di Claudio Magnabosco
Gennaio 2001
La moda è davvero scoppiata .... e siamo Celti! In
particolare presso le nazionalità alpine dove, a ben
vedere, non si sa più cosa vuol dire essere valdostani,
occitani, friulani, ecc., e c'è chi afferma che
un'identità valdostana, occitana, friulana, ecc. non
esiste e non è mai esistita, scopriamo un'identità
parziale, fittizia, surrettizia, sostitutiva.
Il bisogno di questa identità (o, comunque, di
un'identità) è il risultato di un processo di
disidentificazione ben individuabile nel suo proporsi storico; un
processo culturalmente, socialmente e politicamente pericoloso,
perché la perdita della dimensione storica
dell'identità (individuale e collettiva, di ogni uomo e di
ogni popolo) determina uno scadimento dei valori stessi
dell'umanità. Scrive Borges: "l'identità personale
risiede nella memoria e l'annullamento di questa facoltà
comporta l'idiozia. Senza una eternità, senza uno specchio
delicato e segreto di ciò che accade nelle anime, la
storia è tempo perso, e con essa la nostra storia
personale".
La ricerca di una identità nel passato, e di cui si
ricerchi memoria separata da ciò che essa è
divenuta nel tempo, è improduttiva se non addirittura
inutile e falsa. O nella attualità non c'è
più segno di quel passato; o non si sa coglierlo; o non ci
piace ciò che quella identità ha prodotto e
tentiamo un hollywoodiano "ritorno al futuro": scopriamo di
essere Celti per far ripartire la storia da una interpretazione
affascinante di ciò che eravamo ieri, insoddisfatti di
ciò che siamo oggi. Mitizzare la storia e la cultura
equivale, però, ad ideologizzarle, con tutto ciò
che ne consegue: una mitizzazione fa, così, considerare
aurea l'epoca delle Franchigie valdostane, viste in chiave
prodromica dell'autonomia e del federalismo; un'altra ha esaltato
la grandezza di Roma, facendone il substrato del fascismo;
ecc.
Non è che le ideologie (quantunque superate!) non
producano cultura: producono cultura politica e, spesso, la
libertà della vera cultura, nel senso più ampio,
è sacrificata all'altare del potere e dei suoi interessi;
ma questa è una colpa degli uomini di cultura, degli
intellettuali che massimizzano piccoli egoistici interessi,
mostrandosi incapaci di contrastare moda e poteri.
Il celtismo va di moda, poco importa se sostanzialmente sia un
gioco di ruolo, una ricerca di identità o altro.
Il fatto è questa riscoperta dei Celti viene barattata al
mercato decadente delle culture dominanti; queste non sanno
più come perpetuarsi ed attingono ai valori delle culture
dominate, tentano di assimilarle, snaturandole senza farsi di
questo un cruccio visto che, fino ad ora, le avevano negate ed
oppresse.
Questa new age intraeuropea non si propone in modo diverso nella
dimensione planetaria: i pellerossa Lakota hanno dichiarato
guerra alla new age che diffonde "iniziative spirituali"
intitolate alla cultura degli indiani d'America e mescola
teosofia, danze tribali, ufologia, egittologia, elementi della
religiosità orientale in quello che possiamo definire
"qualunquismo spirituale" e che scientificamente viene chiamato
"sincretismo religioso".
Il sincretismo, nei fatti, espropria le culture etniche
prelevando da esse, a piacere, gli elementi compatibili con la
cultura occidentale, eliminando ogni momento di contrasto tra
quelle culture e la cultura occidentale dominante.
Questo universalismo, stranamente ma non troppo, è
compatibile con il mondialismo economico, con il colonialismo
linguistico, con il dominio politico europeo ed americano.
E allora di quale valorizzazione delle culture stiamo parlando? A
che serve parlare di Celti in chiave identitaria?
Scrive Brodskij: "poiché, le civiltà sono un
qualcosa di 'finito', nella vita di ognuna viene il momento in
cui il centro non tiene più. Ciò che allora le
salva dalla disintegrazione non è la forza delle legioni,
ma quella della lingua. Così fu per Roma e, prima, per la
Grecia ellenica. Il compito di 'tenere', allora ricade sugli
uomini delle province, della periferia". Oggi, forse, le
nazionalità dell'arco alpino potrebbero - per certi versi
- essere una di quelle periferie dove si sta decantando
l'identità europea in un crogiolo di identità e di
lingue.
Ma se questa osservazione è contestabile (e, appena
accennata come qui risulta, non riesce ad esprimere la
verità di cui è portatrice) ancor più lo
è andar a caccia di periferie nella storia passata: che
razza di celtismo può mai essere quello che fa propri solo
i miti più accattivanti, celebrando un celtismo di bardi,
combattenti, orefici quando presumibilmente, le propaggini
celtiche che si stabilirono in alcune vallate dell'arco alpino,
erano formate da semplici contadini; e quando quei contadini,
divenuti commercianti e doganieri, si sono rivelati tanto esosi
da convincere Roma che era tempo di spazzarli via, non senza
descriverne negli annali scritti una presunta fierezza,
poiché, altrimenti, Roma non avrebbe conseguito gloria
alcuna nello sconfiggerli...!
L'influenza celtica è stata certamente più
rilevante di quanto questa rapida e dissacrante ricostruzione non
dica: ma non faccio altro che rispondere ad un mito con una
ideologizzazione; entrambi non hanno bisogno di corrispondere
alla verità per esser creduti. Nessuno mi toglie dalla
testa, però, che erano molto più celtiche, barbare,
rurali ed orgiastiche alcune vecchie "feste" alpine, dei vari
"festival" celtici imborghesiti dei nostri tempi.
Il fatto è che questo tipo di celtismo e la new age non
dicono il vero quando attingono, apparentemente per valorizzarle,
alle culture etniche.
Molti di quanti si occupano o, più semplicemente, sono
affascinati dal celtismo, non si sentono valdostani, occitani,
friulani, ecc., non ne praticano e non ne difendono le lingue,
hanno una posizione anarcoide o infastidita verso i tentativi
culturali, sociali, sindacali e politici, di rappresentarne e
tutelarne l'identità di oggi. E neppure si distinguono da
coloro che, negando l'esistenza di una identità, ne
pongono comunque il problema.
Non è insignificante il fatto che nei vari "Festival"
celtici proposti sull'arco alpino, siano inserite conferenze tipo
"Celti ieri, Occitani oggi", evitando, tuttavia di riflettere su
quali siano, oggi, la lingua ed i diritti di questi occitani.
Tanta attenzione per una tematica identitaria non ha, quindi,
corrispondenza in un impegno concreto, in una battaglia
identitaria, culturale, linguistica a favore degli occitani di
oggi, a favore delle identità etniche di oggi.
Una moda, quindi, godibile e piacevolissima che consente, tra
l'altro, di diversificare il mercato della proposta turistica, di
dar spazio a musicisti ed artigiani. Ma le mode fagocitano tutto
e capita, così, che in Valle d'Aosta, per vendere meglio
il festival celtico si faccia richiamo espresso ai Salassi,
lasciando intendere che addirittura le stele antropomorfe di
Saint-Martin de Corléans (uno dei ritrovamenti
archeologici più importanti d'Europa che documenta
l'origina caucasica delle prime popolazioni valdostane), abbiano
a che fare con i Celti, mentre risalgono a due mila anni prima
che i Celti facessero la loro apparizione. Non si tratta di un
errore, ma di una ideologizzazione che soddisfa l'esigenza di
render più grandi i Celti, deviando il vero discorso sulla
identità valdostana, discorso che si è fatto
ambiguo: il potere politico, i cui detentori rischiano
l'impopolarità nel proporre la loro errata politica di
difesa dell'identità oggi, sbagliando nel "rito" del
bilinguismo, tentano di recuperare sul piano più che del
"rito" della "festa", proponendone gli aspetti più
accattivanti. Poiché migliaia di calabresi immigrati e
residenti in Valle d'Aosta hanno la loro festa etnica, i
valdostani che attendono una loro festa nazionale, per avere un
pubblico numeroso ricorrono alla moda celtica: piace ai
valdostani valdostani, ai padani, ai giovani ... che si vuole di
più?
