale, sicurezza delle dighe, reinsediamento delle
comunità espulse dalle loro terre e diritti dei popoli
indigeni, nonché di condurre una indagine indipendente
delle denunce formulate dai ricorrenti. Nel caso di
Yacyretà i funzionari ed i Direttori Esecutivi della Banca
Mondiale dovrebbero garantire il completamento di un'indagine
dell'Inspection Panel fornendo tutto il sostegno necessario. Nel
caso di Chixoy la Banca Mondiale dovrebbe prendere tutte le
misure necessarie per la conversione del debito causato dalla
costruzione della diga in programmi sociali ed ambientali volti a
ripristinare le condizioni di vita originali delle popolazioni
Maya Achì danneggiate dal progetto. Questi programmi
dovrebbero essere preparati ed attuati con la piena consultazione
e partecipazione delle comunità locali. Nel caso di Katse
la Banca Mondiale dovrebbe immediatamente intraprendere
un'indagine per accertare le responsablità delle presunte
violazioni dei diritti dei lavoratori nei cantieri. Dovranno
essere prese misure più efficaci per migliorare le
condizioni di vita dei lavoratori, la sicurezza e le condizioni
sanitarie. La prossima fase del progetto (Fase 1b) non
dovrà iniziare prima dell'identificazione delle
responsabilità e della raccolta di dati relativi al
possibile impatto delle infrastrutture e dell'invaso dal punto di
vista sociale, ambientale, scientifico e sismologico. Il
Tribunale chiede al governo italiano di: disporre un'indagine per
accertare le responsabilità dei funzionari pubblici nei
tre casi menzionati; effettuare una valutazione indipendente di
ogni diga finanziata, assicurando la partecipazione delle
comunità coinvolte; identificare misure necessarie per
garantire la coerenza delle attività della cooperazione
bilaterale italiana e della Agenzia di Credito all'Esportazione
con gli impegni internazionali presi dal paese in materia di
ambiente, diritti umani e dei popoli indigeni; adottare linee
guida sui popoli indigeni per ciò che riguarda le
attività di cooperazione bilaterale.
(...) Il Tribunale chiede all'Impregilo di: definire criteri
ambientali efficaci e trasparenti per le proprie attività,
al fine di garantire la protezione della biodiversità,
delle risorse idriche e prevenire gli impatti delle dighe a
valle; sviluppare criteri sociali trasparenti ed efficaci per
garantire la partecipazione ed il controllo pubblico, tenendo in
dovuta considerazione la diversità culturale,
l'autodeterminazione, il miglioramento delle condizioni di vita
ed un equo accesso a risorse idriche e terra per le
comunità locali, le comunità indigene dovrebbero
ricevere garanzie di poter mantenere le condizioni economiche e
culturali precedenti la costruzione; usare il proprio notevole
know-how tecnico per sviluppare e dare priorità a
tecnologie a basso impatto e sostenibili nelle fasi del progetto;
il patrimonio di conoscenza tradizionale dovrà essere
tenuto in considerazione, insieme alla necessità di
ridurre lo spreco e l'utilizzo eccessivo di risorse naturali. Il
Tribunale chiede a Banca Mondiale, governo italiano ed Impregilo
di provvedere al risarcimento, inclusa la concessione di terra,
alloggio ed infrastrutture sociali, da negoziare con le
comunità locali e di iniziare programmi per il recupero
delle aree danneggiate dalle dighe. Il Tribunale rileva come
l'impatto distruttivo dei progetti finanziati dalla Banca
Mondiale (...) rafforzi la necessità di politiche efficaci
per prevenire i disastri culturali ed ambientali Il Tribunale
raccomanda inoltre alla Campagna per la riforma della Banca
Mondiale di impegnarsi in un dialogo intenso con le associazioni
internazionali che si occupano di diritti umani ed indigeni e di
ambiente, diritto sostenibile e diritti cultural e spirituali
nell'ambito della Commissione per lo Sviluppo Sostenibile. In
particolare raccomanda di contattare la World Federation of
United Nations Associations di New York. Sulak Sivaraksa Vice
Presidente del Tribunale 19 giugno 1997.
