Di Thomas Benedikter
Bolzano, 26 febbraio 2008
Nei primi giorni dall'indipendenza del Kosovo in molti
giornali è stato articolato il timore di aver creato un
precedente pericoloso che avrebbe inaugurato una nuova stagione
di secessioni per motivi etnico-nazionali. Vorrei subito
sgombrare il campo da un possibile equivoco: i conflitti etnici
nel mondo odierno non possono essere risolti con tante
secessioni, all'insegna del Kosovo, ma neanche restando fermi
ingessati su un diritto internazionale non all'altezza dei nodi
da sciogliere. È vero che con l'indipendenza del Kosovo
non è stata interamente rispettata la risoluzione n. 1244
ONU sul Kosovo. Ma se il diritto internazionale in tal caso
decretasse che una popolazione per tanto tempo discriminata e
perseguitata - nel Kosovo per 72 anni degli 87 anni della sua
appartenenza allo stato serbo dal 1912 al 1999 - vittima di
aggressioni di ogni tipo culminate nella deportazione di massa
della primavera 1999, c'è qualcosa con il diritto
internazionale che non funziona. In parole povere: che senso ha
il diritto all'autodeterminazione dei popoli, sancito dalla Carta
fondamentale dell'ONU del 1948 nonché dai Patti sui
diritti civili e politici dell'ONU del 1966, se non fosse neanche
applicabile in un tal caso?
Si tratta di un diritto inalienabile dei popoli, che trova
però i suoi limiti nel diritto di ogni stato
all'integrità territoriale. Questo è un principio
teso a prevenire che ogni popolo oggi minoritario possa
pretendere un suo stato indipendente. Dall'altra parte, il
diritto internazionale umanitario non permette che uno stato
compia impunemente ogni tipo di violazioni dei diritti umani nei
confronti di minoranze al suo interno, come era successo nel
Kosovo. La lunga esperienza dell'oppressione, la perdita
dell'autonomia ed infine l'attacco militare per i kosovari aveva
reso inaccettabile ogni opzione di restare rinchiusi in questo
stato alla mercé di nuove discriminazioni.
L'autodeterminazione, già esercitata nel 1991 nell'ambito
di un referendum ignorato da tutto il mondo fu per il Kosovo il
freno di emergenza per ottenere sicurezza e diritti fondamentali.
Ma questo diritto oggi in generale è negato anche a popoli
discriminati e minacciati in vari stati del mondo. Servirebbe
perciò una convenzione internazionale in cui si precisa in
quale circostanza un popolo minoritario o una minoranza nazionale
possa far valere questo diritto. Occorre trovare nuovi criteri
applicabili alla realtà politica odierna che possano
rimpiazzare l'autodeterminazione come concetto generico e
illusorio, come prevista oggi, che nel contempo definiscano i
casi in cui la Comunità internazionale debba riconoscere
la legittimità di questo diritto. Naturalmente gli stati
vorranno che sia molto restrittivo per non scardinare un ordine
precostituito imposto a tanti popoli minoritari con la forza. Non
a caso sono gli stati che sistematicamente negano l'applicazione
di questo diritto ai popoli minoritari al loro interno (Russia,
Cina, India ecc.) che si oppongono all'indipendenza del Kosovo.
Le piccole nazioni o popoli minoritari, invece, vorrebbero che ci
fosse un regolamento chiaro che garantisse i loro diritti
collettivi incluso il diritto alla secessione in casi di
sistematica oppressione.
In questo contesto occorre pensare ad un'ipotizzabile "diritto
collettivo all'autonomia", a cui proprio il caso del Kosovo
può dare un importante impulso. Il dramma recente del
Kosovo è nato proprio con l'abolizione dell'autonomia di
questa provincia nel 1989, autonomia istituita da Tito solo nel
1974. L'autonomia per il Kosovo, a cui nel 1945 era stato negato
lo status di repubblica federale, era il minimo che la Jugoslavia
doveva offrire agli albanesi, per rendere giustizia ad una
popolazione a suo tempo già più numerosa dei
macedoni e degli sloveni. Si trattava di un diritto acquisito,
che Milosevic nel suo delirio nazionalista abolì di colpo
nel 1989. Quello del Kosovo del 1989 non fu il primo caso di
"autonomia cancellata". Altri precedenti furono il Kashmir, che
già negli anni '50 perse la sua autonomia speciale
all'interno dell'India. Seguirono l'Eritrea (autonomia
all'interno dell'Etiopia dal 1962 al 1972) ed il Sudsudan
(1972-1983). Tutti questi casi sfociarono in guerre e genocidi
durati molti anni. L'agonia del Sudsudan in 19 anni costò
la vita a più di due milioni di persone, il dramma del
Kashmir perdura ancora. Negli anni '90 l'Abkhazia e l'Ossezia del
Sud, regioni autonome della Georgia, si ribellarano contro il
radicale ridimensionamento della loro autonomia, dichiarandosi
indipendenti. In tutti questi casi la Comunità
internazionale non intervenne, in quanto l'autonomia rientrava
nel diritto nazionale e non internazionale e mancando ogni
aggancio internazionale.