Fra qualche anno, quando la moda dei Celti sarà passata,
celebreremo un festival in nome dei proto-valdostani di
Saint-Martin de Corléans, non appena il bisogno di
identità uscirà insoddisfatto dalla moda
celtica.
La storia é un continuum che non può esser spezzato
estrapolando da essa un momento solo, ergendolo a modello,
facendo ruotare tutto il resto attorno ad esso, perché,
ciò significa solo interpretarla ideologicamente a
vantaggio di un partito, di una religione, di una moda.
La radice celtica è sicuramente più pregnante,
rilevante, determinate per l'identità dei gallesi, degli
scozzesi, degli irlandesi, dei galleghi, dei bretoni, oggi.
Lo è meno per altri popoli, come appunto quello
valdostano, e quello friulano che hanno nel celtismo una
componente della loro storia; se sposano il celtismo è per
giocare un altrimenti improponibile parallelismo storico: Roma
che ieri scaccia e sconfigge i Celti, sarebbe la stessa Roma che
nega l'autodeterminazione alla Valle d'Aosta, al Friuli, ecc.
oggi.
Nel mito politico il parallelismo regge; nella ideologia
pure.
Non sono pregiudizialmente restio a sposare dialetticamente il
miti e la cultura politica, così come ho sempre raccontato
fiabe e leggende ai miei figli; in nessuno dei due casi,
però, ho confuso realtà e fantasia. Del resto
è proprio la mitologia greca a consentirci di "leggere"
alcune verità storiche: Giasone, Eracle e Cadmo
rappresentando simbolicamente le fasi delle emigrazioni e delle
colonizzazioni dell'Europa in epoche remotissime. Ciò che
mi chiedo è se riusciremmo ad essere migliori valdostani,
occitani, friulani, ecc. tentando di riscoprirci Celti, oppure
Longobardi, oppure Romani. Ciò che mi chiedo è se i
popoli che ancora oggi conservano un forte senso della propria
identità, trovano nei celtisti degli alleati
affinché la loro storia e la storia della loro
identità non si interrompano.
Nel recente passato alcune associazioni culturali dell'arco
alpino elaborarono un vero e proprio progetto di valorizzazione
delle culture etniche; così dei Celti e degli altri popoli
vennero proposti, via via, la musica, il teatro, il cinema,
l'arte, la storia, l'attualità politica, le problematiche
economiche, l'archeologia. Questo progetto venne realizzato
ricorrendo a tutti gli strumenti della comunicazione: convegni
(importante quello sui Celti e le Alpi occidentali realizzato a
Cuneo); attività didattiche; dibattiti (con il leader del
Sinn Feinn, con il responsabile della scuola bretone); iniziative
solidaristiche (con il sostegno alla lotta prima e con la
partecipazione ai funerali, poi, di Bobby Sands); l'impegno e il
sacrificio personale (un giovane amico torinese morì
precipitando sulla scogliera, in Galles dove si era recato per
studiare le radici delle identità gallese, dopo aver
già pubblicato il risultato dei suoi studi in Scozia e
Irlanda); venti anni di musica etnica proposti su tutti l'arco
alpino; tre dischi prodotti, di cui due celtici: nel primo
Stivell e Milladoiro cantano, tra gli altri, "affinché" -
come dice la copertina della Polygram - "il provenzale e il
francoprovenzale delle Alpi Occidentali non muoiano"; nel
secondo, il viaggio nella cultura celtica sfocia in quella
mediterranea e approda a quella andina, coinvolgendo i migliori
musicisti.
Solo in questa ottica complessiva di "progetto", i festival
celtici (una parte del "Festenal" che da oltre 20 anni raggiunge
la Valle d'Aosta, l'Occitania, il Friuli, la Ladinia, la
Valtellina) con Stivell, Patrick Ewen, Gabriel Yacoub, Malicorne,
Dan Ar Braz, Heritage, Try Yann, Mairtin o' Connor, Milladoiro,
Chieftains, hanno avuto un senso, non sono rimasti appuntamenti
fini a se stessi.
Senza un "progetto", invece, certe mode come il celtismo,
reiterano truci esperienze del passato quando sorressero,
sublimarono addirittura posizioni razziste.
Quanto più celebriamo il valore della tradizione antica,
tanto più ci esponiamo al pericolo di guardare ad una
società arcaica, eroica, razzista. Il "mito", il "rito" e
"la festa" cui, come abbiamo visto, ricorre ancora oggi il potere
politico, sono emblematicamente il nucleo della società
aristocratica, ispirata allo spiritualismo etnico di Julius
Evola, il Marcuse dell'estrema destra.
Sull'arco alpino esistono un certo numero di gruppi e sette
religiose; abbiamo un gruppo attivo e propositivo che si occupa
di teosofia; abbiamo organizzazioni ed attività
imprenditoriali basate sul celtismo.
L'apparente innocenza e la carica di entusiasmo di queste
componenti non ci inganni; il fascino delle mode non ci illuda;
l'onestà intellettuale degli animatori non ci
rassicuri.
Più di un sospetto ci fa ritenere che sussistano, inoltre,
indecifrabili interessi di tipo "massonico"; più di una
evidenza comprova l'esistenza di un certo clanismo, l'affidamento
- cioè - ad una ristretta cerchia di persone, della
gestione delle questioni economiche e delle decisioni politiche,
solo formalmente affidate ad organi democratici.
Tutto ciò pare riassumibile come l'intreccio di una sorta
di esoterismo, di società iniziatiche, di nuovo fascismo
strisciante e populista.
La ricerca di una identità nazionale, diversa da quella
esistente è, dunque, una sorta di alibi per poterla - in
realtà - sostenere nei suoi attuali arbitrii gestionali,
più che una fuga irrazionale da essa per
l'impossibilità di riconoscervisi.
C'è una ulteriore ipotesi. Esaltare celtismo, che lo si
faccia per moda o per rifiuto della identità d'oggi,
è comunque funzionale ad un discorso di massa, ad una
cultura politica, ad una ideologia su cui si basa il consenso
elettorale attribuito ala forza egemone.
Non necessariamente la storia è giusta e morale. Né
celtisti né potere politico desiderano, in questo senso,
davvero la realizzazione della cultura etnica.
Quando, in nome di essa, la Valle d'Aosta dovesse davvero rompere
con Roma, molti valdostani si chiederebbero se non era meglio la
dorata dipendenza piuttosto che la difficile assunzione di
responsabilità che l'indipendenza comporta. E la ricchezza
dell'autonomia non sarà certo rifiutata neppure dai
sudtirolesi...
E, a questo punto, scopriremmo di essere ancora un po' Celti; non
divinità, druidi, elfi, eroi, orafi ed intagliatori, ma
contadini e doganieri. E nessuno ci dedicherà, mai
più, un festival.
Se non riusciremo, in tempi brevi, a dar corpo ad una seria e
concreta politica identitaria, non passerà molto tempo
prima che si possa realizzare, ad Aosta, a Cuneo, a Udine, a
Bolzano, un Festival Italiano, dedicato alla nostra
identità risultante dalla storia dei vari celtismi senza
progetto.
In passato venne molto criticata la logica della folkorizzazione
della cultura ad uso e consumo dei turisti; oggi, con il
celtismo, la logica sembra essere analoga: il celtismo, fattosi
ballo al palchetto, funziona, è accattivante; e permeare
di mitologia suoni concepiti per far ballare la gente, dà
ad essi una patina di cultura che non disturba, a patto di non
esagerare e di non approfondire troppo: in fondo anche Casadei
sarà "troppo popolare", ma sostanzialmente... anche lui fa
ballare e divertire la gente. Soprattutto non la fa
pensare.
