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Rainer Feldbacher
Bolzano, febbraio 2016
Uomini uiguri. Foto: Rainer Feldbacher.
In Cina vivono 56 diversi gruppi etnici. I cinesi Han
costituiscono il gruppo più grande (92%) mentre tutti gli
altri vengono definiti "shaoshu minzu" (nazionalità
minoritarie). Una grande varietà di culture e
identità si trova nel sud e nel nordovest della Cina dove
il nordovest coincide con il Turkestan orientale (da non
confondersi con il Turkmenistan), conosciuto anche come
Uiguristan o, secondo la denominazione ufficiale cinese, come
Xinjiang. La regione è abitata dagli Uiguri, la cui
provenienza e costruzione di identità attraverso la storia
è difficile da ricostruire. Mentre le denominazioni care
agli Uiguri (Turkestan orientale, Uiguristan) sono proibite dal
governo centrale cinese, per duemila anni la regione è
stata citata nelle cronache storiche cinesi come Xiyu (regioni
occidentali). L'attuale denominazione Xinjiang appare solo nel
corso del diciottesimo secolo.
Le origini etniche degli Uiguri possono essere fatte risalire al
regno uiguro (744/5-840) situato nella Mongolia nordoccidentale e
abitato da gruppi nomadi che parlavano una lingua turca.
Successivamente il nome venne a indicare anche gli abitanti
sedentari delle oasi costituiti da buddisti, manichei e
nestoriani. Nel quindicesimo secolo quasi tutti si convertirono
all'Islam. Nonostante la definizione comune "Uighur", le singole
comunità vivevano abbastanza isolate l'una dall'altra
nella propria oasi e una migliore o più precisa
definizione del proprio gruppo non sembrava essere necessaria.
Quando nel diciottesimo secolo la dinastia Qing conquistò
la regione dell'odierno Xinjiang sterminò alcuni dei
gruppi etnici ma allo stesso tempo ne accolse la maggior parte
all'interno di un regno pluralistico. Per rendere più
facili i controlli decise comunque di categorizzare i vari
gruppi. Così oggi nello Xinjiang vivono tredici diversi
gruppi etnici riconosciuti dal governo centrale. Per Pechino
più d'uno di questi gruppi rappresenta però una
vera e propria spina nel fianco, in primo luogo perché la
regione riveste grande importanza per l'economia cinese. Lo
Xinjiang copre un sesto del territorio nazionale cinese, possiede
circa il 30% delle riserve di gas e petrolio del paese e
costituisce un forte richiamo turistico per essere stata parte
importante della via della seta. Oggi il governo è
impegnato a far rivivere l'eredità della via della seta
migliorando soprattutto le infrastrutture presenti –
un'evoluzione questa di cui vogliono approfittare anche i cinesi
Han.
Durante gli anni di tensione tra Unione Sovietica e Cina, lo
Xinjiang fungeva da baluardo contro la minaccia sovietica. Oggi
invece la regione è vista come la porta verso i mercati
dell'Asia centrale nonché come luogo in cui insediare gli
abitanti della sovrappopolata costa orientale cinese o le persone
trasferite forzatamente per la costruzione della diga delle Tre
Gole.
Pastore uiguro. Foto: Rainer Feldbacher.
Nel 1931, prima ancora della proclamazione della Repubblica
Popolare Cinese, le autorità cinesi tentarono di
contrastare la crescente influenza degli intellettuali uiguri
secolari di formazione musulmana manipolando la dirigenza
regionale a proprio vantaggio. I conseguenti scontri violenti
videro contrapposti gli Uiguri ai cinesi Han e ai Dungani,
conosciuti anche con il nome di Hui (hanhui per "cinesi
musulmani"). Gli scontri si tramutarono in una ribellione che
coinvolse l'intero bacino di Tarim e portò alla
proclamazione della Repubblica Islamica del Turkestan orientale
(TIRET). Nel 1933 il militare e politico cinese Sheng Shicai
riuscì a reprimere la rivolta uigura con l'aiuto
dell'Unione Sovietica e degli Dungani/Hui. Nonostante gli Hui
siano anch'essi di fede musulmana, essi si vedono come Cinesi a
tutti gli effetti e hanno quindi sostenuto anche militarmente la
presenza cinese nella regione. Ciò nonostante e grazie
alla pessima rete di comunicazione e di trasporto lo Xinjiang
rimase relativamente indipendente dal governo centrale di Pechino
fino al 1949.
