In: Home > DOSSIER > Nutrire il mondo, nutrire tutti. La sfida di una agricoltura etica e sostenibile
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Pogrom bedrohte Völker n. 283, 4/2014
Bolzano, marzo 2015
Indice
Editoriale, Sabrina Bussani | Sahara Occidentale: pomodori dalla colonia | Brasile. La situazione dei Guaraní: morire per
vivere | Brasile: tutelare gli ecosistemi
significa innanzitutto salvare i diritti delle popolazioni
indigene | Etiopia: furto di terre o
modernizzazione dell'agricoltura? | Mali, dove
terra e acqua sono preziose | Riso - l'oro
bianco dell'Asia | Sale - da millenni elixir di
vita | Territori occupati palestinesi: la
filosofia di vita della famiglia Nassar | India/Tamil Nadu: Ecofarming - un progetto per l'uomo e la
terra
Di Sabrina Bussani
Nutrire il mondo, nutrire tutti. La sfida di una agricoltura etica e sostenibile, pogrom / bedrohte Völker 283 (4/2014).
Care lettrici, cari lettori,
attualmente la popolazione mondiale è di circa 7 miliardi
di persone. Ma siamo in crescita e secondo le stime dell'ONU
già nel 2050 saremo in 9 miliardi. Oltre alla
preoccupazione per la produzione energetica, per molti la sfida
è quella dell'alimentazione. Mentre i governi e le
comunità economiche stipulano accordi per l'importazione
di prodotti agricoli a basso costo, le multinazionali hanno da
tempo avviato una corsa all'accaparramento di terre nel
cosiddetto sud del mondo e invocano la necessità di metodi
di produzione agricola industriali e intensivi e perlopiù
ecologicamente poco sostenibili. Popolazioni intere vengono
dislocate per allagare ampie porzioni di terra in cui sorgono
dighe e centrali idroelettriche o per avviare piantagioni dedite
alla coltura di prodotti agricoli destinati all'industria
alimentare o da trasformare in biocarburanti. Succede così
che i consumatori europei possono comprare pomodori coltivati nel
deserto del Sahara occidentale a prezzi inferiori dei pomodori
prodotti localmente o che piccoli coltivatori del sud del mondo
si ritrovino quasi da un giorno all'altro a lavorare in
condizioni di semi-schiavitù in piantagioni sorte su
quella che solo poco tempo prima era la propria terra capace di
sfamare intere comunità. Spesso ciò che viene
giustificato nel nome dello sviluppo e della lotta alla fame
produce al contrario povertà, che è, come ricorda
il World Food Report dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per
l'alimentazione e l'agricoltura (FAO), il primo passo verso la
malnutrizione e la fame.
Sempre secondo la FAO, nel mondo ci sono oggi circa 850 milioni
di persone che soffrono cronicamente la fame. L'Unicef ci segnala
che nei paesi in via di sviluppo circa 200 milioni di bambini
sotto i 5 anni soffrono di qualche forma di malnutrizione ed
è sempre la scarsa alimentazione a causare ogni giorno la
morte di circa 3.800 i bambini sotto i cinque anni.
Eppure non c'è mai stato così tanto cibo come oggi.
Secondo Jean Ziegler, ex-relatore speciale sul diritto
all'alimentazione per il Consiglio per i Diritti Umani delle
Nazioni Unite, "allo stato attuale la produzione agricola
mondiale potrebbe facilmente sfamare 12 miliardi di persone".
Perché allora tanta fame nel mondo? Sempre secondo Jean
Ziegler, la causa va cercata nella corsa al profitto delle
multinazionali e nella speculazione finanziaria sui prodotti
alimentari di base. L'uomo, continua Ziegler, ha creato "un
sistema cannibale". Ma il sistema non è inamovibile.
L'uomo l'ha creato e l'uomo lo può cambiare. E per farlo,
dice Ziegler, non ci vuole poi tanto, serve solamente il
risveglio delle coscienze.
In questo numero abbiamo voluto vedere cosa accade attorno al
cibo nel mondo, dall'aspetto prettamente culturale alle
implicazioni politiche, dalle conseguenze concrete e quotidiane
per chi è vittima delle politiche agricole neoliberali ai
progetti di sviluppo agricolo sostenibile, di pace e
dignità per le persone coinvolte.
Sabrina Bussani
[Foto di copertina] Questo giovane Asháninka della comunità Apiwtxa nello stato brasiliano dell'Acre si chiama Piyanco. Gli Asháninka hanno messo molto impegno nella creazione del centro di formazione Yorenka Ãtame attraverso il quale trasmettono le loro conoscenze tradizionali anche ai non-indigeni. Mentre gli Asháninka sono riusciti a salvaguardare e curare la propria cultura, molte altre comunità indigene devono ancora lottare duramente per il rispetto dei propri diritti fissati dalla costituzione brasiliana del 1988 ma troppo spesso violati e ignorati dalla politica e dalle istituzioni. Foto: Ministério da Cultura/Flickr BY 2.0.
Di Frederik Kirmeier
Nel 2012 l'Unione Europea ha siglato un accordo di libero scambio con il Marocco. Poco dopo l'entrata in vigore dell'accordo, nei banchi dei supermercati europei, tra cetrioli, ravanelli e cipolle i consumatori hanno iniziato a trovare anche dei bellissimi pomodori ciliegini provenienti proprio dal paese nordafricano. Almeno così recitano le indicazioni di provenienza. Tra i maggiori importatori di prodotti agricoli dal Marocco risultano l'impresa franco-marocchina Idyl e l'Azura Group. Entrambe indicano la provenienza dei loro pomodorini con "Marocco", ma spesso questi provengono invece dalla regione attorno a Dakhla nel Sahara Occidentale. Qui diversi conglomerati marocchini e multinazionali francesi producono ed esportano oltre 60mila tonnellate di prodotti agricoli, per buona parte pomodori, in gran parte destinati al mercato estero (più del 95 per cento) di cui quello europeo fa la parte del leone.
Coltivazioni di pomodorini vicino a Dakhla/Sahara Occidentale. Foto: jbdodane/Flickr BY-NC 2.0.
I pomodorini di Dakhla fanno una prima tappa ad Agadir in
Marocco dove vengono mescolati con i pomodorini coltivati in
Marocco, poi il viaggio continua verso l'Europa. Per il
commerciante europeo a questo punto diventa praticamente
impossibile stabilirne l'esatta provenienza.
Dal 1975 il Marocco occupa illegittimamente e in violazione al
diritto internazionale la regione del Sahara Occidentale. Nel
1991 è stata siglata una tregua tra Rabat e il movimento
indipendentista Fronte Polisario. Una delle principali condizioni
poste dal Fronte Polisario per la firma dell'accordo era lo
svolgimento da parte del Marocco di un referendum che permettesse
ai circa 75.000 abitanti della regione, i Saharawi, di decidere
se avessero voluto restare con il Marocco o diventare
indipendenti. Finora questo referendum non è stato fatto.
Per le Nazioni Unite il Sahara Occidentale è un
"Non-Self-Governing Territory", ossia un territorio non autonomo.
Di conseguenza sarebbe vietato estrarre risorse naturali
finché non è chiarito lo status giuridico della
regione. Negli scorsi anni diverse imprese europee si sono
ritirate dal commercio con lo sfruttamento di fosfati, utilizzati
sia per concimi sia per alimentari, ma con la coltivazione di
pomodori a Dakhla viene avviata una nuova forma di sfruttamento
del territorio.
Sfruttamento delle riserve d'acqua
L'accordo di libero scambio del 2012 tra l'Unione Europea e il
Regno del Marocco non esclude esplicitamente il Sahara
Occidentale come luogo di coltivazione della frutta e verdura
importata. Intanto, il governo marocchino progetta l'espansione a
livello industriale delle coltivazioni di pomodori nel deserto
attorno all'oasi di Dakhla ad opera di imprese alimentari
industriali. Nella regione non ci sono piccoli agricoltori.
La coltivazione di pomodori richiede un alto consumo d'acqua e la
loro coltivazione in un'area desertica pone già di per
sé molti problemi di sostenibilità ecologica. Nella
regione di Dakhla le precipitazioni medie annue sono di appena 45
mm. In confronto, Bolzano conta su circa 711 mm di pioggia
all'anno. Per coltivare i pomodori si vanno quindi a sfruttare le
riserve d'acqua dolce dell'oasi. I futuri problemi di
approvvigionamento d'acqua per la popolazione locale sono
già prevedibili.
Per il governo del Marocco le piantagioni di verdure attorno a
Dakhla non rivestono solo importanza economica, ma anche
politica. I nuovi posti di lavoro creati dall'industria
agroalimentare vengono occupati quasi unicamente da operai
provenienti dal Marocco. Per il governo di Rabat la crescente
presenza di cittadini marocchini nel Sahara Occidentale serve
principalmente a rafforzare le proprie pretese sulla regione e ad
incrementare la fetta di popolazione che in caso di referendum
quasi certamente voterebbe a favore dell'annessione al
Marocco.
Di Sabrina Marie Rommerskirchen
"Non possiamo continuare a guardare senza fare nulla.
Forse questa è l'ultima volta che riusciamo ad alzare la
nostra voce …. ma non dobbiamo avere paura. Siamo sulla
nostra terra, sul nostro suolo. Qui sono nati i nostri padri, qui
vivono i nostri padri. Non è nemmeno più possibile
dire da quanto tempo ormai è così perché la
storia del nostro popolo è antica. E' per questo che
dobbiamo alzare la nostra voce."
