Sintesi del Rapporto sui Diritti Umani n. 44 dell'Associazione per i Popoli Minacciati
Bolzano, Göttingen, 27 dicembre 2006
INDICE
Le
popolazioni indigene dell'Artico subiscono direttamente le
conseguenze dello sfruttamento delle risorse naturali sul loro
territorio e delle massicce combustioni di CO2 che
l'attività estrattiva comporta e che a sua volta
contribuisce a ciò che conosciamo come cambio climatico.
La prima conseguenza diretta è la perdita del territorio e
quindi della possibilità di continuare a vivere secondo il
proprio stile di vita e le proprie tradizioni. Questo a sua volta
comporta la perdita dell'identità culturale e tutti quei
fenomeni che lo sradicamento territoriale e culturale implicano,
dall'alcolismo allo spaventoso aumento dei suicidi e dei tassi di
criminalità. In secondo luogo, l'attività
estrattiva è irrimediabilmente accompagnata da
inquinamento ambientale. Le sostanze tossiche giungono nel
terreno e attraverso la catena alimentare arrivano infine
all'uomo. Miniere e impianti si trovano nelle immediate vicinanze
degli abitati e le persone finiscono con il bere acqua inquinata,
mangiare pesce avvelenato e respirare aria carica di inquinanti.
Le malattie respiratorie e i tumori sono in forte aumento e la
popolazione artica è costretta a cambiare anche abitudini
alimentari perché l'oceano artico è ormai talmente
inquinato che le popolazioni indigene non possono più
mangiare pesce e carni crude, come tradizionalmente facevano. I
neonati assumono gli inquinanti attraverso il latte materno, si
ammalano più di prima e si abbassa anche l'aspettativa
media di vita della popolazione indigena.
Nell'Artico russo, e in particolare nelle regioni della baia di
Kola, del Mare di Barent e di Kara, la popolazione indigena
subisce le altissime radiazioni dei rifiuti nucleari depositati
senza alcuna cautela ancora ai tempi dell'Unione Sovietica. Ma il
peggioramento dello stato di salute della popolazione indigena
non è solo imputabile all'inquinamento. Il "solo" cambio
climatico contribuisce anch'esso a nuove patologie, quali
allergie a pollini di piante finora sconosciute nella regione. La
caccia si è resa pericolosa per l'assottigliamento dei
banchi di ghiaccio e diversi cacciatori sono morti perché
il ghiaccio su cui camminavano, una volta considerato sicuro, non
ha retto il loro peso. Per i popoli indigeni ciò significa
la perdita del diritto ad accedere ad alimenti sani e ad acqua
potabile pulita. L'erosione minaccia anche le case e le
abitazioni situate lungo le coste e il cambio climatico avviene
con tale rapidità da non permettere alle popolazioni
locali di adattare il proprio sviluppo ai ritmi della natura,
cosa che gli aveva invece permesso di sopravvivere per secoli in
un ambiente ostile. I popoli indigeni sono stati letteralmente
sopraffatti dal cosiddetto progresso che minaccia di far
scomparire per sempre la loro cultura e identità.
Il
petrolio è la più importante risorsa della nostra
economia. Ma ciò che una volta sembrava una risorsa
inesauribile ora sta iniziando a scarseggiare e la ricerca
dell'"oro nero" porta le multinazionali del petrolio negli angoli
più remoti della terra. Sepolti sotto il ghiaccio e la
neve, sotto foreste boreali, tundra e taiga giacciono enormi
riserve di petrolio. In molte zone le trivelle lavorano
già da decenni, in altre si stanno appena installando le
pesanti infrastrutture necessarie all'estrazione. Lungi dal
considerare il cambio climatico un problema, l'industria
petrolifera si auspica anzi un ulteriore aumento delle
temperature e zone libere da ghiaccio sempre più ampie per
facilitare il lavoro estrattivo. Nelle regioni del mare di Barent
e di Kara, del mare di Ohotsk e dell'Oceano Artico nel nord
dell'Alaska, le compagnie petrolifere si contendono già le
licenze per l'estrazione. L'estrazione petrolifera sulle isole di
Kamchatka e di Sakhalin è destinata in particolare modo ai
mercati asiatici. Questi progetti minacciano un ecosistema unico
e con esso anche i suoi abitanti, tra cui soprattutto le
popolazioni indigene. Gli abitanti dell'Artico sono direttamente
minacciati dalle conseguenze dell'attività petrolifera,
tra cui anche la costruzione degli oleodotti. Il cambio climatico
è nell'Artico due volte più veloce della media
globale.