In generale le autonomie regionali - ce ne sono attualmente circa
60 in 21 paesi - sono state istituite come soluzioni di
compromesso fra la rivendicazione di autodeterminazione di un
popolo minoritario e uno stato centrale teso a conservare la sua
integrità territoriale. Una minoranza etnica o un popolo
minoritario per affidarsi ad una tale soluzione di compromesso,
ha bisogno di forti garanzie, costituzionali o perfino
internazionali. Ma solo un'esigua parte delle regioni autonome
oggi funzionanti possono contare su una tale garanzia, fornita da
un trattato internazionale, fra cui in Italia si trova la
Provincia di Bolzano. È da qui che la comunità
internazionale è chiamata a migliorare i presupposti
giuridici per prevenire che il Kosovo diventi un precedente per
ogni movimento secessionista. La "Unione Federalista dei Gruppi
Etnici in Europa" (FUEN), guidata a suo tempo dal professore
bolzanino Christoph Pan, già nel 1994 ha proposto al
Consiglio d'Europa l'approvazione di una "Convenzione europea sul
diritto all'autonomia", rimasta nel cassetto fino ad oggi. Ma il
caso del Kosovo insegna che le autonomie tagliate o perfino
revocate sono un grande rischio non solo per le popolazioni che
ne fanno le spese, ma anche per l'ordinamento statale. Senza
prospettiva di un'autonomia ampia e sicura, garantita anche a
livello internazionale, i movimenti secessionisti troveranno
sempre un buon motivo per indicare l'indipendenza come unica via
d'uscita sicura.
L'indipendenza del Kosovo non deve essere un precedente per la
politica democratica del nostro secolo in Europa, perché
la politica ha il compito di non permettere che le situazioni
degenerino in tale tremenda misura. L'UE già nel
successivo caso di crisi etnica nei Balcani, cioè quella
della Macedonia, ha dimostrato che sa operare diversamente ed
è riuscita a portare le parti del conflitto ad una
soluzione di compromesso. Tutti i paesi europei con popoli
minoritari al loro interno - inclusa la Russia - hanno gli
strumenti per rispettare gli interessi delle minoranze. Una
secessione è molto difficile da legittimare se un popolo
minoritario gode di tutti i diritti fondamentali e perfino di una
larga autonomia. Nel caso del Kosovo l'intervento umanitario
prima e l'indipendenza dichiarata una settimana fa è stato
l'unico modo per aprire una prospettiva di pace e di
libertà. In altri territori già separati, invece,
come quelli di Cipro del Nord, della Transnistria e dell'Ossezia
del Sud, altre opzioni sono ancora aperte, a condizione che la
Comunità internazionale faccia la sua parte.
L'indipendenza del Kosovo è stato un atto dovuto che fa
giustizia ad un popolo oppresso per quasi cent'anni. Apre un
futuro di libertà e sicurezza a due milioni di albanesi
che avranno la repsonsabilità di perfezionare la
protezione delle minoranze interne del Kosovo. Ma restano dozzine
di focolai etnici al mondo non risolvibili con secessioni. Il
Kosovo dovrà dare un impulso per rafforzare i diritti
collettivi delle minoranze, per lanciare l'istituzione di un
diritto collettivo all'autonomia e per precisare le condizioni in
cui la Comunità internazionale possa decidere interventi
umanitari e un popolo posso invocare il suo diritto
all'autodeterminazione.
Thomas Benedikter, autore di "Il dramma del Kosovo" (Datanews, Roma 1998), "Il groviglio del Kashmir" (Frilli, Genova 2005) e "The World's Working Regional Autonomies" (ANTHEM, Londra/Nuova Delhi 2007).