(Marcal Tupa, Guaraní)
Questi Guaraní - complessivamente 40 famiglie - sono stati cacciati dalla loro terra nel 2003. Fino ad oggi continuano a lottare per poter tornare a casa. Foto: Percurso da Cultura/Flickr BY-SA 2.0.
"Questa terra è la mia vita. E' la mia anima. Se me la
togli, mi togli la vita", lamenta il Guaraní Marcos Veron
in un'intervista del 2010 con l'associazione per i diritti umani
Survival International. Con una popolazione di ca. 51.000
persone, i Guaraní costituiscono il maggiore popolo
indigeno in Brasile. Speravano che il Campionato mondiale di
calcio e i prossimi Giochi Olimpici avrebbero contribuito ad
attirare l'attenzione sulla povertà e le difficoltà
delle comunità indigene in Brasile e che il governo
avrebbe colto l'occasione per approvare finalmente le necessarie
misure di tutela. Purtroppo non è stato così. Nei
mesi estivi del 2014 il Brasile ha fatto di tutto per fornire di
sé l'immagine di un paese che da grande importanza ai
diritti dei popoli indigeni. Di fatto però non è
cambiato nulla.
Tra i Guaraní il tasso di suicidio è il più
alto tra tutti i popoli indigeni del paese. Secondo i dati
forniti da Survival International, tra il 1986 e il 1999 si sono
suicidati 244 persone del popolo Guaraní. Nel 2013 ci sono
stati 72 suicidi, in maggioranza di giovani tra i 15 e i 30 anni.
Una tragica forma di protesta in una lotta senza speranze. Questi
atti di disperazione hanno acceso i riflettori sulla situazione
dei Guaraní in Brasile. Cacciati dalle loro terre da
proprietari terrieri senza scrupoli, molti Guaraní vivono
accampati lungo le strade, senza acqua pulita né cibo,
senza assistenza medica e senza ovviamente la possibilità
di vivere secondo la propria cultura e tradizione.
Il dislocamento dei Guaraní dai loro territori
tradizionali è iniziato poco dopo la guerra della Triplice
Alleanza (1864 - 1870) durante la quale il Paraguay
combatté contro gli alleati Argentina, Brasile e Uruguay.
I Guaraní vennero cacciati dalle loro terre ancestrali per
fare posto agli agricoltori. Oggi il paesaggio dello stato
federale del Mato Grosso do Sul è caratterizzato da enormi
piantagioni. Le foreste sono state in gran parte abbattute e al
loro posto sono sorti campi di mate, soia e di canna da zucchero.
Per i Guaraní questo ha significato la fine del loro stile
di vita tradizionale. Non essendo nomadi ma vivendo di caccia,
raccolta di frutti e di pesca, le foreste erano fondamentali per
la loro sopravvivenza.
Lo stato federale brasiliano Mato Grosso do Sul prende il nome dalla vegetazione che copriva il territorio. Ma della "fitta macchia del sud" ormai è rimasto poco. Quasi l'intero territorio dello stato è stato disboscato e coperto da piantagioni a monocoltura. Foto: Percurso da Cultura/Flickr BY-SA 2.0.
Di tanto in tanto qualche gruppo di Guaraní tenta di
tornare sulla propria terra nonostante questa risulti ora di
proprietà di qualche latifondista. La reazione dei nuovi
proprietari solitamente è molto violenta e non è
raro che allevatori e/o proprietari terrieri sparino ai
Guaraní. Nella maggior parte dei casi la polizia non
interviene.
Alle comunità guaraní sono rimasti solo piccoli
terreni separati l'uno dall'altro. Nella riserva Terra
Indígena Dourados nel Mato Grosso do Sul più di
12.000 persone vivono accalcate in appena 35 km2, con una
densità di popolazione di 340 persone per km2. Molti altri
Guaraní sono invece stati costretti ad andare a vivere in
villaggi lontani dalle loro terre ancestrali. La legislazione ora
prevede la demarcazione delle terre indigene, ma secondo i
criteri fissati i Guaraní andrebbero a perdere ulteriori
porzioni di terra.
Per molti Guaraní l'unica possibilità di
sopravvivenza è il lavoro nelle piantagioni. Si tratta di
un lavoro che assomiglia molto alla schiavitù, in cui i
braccianti sono costretti a tagliare canna da zucchero per 12-14
ore al giorno, a diretto contatto con gli agenti chimici
spruzzati sulle piante per accelerarne la crescita. Il salario
basta appena per sopravvivere e solo in rari casi le aziende
agricole offrono ai propri braccianti vitto, alloggio e un minimo
di assistenza medica. Un bracciante delle piantagioni in media
non riesce a superare i 15 anni di lavoro. La legge brasiliana
prevede una pena tra i due e gli otto anni di carcere per i
proprietari di piantagioni e di aziende agricole che costringono
i propri lavoratori a lavorare in condizioni disumane, ma le
poche condanne finora si sono concluse con semplici multe.
Tutto ciò spiega bene la disperazione e l'alto tasso di
suicidi tra i Guaraní. In particolare le giovani
generazioni sembrano avere poche speranze che i loro diritti
vengano rispettati e sono afflitte dalla mancanza di prospettive
future. I dati riguardanti le comunità Guaraní sono
allarmanti ma non sembrano spaventare il governo brasiliano.
Anche Anastácio Peralta, un Guaraní-Kaiowá,
è pessimista: "Il popolo dei Guaraní era come un
fiume che scorreva lentamente e pacifico quando un enorme masso
è stato gettato nel suo letto e lo ha diramato in tutte le
direzioni."
Secondo i dati forniti dal Conselho Indigenista Missionário (CIMI) e dalla Fondazione nazionale della salute (Fundação Nacional de Saúde) in Brasile vivono circa 51.000 Guaraní, di cui 40.000 solo nello stato federale del Mato Grosso do Sul. I restanti 11.000 vivono distribuiti tra gli stati federali di Rio Grande do Sul, Santa Catarina, Paraná, São Paulo, Rio de Janeiro e Pará. Tra i Guaraní si distinguono tre gruppi: i Kaiowá, i Mbyá e i Ñandeva. Nel Mato Grosso do Sul vivono soprattutto i Guaraní appartenenti ai gruppi Guaraní-Kaiowá e Guaraní- Ñandeva.
[L'autrice] Sabrina Marie Rommerskirchen si è laureata in Diritto europeo e internazionale ("European and International Laws") all'università di Maastricht e si è occupata di diritti umani nell'ambito della specializzazione in giurisprudenza e globalizzazione. Tra il 2007 e il 2008 ha partecipato a un programma di scambio studentesco grazie al quale ha trascorso dodici mesi in Brasile. Ha poi concluso un tirocinio presso l'Ambasciata tedesca a Brasilia e da allora ha iniziato a viaggiare in Brasile anche a titolo personale. Durante il suo praticantato presso l'Associazione per i Popoli Minacciati si è occupata della situazione dei popoli indigeni in Brasile.
Le coltivazioni di mais, soia e cotone mettono in pericolo 15.300 persone nello stato brasiliano di Mato Grosso do Sul. Appartenenti alla popolazione indigena degli Xavante, rischiano di perdere la loro terra e con essa la loro base esistenziale e la loro identità culturale. Nell'agosto 2014 il giornalista Paul Jay della rete televisiva online Real News Network (RNN) con sede a Baltimora / USA ha intervistato Hiparidi Top'Tiro, presidente dal 1996 dell'associazione indigena Xavante Warã e fondatore nel 2006 della Mobilitazione dei popoli indigeni del Cerrado.
Fino a qui e non oltre! Hiparidi Top'Tiro mostra il confine tra il territorio degli Xavante e le piantagioni di soia. Foto: Gerry Hadden/PRI.org.
RNN: Per quale motivo ha fondato la
Mobilitazione dei popoli indigeni del Cerrado?
Hiparidi Top'Tiro: In Brasile ci sono sei grandi
ecosistemi, l'Amazzonia che a livello mondiale è quello di
maggiore importanza, il Cerrado, il Caatinga, il Pantanal, le
foreste atlantiche e la Pampa (1).
Quattro di questi ecosistemi non godono di alcun tipo di tutela
da parte del governo brasiliano. La Mobilitazione dei popoli
indigeni del Cerrado è stata fondata per attirare
l'attenzione sul fatto che anche il Cerrado deve essere protetto.
Nel Cerrado chiunque poteva coltivare soia, cotone o mais con le
modalità e nelle quantità che voleva. La
legislazione per lo sfruttamento dell'Amazzonia è in
confronto molto più severa. Secondo la legislazione
brasiliana infatti il 32% dell'Amazzonia e solamente il 22% del
Cerrado devono restare intatti. Noi popoli indigeni del Cerrado
ci siamo organizzati per mantenere vive le nostre culture.
Crediamo che il disboscamento del Cerrado non comporterà
solo la scomparsa di animali e uccelli ma anche della nostra
spiritualità come popoli indigeni. Tutto è iniziato
con una corsa cerimoniale organizzata dall'associazione dei
Xavante Warã.