Ma i popoli indigeni non stanno a guardare mentre muore la terra
sotto i loro piedi. Le proteste dei popoli Nivci, Nanai, Evenchi,
Orochi e Oroci di Sakhalin hanno almeno un parziale successo ed
essi hanno ottenuto di poter partecipare al processo decisionale
sui progetti petroliferi e di ottenere una compensazione per
quanto perderanno. Su Kamchatka, dove l'estrazione petrolifera
è solo all'inizio, è in corso una negoziazione tra
il popolo degli Itelmeni e le ditte petrolifere.
L'Alaska ha 650.000 abitanti, di cui il 15%
circa è indigeno. Solo nel distretto di North Slope, dove
inizia l'oleodotto Trans-Alaska-Pipeline, il 68% della
popolazione appartiene al popolo degli Inupiat (gli Inuit
dell'Artico nordoccidentale dell'Alaska). Nel suo percorso dalla
Baia di Prudhoe al porto di Valdez, dove il petrolio viene
imbarcato, l'oleodotto attraversa le terre di due importanti
popoli indigeni dell'Alaska: gli Athabascan e gli Aleutini. Solo
nel 2006 l'oleodotto ha avuto due incidenti per perdite di
greggio dalle condutture. Il peggiore degli incidenti è
avvenuto il 2 marzo 2006 quando un piccolissimo foro
nell'oleodotto ha permesso la fuoriuscita di 6000 barili di
petrolio. Il Ministero per l'Ambiente dell'Alaska ha minimizzato
le conseguenze dell'incidente petrolifero e ha sostenuto di avere
tutto sotto controllo.
La riserva naturale dell'Arctic National Wildlife Refuge (ANWR)
è l'ultimo pezzo di natura inviolata della regione artica
dell'Alaska. E' un rifugio per una pluralità di specie
animali e vegetali, è il posto dove crescono indisturbati
i vitelli dei Porcupine-Caribu che con più di 152.000
animali costituiscono una delle maggiori mandrie di caribu al
mondo. L'estrazione petrolifera rischierebbe di interrompere le
rotte migratorie dei caribu che allora dovrebbero spostarsi in
zone, in cui non sono in grado di proteggere i propri piccoli. Il
cambio delle rotte migratorie minaccerebbe anche la popolazione
indigena dei Gwich'in, per i quali i caribu sono al tempo stesso
principale fonte di alimentazione e base della propria
identità culturale e religiosa. L'apertura dell'ANWR
all'estrazione petrolifera è quindi contestata sia dai
Gwich'in sia dalle organizzazioni ambientaliste. Il governo di
George W. Bush si è attivamente impegnato per rendere
possibili le trivellazioni nella riserva naturale, ma per ora i
risultati delle elezioni di mezzo termine del novembre 2006 hanno
ridato speranza a indigeni e ambientalisti.