Note
[1] Dall'incontro di Denver (giugno '97) ai
sette paesi più ricchi si è infatti aggiunta la
Russia;
[2] Global Response, Environmental Action and Education Network,
P.O. Box 7490, Boulder, Colorado, U.S.A. 80306-7490, phone:
303/4440306, fax: 303/4499794, E-mail: globresponse@igc.apc.org.
Website: http://www.globalresponse.org;
[3] Grandi dighe sono definite dalla Commissione Internazionale
sulle Grandi Dighe (ICOLD, International Commission on Large
Dams) quelle alte oltre 15 metri dalla base;
[4] La "cultura della quantità" opposta alla cultura
della qualità, ben analizzata da Bruce Rich in "Mortgaging
the Earth, the World Bank, Environmental Impoverishment and the
Crisis of Development", Beacon Press, Boston, 1994;
[5] La procedura per l'adozione delle convenzioni dell'ILO
prevede la discussione e l'approvazione da parte dei tre gruppi
costitutivi: le associazioni dei lavoratori, le associazioni dei
datori di lavoro e i governi. In occasione dell'approvazione
della convenzione n. 169 il gruppo dei lavoratori si è
fatto portavoce delle istanze di alcuni rappresentanti di
organizzazioni indigene internazionali accreditate all'ONU.
[6] Organizzazione Internazionale del Lavoro "Convention n. 169
concerning indigenous and tribal peoples in Indipendent
Countries", 1989.
[7] ONU, Universal Declaration on Indigenous Peoples Rights, Doc.
E/CN.4/Sub.2/1993/29.
[8] Tribunale Permanente dei Popoli: "Charter on Industial
Hazards and Human Rights" in "Session on Industrial and
Environmental Hazards and Human Rights ( Bhopal- Londra 1994)"
1996.
[9] Per quel che riguarda le violazioni subite in generale dalle
comunità e le implicazioni per l'ambiente e la salute in
progetti di cooperazione multilaterale, riteniamo necessario
menzionare anche le altre le sentenze del Tribunale Permanente
dei Popoli sull'Amazzonia sulle politiche del Fondo Monetario
Internazionale e dalla Banca Mondiale e su Chernobyl. Tribunale
Permanente dei Popoli: "Session on:the Brazilian Amazon", Paris,
12-16 October 1990; " session on the FMI and the WB politics",
Madrid, 1-3 October 1994;"Session on: Chernobyl: Environmental,
Healt and Human Rights Implications", Vienna , 12- 15 Aprile
1996;
[10] UNCED: United Nation Conference on Environment and
Development, Rio de Janeiro, 3-14 June 1992;
[11] World Health Organization Ragional Office for Europe,
Environment and Health. The European Charter and Commentary,
Copenhagen, 1989;
[12] United Nations General Assembly, res. 42/187, 11 Dec.
1987;
[13] A riguardo si vedano i riferimenti in box del capitolo 1 e
3.
[14] Va infatti notato che la Banca Mondiale sta trasformando le
"Opertational Directives" in "Good Practices" e "Operational
Policies". Per maggiori dettagli vedi L. Jordan: "World Bank
Policies Conversion: An Overview" in The World Bank Inspection
Panel: a three year review by Lori Udall, Bank Information
Center, October 1997;
[15] L'articolo 5 stabilisce infatti che: "Ogni popolo ha un
diritto imprescrittibile e inalienabile
all'autodeterminazione..."; Universal Declaration of the Rights
of Peoples, Algiers, 4 July 1976;
[16] Si veda a questo proposito, in particolare per le dighe
finanziate dalla Banca Mondiale e sul problema dell'indebitamento
dei paesi interessati: P. McCully, P. Sklar "Damming the Rivers-
the World Bank Lending for Large Dams" International Rivers
Network, Working Paper 5, November 1994;
[17] "Tratado de Yacyretà y normas complementarias",
Buenos Aires - Asuncion, EBY, 1986;
[18] "Performance Audit Report. Aegentina. Yacyretà
Hydroelectrical Project (Loan 1761-AR). Electric Power Sector
Project (Loan 2998-AR)", The World Bank, 1996;
[19] "the combined-cycle gas alternative looked better
technically and economically in the face of uncertain demand
since it could be implemented in small increments closely matched
to demand" WB 1996, p. 14;
[20] "By 1982, the actual demand for electricity was already
lagging 25 percent behind the original foracast, and there was no
sign of a swift demand recovery. There was no longer the same
urgency to build Yacyretà", WB, 1996, p. 14; [21] WB,
1996, p. 16;
[22] L'Inspection Panel è formato da un gruppo di esperti
indipendenti che, su richiesta delle popolazioni colpite e dopo
aver avuto l'autorizzazione dei Direttori Esecutivi, può
esaminare progetti della Banca Mondiale e consigliare azioni per
la riparazione dei danni provocati. (Vedi quadro sull'Inspection
Panel);
[23] Inspection Panel Claim, Sobrevivencia, 1996.