Poi l'associazione dei Xavante ha invitato a un'altra corsa
l'associazione dei Krahô, un sottogruppo dei Timbira. E
così un po' alla volta siamo diventati sempre di
più. Nel Cerrado vivono anche dei Quilombola (2). Abbiamo
preso contatto anche con loro. Ci siamo resi conto che più
persone riusciamo a unire, popoli indigeni e tradizionali, meglio
riusciamo ad attirare l'attenzione sulla necessità di
tutelare il Cerrado. Con ogni albero abbattuto i popoli indigeni
perdono una parte della loro cultura. I Xerente per esempio hanno
già perso tutta la loro conoscenza tradizionale legata
all'ambiente, non hanno ricordi. I popoli perdono la loro lingua,
la conoscenza dei nomi di piante e animali che non esistono
più. Come popoli indigeni dobbiamo lavorare anche con i
Quilombola e guadagnare sempre più alleati affinché
il governo brasiliano inizi finalmente ad ascoltarci.
La nostra grande sfida è quella di ottenere una
legislazione di tutela ambientale per il Cerrado che sia
altrettanto vincolante come quella per l'Amazzonia. Finora siamo
riusciti ad ottenere che il ministero per l'ambiente abbia creato
un centro per il Cerrado. Questo centro però non
può essere paragonato al centro per l'Amazzonia
poiché quello per il Cerrado non ha nemmeno un
portafoglio.
RNN: Quali conseguenze ha l'economia agraria
industriale nella vostra terra per la vita quotidiana?
Hiparidi Top'Tiro: La cosa più grave
è che i pesticidi usati in agricoltura finiscono per
contaminare l'acqua. Inoltre sta scomparendo dalla nostra riserva
la selvaggina che abitualmente cacciamo. Gli animali come i
tapiri e i pécari (tayassuidae) lasciano la riserva per
andare a mangiare nei campi di soia e mais dove trovano cibo in
abbondanza e ingrassano velocemente. Se tornano nella nostra
riserva la loro carne è molto grassa e questo non fa bene
alla salute, in particolare a quella dei nostri bambini. E' anche
diventato molto più difficile trovare il materiale
necessario alla costruzione dei nostri archi e frecce. Sulla
nostra terra non cresce più e siamo costretti a lasciare
la riserva e andare a cercarlo in vicinanza delle piantagioni. Ma
l'agricoltura si ripercuote anche sulle nostre cerimonie nuziali.
Secondo la nostra tradizione durante un matrimonio si regala
selvaggina ma ormai dobbiamo andare a cacciare in aree che non ci
appartengono più. Questo vale anche per i frutti che nella
nostra riserva quasi non crescono e che dobbiamo andare a cercare
al di fuori. La nostra terra è diventata troppo piccola
per nutrirci e siamo costretti ad abbandonarla per poter mangiare
a sufficienza. E' anche diventato difficile trovare il materiale
che usiamo per allestire le nostre cerimonie. Per questo ne
facciamo molte meno, meno di quanto le nostre tradizioni
prevedano. Nella nostra cultura anche i sogni sono molto
importanti. Prima di poter ricevere il mio nome, Hiparidi,
qualcuno ha dovuto sognarlo. Se non dovesse più esistere
il Cerrado con tutti i suoi animali e uccelli che nei nostri
sogni ci portano i nomi dal mondo degli spiriti, per noi e la
nostra cultura sarebbe un grande danno.
RNN: Come vivono ora le persone? Come
organizzano la loro vita?
Hiparidi Top'Tiro: Per tradizione e cultura
siamo cacciatori e raccoglitori. Attualmente coltiviamo poco i
nostri orti perché l'arrivo di tanti intrusi non-indigeni
sta creando molti conflitti. Tutto è iniziato con la
"marcia verso occidente" (3) durante la dittatura di
Getúlio Vargas. Con Vargas lo stato iniziò a
distribuire la nostra terra a persone provenienti da sud, dallo
stato federale di Paraná. La nostra gente venne costretta
in piccole riserve e i nostri anziani iniziarono a ricevere una
piccola pensione affinché smettessero di cacciare. Gli
anziani così presero ad avere un atteggiamento passivo nei
confronti della vita e iniziarono così tutti i nostri
problemi. Ma ciò nonostante tuttora noi continuiamo a
cacciare, a pescare e a raccogliere i frutti selvatici. Ci
alimentiamo ancora in modo tradizionale, anche se mangiamo molto
meno di una volta.
Un'anziana Quilombola. I Quilombola sono i discendenti degli schiavi africani fuggiti che fondavano proprie comunità nascoste. Hiparidi Top'Tiro cerca l'appoggio dei Quilombola per fermare a forze unite la distruzione dell'ecosistema del Cerrado. Foto: Amanda Oliviera/Flickr BY-NC-SA 2.0.
RNN: Cosa risponde alle persone che pensano
che queste grandi piantagioni siano necessarie per
l'alimentazione della popolazione brasiliana ed estera?
Hiparidi Top'Tiro: Non penso che il capitalismo
globale debba per forza distruggere i popoli indigeni. Penso che
si possa coesistere. Noi però dipendiamo dal fatto di
riuscire a mantenere in vita la nostra cultura e abbiamo gli
stessi diritti di tutti gli altri. La cosiddetta industria
agraria deve anch'essa assumersi le sue responsabilità.
Non c'è bisogno che rubino la nostra terra e distruggano
la nostra vita e cultura per produrre. Devono accettare che ci
sono anche altre persone, altrettanto cittadini brasiliani e che
in quanto tali hanno dei diritti.
RNN: Anche all'interno del suo popolo ci sono
persone che pensano che l'agricoltura industriale non sia poi
tanto male e che ci si può guadagnare?
Hiparidi Top'Tiro: E' illusorio pensare che
tutte le cose della vita moderna facilitino la vita, lascino
più tempo per il riposo e per pensare alla vita. Alcune
persone pensano così e questo crea conflitti interni alla
nostra comunità. La maggioranza tra noi però
sostiene che per noi sia meglio produrci da soli il nostro cibo.
Chiunque preferisca il cibo che ci arriva da fuori la riserva
può, se vuole, andare in città e vedere con i
propri occhi com'è veramente la vita là.
RNN: Quale dovrebbe essere la politica del
governo brasiliano?
Hiparidi Top'Tiro: Vogliamo dal governo che
rispetti i popoli indigeni e i nostri diritti come cittadini.
Abbiamo lottato per vedere riconosciuti i nostri diritti e averli
fissati nella Costituzione del 1988. Chiediamo anche che i
rappresentanti politici diano vita a dei programmi efficaci per
la tutela delle nostre culture e in particolare per la
demarcazione delle nostre terre. Infine chiediamo al governo che
emetta delle leggi a tutela ambientale, che rispettino in egual
modo tutti gli ecosistemi del nostro paese. Pur essendo
l'Amazzonia "il polmone del mondo", tutti gli ecosistemi devono
poter godere della stessa protezione. Ci piacerebbe che il
governo e i cittadini brasiliani tutti sapessero e fossero
orgogliosi del fatto di avere sul territorio 220 popoli indigeni
autonomi e che questi parlino 180 lingue diverse. In quale altro
posto del mondo c'è tanta ricchezza e
diversità?
RNN: Voi state chiedendo al governo di
rinunciare alla costruzione di sei grandi centrali idroelettriche
e di porre fine ai trasporti navali industriali sui grandi fiumi.
Questo comporterebbe una limitazione per l'agrobusiness visto che
utilizza l'energia delle centrali e i fiumi come vie di
trasporto.
Hiparidi Top'Tiro: Così sostiene il
governo. Di fatto, durante il governo Lula (Luiz Inácio
Lula da Silva è stato presidente del Brasile dal 2003 al
2011) si sosteneva che i popoli indigeni costituissero un
ostacolo allo sviluppo del paese. L'attuale governo del partito
dei lavoratori PT (Partido dos Trabalhadores) sostiene lo stesso
concetto ma noi crediamo che sia falso. I nostri diritti come
cittadini e come appartenenti a un popolo indigeno sono fissati
da diverse leggi e dall'articolo 231 della Costituzione. Lo Stato
non può semplicemente far finta di niente e farci
eliminare per il cosiddetto progresso. Soprattutto se questo
progresso non è affatto pensato per tutti ma solamente per
una minoranza. Esistiamo anche noi, e ci sono molte persone che
dovrebbero poter migliorare con lo sviluppo: popoli indigeni, le
comunità degli ex-schiavi, il movimento degli
afro-brasiliani, i senza-terra. Io so che nel nostro paese esiste
una minoranza preoccupata solo del guadagno e questa minoranza
è quella che parla male di noi popoli indigeni. Noi non
siamo d'accordo con quanto dicono di noi. Sarebbe d'aiuto se le
persone in altri paesi come qui negli Stati Uniti (paese in cui
è stata realizzata l'intervista) potessero venire a
conoscenza della nostra lotta e dei progetti tramite i quali
vogliamo difendere il Cerrado e i suoi abitanti.
La videointervista si trova in portoghese sottotitolata in inglese in: www.intercontinentalcry.org/protecting-amazon-includes-defending-indigenous-rights
[Note]
(1) Il Cerrado è una grande savana tropicale nel Brasile
centrale. La Caatinga è la più grande foresta in
zona arida del Sudamerica. Gli alberi sembrano secchi per tutto
l'anno e rinverdiscono solamente nella stagione delle piogge. Il
Pantanal è un'immensa pianura alluvionale, la più
grande zona umida del mondo.
(2) I Quilombola sono i discendenti degli schiavi africani
fuggiti dalle piantagioni in cui erano prigionieri all'epoca
della schiavitù e che andavano a formare comunità
autonome di schiavi fuggitivi, i cosiddetti quilombo.