Gli Uiguri – in origine separati tra di loro da oasi
– potevano essere distinti dagli altri gruppi etnici come i
Kazaki, Han e Dungani (Hui) per la loro diversità
linguistica e culturale e in seguito alla classificazione etnica
divennero il maggiore gruppo etnico dello Xinjiang. Coscienti del
loro peso iniziarono a isolarsi rispetto agli altri gruppi. E'
interessante notare che inizialmente gli Uiguri venivano
associati al buddismo e non, come oggi, all'Islam. Gli Uiguri
stessi non si sono mai occupati molto di questo aspetto della
loro storia e hanno invece incentivato l'ideologia nazionalista e
pan-turca per l'unificazione di tutti i popoli turchi e contro il
controllo cinese.
Dopo la Seconda guerra mondiale il governo comunista di Pechino
si rende conto dell'importanza economica della regione
nordoccidentale e decide di migliorare e ampliare il sistema di
trasporti dello Xinjiang. La capitale provinciale Urumqi,
collegata al resto della Cina a partire dal 1962, divenne lo
snodo ferroviario e stradale principale da cui partono tutti i
collegamenti all'interno dello Xinjiang e nel 1992 venne
inaugurata la linea ferroviaria ("Iron Silk Road") tra Urumqi e
la frontiera con il Kazakistan. Per molti la nuova linea
ferroviaria simboleggiava la speranza di un migliore collegamento
anche con l'Europa e di un conseguente boom economico per lo
Xinjiang. Di fatto però gli investimenti rientravano nel
piano economico e sociale cinese conosciuto come il "grande balzo
in avanti" che prevedeva un intenso sfruttamento delle risorse
proprio dello Xinjiang e per cui i ricavati vengono dirottati a
Pechino.
Donna uigura. Foto: Rainer Feldbacher.
L'attuale situazione degli Uiguri sembra essere più
complicata che mai. Dopo diversi, difficili e infruttuosi
tentativi di reciproco avvicinamento si è arrivati invece
a una situazione di costante tensione tra i vari gruppi etnici. A
differenza di molte altre violazioni contro i diritti umani
commesse nel mondo, l'Occidente raramente critica l'atteggiamento
governativo nei confronti di Uiguri, Kazachi, Kirghisi, Mongoli,
Turkmeni e Tagiki. La convivenza tra le diverse culture e gruppi
etnici non è mai stata facile e fin dagli anni '30 del
secolo scorso si può parlare di conflitti veri e propri
che si ripropongono a intensità variabili. Ma un vero giro
di vite avviene con gli attentati terroristici del 11 settembre
2001 a New York. In seguito agli attentati, in tutto il mondo si
levarono voci per una lotta decisa al terrorismo e diversi paesi
sfruttarono la situazione per ridefinire la loro politica
espansiva come lotta al terrorismo religioso. Esempi ne sono
l'intervento russo in Cecenia e Ossezia del sud o appunto della
Cina in Xinjiang e Tibet. La repressione delle rivendicazioni
uigure passa così come lotta al terrorismo senza che vi
siano proteste da parte dei cosiddetti paesi occidentali. Le
notizie e informazioni a proposito trapelano solo raramente, come
per esempio durante i Giochi Olimpici di Pechino del 2008 quando
manifestanti tibetani tentarono di attirare l'attenzione
internazionale sulla situazione politica e sociale nelle province
di Qinghai, Gansu e Sichuan. Le proteste furono sedate nel
sangue.
Restano la repressione e la discriminazione dei gruppi etnici, in
primo luogo degli Uiguri, in tutti i campi, a partire
dall'esercizio della fede religiosa all'educazione, dall'utilizzo
della propria lingua all'assistenza sanitaria, nel campo del
lavoro, dell'economia, della sicurezza e della tutela
ambientale.