Ballo liscio, tarantella, giga, musica e danza ci rendono uguali.
In fondo siamo tutti un po' Celti, un po' valdostani, un po'
friulani, un po' occitani, un po' calabresi, un po' africani e un
po' niente.
Mi sembra utile ricordare alcuni passaggi di una delle
relazioni congressuali del SAVT degli anni 80: all'epoca la
nascita dell'Europa era ancora poco più che un progetto,
si proponeva la costituzione di una alleanza tra organizzazioni
sindacali nazionalitarie, non si parlava ancora con tanta
preoccupazione degli effetti del mondialismo.
In quella occasione, riflettendo sull'Europa il SAVT , Sindacato
dei lavoratori valdostani, constatò che la logica
capitalistica e liberista, quella stessa che era ed è alla
base della nascita dell'Europa - Europa dei mercanti e degli
Stati - presupponeva che il problema "regionale" fosse un falso
problema.
Passatemi l'uso improprio del termine "regionale" che sminuisce
il nostro modo di identificarci e di proporci come realtà
nazionali, nazionalitarie, minorizzate etniche o che dir si
voglia, e non soltanto come realtà - appunto -
regionali.
L'ideologia economica capitalistica e liberista ha bisogno degli
squilibri regionali, dei diversi livelli di sviluppo regionale,
sui quali essa innesta meccanismi politico-economici che
riequilibrano - complessivamente - il sistema a cui essa da
corpo.
Se questa considerazione, che andrebbe ovviamente approfondita,
è vera, abbiamo individuato, ad esempio, una delle ragioni
per le quali non solo la Sardegna non ha conosciuto una sviluppo
economico ed è oggi in situazione di crisi, ma anche e
soprattutto perché alla Sardegna non sia concesso di
governarsi da se.
Per assurdo ciò spiega anche perché la Valle
d'Aosta, invece, quello sviluppo lo abbia in parte conosciuto e
perché, tuttavia, anche ad essa non sia permesso di
governarsi davvero da se.
Se è il capitale e sono i mercanti a tenere il bandolo
della matassa, è facile spiegare perché ed in che
modo gli Stati che essi stessi - capitale e mercanti - hanno
creato, in nessun modo vogliano perdere il controllo sulle
"regioni".
Quando in queste regioni ci si avvede che non sussistono ragioni
che possano legittimamente negare loro il diritto ad
autodeterminarsi; e quando questa autodeterminazione è -
almeno teoricamente - possibile, perché l'identità
di queste è forte, ha connotazioni nazionali quantunque
minorizzate, e pone di conseguenza, la rivendicazione dei propri
diritti collettivi; quando in queste regioni ci si avvede che lo
sviluppo o il sottosviluppo che vivono sono, comunque, il
risultato di una situazione economica di dipendenza, di controllo
esterno; quando tutto ciò avviene ecco che il gioco degli
squilibri regionali, così utile come abbiamo visto, alla
sopravvivenza di un sistema economico, viene meno.
Badate che non si tratta soltanto di un problema di diritti
culturali o linguistici che spettano alle nazioni minorizzate;
apparentemente questo tipo di diritti riesce, spesso, a trovare
un qualche spazio in cui esprimersi: non a caso Sardegna e Valle
d'Aosta sono Regioni a Statuto speciale all'interno dello Stato
italiano; non a caso, se pur a fatica, in qualche modo si riesce
ad affermare che Sardegna e Valle d'Aosta hanno le proprie
lingue, le proprie tradizioni. Anche se in modo improprio, a
fatica, non completamente, riusciamo a far accettare il principio
che entrambe meritano almeno di continuare ad esistere.
Il vero problema è che l'esercizio della
autodeterminazione legittimerebbe il diritto delle molte altre
Sardegna e Valle d'Aosta a non esser figure di secondo piano dei
processi politici ed economici che dalla dimensione della
sovranità statale sono transitati a quello della
sovranità europea.
Non vorrei che questo mio discorso apparisse più politico
che sindacale: e se così fosse non dimenticate che la
dimensione dei problemi economici è tale che sindacati
come il SAVT o la CSS (Confederazione Sindacale Sarda), rischiano
di esser ridotti a svolgere compiti di piccolo cabotaggio, ad
incidere, quando ci riescono, solo nella dimensione regionale
disegnata e delimitata da altri, nell'interesse di altri.
Non riesco a spiegarmi diversamente la diversità di
situazioni che è riscontrabile, ad esempio, per quanto
riguarda i livelli occupazionali in Sardegna ed in Valle d'Aosta,
ponendoci da un lato di fronte a problemi drammatici e dall'altro
a negatività per fortuna di limitata dimensione.
Io non mi illudo che l'applicazione del diritto alla
autodeterminazione trasformi la situazione rendendo ottimale la
situazione di tutti le regioni e/o nazioni minorizzate; nè
credo che quand'anche tutte le nazioni oggi minorizzate
accedessero alla autodeterminazione avremmo sconfitto il divario
tra le diverse situazioni economiche: sono certo, però,
che lo sviluppo è affar nostro e non è accettabile
che il suo prodursi o non prodursi sia legato ed indotto da
volontà esterne, estranee alle nostre.
Mi conforta in questa analisi la constatazione che in tutto
ciò che sta avvenendo in Europa e, soprattutto, nelle
dinamiche di cui le nazioni minorizzate sono protagoniste, non
sono le forze culturali, né quelle politiche ad esser
protagoniste, ma quelle sindacali.
Il patto di pacificazione nei Paesi Baschi e la rinascita della
Galeuska (accordo di cooperazione iberica tra GALizia, EUSkadi e
CAtalogna) è nato dalla spinta dei sindacati baschi e
galleghi.
Ho portato, non a caso, questo esempio: se ho, infatti, fin qui
evidenziato le differenze tra Valle d'Aosta e Sardegna,
cioè tra una situazione di relativo sviluppo ed una
situazione di mancato sviluppo all'interno di uno stesso Stato,
di uno stesso sistema economico, di un analogo assetto
istituzionale (l'autonomia speciale di cui godono entrambe), il
raffronto tra Euskadi e Galizia, tra Catalogna e Galizia - che
hanno deciso di riprendere a collaborare come storicamente hanno
fatto in momento difficili della storia quali l'antifranchismo!-
è analogo, se non uguale: da un lato c'è una
situazione relativamente sviluppata, dall'altro il disastro
economico.
Il fatto che la Galizia sia in situazione di disastro la dice
lunga sulla pretesa divisione del mondo in nord-sud e ci obbliga,
quanto meno, a rileggere questo tipo di schematizzazione: la
Galizia è il Finis Terrae, l'estremo lembo a nord del
continente europeo, nord sottosviluppato; la Catalogna, ricca e
sviluppata, è il sud.
Nessuno ha mai creduto che parlando di nord e sud si volesse
affermare una perfetta rispondenza geografica tra aree sviluppate
ed aree in crisi, questo no; ed è ad altre "regioni" che
questa schematizzazione va applicata, regioni del mondo intese
come vaste aree geo-politiche che non hanno nulla a che fare con
la regione in quanto ente di decentramento amministrativo o
istituzione intermedia concessa a nazioni minorizzate per non
concedere loro l'autodeterminazione.
Tuttavia l'esistenza di questo squilibrio all'interno di una
Europa che si sta costruendo, conferma le osservazioni che
proponevo inizialmente: le dinamiche europee hanno cancellato,
distrutto l'economia gallega, legata alla agricoltura ed alla
pesca; sul piano industriale, poi, la Galizia ha conosciuto e
conosce una crisi che la rende simile ad una isola: è -
cioè, - collocata fuori dalle aree concentriche di nuovo
sviluppo economico ed industriale.