(3) Con la "marcia verso occidente" il presidente Getúlio
Vargas annunciò nel 1938 di voler rendere accessibili
all'agricoltura grandi appezzamenti di terra nella parte centrale
del paese. Getúlio Vargas ha governato il Brasile come
dittatore dal 1930 al 1945 e come presidente eletto dal 1950 al
1954.
Di Ulrich Delius
Anuak-People /Etiopia. Foto: Julio García/Flickr BY-NC 2.0.
Ciò che per gli uni è uno dei maggiori pericoli
per la sopravvivenza dei popoli indigeni per gli altri è
un adeguamento necessario alle sfide del 21. secolo. Il dibattito
sulle concessioni di terre agricole soprattutto a investitori
stranieri è a dir poco animato e raramente le opinioni
degli esperti sono state così lontane una
dall'altra.
Ciò che a prima vista potrebbe sembrare un arido dibattito
teorico, è per milioni di persone al mondo questione di
sopravvivenza. Negli scorsi anni circa il 30% delle terre
agricole mondiali pari a più di 80 milioni di ettari sono
state date in concessione o vendute a grandi investitori. Il giro
d'affari è notevole. Per i concessionari/venditori delle
terre agricole, perlopiù stati nazionali, l'operazione ha
comportato introiti per complessivamente 100 miliardi di dollari
americani. La questione del controllo delle terre si configura
sempre più come una questione di politica internazionale.
I prezzi dei prodotti alimentari crescono e cresce anche la
popolazione mondiale. I governi di molti paesi del mondo sono
già in competizione tra loro per assicurarsi terreni
agricoli a buon prezzo su cui produrre alimenti, piante per la
produzione energetica o mangimi. Per molti esperti è solo
questione di tempo finché esploderanno nuovi conflitti
generati dal controllo dei terreni agricoli.
Etiopia - "luogo del reato"
In Etiopia gli investimenti agricoli internazionali
contribuiscono a creare tassi di crescita a doppia cifra. Sono
valori che i politici europei possono solo sognare. Per ottenere
questi tassi, il governo etiope offre agli investitori stranieri
aree agricole grandi quanto l'Olanda, il Belgio e il Lussemburgo
messi insieme. I governi etiopi giustificano la scelta di
concedere enormi appezzamenti del loro territorio con la
necessità di modernizzare la propria agricoltura. Ma se
questa scelta sembra beneficiare le casse dello stato altrettanto
non si può dire per i bilanci familiari dei piccoli
contadini e agricoltori. In Etiopia circa l'80% della popolazione
vive ancora nelle aree rurali di un'agricoltura di
sussistenza.
Gli investitori stranieri prediligono terreni situati nei
bassipiani dov'è più semplice utilizzare grandi
macchinari. I posti di lavoro creati per i contadini rimasti
senza terra sono pochissimi poiché la popolazione locale
in genere non possiede le qualifiche necessarie richieste. Nei
pochi casi in cui i contadini locali trovano invece un nuovo
impiego, i salari non bastano a coprire il fabbisogno familiare e
le famiglie colpite si trovano ad essere più povere di
prima. Le istituzioni e gli investitori promettono alla
popolazione nuove strutture e servizi e il miglioramento del loro
standard di vita ma le strutture realizzate coprono
prevalentemente i bisogni degli investitori stessi e non tengono
conto dei reali bisogni della popolazione. Mentre gli investitori
costruiscono nuove strade per il trasporto dei loro prodotti, le
autorità distruggono i villaggi situati sulle terre date
in concessione e la popolazione viene forzatamente dislocata in
nuovi villaggi con la promessa che presto questi villaggi saranno
dotati di posti medici e scuole. Ciò che viene taciuto
è che spesso i vecchi villaggi distrutti già
avevano scuole, piccoli ospedali, e altre infrastrutture.
Più che al reale miglioramento delle condizioni di vita
della sua popolazione rurale, la presunta modernizzazione
dell'agricoltura etiope sembra mirare all'allargamento del suo
mercato d'esportazione. L'Etiopia punta al superamento
dell'attuale agricoltura in gran parte di sussistenza per
profilarsi come esportatore di riso, mais, cotone, olio di palma
e di altri prodotti agrari.
A breve termine questa strategia migliora il bilancio delle
esportazioni e di conseguenza il bilancio commerciale dello stato
ma restano i molti dubbi sugli effettivi vantaggi economici a
lungo termine.
Da un lato lo stato etiope concede gli appezzamenti in affitto a
prezzi veramente stracciati di circa 1 euro per ettaro e anno per
un lasso di tempo che va dai 70 agli 80 anni. Raramente i
contratti d'affitto sono trasparenti, la popolazione colpita da
dislocamento forzato non riceve alcuna informazione sulle
condizioni d'affitto né sui diritti e doveri fissati per
contratto degli investitori. Accade poi relativamente spesso che
gli investitori non mantengano le promesse fatte e lascino la
terra incolta. Grazie ai prezzi così bassi, essi possono
infatti sospendere la produzione agricola in attesa di momenti
congiunturali migliori. Quando i terreni vengono invece
coltivati, il passaggio da un'agricoltura di sussistenza a
coltivazioni intensive e monoculture rischia da un lato di
impoverire velocemente i terreni e dall'altro comporta un consumo
di acqua elevatissimo e eccessivo per una regione che già
oggi soffre la siccità e le difficili condizioni
climatiche. Per molti esperti di agricoltura i terreni non sono
adatti alla coltivazione intensiva e questo finirà per
degradare irrimediabilmente la terra. L'erosione e il
disboscamento inoltre si riflettono negativamente sul cambiamento
climatico e contribuiscono a una diminuzione delle
precipitazioni.
Da diversi anni l'Etiopia così come anche gli altri paesi
del Corno d'Africa subiscono le conseguenze sempre più
incisive del cambiamento climatico. L'aumento delle temperature e
la diminuzione delle piogge hanno considerevolmente accorciato
gli intervalli tra una siccità e l'altra e quindi anche
tra una carestia e l'altra. Questa già difficile
situazione viene aggravata sia dal progressivo disboscamento per
creare nuovi terreni da dare in concessione sia dall'enorme
aumento del consumo di acqua causato dall'agricoltura intensiva e
dall'aumento esponenziale delle aree coltivate.
Per reperire le grandi quantità d'acqua necessarie alle
nuove piantagioni l'Etiopia progetta e costruisce nuove dighe.
Queste però causano ulteriori problemi. Ancora una volta
la popolazione che vive nelle aree destinate alle dighe e ai loro
bacini idrici subisce il dislocamento forzato, i terreni che
prima davano da mangiare ai contadini che vi vivevano finiscono
sott'acqua, l'equilibrio idrico dell'intera regione viene
sconvolto e la popolazione ancora una volta risulta essere il
grande perdente di questa politica di sviluppo. Alla ricerca di
acqua vengono anche scavati nuovi pozzi sempre più
profondi che a loro volta riducono pericolosamente lo specchio
freatico.
L'enorme consumo di acqua delle nuove
piantagioni
L'Etiopia oggi ha una popolazione di quasi 95 milioni di persone
ma con un tasso di crescita annuo del 3% circa si stima che nel
2020 gli Etiopi saranno 110 milioni. La locazione di terre
fertili sempre più estese ha già iniziato a creare
problemi all'approvvigionamento alimentare della popolazione, e
di certo la situazione non può migliorare con una
popolazione in crescita e nuovi terreni destinati a investitori
stranieri.
Per una regione che da sempre è caratterizzata da
condizioni climatiche instabili, la locazione dei terreni, la
conseguente coltivazione intensiva e l'enorme consumo d'acqua che
questa richiede, si ripercuotono ulteriormente sul clima e
intensificano le conseguenze negative del cambiamento
climatico.
Sfide globali per il futuro
L'Etiopia è solamente uno dei molti esempi per il furto di
terre in tutto il mondo. La critica maggiore degli esperti di
sviluppo a questo sistema è la generale mancanza di
sostenibilità dei progetti. Gli investitori non sono
interessati a un'agricoltura sostenibile che rispetta i terreni e
l'ambiente, né sono interessati alla tutela e al
miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni locali
che fino a quel momento avevano lavorato generazione dopo
generazione la terra. I grandi investitori di fatto sono
interessati alla massimizzazione del profitto e al rendimento a
breve termine. La terra spesso non viene nemmeno lavorata ma
viene acquisita unicamente per speculazione, nell'attesa di
poterla rivendere in futuro con il massimo profitto
possibile.
Tutto ciò è inconcepibile per la maggior parte
delle popolazioni indigene. La terra è nella loro cultura
non una merce vendibile a piacimento, ma il luogo in cui sono
sepolti gli avi e la garanzia di sopravvivenza delle future
generazioni. Si tratta quindi di rispettare la terra e far
sì che anche in futuro possa essere coltivata e continui a
dare i suoi frutti.
Si tratta di due concezioni di terra talmente diverse tra di loro
che non stupisce la mancanza di dialogo costruttivo tra grandi
investitori e popoli indigeni.
