di Claudio Magnabosco
Gennaio 2001
1 - PER UNA STORIA DEL FEDERALISMO IN ITALIA
Scenari dal Risorgimento ai giorni nostri
Per capire il dibattito in atto sui temi del federalismo e della
trasformazione dello Stato italiano in Repubblica federale,
dobbiamo aver chiaro lo scenario delle posizioni che dal
Risorgimento ai giorni nostri si sono presentate in Italia. Lo
scenario ci presenta l'esistenza di sei "gruppi", di sei tendenze
politiche generali.
I Nazionalisti italiani
I nazionalisti italiani il federalismo proprio non lo hanno mai
accettato e mai lo accetteranno; lo hanno osteggiato in tutti i
modi e continuano ad osteggiarlo, anche seminando confusione su
cosa esso sia; da sempre insistono sull'idea di unità
della patria come valore che spiega l'unità dello Stato,
la sua indissolubilità e quindi l'impossibilità di
qualsivoglia federalismo, considerato l'anticamera del
separatismo.
Per i nazionalisti italiani neppure la costruzione dell'Italia
che hanno sempre vagheggiato (quella che avrebbe dovuto
comprendere tutti gli italofoni del Canton Ticino, della Corsica,
di Malta, dell'Istria, ecc.) e per costruire la quale avrebbero
voluto italianizzare le zone "straniere" (francesi, tedesche,
slave ecc.), avrebbe dovuto o potuto comportare un'organizzazione
federale dello Stato.
I Democratici italiani
I Democratici italiani, nazionalisti moderati, sono eredi di una
scuola che, pensando al miglior funzionamento dello Stato
centrale, è capace di concepirne un'organizzazione
decentrata che non vada, tuttavia, oltre il regionalismo;
beninteso si tratta di un regionalismo che, concettualmente e
sostanzialmente, continua ad affermare che il potere viene sempre
dallo Stato che ne delega l'esercizio parziale ad istituzioni
minori. I democratici italiani non amano il federalismo ma, per
contrastarlo in modo efficace, ne adottano il linguaggio,
spacciando per federalismo ciò che federalismo non
è.
I Federalisti europei
I Federalisti europei, quelli della scuola dì Spinelli.
evitano di pronunciarsi sui problemi interni allo Stato per
mirare diritto verso la costruzione di una federazione degli
Stati Europei; il loro risultato - indiretto - è
indebolire la pressione dei centralismi statali attraverso il
ridimensionamento della loro stessa sovranità, determinato
dai livelli sempre più articolati di integrazione
continentale. Preoccupati delle difficoltà dell'Unione
Europea, nei federalisti italiani vedono un alleato e, più
spesso, uno stretto collaboratore.
I Federalisti italiani
I Federalisti italiani, eredi del più autentico
federalismo risorgimentale ed antifascista, per costruire
l'Europa federale ritengono di dover costruire prima lo Stato
federale in Italia (e, ovviamente, in tutti gli Stati europei che
federali non sono ...). Autentici federalisti sanno bene come il
federalismo sia stato più volte tradito e
strumentalizzato, ma sono troppo deboli per non finire - a loro
volta - facilmente manipolati.
I Nazionalitari
I nazionalitari sono gli italiani per forza, quelli che fanno
parte dello Stato italiano ma, appartenendo ad un'altra Nazione o
nazionalità, prima che all'Italia ed all'Europa pensano al
modo migliore per ottenere l'applicazione del diritto alla
autodeterminazione che consenta al loro popolo di scegliere le
proprie istituzioni (all'interno dello Stato o fuori di esso) e
la propria collocazione internazionale (in Europa oppure
no).
I Federalisti etnici
I Federalisti etnici pur affermando la loro appartenenza ad una
nazionalità diversa da quella italiana, di fatto hanno
adottato la scelta federalista come una sorta di opzione
spontanea di autodeterminazione. Trasformando lo Stato italiano
in senso federale credono di innescare un automatismo europeo che
porterà alla costruzione dell'Europa dei Popoli.
Questo lo scacchiere italiano. Lasciando ad altre occasioni
l'approfondimento delle vicende che ciascuna di queste "tendenze"
ha cercato di determinare a detrimento delle altre, passiamo in
rapida rassegna i momenti nei quali la trasformazione dello Stato
in senso federale è stata ipotizzata, dal Risorgimento ai
nostri giorni.