Non è necessario essere un'isola per essere isolati.
E si può essere un'isola senza essere isolati. La Valle
d'Aosta, addirittura, basa lo sviluppo della propria politica
turistica sul fatto di identificarsi come "isola"; isola felice
dal punto di vista della assenza nel suo territorio, di certi
fenomeni negativi tipici delle zone metropolitane, i cui abitanti
possono trovare tranquillità ed aria buona nella nostra
isola alpina; isola dal punto di vista della specificità
che assicura, a quanti raggiungano la Valle d'Aosta, la certezza
di calarsi in una realtà diversa dove, contro la
massificazione, tradizioni e specificità ancora
significano qualcosa.
Se, quindi, sul piano giuridico, la negazione del diritto alla
autodeterminazione impedisce alle nazioni minorizzate di esser
protagoniste delle grandi decisione che vengono assunte in sedi
da cui esse sono escluse e quindi altri decidono per loro, sul
piano economico le nazioni minorizzate, quindi la Sardegna e la
Valle d'Aosta, sono portatrici di un grande valore economico
aggiunto che è l'identità.
Ora abbiamo ben presente il rischio di folklorizzarci e di fare
come talune tribù pellerosa, la danza della pioggia a
beneficio dei turisti; ma sto difendendo il persistere di una
identità che è l'espressione di quella che, in
Valle d'Aosta chiamiamo "civilisation": modi di vivere, di
produrre, di porsi in relazione con le persone, oserei dire modi
di pensare. Mi viene spontaneo, pensando alla Sardegna affermare
che abbiamo ancora "codici" di comportamento che nulla hanno a
che spartire con le leggi dello Stato; toglierci tutto ciò
è molto peggio che negarci il diritto di avere un nostro
Stato; è molto peggio che farci penare 50 anni per
ottenere il diritto a tutelare, almeno formalmente, la nostra
lingua.
Non vorrei proporre un ritorno alla nostra psicologia atavica,
barbara e felice per trovare una qualche contrapposizione alla
massificazione; vorrei piuttosto affermare che la massificazione
non si afferma fin quando noi esistiamo e poniamo il problema del
nostro diritto ad esistere.
Almeno fin quando siamo coscienti dei meccanismi attraverso i
quali ci cancellano.
E, badate, in definitiva il modo con cui viene negato il nostro
diritto è uno solo: negarci lo sviluppo, rubare le nostre
potenzialità e le nostre ricchezze o - peggio - operare in
logiche di mercato che negano alle nostre ricchezze di esser
tali: quando in Valle d'Aosta è stata tolta ai valdostani,
che la possedevano da secoli, la proprietà delle acque (e
chi più dei sardi sa quanto sia importante l'acqua proprio
perché ne hanno poca!), si è rubato ai valdostani
il loro petrolio. Quando i sardi sono sollecitati a distruggere i
loro vitigni perché, facendolo, ottengono, come hanno
ottenuto, finanziamenti europei, non è stata rubata ai
sardi soltanto qualche vigna, ma una parte del loro stesso modo
di produrre e di vivere.
Uno slogan valdostano lanciato contro i meccanismi sfrenati della
speculazione di mercato affermava che" i soldi sono di carta e la
terra è d'oro"; era rivolto ai valdostani che vendevano le
loro proprietà per pochi denari, consentendo ad abili
profittatori di appropriarsi di una terra il cui valore oggettivo
era di gran lunga maggiore di quello che i valdostani
realizzavano con la svendita: era, presumibilmente e nella logica
della civilisation, un valore inestimabile; così per pochi
denari europei sono stati distrutti vitigni sardi, prima che i
sardi scoprissero che i loro vini avevano un grande mercato, che
i prodotti sardi sono ricercati, che l'identità sarda ha
un fascino non inferiore a quello che si ritiene abbiano altre
aree del modo, mitizzate: il fascino della diversità,
della autenticità, della non assimilazione a modi di
essere e di vivere standardizzati.
Sono cosciente, proprio pensando alla Galizia, alla Sardegna ed
alla Valle d'Aosta, che vada, quindi, ripensato il concetto di
"isola" che, come ho tentato sbrigativamente di spiegarvi, non
è necessariamente negativo.
Le nazioni minorizzate sono tutte isole, quindi bisogna
positivizzare questa loro connotazione oggi negativizzata dai
fatti; la Sardegna aggiunge a questa situazione concettuale di
marginalità economica e politica, quella geografica. So
bene quanto l'esser isola abbia pesato dal punto di vista
economico come un handicap; ma questa problematica è
legata alla incapacità di risolvere il problema delle
comunicazioni e dei trasporti, incapacità che non è
sarda ma dello Stato.
Spero che la conclusione che vi propongo non risulti stonata:
sono rimasto molto colpito quando ho potuto leggere che in
Sardegna era nato uno degli snodi mondiali di Internet, quando ho
saputo che l'imprenditoria sarda era stata capace di cogliere -
molto prima di tutti gli altri - la sfida della comunicazione
informatica; so che chi ha avuto questa intuizione segue una
propria logica e propri interessi imprenditoriali e forse anche
politici: non li conosco e potrebbe anche risultare, in
definitiva, che questi siano meno positivi di quanto mi è
dato sapere. Ma non è questo il punto; non è
importante per me che Grauso o Soru siano i Berlusconi della
Sardegna, se il loro lavoro sia positivo o negativo: queste
valutazioni sono affare dei sardi. Mi limito tuttavia a
considerare che la comunicazione è il mondo di domani, che
l'economia stessa, o parte della economia girano nel mondo
virtuale di Internet e che noi - portatori di identità che
non hanno rinnegato la tradizione - è tempo che ci
inventiamo nuove tradizioni, per continuare ad essere ciò
che siamo sempre stati, anche nel mondo di oggi.
Sono i sindacati, lo ripeto, ad aver immaginato che Galizia,
Catalogna e Paesi Baschi dovessero impegnarsi perché
l'Europa dei lavoratori, l'Europa dei Popoli si costruisca
davvero: e questo avverrà solo se il diritto alla
autodeterminazione, la trasformazione in senso federale degli
Stati e dell'Europa, avverranno davvero.
E dico di più; non vivo la costruzione dell'Europa come un
fatto definitivo nel processo di pacificazione del mondo, come un
fatto davvero storico nel senso che rappresenterebbe il
coronamento e la realizzazione addirittura di un mito. E' un
passo, ma noi valdostani che conosciamo la dimensione, la
cultura, la specificità alpina, e voi sardi che conoscete
la dimensione, la cultura, la specificità mediterranee,
noi sappiamo che neppure quella europea è l'unica
dimensione internazionale possibile, e non è
necessariamente neppure la migliore possibile.
Stiamo in Europa, quindi, e nelle dinamiche europee, solo se non
possiamo fare diversamente o solo se - prima o poi - verrà
cancellato lo status di minorizzazione in cui siamo
ridotti.
Ma così come gli scenari internazionali ai quali possiamo
guardare sono molteplici e non sono solo l'Europa, richiamo le
nazionalità - non solo i sardi ed i valdostani, quindi -
alla necessità di ripensare in modo critico e moderno, a
cosa significhi il termine autodeterminazione: credo che la
dimensione Stato sia superata, come superata è la
concezione di un sindacalismo vissuto solo come lotta di
classe.
Questi sono problemi di una vastità tale che, tutto
sommato, mi sembra addirittura scorretto accennarli soltanto e
non approfondirli.
Mi pare, tuttavia, indispensabile ribadire che una prospettiva
come il federalismo sia, in realtà, addirittura più
"rivoluzionaria" e concreta di una rivendicazione meramente
indipendentista; gli Stati si sono dimostrati fallimentari e
semplicemente moltiplicarne il numero non basta a risolverne
l'intrinseca contraddittorietà. Dobbiamo, quindi,
ragionare in termini di "sovranità" consci di vivere nel
mondo della interdipendenza. Per continuare ad essere diversi non
possiamo sperare soltanto di essere uguali agli Stati di oggi...