I popoli nativi in tutto il mondo chiedono infatti rispetto per
la loro terra tradizionale e accusano autorità, governi e
investitori di ignorare che la loro terra non è, come
dicono, "senza padrone", ma che da generazioni viene coltivata,
curata e usata proprio dai popoli che da millenni vi vivono. Per
i popoli nativi non si tratta solamente di considerazioni
economiche. Vi è una stretta connessione tra la terra e il
senso di appartenenza, di cultura e tradizioni e di coesione
sociale. Finché i governi, gli investitori e i cosiddetti
esperti di cooperazione non sono disposti a prendere sul serio la
visione dei popoli nativi e a ragionare in termini di
sostenibilità a lungo termine non vi sarà soluzione
al problema del "landgrabbing", del moderno furto di terre.
Di Mascha Brammer
Il fiume Niger è una delle principali vene d'acqua e di vita dell'Africa. Lungo il fiume si concentra molta dell'agricoltura dei paesi che il fiume attraversa, e in particolare del Mali. All'incirca la metà del territorio del paese è coperta dal deserto del Sahara e solo una esigua parte è adatta all'agricoltura e all'allevamento di bestiame. L'economia del Mali è fortemente caratterizzata dai piccoli coltivatori e allevatori. Circa il 70% della popolazione lavora in questo settore.
Giornata di mercato in Mali. Foto: Alexbip/Flickr BY-NC-ND 2.0.
La desertificazione, la costruzione di miniere, di impianti
per l'irrigazione e di dighe che hanno distrutto il naturale
sistema d'irrigazione hanno innescato una lotta per i pochi e
preziosi terreni fertili del delta interno del Niger. La
riduzione dei terreni ad utilizzo agricolo riduce anche la
sicurezza alimentare nel paese. A ciò si aggiunge
l'aumento delle concessioni di appezzamenti di terreno fertili a
grandi investitori stranieri.
La terra appartiene ufficialmente allo stato ma di fatto viene
tradizionalmente passata in eredità all'interno dei
villaggi e delle famiglie e viene considerata proprietà
comune. Nel 2006 il governo del Mali ha ufficialmente
riconosciuto e fissato legalmente questa tradizione. Ciò
non di meno, lo stato può espropriare terreni per
"interesse statale" e dietro il pagamento di un indennizzo. In
molti casi però l'indennizzo non arriva.
L'agenzia "Office du Niger" fu istituita nel 1932 con il compito
di gestire i terreni agricoli situati tra la città di
Ségou e la frontiera con la Mauritania. Nel 1994 l'agenzia
passò sotto il controllo del Ministero per l'agricoltura e
nel 2009 sotto la competenza diretta di un segretario di stato
del primo ministro. L'Office du Niger dovrebbe concedere terreni
in locazione a piccoli coltivatori, vendere acqua, gestire la
produzione di riso e in questo modo assicurarsi della sufficiente
produzione di cibo nel e per il paese. Molti coltivatori
lamentano però la mancanza di trasparenza nel lavoro
dell'Office du Niger, in particolare per quanto riguarda le
concessioni ai grandi investitori stranieri. L'Office du Niger
è infatti un importante promotore degli investimenti
terrieri stranieri, o, altrimenti detto, del furto di terre da
parte dei grandi investitori a danno dei piccoli coltivatori e
delle comunità locali.
Spesso infatti la terra viene espropriata senza il pagamento di
alcun indennizzo, a volte i piccoli coltivatori che lavorano
terre cadute nel mirino di imprese straniere vengono accusati di
trovarvisi illegalmente e vengono cacciati, e le concessioni non
tengono conto dello spazio e dei bisogni dei villaggi dividendo e
distruggendo comunità tradizionali situate sui terreni
dati in concessione.
Da quando sono state attuate le riforme economiche liberali
chieste dalla Banca Mondiale già negli anni '80, il
governo e le istituzioni pubbliche cercano di facilitare gli
investimenti stranieri. Se questa politica da un lato migliora il
clima per i grandi investitori, dall'altro produce effetti
negativi per i piccoli coltivatori e allevatori. In seguito alle
molte carestie, l'ex primo ministro Modibo Sidibé ha dato
vita all'"iniziativa riso".
Con l'iniziativa riso la produzione agricola si è
concentrata sulla produzione di riso a scapito di molte delle
varietà di verdura e grano coltivate prima.
Contemporaneamente è stata proibita l'esportazione di riso
ma permessa l'importazione. Così da un lato si è
impoverita la dieta della popolazione e dall'altro le
importazioni di riso hanno fatto sì che il prezzo del riso
locale scendesse talmente tanto che molti coltivatori non erano
più gin rado di permettersi l'acquisto dell'acqua
necessaria a irrigare le risaie. Nel 2010 il governo del Mali ha
quindi ritirato la proibizione all'esportazione di riso.
Parte della terra gestita dall'agenzia governativa Office du
Niger si sovrappone al territorio Tuareg nel nord del Mali. I
Tuareg sono tradizionalmente allevatori di bestiame e come tali
contribuiscono alla sicurezza alimentare del paese, tanto
più che molti di loro hanno abbandonato la vita nomade e
sono diventati sedentari. Ciò nonostante e proprio come i
piccoli coltivatori, anche i Tuareg subiscono l'ingerenza dei
grandi investitori. Da sempre discriminati dalle istituzioni
pubbliche, i Tuareg vengono cacciati dai loro insediamenti per
far posto a piantagioni di monoculture e a miniere di uranio. Il
dislocamento forzato dei Tuareg, le costanti discriminazioni,
l'inquinamento ambientale creato da piantagioni e miniere e il
generale malcontento hanno ripetutamente portato a gravi
conflitti i Tuareg e il governo del Mali, e in alcuni casi hanno
favorito l'affiliazione di gruppi di Tuareg a gruppi estremisti
come Al-Qaeda.
Il maggiore accordo finora siglato dall'Office du Niger è
quello relativo al progetto "Malibya". Siglato nel 2008 con la
società di investimenti libica "Libya Africa Investment
Portfolio" (LAP), l'accordo prevede che la LAP possa utilizzare
nei prossimi 50 anni 100.000 ettari di terreno per coltivazioni
di riso e pomodori e l'allevamento di bestiame. Inoltre la LAP
avrà una disponibilità illimitata di acqua al costo
di annualmente 5 US$ a ettaro. Per facilitare l'afflusso di acqua
e il trasporto verranno costruiti un canale lungo 40 km e una
strada altrettanto lunga.
I progetti come "Malibya" costituiscono la ragione centrale per
la locazione di grandi terreni a investitori stranieri.
L'associazione dei coltivatori del Mali Sexagon è
contraria al mega-progetto. Il loro timore è che il riso
coltivato nell'area concessa al LAP sia destinato
all'esportazione e che i piccoli coltivatori dislocati dai loro
terreni per far posto al progetto Malibya non abbiamo più
di che nutrire la propria famiglia. I coltivatori del luogo
infatti non sono stati coinvolti né nella progettazione
né tanto meno nella realizzazione del progetto. I
coltivatori non hanno ricevuto alcun risarcimento né sanno
se potranno lavorare come braccianti nelle terre che fino a ieri
essi stessi coltivavano. I lavori per le infrastrutture legate al
progetto Malibya hanno finora colpito 150 famiglie.
Fino al 2012 l'Office du Niger ha ufficialmente dato in locazione
540.000 ettari di terreno, principalmente a investitori cinesi,
statunitensi, francesi e britannici. Secondo indiscrezioni
ufficiose l'Office pianifica la locazione di complessivamente
820.000 ettari di terreno agricolo.
La politica liberale intrapresa dal Mali lascia aperte molte
domande: chi guadagna veramente con i contratti di locazione
terriera? Quali conseguenze avrà l'utilizzo illimitato di
acqua per il sistema fluviale del Niger? Quali saranno le
conseguenze per i piccoli coltivatori dislocati? La sicurezza
alimentare del paese sarà veramente garantita grazie a
questi mega-progetti? E da un punto di vista legale: a chi
appartiene veramente la terra in cui si insediano i grandi
investitori stranieri? I piccoli coltivatori chiedono di essere
risarciti per la perdita di terreno ma troppo spesso questi
risarcimenti non arrivano.
In Mali non è solo la terra a esser rubata ma anche
l'acqua. Il delta interno del Niger dipende dalla periodiche
inondazioni estive ma grazie al progetto Malibya le
multinazionali ora potranno prelevare illimitatamente le acque
del fiume prima che raggiunga il delta interno. L'unica
limitazione posta dal governo è il divieto di coltivare
tra gennaio e maggio piante che necessitano di molta acqua. Il
rischio che i massicci prelievi di acqua ad opera dei grandi
investitori stranieri finiscano per lasciare a secco i piccoli
coltivatori e la popolazione ma anche il fiume è un
rischio reale.
Di Rainer Feldbacher, Martina Haselböck
In molte culture il riso è simbolo di vita e fertilità. L'uso diffuso di lanciare riso ai novelli sposi probabilmente arriva dalla Cina e simboleggia l'augurio di figli e fortuna. Lo Yunnan è sicuramente una delle regioni con la maggiore biodiversità della Cina. Qui, lungo le ripidi pendici del fiume Saluen, i contadini hanno creato migliaia di terrazze su cui coltivano il riso.
1.300 anni fa le comunità delle regioni montane vicine al Fiume Rosso hanno creato migliaia di terrazze coltivate a riso. Oggi questo paesaggio fa parte del Patrimonio Culturale dell'Umanità. Foto: R. Feldbacher, M. Haselböck.
Nella coltivazione del riso l'acqua riveste particolare
importanza. Qui nello Yunnan proviene da sorgenti di montagna
così come dai grandi fiumi che attraversano la regione.