[24] Ci riferiamo ad alcuni incontri informali che si sono
verificati nel 1992 tra rappresentanti dell'Asociaciòn de
Comunidades de Pueblo Guaranì, il Centro Mocovì e
l'EBY. È stato in seguito riscontrato che quest'ultimo non
era rappresentante legittimo delle popolazioni guarani'
locali;
[25] G. Switkes: "Yacyretà Inspection Panel Claim
Undermined" di prossima pubblicazione su World Rivers
Review;
[26] Un rapporto della IDB del 1992 (FONTE) cita due riunioni
avvenute tra i rappresentanti delle due organizzazioni indigene
locali con IDB e successivamente con EBY ed una "nota formale"
che sarebbe pervenuta all'EBY, sempre nel 1992, sugli effetti
diretti ed indiretti che il progetto aveva prodotto su 135
famiglie Guaranì (analizzeremo questi effetti nel capitolo
3). Questa "nota" era stata indirizzata alla Banca Mondiale
dall'Associazione di Comunità del Popolo Guaranì il
19 settembre 1992 assieme ad un documento intitolato "Resumen de
la situaciòn generada al Pueblo Guaranì por la
Represa Hidroeléctrica da Yacyretà y otros
emprendimientos hidroelécticos en Argentina"; ci siamo
inoltre riferiti anche agli "Acta de la Asamblea de Comunidades
Indigenas del Pueblo Guaranì" (11-12 November 1995);
[27] Comunicazione personale con un'esperto della Banca
Mondiale;
[28] Le informazioni sono tratte principalmente da: Witness for
Peace, "A People Dammed. The impact of the World Bank Project in
Guatemala", 1996;
[29] "Quando nel 1978 l'INDE chiese un prestito per il progetto
di Chixoy la Banca Mondiale aveva già investito 18 anni e
77 milioni di USD per sviluppare il settore idroelettrico in
Guatemala, con scarsi sucessi fino a quel momento". Witness for
Peace, "A People Dammed", 1996, p. 12;
[30] Il metodo per la scelta del sito e la valutazione
finanziaria è definito "come un gioco alla lotteria" nel
rapporto di Witness for Peace, 1996, pg. 13;
[31] Witness for Peace, People Dammed pg. 13;
[32] La fattibilità del progetto era stata ipotizzata
già nei primi anni '50 (HCAG Report, marzo 1997);
[33] Apparentemente i Basotho delle montagne sono un piccolo
segmento delle 1.217.000 di persone che parlano la lingua Sotho
del Sud;
[34] Nota bene: questa argomentazione è rischiosa
poiché è stata usata in più occasioni da
stati (per lo più in Asia) che non riconoscono di avere al
loro interno popolazioni indigene, che invece sono e si
definiscono tali;
[35] Come vedremo, il sistema compensatorio adottato e le
valutazioni di impatto ambientale effettuate non hanno tenuto
conto del valore culturale e spirituale della terra e
dell'ecosistema in cui vivevano i Basotho delle montagne,
né delle trasformazioni sociali e culturali causate dal
contatto con i lavoratori stranieri e dal reinsediamento. Questi
criteri sono invece previsti nel caso in cui siano coinvolte
popolazioni indigene ufficialmente riconosciute;
[36] L'articolo 5 stabilisce infatti che: "Ogni popolo ha un
diritto imprescrittibile e inalienabile
all'autodeterminazione..."; Universal Declaration of the Rights
of Peoples, Algiers, 4 July 1976;
[37] Vi sono stati anche autorevoli casi all'interno delle
Nazioni Unite: un seminario tecnico nel 1989, concludeva a favore
dell'autodeterminazione per gli indigeni: "the principle of
self-determination as set forth in the Charter of the United
Nations... is essential to enjoyment of all human rights by
indigenous peoples." ONU: Report on the United Nations Seminar on
the effects of racism and racial discrimination on the social and
economic relations between indigenous peoples and States, U.N.