E tutto ciò pur dovendo fare i conti con le mistificazioni
di chi ha fatto in modo che il termine federalismo non
significasse quasi più nulla, o ha fatto in modo di
innescare vioilenze ed oppressioni mentre parlava di rispetto dei
diritti dell'uomo.
Dobbiamo attribuire, quindi, una diversa connotazione
all'indipendentismo ed al federalismo. Ma questo è un
altro problema a cui non manco di fare accenno per una sola
ragione: l'accenno obbliga all'approfondimento e ciò
significa che il confronto e la collaborazione tra le
organizzazioni sindacali delle nazionalità devono
continuare.
- I FASCISTI NAZIONALITARI DEL TERZO MILLENNIO
Il contesto
Dopo l'approvazione delle nuove norme per lo svolgimento
dell'esame di Stato che i giovani italiani sostengo a conclusione
del ciclo di studi superiori, in Valle d'Aosta sono state
introdotte apposite norme che adattano quanto previsto per il
resto dello Stato, alla specifica situazione linguistica
valdostana: è stato, così, introdotto un esame in
più per accertare la conoscenza della lingua francese a
conclusione di un percorso formativo ancora incompleto che vede
la lingua francese utilizzata come lingua da insegnare e come
lingua di insegnamento fin dalle scuole materne. Purtroppo non
è del tutto vero che la scuola valdostana sia
perfettamente bilingue, come non è vero che la
società valdostana sia bilingue; la prova di francese
all'esame di stato è diventata, così, occasione per
un confronto/scontro sulla lingua che ha visto gli studenti
valdostani, con gran parte degli insegnanti e dei genitori,
scendere in piazza, in massa, contro quella che è stata
vissuta come una imposizione; non contro la lingua francese
(anche se frange oltranziste hanno tentato di strumentalizzare in
tal senso la protesta), ma contro una rifrancesizzazione forzata
della scuola, per nulla condivisa. I dettagli della
rivendicazione e della protesta sono complessi e poco importanti
nel contesto del nostro studio; il dibattito che ne è
nato, invece, propone a tutte le nazionalità ed in
particolare a quelle che hanno un ruolo importante nella gestione
del potere autonomistico locale, l'occasione per una riflessione:
è indispensabile affermando i diritti delle
nazionalità, ottenere il consenso e la condivisione da
parte di quanti non appartengono ad essa, ma risiedono nel suo
territorio, altrimenti si rischia di innescare uno scontro,
altrimenti si trasforma il diritto in imposizione fascista. L'UV
ha chiamato "fascisti" quanti si sono opposti alla sua politica
linguistica, ma non avendo rivolto questa accusa ai soliti
partiti Stato-nazionali o a vecchi fascisti camuffati, ha
esagerato, ottenendo una risposta da chi, pur rivendicando con
forza i diritti che sono negati alle nazionalità, Valle
d'Aosta compresa, in nessun modo crede che le nazionalità
possano e debbano imporre qualcosa agli altri.
Sul "Peuple Valdôtain", organo dell'U.V., Etienne Andrione
definisce "fascisti del terzo millennio" gli oppositori della
legge regionale sulla prova di francese all'esame di
maturità, accusandoli di "non rappresentare altro che
l'ultimo episodio di un genocidio" commesso da "assassini" che
sono più "raffinati", ma "non per questo meno pericolosi"
di quelli del passato.
Parole durissime che andrebbero condannate se Andrione non fosse
altrettanto duro "contro" l'U.V.; ammette, infatti, che "una cosa
è sottoporre gli studenti ad un esame di francese,
un'altra è poter dire che una lingua viva"; afferma che
"non si sarebbe a questo punto se i valdostani non avessero
contribuito, talora molto attivamente, alla loro stessa
alienazione"; asserisce che "si è arrivati a pagare, con
una mai abbastanza criticata indennità di bilinguismo, per
i propri diritti", una tassa volontaria al "colonizzatore"
affinché non si dimostri ostile alla lingua
francese.
Quello di Andrione risulta, così, uno sfogo lucido ed
amaro, l'ammissione di una sconfitta, l'opposto di quel "vittoria
valdostana" con cui, sempre il Peuple, celebra in altro articolo
il voto sulla legge in questione, giungendo a definire gli
studenti 'irridento-imperialisti" italiani; imprudente questa
definizione poiché il 40% dei genitori degli studenti in
lotta contro la legge, pochi mesi fa votò l'U.V. ed oggi
si sente ripudiato e definito "fascista".
La "vittoria" in Consiglio regionale non lenisce il senso di
sconfitta espresso da Etienne Andrione, il senso di sconfitta
dell'U.V.
L'U.V. non credeva nello Statuto di Autonomia, figlio più
del realistico compromesso italofilo di Chabod che della
rivoluzionaria impostazione della questione valdostana di
Chanoux; nel '48 l'U.V. definì lo Statuto "leurre",
"tromperie", "endroumia"; ha finito col difenderlo a spada tratta
e oggi gestisce l'80% del potere che esso consente. Lo Statuto
comprendeva e comprende la parità linguistica ed implica
il bilinguismo, ma nessuno dei due si è
concretizzato!
I responsabili? Nel corso degli anni l'U.V. ha governato
stringendo alleanze ora con queste ora con quelle forze
politiche, pur sapendo che erano le responsabili del processo di
alienazione linguistica in atto.
O, forse, non ci sono responsabili ma, più semplicemente,
c'è il fallimento di uno Statuto in cui nessuno ha creduto
davvero. Nessuno si è preoccupato di realizzare la
società bilingue che esso preconizzava; e per l'U.V. esso
non era un punto di arrivo su cui soffermarsi, ma un punto di
partenza verso la conquista della autodeterminazione.
Comunque sia Etienne Andrione giunge a concludere che va messo
fine al compromesso, che ci vuole una "separazione" e
poiché due sono le componenti etniche e sociali della
Valle d'Aosta, due devono essere le scuole: una francese ed una
italiana.
L'ipotesi non è nuova, non mi spaventa, né mi
scandalizza; il fatto è che se la società
valdostana è spaccata al punto di aver bisogno di due
scuole, analogamente ha bisogno di due chiese e di due
Parlamenti. E di sdoppiare tutto...! Questo mi spaventa!
Quale dissociazione nella mentalità politica dell'U.V.
porta inesorabilmente verso simili posizioni? Certamente l'aver
creduto di poter fare cose sulla base di un consenso e di un
mandato amministrativo attenuti dall'elettorato per farne altre,
venendo - per questo - aspramente contestata. Certamente lo
scoprire che non c'è, apparentemente, una via democratica
per risolvere la questione valdostana e che, quindi, c'è
bisogno - quanto meno - di qualche "forzatura".
La Valle d'Aosta ha subìto un genocidio culturale e si
trova nella drammatica situazione di non sapervi porre
rimedio.
In situazioni analoghe altri popoli hanno scelto ben più
radicali forzature (fino alla lotta armata) di quelle a cui
l'U.V. fa - tutto sommato - timido ricorso.
Ma proviamo ad ipotizzare uno scenario diverso, non per il gusto
di giocare con la fantapolitica, ma per capire dove possono
portare certe mentalità: ad un successo della lotta dura
dell'U.V. non potrebbe non corrispondere l'esodo degli italofoni,
dei loro "collaborazionisti" (così Andrione definisce i
valdostani che non stanno dalla parte dell'U.V.), degli
autonomisti moderati e dei bilingui imperfetti, tutti "stranieri"
in una società rifrancesizzata e, in quanto maggioranza
numerica, assolutamente da allontanare per non turbare il nuovo
riequilibrio faticosamente conseguito.