Lo Xinjiang, detto anche "la nuova provincia" e la questione
uigura appaiono raramente nei media che perlopiù riportano
soltanto singoli episodi, come l'assalto con coltelli alla
stazione di Kunming (capitale provinciale dello Yunnan) e che le
autorità cinesi insistono per liquidare come semplice
terrorismo religioso.
Come sempre succede, la realtà è più
complicata. Indipendentemente dalle evoluzioni storiche, i motivi
che oggi impediscono un allargamento dello statuto di autonomia
dello Xinjiang sono fondamentalmente di natura economica. Non
solo lo Xinjiang corrisponde a circa un sesto dell'intero
territorio cinese, ma pesano soprattutto le stime sui giacimenti
petroliferi e di gas presenti nel territorio. Per un paese
affamato di energia come la Cina questo è un motivo
importante per non concedere maggiore libertà e
indipendenza.
La rappresentazione del conflitto fornito dalle due parti in
causa non potrebbe essere più diversa di così.
Mentre gli Uiguri parlano della repressione della loro cultura,
lingua e religione, il governo centrale di Pechino parla di
"aiuti allo sviluppo". Visitando la regione non si può
comunque non notare le molte restrizioni imposte alla
popolazione. Da decenni il governo incentiva l'insediamento di
cinesi Han, i quali, stando a quanto essi stessi raccontano,
ricevono nelle "regioni del lontano occidente" stipendi migliori
per gli stessi lavori svolti già prima nelle loro regioni
d'origine. Nelle scuole dell'obbligo e nelle scuole materne si
insegna principalmente in cinese Han Yu (mandarino) mentre la
lingua regionale resta circoscritta all'ambito familiare e
finisce per indebolirsi. Per avere successo in ambito lavorativo
agli studenti uiguri viene raccomandato di studiare sulla costa
orientale. Particolarmente interessante è invece il fatto
che gli studenti di teologia che intendono diventare akhun
(corrisponde all'imam arabo) sono costretti ad andare a studiare
a Pechino. Poiché il cinese è per gli Uiguri
tuttora una lingua straniera, il sistema a punti che regola
l'accesso alle università cinesi è per loro meno
rigido. Questo però crea dissapore tra gli studenti e
docenti cinesi Han che parlano di un sistema poco equo.
Durante il mio viaggio ho potuto costatare che in generale i
cinesi Han considerano la propria cultura come evoluta mentre
vedono gli Uiguri come poveri, superstiziosi e feudali,
intendendo con ciò spesso primitivi e fanatici. I
preconcetti sono reciproci e all'ordine del giorno. Nei mercati
delle città dello Xinjiang si vedono cartelli che chiedono
di denunciare uomini con la barba, proibiscono alle donne di
coprirsi con il velo, ricordano i sentimenti d'amore tra il
partito comunista e le persone, richiamano all'unità
nazionale contro la violenza e il terrorismo i cui seguaci
vengono rappresentati come ratti.
Contemporaneamente il governo vuole rivivificare in modo
controllato la cultura e religione regionale. Los scopo è
di indebolire sentimenti e correnti nazionaliste ed evitare
proteste antigovernative. Pechino per esempio sostiene
finanziariamente la hajj, il pellegrinaggio alla Mecca, dei
membri uiguri del partito comunista sperando così di
rafforzare il loro status all'interno della comunità e di
aumentarne quindi l'influenza politica a livello regionale. La
strategia di tolleranza selettiva nasconde però dei
pericoli per il governo cinese e non riesce ad evitare le
richieste di maggiore autonomia. L'élite intellettuale
uigura dal canto suo teme la passività della popolazione e
l'allontanamento da un'identità pan-turca a favore di una
volontaria sottomissione ai valori cinesi e la sinizzazione
culturale della regione. Allo stesso tempo si oppone anche alla
crescente influenza kazaka nella regione uigura.