Per lo Yunnan passano infatti tre dei maggiori fiumi della
regione, come il Saluen che finisce il suo corso in Birmania e
sfocia nell'Oceano Indiano, il Mekong che nasce in Tibet e dopo
aver attraversato lo Yunnan, scorre lungo i confini di Laos,
Birmania e Thailandia, entra finalmente in Cambogia per terminare
il suo viaggio in Vietnam e sfociare nel Mar Cinese Meridionale,
e ancora il Yangtze, detto anche il Fiume Azzurro che dopo aver
attraversato ampie parti della Cina sfocia a Shanghai nel Mar
Cinese Orientale. E' grazie a questi fiumi che molti paesi
asiatici possono vantare una grande diversità culturale e
naturale e che il riso detenga un ruolo così centrale in
tutte queste culture.
Molto prima dei Cinesi Han, lo Yunnan è stato popolato e
abitato da più di 250 diversi gruppi etnici con le loro
lingue e dialetti, usi e costumi. Oggi questi gruppi vengono
riconosciuti politicamente come 25 nazionalità
diverse.
Diversità etnica nel cuore della
Cina
La sinizzazione dello Yunnan è stata accelerata requisendo
le terre più fertili ai proprietari originari e
assegnandole ai cinesi Han. I proprietari originari diventavano
braccianti dei nuovi proprietari oppure cercavano nuovi spazi di
vita a nord, nelle regioni montane difficili da coltivare, oppure
a sud, nelle vallate infestate da malattie tropicali. Le
relazioni intrattenute dalle autorità del Regno di mezzo
con i diversi gruppi etnici rispondeva a una regola molto
semplice: chiunque non apparteneva alla maggioranza culturale era
considerato barbaro. Protestare significava andare in cerca di
guai seri. Il concetto della superiorità di un gruppo
etnico fu almeno in teoria superato dall'avvento del comunismo
che considerava "tutti uguali". Tutti avrebbero dovuto
partecipare allo sviluppo economico e sociale del paese. Nel
corso di cosiddette "rilevazioni etniche" e per motivi di
semplificazione molti piccoli gruppi etnici, contro la loro
volontà, furono accorpati a gruppi più grandi,
senza alcuna attenzione per le diversità linguistiche e
culturali. La diversità etnica di fatto non venne
riconosciuta e per tutti continuano a valere i valori propri
dell'etnia Han. Chi nel paese vuole ottenere qualcosa deve
seguire lo stile di vita Han.
Per molto tempo il governo centrale di Pechino ha trascurato le
province occidentali a favore dello sviluppo economico delle
regioni costiere orientali. Forse è questo il motivo per
cui nelle città occidentali continua a esistere un
crogiolo di etnie e popoli diversi. Le diversità culturali
diventano particolarmente evidenti nei giorni di mercato quando
gli abitanti dei villaggi circostanti raggiungono le
città. Gli abiti tradizionali, le lingue e i dialetti
svelano la provenienza di ognuno. Vi si trovano gli Hani con i
loro copricapo neri, i Lisu che decorano le loro acconciature con
perle rosse, i Miao con le ghette a fascia, gli Yi con i loro
particolarissimi copricapo o ancora i Naxi che ancora parlano la
propria lingua e usano la propria scrittura. Certo, il processo
di assimilazione è già iniziato e non si
fermerà, ma nei giorni di mercato e grazie alle persone
dei molti villaggi l'antico e variegato Yunnan sembra riprendere
nuova vita.
Lo Yunnan non ospita solamente moltissime culture ma è
anche la regione con la maggiore biodiversità della Cina.
Nello Yunnan troviamo ancora animali come il leopardo delle nevi,
le scimmie dal naso camuso e il piccolo panda, ma l'aumento della
popolazione e la trasformazione dell'habitat in terre coltivate e
aree residenziali costituiscono una minaccia crescente per la
sopravvivenza delle molte specie animali e vegetali della
regione.
Si continua ad arare in modo tradizionale poiché è praticamente impossibile trasportare qui i pesanti macchinari moderni che comunque non sono adatti alle condizioni ambientali. Foto: R. Feldbacher, M. Haselböck.
La coltivazione del riso lungo le pendici
dell'Himalaya
Una miriade di terrazze permette la coltivazione del riso lungo
le pendici dell'Himalaya. Il carico di lavoro è enorme
tant'è che si lavora sempre in comunità. A partire
dalla Rivoluzione Culturale lo stato ha sostenuto la formazione
di cooperative agricole con cui aumentare la produzione, ma per
le comunità locali il lavoro cooperativo non costituiva
certo una novità. Quali sono i vari passaggi per la
coltivazione del riso? Innanzitutto bisogna preparare la semina.
I chicchi di riso vanno lasciati in acqua diversi giorni per poi
essere trasferiti in terra calda finché non germogliano.
Nel frattempo viene arato il terreno della futura risaia e grazie
a degli appositi canali il campo viene inondato d'acqua. Poi i
piccoli germogli vengono trasferiti dalla terra alla risaia.
D'ora in avanti bisogna tenere sotto controllo il livello
dell'acqua. Non dovrà mai essere troppo basso per evitare
che le nuove piante si secchino ma nemmeno devono marcire per la
troppa acqua.
Ogni chilo di riso necessita di circa 5.000 litri di acqua
corrente. E' importante anche controllare la velocità con
cui far scorrere l'acqua nella risaia. Se l'acqua scorre troppo
veloce si porterà via parte del terreno e delle piantine,
ma se scorre troppo lentamente c'è il rischio che si
formino delle alghe che andrebbero a soffocare le piantine di
riso. Dopo mesi di costante irrigazione arriva il periodo della
maturazione delle piante e del raccolto. Il riso a questo punto
deve essere trebbiato, essiccato e sbramato.
L'alto consumo di acqua nella coltivazione del riso ha indotto il
governo centrale a proibirne la coltivazione nei bassipiani come
ad esempio nei pressi di Pechino per non intaccare lo specchio
freatico.
Il riso e il suo significato
Il riso è l'alimento principale di metà della
popolazione mondiale. La variante integrale è quella con
il maggiore valore nutritivo, ma anche in questo caso i chicchi
vengono puliti e sbramati. Quel che avanza dopo la lavorazione
viene usato come alimento per animali, la produzione di cappelli
e di scarpe. Le glumelle del riso vengono utilizzate anche per
riempire materassi e come materiale da imballaggio. Grazie alla
distillazione del riso si ottengono il vino di riso e la grappa
di riso.
Non c'è quindi da stupirsi se in Asia il riso gode di
tanta considerazione e sia associato a molteplici usi. In alcune
lingue e dialetti "mangiare" e "riso" sono la stessa parola, ma
il riso simboleggia anche concetti fondamentali quali la vita e
la morte. Due bacchette incrociate su un mucchietto di riso
indicano la morte e in quasi tutte le cerimonie vengono preparate
delle ciotole di riso per gli antenati e gli avi che, secondo
l'immaginario religioso, sono presenti e partecipano alla
cerimonia. In questo modo il riso, onnipresente nella
quotidianità, unisce passato, presente e futuro. E
così, un augurio cinese per l'anno nuovo recita "che il
tuo riso non si bruci mai".
Articolo tratto da Lebenszeichen 2014 - calendario dell'APM Austria
Di Fred Lange
E' difficile sentire parlare pubblicamente di sale, eppure il sale riveste fin dall'antichità grande importanza e continua ad averne ancora oggi. La produzione mondiale di sale è di circa 200 milioni di tonnellate annue, di cui 50 milioni di tonnellate vengono prodotte dagli USA come maggiore produttore di sale al mondo, seguiti dalla Cina con poco meno di 30 milioni di tonnellate. Il maggiore acquirente di sale è l'industria chimica cinese, poi troviamo l'uso di sale antigelo mentre il sale per uso alimentare costituisce solo una minima parte del consumo totale di sale.
Il sale del deserto di Danakil è la più importante fonte di reddito dei nomadi Afar. Foto: Fred Lange, www.salzreisen.de.
Il sale - un minerale fondamentale
L'uomo ha bisogno di sale per trasmettere segnali sensoriali e
motori lungo il sistema nervoso. Una deficienza cronica di sale
può essere pericolosa per la salute. Nelle regioni povere
di sale l'uomo ha da sempre coperto il suo fabbisogno consumando
prodotti animali, come facevano ad esempio i nomadi dei deserti
dell'Arabia meridionale e della Siberia settentrionale, gli Inuit
della Groenlandia o gli Indiani del Nordamerica. Nonostante non
conoscessero il sale, essi non ne soffrivano la mancanza grazie
alla loro dieta di carne e sangue animale.
In Asia centrale si diffuse e affermò l'abitudine di
salare il tè. Anche in Tibet il tè salato e
mescolato con burro contribuisce a fornire le sostanze necessarie
per poter sopravvivere sul "tetto del mondo". Per il tè
salato tibetano bisogna prima sbriciolare il tè pressato
in blocchi simili a dei mattoncini, questo viene poi immerso
nell'acqua bollente e infine il tutto viene mescolato con sale e
burro. Alla fine si aggiunge un pizzico della famosa tsampa (un
dado di farina di orzo) e la bevanda è pronta. Molti
Tibetani ne bevono fino a 40 tazze al giorno!