Certe cose nella storia succedono davvero, prima o poi,
soprattutto se ci si prepara a cogliere le occasioni che essa
talora offre in tal senso.
Certe cose succedono non perché i popoli le facciano
succedere "anche" ricorrendo alla violenza, ma perché la
democrazia, l'ordine e il diritto internazionale non consentono
che si possano produrre altrimenti: una siffatta lotta che si
concluda con la vittoria diventa, per la storia, una giusta lotta
di liberazione nazionale e porta alla nascita di un nuovo Stato,
subito accettato nel consesso degli Stati, per lo più
anch'essi nati in quello stesso modo; se la stessa lotta non
è vittoriosa diventa "terrorismo" (materiale o
intellettuale), esecrabile attacco alla democrazia, nazionalismo.
L'arbitrio e la sopraffazione, apparentemente tanto detestabili,
sono troppo spesso il presupposto della legalità.
Se l'U.V. riuscisse, con o senza il consenso di tutti i cittadini
della Valle d'Aosta, a realizzare i propri reali obiettivi
politici, sui libri di storia si parlerebbe di una liberazione
nazionale, di una riparazione dei torti subiti grazie alla quale
la lingua francese ha ripreso un cammino iniziato nel 1500,
quando sostituì ufficialmente il latino; la storia
racconterebbe la nostra epoca in cui il francese è
minoritario, come risultato, fortunatamente provvisorio,
dell'italianizzazione sempre perpetrata dall'Italia contro la
Valle d'Aosta e particolarmente accentuatasi in epoca fascista; e
racconterebbe anche come in epoca post-fascista e democratica il
francese, benché formalmente parificato all'italiano sul
piano del diritto, in realtà sia stato oggetto di continue
manifestazioni di ostilità.
Etienne Andrione e l'U.V. sono affascinati dalla dolorosa
certezza che questa è la valutazione dei fatti storici
proposta dalla "storia", e che è difficile per loro
trovare il coraggio di affrontare le scelte radicali che sarebbe
necessario adottare per scriverli davvero.
E non riescono ad intravedere altre strade per raggiungere un
risultato che almeno si avvicini a quello auspicato.
Sono inoltre troppo invischiati nel potere ed interessati ai
benefici che, comunque, vengono loro assicurati dalla più
prosaica, contraddittoria ma reale situazione contingente, per
sapervi rinunciare; sicché, quando lasciano riaffiorare
nella loro azione gli ideali, questi risultano velleitari e sono
smentiti da tutto il resto della quotidiana politica del
compromesso.
L'articolo di Etienne Andrione esprime un senso di "impotenza" di
una U.V. che sa reagire alla banalizzazione dei suoi ideali nel
bagno di materiale e modesta quotidianità solo in due
modi: con la forza apparente dei numeri (regge una maggioranza di
24 consiglieri contro 11!) e con un tignoso distinguo
intellettuale: se proprio non vi va separiamoci, separiamo le
scuole!
Il senso di impotenza è accentuato dal fatto che non solo
la disidentificazione dei valdostani si sta completando, ma la
storia che verrà scritta su questi nostri anni,
verterà tutta sul conflitto tra una maggioranza che si
propone di vivere in una Valle d'Aosta quasi interamente
italianizzata ed una minoranza etnica a cui gli spazi di tutela
non bastano per sopravvivere e che, assurgendo talora al ruolo di
maggioranza politico-amministrativa, tenta di imporre una
trasformazione socio-culturale metodicamente contrastata e
respinta da "alleati" ed avversari.
In pratica l'U.V. per essere maggioranza non deve essere se
stessa ma un'altra forza è una moderata e rassicurante
forza di governo capace, e neppure sempre, di assicurare una
buona amministrazione della cosa pubblica.
Le conseguenze di questa situazione sono molteplici:
1- benché le forzature imposte dal'U.V. non siano
realmente delle imposizioni, il fatto che vengano vissute come
tali dagli altri e che l'U.V. non sappia proporsi altrimenti,
porta a far considerare che l'U.V. si stia fascistizzando. Si
badi fascismo non è adesione filosofica: ci sono fascismi
che poggiano su di un ampio consenso popolare (vedi il peronismo,
il franchismo, il fascismo di Mussolini, ecc.) e per un lungo
periodo; e ci sono democrazie che si reggono su delicati
squilibri politici e su una scarsissima adesione popolare. Anche
l'U.V., con l'ampio consenso elettorale che ha raccolto, rischia
di apparire non immune da tentazioni fasciste: il ruolo
preminente e populista di certi leader; il riferimento tra il
mistico, l'esoterico e lo strapopolare ai miti ed ai valori della
tradizione; la non corrispondenza tra propositi dichiarati e
azione politica concreta; un patriottismo non immune da un
malcelato fastidio verso chi non è valdostano o non lo
è come dovrebbe esserlo (ma questa non è altro che
una più "raffinata" xenofobia!); la tendenza ad "imporre"
il proprio volere, sono tutti elementi eticamente discutibili e,
benché storia e politica non si confrontino con l'etica,
questi elementi rasentano sicuramente il fascismo;
2- si è effettivamente determinata una spaccatura nella
società valdostana, quella che fa ipotizzare ad Etienne
Andrione l'esigenza di sdoppiare la scuola; ma in questa
situazione risulta ancor più difficoltoso e quasi
improponibile, qualsiasi tentativo di raggiungere
l'autodeterminazione. L'U.V. non può esser soddisfatta di
aver approvato una leggina sul francese all'esame di
maturità, contro l'opinione pubblica; non perché
l'opinione pubblica abbia necessariamente ragione, ma
perché questa stessa opinione pubblica ora non
starà certo ad ascoltare le ragioni dell'Europa dei Popoli
che pur si propone concretamente.
E in questa situazione, ammesso e non concesso che
l'autodeterminazione possa essere ancora ricercata, per chi e con
chi lo sarà? La Valle d'Aosta raggiungerà
l'autodeterminazione solo per i valdostani o solo per gli
unionisti?
Se l'U.V. non ha scelto il radicalismo , perché ha creduto
nella forza delle idee ed avrebbe dovuto, per questo, tentare di
convincere tutti i valdostani che il miglior futuro possibile per
tutti è il superamento degli Stati e dei partiti: se
fallisce in questo cos'altro le resta?;
3- è negativo e preoccupante il fatto che se una tendenza
è individuabile nella realtà valdostana, questa ,
la sempre più esplicita esigenza di una fuga. Lasciare la
Valle d'Aosta sembra essere una aspirazione concreta, soprattutto
per i giovani; la disoccupazione intellettuale e la fuga dei
cervelli sono certamente due dei più gravi pericoli che
una popolazione possa correre, indipendente dalla sua
omogeneità o disomogeneità linguistica. Oggi un
giovane valdostano attivo e dinamico non può non rendersi
conto che la Valle d'Aosta non gli offre prospettive; ed è
falso che possieda una professionalità maggiore "grazie"
al francese, poiché la dimensione europea chiede ben
altro, mentre la Valle d'Aosta continua ad essere culturalmente
chiusa ed ottusa. Il giovane francofono, il giovane italofono, il
giovane più o meno bilingue hanno questo in comune: la
mancanza di prospettive!
La cultura è morta e questa non è una conseguenza
della alienazione linguistica denunciata dal'U.V.; tutta la
cultura è morta; la Valle d'Aosta non produce nulla,
né in francese né in italiano.
Se questo è potuto succedere e se la fuga dei cervelli si
produrrà non vorrei che, in definitiva, questo fosse un
vero "successo" dell'U.V.: tenere un basso livello di crescita
culturale della popolazione, tagliare le punte emergenti capaci
di pensare, creare una società che - di conseguenza -
è una società della dipendenza da se stessa, da
vecchi modelli sociali, economici, politici, culturali;
società in cui la tradizione non si rinnova mai, anzi,
frena il rinnovamento e diventa unico valore di riferimento, pare
essere intento neppure troppo nascosto dell'U.V.