Il Canada sembra investire sull'estrazione di
petrolio derivante da sabbie bituminose. Le sabbie bituminose
vengono estratte in miniere a cielo aperto oppure con il
cosiddetto procedimento in-situ. I maggiori giacimenti mondiali
di terre bituminose si trovano in Venezuela e nel nord dello
stato canadese di Alberta. Attualmente vengono estratte in tre
posti, Athabasca-Wabiskaw, Cold Lake e Peace River, che insieme
coprono un'area di 140.000 m2 e contengono ca. 175 miliardi di
barili di sabbie bituminose non lavorate. L'estrazione delle
sabbie bituminose comporta la distruzione della zona, nonostante
molte aree siano ancora oggetto di contenzioso tra i Lubicon Cree
e lo stato canadese. Per questo stesso motivo le organizzazioni
ambientaliste chiedono una moratoria che blocchi il proliferare
delle miniere, ma i piani dell'industria petrolifera sembrano
essere di tutt'altra natura: entro il 2015 un quarto della
produzione di petrolio del Nordamerica dovrebbe derivare da
sabbie bituminose e gli USA sperano di potersi rendere
indipendenti dalle importazioni petrolifere dal Medio Oriente
grazie all'aiuto canadese. Anche la Cina ha già investito
in due imprese e un oleodotto per il trasporto del petrolio
dall'Alberta alle coste del Pacifico e poterlo poi importare in
Cina.
Il sogno della ricchezza data dal petrolio ha contagiato anche
la Groenlandia e il governo autonomo dell'isola
prospetta già un futuro come zona di estrazione
petrolifera. Nonostante il fallimento di ben cinque tentativi
esplorativi dal 1976 ad oggi, il ministro per il petrolio della
Groenlandia, Joergen Waever Johansen, non perde la speranza:
"Sappiamo di avere petrolio e speriamo di averlo in
quantità economicamente lucrative" (Associated Press,
19.7.2006). I presunti giacimenti di petrolio si trovano in mare,
a sudovest della Groenlandia. Alcuni pozzi di trivellazione
distano solo 30 km dalla frontiera marina con il Canada. In marzo
2003 il governo danese ha votato una nuova strategia petrolifera
per la Groenlandia che per i prossimi anni prevede diverse fasi
di concessioni di licenze per l'esplorazione. Anche qualche
grande multinazionale petrolifera ha già mostrato
interesse in un'esplorazione o nella valutazione dei risultati di
ricerche geologiche fatte nelle vicinanze dei presunti
giacimenti. Un'impresa petrolifera canadese, la EnCan, ha
comprato nel 2005 i diritti per poter effettuare assieme alla
groenlandese Nunaoil le ricerche su un'area marina di 2.900
km2.
Il gas metano è considerato la "sorella
pulita" del petrolio e rappresenta la fonte energetica del
futuro. Il gruppo seminomade dei Nenzi, allevatori di renne della
penisola di Jamal (Federazione Russa) che si estende sul mare di
Kara, teme che anche dall'estrazione del gas metano l'ambiente
possa subire danni persistenti ed estesi su grandi superfici. Per
l'estrazione del gas naturale devono essere costruiti otto
oleodotti paralleli che distruggeranno i percorsi delle renne e
separeranno i pascoli invernali da quelli estivi. La Germania
sarà fra i maggiori beneficiari di questo progetto; ad
oggi il 40% del metano consumato in Germania viene importato
dalla Russia, valore che potrebbe innalzarsi addirittura al 60%
con l'entrata in funzione del discusso oleodotto/gasdotto del mar
Baltico attraverso il quale scorrerebbe anche il gas di Jamal. La
posizione dei Nenzi non è ancora chiara; alcuni protestano
contro l'estrazione di gas, altri, basandosi su positive
esperienze nel comprensorio autonomo Jamal-Nenzi, cercano di
trovare un accordo con la politica e le multinazionali.
In confronto a questa, la situazione di partenza dei popoli
indigeni canadesi è decisamente migliore; minacciati dal
gigante Mackenzie Valley Gas Project (MGP) nei territori del Nord
Ovest, questi popoli sono però al contempo per il governo
ed i consorzi partner tenaci e di successo nelle trattative. Per
altro, la maggior parte di loro ha concluso degli accordi con lo
stato nell'ambito del processo di colonizzazione del Canada ed in
questo modo ha acquisito una migliore base di partenza per la
contrattazione.