Doc. E / CN. 4 / 1989 / 22, Conclusions (e). Inoltre sempre
all'interno delle Nazioni Unite lo studio del problema della
discriminazione contro le popolazioni indigene, preparato dal
Relatore speciale della "Sottocommissione per la Prevenzione
delle Discriminazioni e la Protezione delle Minoranze", Martinez
Cobo, aveva riconosciuto la libera determinazione come condizione
essenziale per le popolazioni indigene nel determinare il proprio
futuro specificando come si riferisse a fattori economici,
sociali e culturali, oltre che politici e che non implicasse
necessariamente la facoltà di separarsi dallo Stato e di
costituirsi in entità sovrana. La forma di questa
facoltà poteva invece essere una diversa forma di
autonomia dentro lo Stato, compreso il diritto individuale e
collettivo ad essere differenti riconosciuto dalla "Dichiarazione
sulla razza e i pregiudizi razziali", approvata dall'UNESCO nel
1978;
[38] La stessa clausola appare all'art. I comma 3 della Draft
American Convention on the Rights of Indigenous Peoples che
è stata approvata dall'Inter-American Commission on Human
Rights nel febbraio del 1997 ed attende la successiva
approvazione dell'Organizzazione degli Stati Americani (OAS), di
cui è un organo;
[39] Le disposizioni della Convenzione, riconoscono la
comunità indigena sia come comunità culturale, di
tradizioni o di lingua, trattandola come "minoranza", sia in
quanto regolata da un suo diritto proprio ("...due regard shall
be had to their customs or customary laws", art. 8). E'
riconosciuto anche il "sistema giudiziario" dei popoli indigeni
("...the methods customarly practised by the peoples concerned
for dealing with offences committed by their members shall be
respected", art. 9), il che vuol dire riconoscerne l'insieme
della comunità giuridica, come comunità non
soltanto di diritto materiale, ma anche di diritto formale per la
tutela della soluzione dei diritti;
[40] Convenzione n 169, art. 33.2. Nella premessa abbiamo visto
essere il diritto alle risorse naturali per lo sviluppo, uno dei
tre riconosciuti a livello internazionale come accordati
direttamente ai Popoli;
[41] All'art.4 della Dichiarazione Universale dei Diritti dei
Popoli Indigeni leggiamo infatti: " Indigenous peoples have the
right to maintain and strengthen their distinct political,
economic, social and cultural characteristics, as well as their
legal systems, while retaining their rights to participate fully,
if they so choose, in the political, economic, social and
cultural life of the State";
[42] Carta su Rischi Industriali e Diritti Umani, art. 9:
"diritto di partecipazione della comunità";
[43] W.J. Assies: Self-determination and the "new partnership"-
The Politics of Indigenous People and States;
[44] N. Lerner: Group Rights and Discrimination in International
Law, Dordrecht, Boston, London, Martinus Nijhoff, 1991;
[45] Carta su Rischi Industriali e Diritti Umani, art. 14:
"diritto dei popoli indigeni";
[46] Ispection Panel Claim, Sobrevivencia, 1996;
[47] "Yacyretà II. Environmental Assessment. Executive
Summary", Dept. of Resetlement and Environment, EBY, April
1992;
[48] Guillermo Sequera, etnologo paraguaiano, comunicazione
personale;
[49] ".. tutti i responsabili del progetto, dai pesci piccoli a
quelli grandi, rubarono a man bassa ... Non c'è dubbio che
l'INDE incoraggiò - e trasse beneficio - dai massacri", P.