Ciò porta, però, inevitabilmente a far considerare
la stessa lingua francese un retaggio a cui dedicare un'arena di
pseudo intellettualismi e di false rivoluzioni: le rivolte
dell'U.V. su basi ideali diventano, come lo sono state spesso le
rivolte popolari valdostane, momenti di pura reazione, mai
coscienza di classe e mai davvero coscienza nazionale, ma,
più spesso e facilmente, restaurazione o tentativo di
restaurazione del passato.
L'indipendentismo diventa, in questo contesto, necessità
di liberarsi prima di tutto dalla cultura della dipendenza da se
stessa, dai propri limiti; cultura che diventa autofascismo,
trasformazione dei diritti positivi di una nazione in mezzo alle
altre nazioni, in negativa rivendicazione nazionalista contro
altri nazionalismi.
Ecco dove e come è affondato il francese.
Etienne Andrione ha lanciato un violento "j'accuse"; Vierin e
Pastoret hanno cercato di trattare con gli studenti; Rollandin ha
dichiarato sottovoce di esser d'accordo con i giovani, Corniolo
ha affermato che la questione linguistica va affrontata in modo
più aperto... quale di questi è il pensiero
dell'U.V.?
E quale situazione potrebbe mai essere più favorevole di
quella attuale per un sereno rilancio del francese, visto che
l'80% dei voti sono raccolti da forze politiche, di maggioranza e
di opposizione, tanto convinte di dover operare in tal senso da
essere, per definizione, francofone esse stesse: Autonomistes,
Fédération Autonomiste, U.V., Gauche Valdotaine,
ecc.?
Andrione afferma che è tutta una farsa, ma non può
nascondersi che, in buona sostanza, l'Italia accomuna tutti:
quelli che, in nome, dello Stato italiano, reclamano
l'italianità della Valle d'Aosta e quelli che in nome di
uno Statuto, legge Costituzionale dell'Italia, affermano la loro
non italianità.
Ecco la vera farsa.
Il fatto è che se l'U.V. si presentasse agli elettori con
una proposta politica coerente e rispondente all'analisi di
Etienne Andrione, non otterrebbe più di tre o quattro
consiglieri regionali. Siccome ne ha 17 o è dopata,
gonfiata al punto da non esser credibile quando parla di principi
diversi da quelli che le hanno portato tanto numerosi consensi,
oppure Etienne Andrione è interprete di una U.V. che non
c'è: l'U.V. forza nazionalitaria nella quale io stesso ho
militato e nella quale continuerei a militare, se
esistesse.
Ma poiché è, ormai, un'altra cosa, non vedo come
Etienne Andrione possa nascondere a se stesso il fatto che l'U.V.
si stia preparando a fare dei valdostani i fascisti nazionalitari
del terzo millennio. Il fatto è che contrapporre a quello
che l'U.V. chiama fascismo italiano ciò che appare agli
altri come un fascismo valdostano, non produrrà risultati
diversi da quelli che il confronto tra italiani e valdostani ha
prodotto quando entrambi apparivano "democratici".
Il contesto
Il dibattito sulla lingua francese all'esame di Stato, ha
innescato polemiche e discussioni; per chiarire la questione e
contribuire a non trasformare le contestazioni in scontro senza
soluzione, ho inviato questa lettera ad Emile Proment, anziano
personaggio della cultura e della politica, depositario
riconosciuto di una irripetibile coerenza nella affermazione dei
diritti politici e linguistici della Valle d'Aosta. Mi sono
rivolto a lui chiamandolo confidenzialmente "oncle - cioè
zio - Combefroide", pseudonimo con il quale Proment ha firmato
per mezzo secolo articoli ed editoriali. L'ho invitato a fare il
possibile per tenere aperto il dialogo con i giovani, anche e
soprattutto con quelli che non hanno capito o non condividono
appieno l'identità ed i diritti dei valdostani come
popolo.
Oncle Combefroide,
vous auriez bien dû les voir, ces jeunes... Ils avaient
préparé leur "révolte" en affirmant qu'ils
aimaient la langue française, mais qu'ils craignaient
d'être pénalisés par une trop rigide
application de sa défense; ils étaient conscients
de ne pas être préparés à aborder un
examen sérieux et dont le résultat était si
important pour leur futur. Ils ne demandaient pas une
épreuve simplifiée que, toutefois, on est
arrivés à proposer pour apaiser leur rage! Pour eux
c'était inconcevable de pouvoir parvenir à un
compromis sur le sérieux de l'épreuve et ils
croyaient, donc, que pour passer un tel examen il fallait avoir
une compétence linguistique qui leur faisait
défaut. Ces jeunes, oncle Combefroide, étaient les
fils des électeurs valdôtains dont 40% venait de
voter l'Union Valdôtaine; drôle de situation. N'y
avez-vous pas pensé, oncle Combefroide?
Tout a été dit à propos de la brutale
italianisation du Val d'Aoste. Et tout le monde sait que la
"question valdôtaine" consiste dans la
nécessité de rendre justice aux valdôtains
dénationalisés. Tout le monde sait qui ont
été et qui sont les ennemis de la langue
française. Et tout le monde sait aussi, qu'un
néfaste révisionisme historique nie la persistance
d'un problème valdôtain de nos jours encore. Mais
ces jeunes, oncle Combefroide, en sont-ils les responsables?
Sont-ils les ennemis? Si l'autonomie n'a pas donné
certains résultats qu'on attendait; si le bilinguisme
n'est pas réalisé; si de nouveaux adversaires de
l'identité valdôtaine se proposent aujourd'hui, ce
n'est pas parmi ces jeunes qu'il faut chercher les responsables.
Ces jeunes, tout simplement, ont mal vécu la bagarre qui
s'est ensuivie: ils n'étaient pas d'accord sur la
formulation de l'examen; ils ont cru qu'on leur imposait une
épreuve. Vous savez bien, oncle Combefroide, comment on
réagit lorsque on se voit imposer quelque chose, surtout
quand on est jeune. Ils se sont sentis
dépossédés de l'idée même
qu'ils avaient mûri du français: le français
est la langue culturelle historique de la Vallée d'Aoste.
On a transformé ces jeunes en de furiex contestateurs
juste au moment où ils se rapprochaient des institutions,
convaincus d'être des citoyens que le Gouvernement aurait
bien voulu consulter... On les a repoussés.
Je dois vous le raconter, oncle Combefroide. Un des chefs des
révoltés est parfaitemen bilingue, sa mère
,tant française; il est si désabusé que sa
mère et lui ont du mal à continuer à parler
français. Une jeune fille adorant le français, les
livres français et les lectures francophones, est
tellement déconcertée qu'elle a voulu sortir de sa
chambre tous ses livres français. Un jeune qui avait
affirmé, lors d'une réunion, "mi sentirei un
nazista ad andare contro la lingua francese", aujourd'hui se
demande pourquoi le français va contre lui... A chaque
jeune son histoire et je ne veux pas, oncle Combefroide, vous les
raconter toutes.
Vous connaissez, oncle Combefroide, le mot Dictature. Cela ne
vous dit rien d'entendre de milliers de jeunes affirmer qu'ils se
sentent sous une dictature? Ils exagèrent, bien sur, et ce
n'est pas dit qu'ils avaient pas raison puisqu'ils hurlaient
très fort. Egalement ce n'est pas dit que celui qui a 24
vois sur 35 ait toujours raison. Si cela était toujours
vrai, 50 millions d'italiens auraient toujours raisons des 100
mille valdôtains.