Il MGP, che secondo il bilancio dell'autunno 2006 vale 7,5
miliardi di dollari canadesi, dovrebbe unire tre giacimenti di
gas nel Nord dei territori nordoccidentali (NWT) del Canada con
il nord della Provincia Alberta. Qui il metano dovrebbe
continuare a servire all'estrazione di petrolio derivante da
sabbie bituminose. La maggior parte dei popoli indigeni
interessati dalla presenza degli oleodotti ha già
concordato con il consorzio di gestione cosiddetti "access and
benefits agreements" che, quale controparte per la concessione
dei diritti di passaggio, finanziano programmi sociali e
formativi ed inoltre fanno partecipare i gruppi agli utili
derivanti dall'oleodotto, oltre però a renderli partecipi
dei costi di costruzione. I Dehcho, gruppo che vive sul percorso
individuato per l'oleodotto, rivendica la conclusione di un
trattato di autonomia prima di acconsentire. I Dene Tha nel Nord
di Alberta sul cui territorio termina l'oleodotto del MGP, sono
stati fino ad ora esclusi dalle trattative, ma sono riusciti
finalmente ad ottenere per sentenza del tribunale il diritto a
fare valere i loro interessi.
Metano e petrolio sono sicuramente i prodotti
d'esportazione russi più celebri, ma sul mercato mondiale
di oro e diamanti la Siberia, "forziere" della Russia, è
da tempo ormai molto ben rappresentata. Secondo le indicazioni
del giornale russo Kommersant del 23 novembre 2005, la Siberia si
trovava allora al quinto posto nella produzione di oro ed al
secondo posto per le sue riserve. Due terzi delle riserve d'oro
della Russia si trovano in Siberia e nel lontano est russo. Il
40% della produzione ricade sulla Repubblica di Sacha (in russo:
Jakuzia), che guida la produzione di diamanti. La più
produttiva nell'estrazione dell'oro è l'Oblast (regione)
di Magadan. Solo nel 2002 qui sono state estratte 33,5 tonnellate
d'oro; seguite da Krasnojarsk (29,3 tonnellate) e Sacha/Jakuzia
(17,5 tonnellate). L'estrazione dell'oro incide sulle condizioni
di vita delle popolazioni indigene Magadans attraverso le
infrastrutture erette per i siti di produzione ed i lavoratori
(costruzione di città, strade, luoghi di svago, alcool,
prostituzione, ecc.). Eveni, Coriachi e Itelmeni vivono qui
ancora essenzialmente di pesca, allevamento e sfruttamento di
renne domestiche, caccia di renne selvatiche ed altri animali.
Gli animali però cambiano il loro percorso quando questo
viene distrutto dalle attività di estrazione dell'oro e
dalle sue conseguenze, cosicché la caccia risulta sempre
più difficile per i cacciatori. Per la separazione
dell'oro dalla pietra viene utilizzato il cianuro i cui residui
contaminano le acque.
Gli abitanti originari del territorio delle miniere non vengono
informati adeguatamente sui rischi ambientali ed i correlati
rischi per le loro tradizionali attività di sussistenza e
non vengono minimamente resi partecipi delle decisioni sui
progetti delle industrie minerarie. Per la rimozione dei rottami
delle miniere inattive nessuno si sente responsabile. Tutto
marcisce ed i residui defluiscono senza controllo nelle acque del
sottosuolo e nel terreno.
Le foreste boreali sono la tipologia boschiva più al nord della terra. Costituiscono una cintura verde nell'emisfero boreale e rappresentano più di un terzo dell'intera superficie boschiva mondiale. Il sessanta per cento delle foreste vergini del nord ancora esistenti si trova in Russia, il trenta per cento in Canada ed il dieci per cento si divide fra Alaska, Paesi Baltici, Islanda e Scandinavia. Le foreste boreali sono territorio tradizionale di popolazioni indigene quali i Sámi, i Nenzi, i Khanti o i Mansi, che qui si occupano dell'allevamento delle renne. I boschi sono minacciati dallo sfruttamento del legname per le cartiere, dai progetti per gli oleodotti ed estrazione di risorse naturali, ed in Russia particolarmente a causa della pianificata privatizzazione dei boschi. Tutto questo ha dirette conseguenze sul clima e anche sulle abitudini di vita quotidiana dei gruppi indigeni per i quali la foresta è per altro patria culturale e spirituale.