L'opposizione della popolazione uigura al tentativo di imporre
una presunta unità nazionale cinese assume diverse forme,
da quelle più pacifiche come lo spostamento di due ore
dell'apertura dei negozi rispetto all'orario unico imposta da
Pechino, a quelle più violente come i già
menzionati assalti con coltelli alla stazione di Kunming o agli
attentati con bombe a mano avvenuti nel 2014 a Urumqi. La
reazione governativa agli attentati è sempre violenta e
sanguinosa. A farne le spese purtroppo sono anche i movimenti
moderati che subiscono la repressione e censura di Pechino, con
rare e solo blande critiche da parte del nostro mondo
occidentale.
Che la propaganda governativa funzioni è risultato
evidente da molti colloqui avuti con cinesi Han presso le
università della costa orientale (Shanghai, Nanjing). In
queste occasioni le posizioni e convinzioni espresse sono state
sorprendenti e a volte sconcertanti. Da colloqui avuti con
docenti universitari è emersa per esempio la convinzione
che non ci si può fidare degli Uiguri o più in
generale di qualunque persona appartenente a una minoranza
musulmana. E poiché la politica del figlio unico (nel
frattempo in parte abolita) ufficialmente non veniva applicata
alle etnie minoritarie della Cina sembra essersi diffusa la paura
alquanto irrazionale che la popolazione uigura musulmana finisca
per superare e dominare la popolazione dei Cinesi Han. Si tratta
di una convinzione in parte diffusa a modo suo anche in Europa ma
che di fronte a una popolazione cinese di oltre un miliardo di
persone (esclusa la popolazione delle etnie minoritarie) diventa
ridicola per non dire pericolosa. Gli Uiguri invece temono che la
forte migrazione di Cinesi Han nello Xinjiang finirà per
trasformare gli Uiguri in una minoranza in casa propria.
La posizione ambivalente del mondo occidentale che in modo
semplicistico tende ad assegnare categorie ideologiche a tutti e
a tutto non è mai stata di aiuto alle popolazioni,
soprattutto quando ciò implica il far finta di non vedere
le violazioni dei diritti umani commesse a vantaggio dei rapporti
commerciali. Se è vero che lo sfruttamento di risorse crea
nuovi posti di lavoro, è altrettanto vero che la
popolazione dello Xinjiang trova lavoro unicamente come minatore
o bracciante agricolo mentre le posizioni dirigenziali restano
riservate ai cinesi Han, in particolare se membri del partito
comunista cinese, e ai dipendenti delle multinazionali europee e
statunitensi. A conti fatti, la questione si riduce sempre allo
sfruttamento di materie prime per la produzione energetica lungo
la costa orientale, il che probabilmente è anche il motivo
principale per non ampliare lo status di autonomia dello
Xinjiang
Ufficialmente la Cina parla di "aiuti allo sviluppo". Sui muri di
molti edifici pubblici vengono affisse liste che elencano i molti
settori in cui è stata aiutata la provincia e la
popolazione, dalla sanità all'istruzione, dalla
costruzione di una rete sociale all'approvvigionamento. Per gli
Uiguri tutto ciò costituisce una questione più che
delicata che li costringe a dover decidere fino a che punto
accettare l'assimilazione culturale in cambio di altri benefici.
Nel campo dell'istruzione è per esempio vero che esistono
alcune, poche scuole uigure ma di fatto per un Uiguro senza una
formazione nelle istituzioni cinesi han non vi è alcuna
prospettiva di carriera lavorativa. Gli Uiguri che hanno percorso
un iter scolastico cinese han e parlano correttamente il
mandarino vengono spesso definiti la "14esima nazionalità"
(in uiguro ön-tötinchi millät), per differenziarli
dalle 13 etnie riconosciute nello Xinjiang. Essi stessi invece si
considerano Junggoluq, ossia sia Cinesi sia Uiguri, anche se
spesso si sentono isolati ed estranei a entrambi i gruppi.