Il sale e il potere
Fin dai tempi antichi sovrani e stati nazionali hanno sempre
tentato di controllare il commercio del sale. Chi controllava il
sale poteva imporre forti tasse e manipolare i prezzi.
All'inizio del 20. secolo il sale era troppo caro per la maggior
parte della popolazione indiana. L'India era infatti una colonia
inglese e l'oro bianco era controllato dalla Gran Bretagna. Dal
12 marzo al 5 aprile 1930 migliaia di persone marciarono con il
Mahatma Gandhi per 320 km con lo scopo di raccogliere un pugno di
sale nelle saline del Gujarat per protestare contro la tassa sul
sale imposto dal governo imperiale e rivendicare simbolicamente
la proprietà di questa risorsa al popolo indiano. Di
fatto, la cosiddetta marcia del sale segnò l'inizio della
fine del dominio britannico in India.
Dallol, Danakil, Etiopia: le sorgenti calde espellono sale dal terreno i cui depositi formano paesaggi eccezionali. Foto: Fred Lange, www.salzreisen.de.
Il sale del deserto - l'estrazione del sale in
Etiopia
Se esistesse una classifica delle regioni più inospitali
al mondo, il deserto dei Dancali (Danakil) nell'Etiopia
nord-orientale occuperebbe senz'altro uno dei primi posti. Il
deserto dei Dancali è un deserto di pietre, vulcani, fonti
di acqua calda e laghi di sale. Nella terra degli Afar la
temperatura può salire oltre i 50° all'ombra, ma
l'ombra è veramente rara. E' qui che si trova il sale del
deserto. Situato a oltre 100 m sotto il livello del mare, il
deserto dei Dancali nel corso della sua storia è stato
più volte inondato dal Mar Rosso, l'ultima volta circa
10.000 anni fa. Evaporata l'acqua è rimasto uno strato di
sale spesso qualche centinaio di metri.
Già alle prime luci dell'alba i lavoratori si dirigono
verso le saline attorno al lago di Assal. Là estraggono il
sale usando una tecnica che nel corso dei secoli è
perlopiù rimasta invariata. Dei bastoni appuntiti vengono
battuti nelle scanalature naturali della crosta di sale e facendo
leva vengono estratti dei blocchi lunghi qualche metro. Con
un'ascia questi blocchi vengono ridotti a lastre di circa 12
chili ognuno. Dall'alba fino al calare del buio con solo due
interruzioni per il pranzo e per una pausa tè, i
lavoratori continuano a colpire con le loro asce i blocchi di
sale in un ritmo sempre uguale che sembra il battere monotono di
un tamburo. Guardando lavorare questi uomini con la pelle corrosa
dal sale, ci si chiede come facciano a sopportare la fatica e
soprattutto a non crollare per disidratazione. Il loro bene
più prezioso è contenuto in sacche di pelle di
capra. Le mani rovinate dal lavoro e dal sale afferrano con
delicatezza le sacche da cui gli uomini bevono l'acqua fresca
proveniente dalle oasi del deserto senza sprecarne nemmeno una
goccia. In lontananza si intravedono - quasi fossero una fata
morgana - dei piccoli punti in movimento. Dopo un po' si
riconoscono i cammelli di una carovana lunga quasi due
chilometri. Gli animali carichi di provviste e legna da ardere
condotti da uomini con le facce stanche si avvicinano lenti alla
salina.
Scaricati i cammelli inizia il lavoro più difficile dei
carovanieri. Le tavole di sale devono essere caricate in modo
uniforme sui cammelli in modo da distribuire bene il peso e non
affaticare inutilmente gli animali. Ogni cammello porta in media
fino a 20 lastre di sale. Nel pomeriggio i circa 1.000 cammelli
della carovana sono carichi di sale che dopo sette giorni di
marcia attraverso il deserto viene venduto al mercato del sale. I
cammelli carichi non possono fermarsi più di tanto,
altrimenti non resistono alla fatica. Ogni cammelliere guida i
suoi cammelli canticchiando una sua precisa melodia. Si ha la
sensazione che animali e uomini possano continuare a camminare
così all'infinito, per settimane, e fermarsi solo con la
fine della melodia.
Articolo tratto da Lebenszeichen 2014 - calendario dell'APM Austria
Di Konstantin Udert
La mattina del 19 maggio 2014 Tony Nassar riceve una terribile telefonata che lo informa che circa un quarto delle terre della sua famiglia sarebbe appena stata distrutta. Dei bulldozer israeliani avrebbero sradicato 1.500 alberi da frutto pronti per la raccolta e avrebbero spianato i circa 10 ettari di campi a terrazza su cui crescevano gli alberi.
Campo estivo di giovani presso la Tent of Nation/Territori palestinesi occupati. Foto: Konstantin Udert.
Il vicedirettore di scuola di Betlemme/Cisgiordania non perde
tempo e insieme a familiari e osservatori internazionali va a
ispezionare i danni . Quello che trovano sono macerie. Laddove in
decenni di lavoro la famiglia Nassar aveva fatto crescere e
fiorire gli alberi da frutto ora ci sono detriti, sassi, terra
marrone e tracce di cingolati. Tony Nassar è il primo a
riprendersi dalla rabbia, la frustrazione e la tristezza che
assale i presenti. "Se abbattono i nostri alberi, noi ne
pianteremo di nuovi", dice, "loro hanno i bulldozer ma noi
abbiamo la speranza e la fede in una pace giusta".
I testimoni oculari raccontano dei veicoli militari israeliani
che verso le sette di mattino sono apparsi sulla stradina di
accesso al terreno dei Nassar. Poi sarebbero arrivati tre
bulldozer che in meno di due ore hanno sradicato e sotterrato
tutti gli alberi da frutto.
Ma perché qualcuno distrugge 1.500 alberi da frutto
prossimi al raccolto? E da dove viene l'ottimismo di Tony Nassar?
Le risposte rispecchiano alcuni aspetti ricorrenti e quasi
esemplari del conflitto israelo-palestinese.
La questione attorno agli alberi della famiglia Nassar nasce nel
1916 quando Daher Nassar acquistò questo terreno di 42
ettari a sud di Betlemme. All'epoca una stretta di mano valeva
più di ogni documento ma Daher Nassar era prudente e fece
iscrivere il suo nuovo terreno nel registro fondiario. Quando la
regione passò sotto il mandato britannico, Daher Nassar
chiese la conferma ufficiale della sua registrazione, e
così fece a ogni cambio della potenza occupante. In questo
modo la famiglia Nassar ha potuto documentare e far valere il
proprio titolo di proprietà anche di fronte alle
autorità israeliane. La lungimiranza di Daher Nassar ha
determinato la sorte dei suoi discendenti. Tutti i vicini della
famiglia Nassar sono stati espropriati già decenni fa a
causa di una documentazione lacunosa o mancante.
Il terreno della famiglia Nassar, la cosiddetta "vigna di Daher"
è però molto richiesto. Fin dagli anni 1970, la
proprietà dei Nassar è circondata da colonie
israeliane che da anni vorrebbero espandersi sul terreno dei
Nassar. A partire dal 1991 la famiglia è costantemente
coinvolta in qualche procedimento giudiziario in cui deve
dimostrare di essere la proprietaria legale del terreno. Le forze
armate israeliane hanno ripetutamente dichiarato la terra dei
Nassar come "terra statale", e ogni volta la famiglia Nassar si
trova a dover ricorrere in giudizio e a dover dimostrare in
tribunale il suo diritto a quella terra. Secondo Tony, in quasi
15 anni di processi la sua famiglia ha speso circa 100.000 euro
tra carte, bolli e avvocati. Tony racconta anche di chi gli ha
offerto un assegno in bianco per la sua terra ma né lui
né la sua famiglia sono disposti a vendere. La terra,
dicono, è eredità dei loro avi, è il loro
futuro ed è la loro speranza per una pace giusta.
La confisca di terre private dichiarandole "proprietà
statale" o "zona di interesse militare" è la procedura
usuale con cui anche i vicini di Nassar hanno perso la loro terra
e casa. Impossibilitati a dimostrare davanti a un giudice i loro
diritti di proprietà, essi sono stati costretti a
rinunciare alla battaglia legale per gli alti costi che questa
implicava. Una volta confiscata, la loro terra è stata
venduta dallo stato israeliano a nuovi coloni ed è servita
per allargare le cosiddette colonie nei territori occupati, in
aperta violazione del diritto internazionale.
Un membro della famiglia Nassar al lavoro. Foto: Melody Nelson/Flickr BY-NC-SA 2.0.
Per le autorità israeliane i Nassar sono una spina nel
fianco. Finora non solo sono riusciti a impedire con mezzi legali
l'espansione delle colonie ma sul loro terreno hanno anche
istituito il progetto Tent of Nations (Tenda delle Nazioni). Il
progetto Tent of Nations è gestito da Daoud Nassar,
fratello di Tony, ed è diventato un luogo di resistenza
non violenta all'occupazione militare israeliana. Dal 2000 la
Tenda delle Nazioni ospita regolarmente giornate e
attività di dialogo interculturale e interreligioso.