Mentre i governi di tutto il mondo esprimono la loro
comprensione per le sempre più evidenti conseguenze del
cambiamento climatico, l'economia intravede delle
possibilità di profitto nella catastrofe climatica.
Improvvisamente infatti è tecnicamente possibile e, dati
gli aumenti dei costi dell'energia, sempre più
interessante occuparsi dell'estrazione di petrolio, metano,
sabbie bituminose ed altre materie prime nell'Artico e Subartico.
I grandi gruppi petroliferi internazionali pianificano, con il
potente sostegno dei governi confinanti, un impegno nell'Artico o
Subartico laddove non hanno già iniziato con trivellazioni
per l'estrazione di petrolio e gas metano. I tradizionali diritti
regionali dei popoli indigeni ivi abitanti e standard ambientali
riconosciuti internazionalmente vengono spesso ignorati, inoltre
agli indigeni viene negata un'adeguata partecipazione alle
decisioni relative ai nuovi progetti.
Molte comunità indigene sono letteralmente sulla soglia
dell'estinzione visto che il loro territorio viene inquinato e
danneggiato senza scrupoli. Gli indigeni sono spesso minacciati
dalla perdita dei loro sostentamenti vitali non potendo
più vivere né di caccia né di pesca a causa
del cambiamento climatico e degli interventi industriali sul
territorio. Le acque artiche sono considerate una delle ultime
grandi riserve di pesce del mondo. Anche qui aumenta però
drammaticamente lo sfruttamento intensivo delle risorse ittiche
ed i pescatori indigeni non hanno alcuna possibilità di
affermarsi contro le ultramoderne flotte di pescherecci. Le
riserve di pesca rischiano la distruzione visto l'aumento
dell'inquinamento del mare derivante da un traffico marittimo che
si apre sempre di più nuove vie attraverso l'Artico. Nuove
catastrofi ambientali che minano la sopravvivenza delle
popolazioni indigene sono dunque da prevedersi. Il loro diritto
ad un'acqua pulita, a condizioni di vita adeguate ed alla tutela
della loro cultura tradizionale viene permanentemente offeso. Se
il cambiamento climatico già minacciava la loro
sopravvivenza, il boom petrolifero rappresenta il passo finale
verso l'estinzione. Questo processo infatti non solo mette in
pericolo la loro sopravvivenza fisica ma anche la loro
identità culturale e la loro esistenza in quanto
comunità etnica.
Il boom di estrazione di petrolio e gas ha anche come conseguenza
un esplicito aumento delle dispute per i confini nella regione
polare. Addirittura stati membri della Nato come Stati Uniti e
Canada si contendono il controllo di vie marittime ed acque
ricche di materie prime. Contemporaneamente tutti gli stati
confinanti investono sugli armamenti nell'Artico per assicurarsi
i propri diritti territoriali. Non è quindi più da
escludere che presto anche nell'Artico possano scoppiare i primi
conflitti armati per la contesa delle materie prime. Le
popolazioni indigene risultano già perdenti di fronte a
questa corsa senza scrupoli verso il profitto ed il controllo
delle materie prime. Mille anni dopo l'inizio dell'insediamento
nell'Artico, le popolazioni autoctone devono oggi ammettere che
la "fame" di materie prime dei paesi industrializzati
segnerà in pochi anni la distruzione sistematica delle
basi della loro vita.