McCully, "World Bank to Investigate Chixoy Dam Massacre",
Bankcheck Quarterly, Sept., 1996, 13;
[50] Nel 1985, a soli tre anni dai massacri, la Banca concede un
altro prestito di 44.6 milioni di US$. L'IDB nel 1981 aveva
concesso un prestito di 70 milioni di US$;
[51] Il "Project Complection Report" di Chixoy della Banca
Mondiale del 1991 menziona i massacri di massa solo
indirettamente puntualizzando i problemi intercorsi "..due to
intensive insurgency activity in the project area during the
years 1980-1983-..two resettlement officiers were killed while
performing their duties..." World Bank, Project Complection
Report on Guatemala Chixoy Hydroelectric Power Project December
31, 1991;
[52] WFP, pg. 19;
[53] The Ecologist, vol 26, n. 5, Sept. Oct. 1996;
[54] da Lesotho Highlands Water Project, press Briefing, The
World Bank, January 27, 1997;
[55] LHWP, IBRD Supervision Mission October 1995;
[56] Nel Human Rights Report 1996 di Amnesty International
troviamo la notizia che in Lesotho il salario minimo per i
lavoratori non specializzati è di 68 $ al mese, una cifra
insufficiente ad assicurare uno standard di vita decente per i
lavoratori e le loro famiglie;
[57] Lettera della World Bank a Mr. Marumo, Chief Executive,
LHDA, January 1997;
[58] Witness for Peace, A People Dammed, 1996, p.18;
[59] Carta su Rischi Industriali e Diritti Umani art. 8 "Diritto
a vivere in un ambiente libero da rischi" e art. 11: "diritto al
monitoraggio ambientale";
[60] Carta su Rischi Industriali e Diritti Umani art 17: "diritto
a lavorare in un ambiente libero da rischi", art. 20 "diritto
alla salute e al monitoraggio della sicurezza", art. 21: "diritto
all'istruzione e alla formazione pratica";
[61] World Bank "Resettlement and Development: The Bankwide
Review of Projects Involving Involuntary Resettlement 1986-1993"
cap. 2, pag. 9;
[62] The World Bank, February 3, 1997 Argentina: Second Yacyreta'
Hydroelectric Project (Loan 3520-AR) Progress Report;
[63] Entidad Binacional Yacyretà 1982;
[64] Funzionario della Banca Mondiale, comunicazione
personale;
[65] IDB "Relocalizaciones y eventuales afectaciones a
comunidades aborigenes en la margen argentina" Dr. L.
Bartolomé, 1992;
[66] J. Ferguson, "The anti-Politics Machine. Development and
Bureaucratic Power in Lesotho", in The Ecologist , vol 24, n. 5,
1994;
[67] LHWP Aide Memoire, World Bank, April 1996;
[68] ibid;
[69] Highland Church Action Group (HCAG) Grievance Follow-up
Study 24 October - 6 November 1997;
[70] World Bank: "...the Mbya expressed satisfaction with the
resettlement location given them" in "Yacyretà II:
Envirronmental Assesment, Executive Summary, 1992";
[71] Carmen Ferradàs: "The Encounter between Planning
Agents and the Population in Relocation Process";
[72] Carta su Rischi Industriali e Diritti Umani: art. 23
"diritti comuni di soccorso e di compenso";
[73] Politiche sulle terre selvatiche OPN 11.02 /on
Wildlands;
[74] Inspection Panel Claim, Sobrevivencia, 1996. I problemi
ambientali sono anche riconosciuti dalla Banca Mondiale in
"Argentina: second Yacyretà Hydroelectric Project, Loan
3520 -AR, Progress Report 1997".
[75] Argentina: Second Yacyretà Hydroelectrical Project
Progress Report, IBRD, Feb. 1997;
[76] The World Bank, LHWP Aide Memoire, June 1996;
[77] The World Bank, LHWP Aide Memoire, June 1996; IRN, letters,
factsheets and documents on LHWP, 1995, 1996, 1997;
[78] Lesotho Highland Water Project, IBRD Supervision Mission,
October 1996, World Bank;
[79] LHDA, Environment Division, Lesotho Highlands Water Project
Phase 1B Environmental Impact Assessment, Draft Final Report,
October 1996;
[80] LHDA, Lesotho Highlands Water Project Phase 1B. Interim
Environmental Action Plan, March 1997;
[81] "Our Planet, Our Health", World Health Organization,
1992;
[82] EBY: Plan de Manejo Ambiental Proyecto Hidroelectrico
Yacyretà (14 Agosto 1992)
[83] Inspection Panel report:"Review of problems and assessment
of action plans: Argentina/Paraguay: Yacyretà
hydroelectric project", Sept. 16, 1997;