Tornando agli "aiuti allo sviluppo", il governo cinese si vanta
dei grandi investimenti fatti per la conservazione del patrimonio
culturale. Purtroppo l'idea della conservazione spesso
corrisponde più al concetto di sostituzione, nello
Xinjiang come anche in molte altre regioni cinesi. A Kashgar,
storica città uigura lungo l'antica via della seta,
l'intero centro storico è stato letteralmente sostituito
con una "nuova città vecchia". Le autentiche e antiche
case in argilla con i loro bei balconi in legno sono state
demolite e sostituite con case in blocchi di cemento rivestiti di
argilla affinché mantenessero il loro aspetto antico. A
lavori completati il centro storico assomiglia piuttossto a un
villaggio Potëmkin o a Disneyworld, il cui stile è
stato evidentemente adattato ai gusti dei turisti cinesi. Una
stele davanti alle nuove mura "storiche" della città
informa i visitatori degli sforzi e costi sostenuti per il
rinnovo e la messa in sicurezza della città vecchia e per
il "mantenimento di una cultura secolare".
Anche la società uigura è molto più
diversificata rispetto a quanto potrebbe sembrare a prima vista.
Se molti Uiguri fanno corrispondere la loro identità alla
fede islamica e considerano irrilevanti anche molti dei luoghi
sacri antichi (perlopiù buddisti), tanti intellettuali
uiguri decantano il passato della regione, che anticamente era
appunto legato al buddismo, al manicheismo e al nestorianesimo.
Essi danno invece maggiore importanza all'identità etnica
con i popoli turchi (che oggigiorno si sono perlopiù
convertiti all'Islam). Da un punto di vista puramente storico ed
etnografico anche questa visione presenta però delle
lacune. Ripercorrendo a ritroso le radici turche si arriva al 5.
secolo (secondo il nostro calendario) e, nello specifico in
questa regione, al 9. secolo ma la storiografia dello Xinjiang
risale fino a 6.000 anni fa. Ognuno ha quindi tralasciato
qualcosa della propria storia, mescolando le parti salvate con
elementi mitici e leggendari.
Ma in fondo anche l'antica via della seta conserva un suo alone
mitico e leggendario. Attualmente la via della seta sta tornando
al centro della politica e dell'economia globale e non solamente
per i molti turisti nostalgici e affamati di cultura e avventura
che ripercorrono l'antica via. L'ampliamento della nuova via
della seta è diventato il progetto economico più
importante degli ultimi anni all'interno del quale la regione
dello Xinjiang e alcune delle sue città e dei suo luoghi
storici ricoprono un ruolo centrale. Da un lato vengono ampliate
le rotte attorno al deserto di Taklamakan e dall'altro i molti
grandi cantieri aperti nelle regioni montane dello Tianshan
lavorano per creare rotte di trasporto veloci verso l'occidente.
I progetti e le imprese cinesi non si fermano però alla
frontiera e le strade in Kirghistan vengono costruite e ampliate
da imprese cinesi e dai loro lavoratori. Altrettanto vale per la
posa di stuoie in canna contro l'inaridimento nei deserti
turkmeni. Ufficialmente l'ampliamento e la costruzione di
infrastrutture cade sotto la voce di scambi commerciali e di
risorse nell'ottica degli aiuti allo sviluppo, un procedimento
economico che tutti i paesi industrializzati applicano nei paesi
più poveri e che la Cina ha avviato in modo massiccio nel
sudest asiatico e in Africa.
Il progetto della nuova via della seta non gode però solo
di finanziamenti cinesi ma anche europei. Resta solo da vedere se
i popoli dell'Asia centrale residenti lungo la nuova rete di
trasporto potranno anch'essi partecipare ai profitti previsti o
se invece, come nel caso degli Uiguri, subiranno crescenti
restrizioni dei loro diritti. Attualmente sembra regnare un certo
ottimismo e molti sottolineano i vantaggi che il ritorno in auge
della via della seta potrà avere a livello economico. Per
chi scrive resta la speranza che oltre al maggiore flusso
economico euroasiatico possa rinascere e tornare a soffiare anche
lo spirito di apertura e mondialità che caratterizzava
l'antica via della seta.
Adattamento, riduzione e traduzione dal tedesco di Sabrina Bussani.
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