Il est évident, oncle Combefroide, que ces jeunes risquent
d'être instrumentalisés par les différentes
forces politiques. Mais est-ce que ils auraient été
plus "libres" si, en se taisant, ils avaient permis au
gouvernement valdôtain de gérer l'affaire en toute
tranquillité, sans leur accord? Il faut en finir, oncle
Combefroide, avec cette histoire de croire que toute action de
l'U.V. soit inspirée par les plus pures des valeurs,
tandis que les "autres" sont toujours des traîtres et des
ennemis. Les "autres" existent et c'est par rapport à leur
identité qu'il est juste d'affirmer la nôtre. Les
"autres" ont leurs valeurs, pas moin nobles que les nôtres,
et leurs défauts, pas plus graves que les
nôtres.
Les jeunes ont exagéré et insulté les
Pastoret et les Louvin à leurs insultes n'étaient
pas adressés aux hommes mais aux institutions qu'ils
représentaient en accomplissant leur tâche d'une
façon contestable, a un tel poit que l'U.V. a
été traitée de fasciste. Etre fasciste c'est
plus simple qu'on ne le croit: la fascisme est une des maladies
qui s'accompagne souvent d'un large consensus populaire. Est-ce
que nous voulons courir le risque de fasciser la question
valdôtaine? Après l'expérience fasciste des
flamands, des bretons, des croates, des serbes... les
valdôtains veulent-ils être le seul peuple
européen qui, transformé en minorité par la
violence d'un fascisme, essaye d'affirmer son identité en
laissant qu'elle soit vécue par les "autres" comme un
fascisme? Est-ce que ce "nationalisme valdôtain" auquel
l'U.V. fait recours de temps en temps (mais jamais en campagne
electorale) fait l'intêret de la Vallée d'Aoste?
L'histoire peut mettre un peuple face à des choix
difficiles: s'il s'agit de perdre la liberté ou
d'acquérir finalement l'indépendance, un peuple
doit être disposé à tout. Mais ce climat de
confrontation finale est une sottise si on l'a créé
pour ne fair passer qu'une petite loi.
Il fallait, oncle Combefroide, conquérir la confiance des
jeunes en leur faisant confiance. "Le français est une
richesse..." ils affirmaient et le Gouvernement, dur et
résolu, a gagné la guerre contre eux! On est
arrivés à leur dire qu'au Val d'Aoste il y a deux
ethnies, la valdôtaine et l'italienne. Est-ce que je me
trompe, oncle Combefroide, si je constate que des deux, la
valdôtaine est la plus italienne, étant donné
que pas mal de valdôtains de souche ont été
fascistes avec Mussolini et, aujourd'hui encore, sont contre le
français? Et si je constate que l'autre est beaucoup plus
sarde, frioulienne, vénitienne, méridionale qu'on
ne le croit et que tous ses membres voudraient bien se faire
valdôtains? Comme nous vivons une époque dans
laquelle les racines redeviennent importantes, n'est-il pas
reductif de considerer ces jeunes des "italiens" tout
court?
N'oublions pas, oncle Combefroide, ce francoprovençal
qu'est notre véritable langue, mais en faveur duquel
aucune loi, aucune "maturità", aucun engagement
sérieux n'est pris.
Le Statut d'Autonomie n'a pas donné les résultats
qu'on attendait à du reste et d'ailleurs on l'avait
défini "leurre", "tromperie" en 1948 déjà;
on en est devenus les défenseurs acharnés, qu'on
assume la responsabilité de la faillite aussi.
Au cours des dernières années l'U.V. s'est
proposée aux valdôtains comme une force
modérée qui avait abandonné certains
radicalismes dont plusieurs valdôtains avient peur;
l'autodétermination étant le but des
revolutionnaires, l'UV pronait le fédéralisme des
régions. Les autorités unionistes s'expriment
souvent en italien, bien que cela puisse apparaître
incohérent. A tel point l'U.V. s'est modérée
qu'un petit groupe a decid, de prendre la relève du
côté indépendantiste, laissant l'U.V.
s'occuper de l'administration. C'est sur cette base qu'elle a eu
tant de suffrages électoraux: elle ne devait pas
présenter son double, ni ressortir son radicalisme; en
ayant perdu l'habitude de s'y appliquer, elle a fini par semer la
pagaille pour affirmer - coûte que coûte - qu'elle ne
cédait pas... Les électeurs qui ont confié
à l'U.V. leurs voix, se demandent, à
présent, si l'U.V. sait qu'est-ce qu'elle est, et s'il est
juste de confier tant de pouvoir à des hommes qui se
rapportent aux citoyens avec la logique du bâton et de la
carotte qu'on utilisait avec les ânes. Même si,
finalment, l'U.V. s est transformeée de lion en âne
européen... Et les unionistes, oncle Combefroide, que
doivent-ils penser de cette U.V. qu'est un jour
régionaliste, un jour indépendantiste, un jour
fédéraliste, un jour modérée, un jour
rebelle?
Ces jeunes, oncle Combefroide, incarnaient l'espoir de pouvoir
reconstruire une communauté valdôtaine, moderne et
cohérente avec son histoire. Les perdres c'est perdre le
fil même de l'histoire: ces jeunes étaient la
première génération qu'assumait sur sa peau
la question valdôtaine comme un choix volontaire, comme une
découverte, un quelque chose qu'ils ne connaissaient pas,
mais qu'ils voulaient bien soutenir. On aurait pu parler à
ces jeunes de l'Europe; ils auraient pu découvrir combien
d'autres peuples portent en Europe le problème du droit
à une identité... On est parti en croisade contre
eux sur la base d'une erreur: depuis que la prime de bilinguisme
existe, nous prétendons que personne ne pose des
problèmes sur la question linguistiques: on nous paye,
à quoi bon se révolter? Est-ce qu'on veut
être payés davantage?
Je vous comprends, oncle Combefroide, vous êtes le
témoin d'une cohérence identitaire et linguistique
qui ne peut aucunement être satisfaite par la situation
concrète dans laquelle la Vallée d'Aoste se trouve.
C'est la raisons par laquelle je m'adresse à vous, en vous
appelant "oncle": vous êtes l'oncle de tous ceux qui
rêvent d'une Vallée d'Aoste valdôtaine. Mais
pourquoi, oncle Combefroide, vous n'avez pas
considéré que la disponibilité de ces jeunes
envers le français était aussi un résultat
positif, bien que petit, dû à votre
cohérence. Et que, par contre, la rage de ces jeunes
était le résultat négatif de la
prétendue cohérence des unionistes? Vous auriez
dû les voir, ces jeunes, se demander pourquoi il avait
été si difficile de préserver la langue
française en Vallée d'Aoste. Quelle leçon
vous auriez pu donner à ces jeunes, oncle Combefroide,
vous défenseur d'un peuple contre l'intolérable
violence qu'on lui a imposé... ...Voulez-vous être
l'alibi intouchable d'une non culture politique incapable de
dialoguer?
Je suis et je restes nationalitaire et indépendantiste, et
je suis furieux comme un jeune étudiant, contre tous ceux
qui n'ont pas saisi une occasion historique: parler aux jeunes,
leur faire dépasser le préjugé qu'à
empêché à la question valdôtaine de
devenir la question de tous les valdôtains.
Dommage, oncle Combefroide. Voilà pourquoi on vous attend
sur les tables là ou on recueille les signature pour les
Réferendums linguistiques qu'on aurait pu éviter:
contre la loi concernant l'examen de "maturità" et ses
conséquences, contre la prime di bilinguisme, pour
reconnaître au francoprovençal la dignité de
langue.
Et voilà que nous changerons, finalement, la situation
linguistique du Val d'Aoste.
Il contesto
La mia lettera non è stata pubblicata e non ho avuto
risposta.
Claudio Magnabosco, Via Parigi 80, 11100 Aosta, e-mail: claudio.magnabosco@tiscali.it, cell. 340.7718024