[84] Da comunicazione personale con un funzionario della Banca
Mondiale;
[85] IDB Indendent Investigative Mechanism: Yacyretà
Hydroelectric Project. Report of the Review Panel, September 15,
1997;
[86] IDB, Management's comments on the Review Panel's report,
Yacyretà Hydroelectric project, 24 ottobre 1997;
[87] Interrogazione n.4-03714 del Senatore Giovanni Russo
Spena;
[88] Lettera del Ministro del Tesoro al Senatore Giovanni Russo
Spena, 30 gennaio 1998;
[89] "The World Bank's Experience with Large Dams: a Preliminary
Review of Impacts" (World Bank Operations Evaluation Department,
August 15, 1996);
[90] Patrick McCully IRN: A Critique of "The World Bank's
experience with large dams: a preliminary review of impacts"
(World Bank Operations Evaluation Department, August 15, 1996),
April 11, 1997;
[91] Organizzazione Non Governativa statunitense;
[92] Highlands Church Action Group (HCAG), rapporto sul campo,
novembre 1997. Il rapporto esamina la situazione attuale e la
risposta alle 93 richieste fatte dalla popolazione alla LHDA, tra
il 1993 e il 1994, per la soluzione di situazioni specifiche:
sono state pienamente soddisfatte due richieste, parzialmente
soddisfatte 53 richieste,e rimaste inevase 38 richieste. Si
è verificato inoltre che le condizioni di vita della
popolazione sono in generale peggiorate;
[93] J. Rosenthal, The Caper Times, 29 Oct 1997;
[94] Demand Side Management, gestione della domanda: uno dei
nuovi approcci di razionalizzazione e corretto uso delle risorse
che può permettere risparmio e uso sostenibile. Fonte:
IRN;
[95] Comunicato stampa e rapporto informativo, 22 gennaio 1998,
Group for Environmental Monitoring (GEM), Alexandra Civic
Organisation, Soweto SANCO, Earthlife Africa Johannesburg (ELA
JHB), Environmental Justice Networking Forum Guateng Provincial
Steering Committee (EJNF Guateng), Highland Church Solidarity and
Action Group (HCAG), International Ribers Network.
Il rapporto "Grandi dighe, diritti dei popoli e
dell'ambiente" è pubblicato come contributo della
Campagna per la riforma della Banca Mondiale e della Fondazione
Internazionale Lelio Basso per il Diritto e la Liberazione dei
Popoli alla giornata internazionale per i fiumi, le acque, la
vita del 14 marzo del 1998. Raccoglie ed approfondisce la
testimonianza resa dalla Campagna e dalla Fondazione al Tribunale
dei Popoli Indigeni, che ha tenuto la sua sessione in occasione
del Vertice dei G7 di Denver 1997.
È stato scritto da Liliana Cori e Francesco
Martone, coordinatori della Campagna per la riforma della
Banca Mondiale, e da Jaroslava Colajacomo, ricercatrice della
Fondazione Internazionale Lelio Basso per il Diritto e la
Liberazione dei Popoli, con la collaborazione delle
organizzazioni internazionali e locali che da molti anni lavorano
raccogliendo informazioni, elaborando rapporti scientifici,
stilando proposte e diffondendo informazioni sulle grandi dighe
costruite nei paesi del sud del mondo.
Vogliamo ringraziare in particolare: Patrick McCully,
dell'International Rivers Network, che ha scritto Silenced Rivers
(1996, Zed Books) un testo fondamentale per comprendere la
storia, l'impatto sociale, ambientale, le alternative alle grandi
dighe nel mondo (patrick@irn.org);
Lori Pottinger dell'International Rivers Network 1847 Berkeley
Way, Berkeley CA 94703, USA, lori@irn.org;
Kay Treakle del Bank Information Centre 2025 I Street, NW, Suite
400, Washington DC, 20006 USA ktreakle@igc.apc.org;
Dana Clark del Centre for International Environmental Law 1621
Connecticut Avenue, NW, Suite 300, Washington DC 20009, USA,
cieldlc@igc.apc.org;
Korinna Horta dell'Environmental Defense Fund 1875 Connecticut
Avenue, NW, Suite 1016, Washington DC 20009,
korinna@edf.org;
Elias Diaz Peña, Sobrevivencia (Amigos de la Tierra
Paraguay) Survive@quanta.com.py;
Ryan Hoover, del Lesotho Highland Church Action Group, Maseru, men@lesoff.co.za;
Jonathan Eoloff di Witness for Peace 110 Maryland NE, Suite 304,
Washington DC 20002-5611, witness@igc.apc.org.