Ciò che in Antartide è standard legislativo
dovrebbe valere anche per l'Artico: sull'esempio del protocollo
ambientale del contratto di tutela dell'Antartide dovrebbe venire
elaborata anche per l'Artico una regolamentazione che vieti ogni
sfruttamento di materie prime.
L'assemblea plenaria delle Nazioni Unite dovrebbe tenere conto
dell'anno polare internazionale che ha inizio nel marzo 2007 e
dovrebbe approvare al più tardi nel settembre di
quest'anno la "dichiarazione generale sui diritti delle
popolazioni indigene". L'approvazione di tale dichiarazione
rafforzerebbe anche i diritti dei popoli indigeni del Nord, che
al momento vengono sistematicamente disattesi ed elusi.
Nonostante la raccomandazione positiva del Consiglio per i
diritti umani delle Nazioni Unite, la dichiarazione non è
stata approvata dall'Assemblea plenaria riunitasi nel novembre
2006.
I grandi gruppi energetici internazionali dovrebbero attenersi
agli standard ambientali, di tutela dei diritti umani e sociali
dettati dalle normative dei loro paesi. Non può essere
ulteriormente sopportato che colossi mondiali al di fuori
dell'Europa Occidentale disattendano sistematicamente gli
standard correnti.
Gli stati industrializzati del G8 sono responsabili di un veloce
e radicale cambiamento nella politica energetica. La Germania dal
gennaio 2007, con l'assunzione della presidenza del gruppo dei
paesi industrializzati più ricchi, dovrebbe far garantire
da parte di questi il rispetto dei diritti umani fondamentali dei
popoli indigeni. In particolar modo dovrebbero essere rispettati
i diritti delle popolazioni di Artico e Subartico alla
nutrizione, ad un'acqua pulita, ad uno stile di vita adeguato,
all'attenzione per i diritti regionali tradizionali, al
mantenimento della propria cultura e ad uno sviluppo
autonomamente definito. Infatti i diritti umani delle popolazioni
indigene del Nord sono minacciati in particolar modo dal
cambiamento climatico causato dai paesi industrializzati e dallo
sfruttamento delle materie prime.
Gli stati del G8, i paesi confinanti e le multinazionali
energetiche operanti nell'Artico e Subartico devono assicurare
che le popolazioni indigene vengano coinvolte adeguatamente in
tutte le decisioni che esercitano influenza sulla loro
vita.
Gli stati del G8 e le imprese energetiche devono prendere
maggiori iniziative rivolte allo sviluppo ed alla promozione
efficace di energie rinnovabili. Le popolazioni indigene del Nord
auspicano una politica energetica lontana dai combustibili
fossili e dall'energia atomica per favorire l'energia eolica,
l'energia solare e quella derivante dalle biomasse. Solo in
questo modo il contenuto di ossido di carbonio nell'atmosfera
può essere ridotto ed il progressivo cambiamento climatico
rallentato.
Le comunità indigene delle zone polari devono ottenere un
maggiore supporto per affrontare le conseguenze del cambiamento
climatico. In particolare deve essere percettibilmente migliorata
l'assistenza sanitaria considerato che il contenuto di sostanze
nocive nella catena alimentare delle popolazioni del nord sta
aumentando in misura minacciosa.
Il sapere indigeno deve essere preso maggiormente in
considerazione nella definizione e valutazione delle conseguenze
del cambiamento climatico. I popoli indigeni dell'Artico non
dovrebbero essere presenti nelle conferenze internazionali sul
clima solo in qualità di osservatori ma godere del diritto
di codecisione; in definitiva loro sono le prime vittime del
cambiamento climatico. Inoltre le loro richieste non vengono
rispettate adeguatamente da molti stati confinanti.
In accordo con i principi etici d'impresa e gli standard
legislativi internazionali, i colossi energetici e le industrie
minerarie insieme ai governi degli stati confinanti dell'Artico
devono assicurare che l'estrazione delle materie prime venga
svolta tenendo conto delle conseguenze e che le basi fondamentali
della vita dei popoli indigeni non vengano distrutte.