Inoltre offre corsi di formazione a donne e adolescenti
palestinesi. L'intero progetto funziona secondo lo slogan "ci
rifiutiamo di essere nemici" e attira numerosi visitatori da
tutto il mondo. Con il tempo la "vigna di Daher" è
diventata un luogo importante e altamente simbolico, non solo per
la famiglia Nassar. In particolare per la popolazione palestinese
dell'area, la Tenda delle Nazioni assolve diverse importanti
funzioni:
- per i bambini e adolescenti di Betlemme la Tenda delle nazioni
è l'unico luogo dove possono imparare qualcosa
sull'ambiente a sulla protezione dell'ambiente. Quasi tutte le
aree incolte e ancora in stato naturale in Cisgiordania sono
infatti sotto il controllo di Israele e quindi perlopiù
inaccessibili alla popolazione palestinese;
- poco sotto il terreno dei Nassar si trova il villaggio di
Nahalin con i suoi circa 7.000 abitanti. Se le autorità
dovessero decidere di unire tra loro le colonie circostanti e a
questo scopo abbattere la Tent of Nations, è prevedibile
che - come in passato - torni ad aumentare la repressione
militare contro gli abitanti di Nahalin rendendo loro impossibile
vivere una quotidianità normale.
Attualmente però è la famiglia Nassar a subire
le intimidazioni delle autorità. Oltre alle ricorrenti
dichiarazioni della loro proprietà come "terra statale" i
Nassar hanno ricevuto ordini di demolizione per le tende, le
stalle, le toilette compostanti, l'impianto a energia solare, le
cisterne di raccolta dell'acqua e le piccole caverne scavate
nella pietra. Tende, caverne, impianto solare, cisterne
dell'acqua e toilette compostanti erano stati eretti e costruiti
dai Nassar per ovviare ai rifiuti delle autorità ad
allacciare la loro proprietà alla rete idrica e energetica
e a concedere loro il permesso per la costruzione di strutture
fisse. E così, senza volerlo, la Tent of Nation assolve
anche alla funzione di mostrare ai visitatori stranieri come si
traduce nella quotidianità il vivere sotto occupazione. I
visitatori stessi descrivono le reazioni pacifiche e attive della
famiglia Nassar come "ispiranti" e "incoraggianti".
Le molte intimidazioni, di cui l'ultimo atto è la
distruzione degli alberi da frutto e quindi della base economica
della Tenda delle Nazioni, hanno tutte un unico messaggio:
"Sparite da qua!"
Il lavoro e la missione della famiglia Nassar ha raccolto
solidarietà di una miriade di persone, associazioni laiche
e religiose di tutto il mondo. Grazie alle loro offerte, alla
loro presenza e lavoro in loco e al lavoro di lobby la Tenda
delle Nazioni sulla "vigna di Daher" continua a funzionare e a
crescere e la famiglia Nasser riesce a contrapporre
all'occupazione israeliana il suo semplice e al contempo forte
messaggio "Ci rifiutiamo di essere nemici. Resteremo!"
"La nostra missione è creare ponti tra le persone e ancora
tra le persone e la terra. Con la Tent of Nations possiamo unire
culture diverse per costruire ponti di comprensione, di
conciliazione e di pace."
[Ulteriori informazioni] www.tentofnations.org, www.facebook.com/tentofnations
[L'autore] Konstantin Udert ha lavorato nel 2014 per tre mesi come stagista presso l'Associazione per i Popoli Minacciati a Göttingen. Conosce personalmente la famiglia Nassar e il progetto Tent of nations. Lavora come volontario presso l'associazione Brass for Peace e.V.. L'associazione si è posta come obiettivo quello di far conoscere la situazione in Terra Santa tra i suonatori di strumenti a fiato del movimento dei cori della chiesa evangelica. Brass for peace inoltre sostiene e incentiva i contatti tra musicisti tedeschi e palestinesi. Konstantin Udert ha fatto parte del gruppo Amnesty International delle scuole superiori di Hannover.
Associazione Beppe e Rossana Mantovan Bolzano
Lavoro nei campi all'interno del progetto di Ecofarming. Foto: Ass. Beppe e Rosanna Mantova BZ.
Da alcuni decenni in molte zone del mondo il maggior pericolo
per la sopravvivenza delle popolazioni autoctone dedite
all'agricoltura non sembrano essere gli eventi climatici
eccezionali ma tutti quegli interventi che almeno a parole
avrebbero dovuto aiutare le popolazioni a stare meglio. Una di
queste iniziative è stata la sostituzione spesso obbligata
delle sementi tradizionali con quelle industriali ad alto
rendimento più o meno manipolate geneticamente. Ciò
che avrebbe dovuto creare maggiori entrate per gli agricoltori e
aumentare i profitti delle multinazionali venditrici delle
sementi, ha in realtà creato maggiore fame e
povertà. Le spese necessarie alla coltivazione con sementi
industriali sono talmente alte da superare ampiamente l'eventuale
maggior rendimento del raccolto, le sementi geneticamente
modificate sono sterili e costringono i contadini a ricomprare i
semi ogni anno, si è ridotta la biodiversità e con
essa la diversità e qualità alimentare delle
persone. Per molti piccoli agricoltori il passaggio alle sementi
industriali ha comportato l'impossibilità di continuare a
vivere di agricoltura, debiti, l'abbandono delle terre, il
trasferimento nelle bidonville delle grandi città, o,
nella peggiore delle ipotesi, il suicidio.
Per contrastare gli effetti negativi di un'agricoltura imposta
dall'agrobusiness, un'associazione bolzanina ha dato vita a un
progetto volto a ristabilire l'autosufficienza e la
dignità di circa 1.000 piccoli agricoltori in India. La
sede bolzanina "Claudia Bertazzi" dell'associazione Beppe e
Rossana Mantovan (ABRM) sostiene il Progetto per l'Agricoltura
Ecologica e Sostenibile e per lo Sviluppo Rurale. Si tratta di un
progetto formulato in modo collettivo con la partecipazione di
più di 1000 piccoli agricoltori distribuiti in 50 villaggi
del distretto di Villupuram, Stato del Tamil Nadu, in India.
Una delle famiglie partecipanti al progetto di Ecofarming. Foto: Ass. Beppe e Rosanna Mantova BZ.
In questa zona dell'India circa l'80% della popolazione vive
in zone rurali ed è costituita in maggioranza da piccoli
agricoltori senza terra propria. Negli ultimi anni l'agricoltura
indiana ha dovuto affrontare molti cambiamenti. I nuovi metodi di
coltivazione importati dall'occidente, hanno stravolto il
tradizionale modello di agricoltura. Prima della cosiddetta
"rivoluzione verde" la popolazione rurale era autosufficiente per
quanto riguarda le sementi, che soprattutto le donne sapevano
conservare e proteggere. La situazione è profondamente
cambiata con l'introduzione di varietà ad alto rendimento
che hanno danneggiato la maggior parte delle varietà
indigene. Le sementi di importazione si sono rivelate capaci di
resistere a molte difficoltà ambientali ma nello stesso
tempo hanno impoverito l'agricoltura indigena, a causa del
degrado del terreno e della riduzione della sua
fertilità.
Gli agricoltori sono stati indotti ad aumentare la produzione;
nonostante ciò i margini di guadagno sono stati ridotti a
causa dell'alto costo delle sementi e dei pesticidi di
importazione. Da queste considerazioni è nato l'impegno di
ABRM per difendere il diritto degli agricoltori alla scelta
libera delle sementi, per rafforzare le comunità locali e
sostenerne la autonomia nei confronti delle società
multinazionali. Molti agricoltori rurali, attivisti sociali e
volontari hanno messo in dubbio la sostenibilità delle
moderne tecnologie ad alto impatto ambientale orientate
esclusivamente al mercato, con o senza l'uso di Ogm, che spinge
gli agricoltori ad indebitarsi. Ancora oggi per la maggioranza
degli agricoltori poveri di risorse l'agricoltura è un
mezzo di sopravvivenza e sussistenza e non una fonte di
profitto.
E' necessario favorire un sistema di agricoltura alternativo che
punti alla sostenibilità, che comporti rischi limitati,
che richieda poche risorse esterne e che accresca la fiducia dei
coltivatori. Insieme al partner locale, il Centre for Community
Organization and Development (CECO'DE), il progetto triennale,
cofinanziato dalla Provincia Autonoma di Bolzano, si propone di
reintrodurre i metodi agricoli tradizionali eco-sostenibili e di
sviluppare un'agricoltura biologica in 50 villaggi del Distretto
di Villupuram e di istruire e formare 1.000 agricoltori poveri di
risorse allo scopo di aumentare il loro reddito e il tasso di
occupazione. Parte del progetto è anche la produzione di
concimi e pesticidi naturali, l'acquisto di un trattore
comunitario e l'istituzione di una banca di sementi tradizionali.
Il Centre for Community Organization and Development (CECO'DE)
è un'organizzazione non governativa (ONG) di volontariato
sociale, costituitasi nel 1990 e riconosciuta dal governo del
Tamil Nadu.
L'Associazione BEPPE E ROSSANA MANTOVAN, Sezione "Claudia Bertazzi" ha sede presso la Biblioteca Culture del Mondo. E' una associazione di volontariato costituitasi a Bolzano nel 1996. Ha attualmente 59 soci, nessuno retribuito che dedicano ai progetti parte del loro tempo libero e delle ferie.
La versione cartacea è stata realizzata con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano.
Pogrom-bedrohte Völker 283 (4/2014)
Vedi anche in gfbv.it:
www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/media2013-it.html
| www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/crescita2012-it.html
| www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/woman2011-it.html
| www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/brasil-tras.html
| www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/global-it.html
| www.gfbv.it/3dossier/ind-voelker/dekade-it.html
in www: www.mapuexpress.org