Risorgimento
Tralasciando le posizioni di quanti ritenevano si dovessero
salvare, magari sotto la guida del Papa, gli Stati
prerisorgimentali, il federalismo italiano guarda alle "regioni
naturali" che non corrispondono ai disegni burocratici
dell'ordinamento provinciale dello Stato, ma alle
specificità storiche, geografiche, culturali, etniche e
linguistiche dell'Italia.
Fine secolo
Lo Stato italiano è nato centralista, ma subito dopo la
sua nascita alcune riflessioni di carattere economico portano i
repubblicani lombardi a proporre una secessione tra nord e sud
"contro lo sfruttamento del lavoro di Milano da parte dei ladri
meridionali e romani"; all'opposto, per rispondere ad una troppo
profonda diversità antropologica, nasce l'idea
meridionalista di dividere lo Stato in due Italie federate.
Due federalisti
A inizio secolo e, praticamente, fino al fascismo, due
federalisti si distinguono in modo particolare: Salvemini propone
un federalismo che dal basso arriva a costruire le Regioni
negando che queste possano essere identificate o costruite
attraverso una volontà del centro; Zuccarini parla di
Regioni con specifica identità, configurazione geografica,
personalità propria, lingua.
Gli anni del fascismo
Contro il fascismo, la Resistenza propone non poche riflessioni
federaliste Libertari come Trentin lanciano l'appello "Liberare e
federare", mentre sardi e valdostani individuano nel federalismo
la. sola via di libertà: il più attivo è
Lussu, con un Partito Sardo d'Azione che mira alla costruzione di
una Repubblica federale; il più lungimirante è
Emile Chanoux che con la Dichiarazione di Chivasso costruisce la
solidarietà dei popoli alpini: solo insieme è
possibile costruire una Repubblica federale di Cantoni o
Regioni.
Anni 50
Tra a fine della guerra e il momento della ricostruzione
postbellica, le idee federaliste contraddistinguono molti
progetti: il PCI propone di suddividere l'Italia in 4 Repubbliche
federate (Nord, Sud. Sicilia e Sardegna); la DC è su
posizioni regionaliste; il Cisalpino (c'è Miglio!) propone
la creazione di un Cantone dell'attuale Padania; Olivetti lancia
dal Piemonte il suo progetto parafederalista con le Regioni che
nascono dal basso attraverso le Comunità; a Desenzano i
popoli alpini creano una federazione nello spirito della Carta di
Chivasso; la Costituente, mentre affronta il problema generale
delle Regioni, si rende conto (ma non me tiene conto!) che il
bisogno di regionalismo, autonomia e/o federalismo non viene solo
da Sicilia, Sardegna. Friuli, Sud Tirolo, zone Slave e Val
d'Aosta, ma anche dalle zone intemiliane, umbra, sannita, veneta
e retica.
L'inganno regionalista
Lo Stato italiano si definisce regionalista, ma attuerà
molto più tardi, addirittura nel 1970, le Regioni che ha
individuato sulla carta senza tener conto delle loro reali
identità; inganna il Sud Tirol promettendogli un'autonomia
specifica, tipo Valle d'Aosta, per inserirlo poi in una Regione
trappola con il Trentino; anche il Friuli non avrà un
propria Regione e sarà legato alla Venezia Giulia.
Gli anni 60
Mentre le Regioni a Statuto Speciale sono chiamate a gestire le
pur ridotte forme di autonomia che hanno conseguito, le Regioni
"ordinarie" non sono neppure istituite!
Prime collaborazioni
Per le elezioni del '68 i Trentini propongono accordi elettorali
tra autonomisti, regionalisti e federalisti, costruendo una
Federazione di partiti e movimenti: nasce un federalismo che non
articola una progetto specifico di trasformazione dello Stato ma
consente di individuare chi intenda partecipare a tale
costruzione: trentini, triestini, friulani, sloveni, valdostani,
ecc.
L'articolo 6
Nel dibattito sull'applicazione dell'articolo 6 della
Costituzione si rafforza il senso di identità che
caratterizza tutti i progetti federalisti: dal '67 l'AIDLCM
individua lingue e culture etniche e regionale; dal '75 il CIEMEN
spingerà sulla questione nazionalitaria; a scavalco tra le
due esperienze, la LELINAMI afferma che per tutelare le lingue
è necessario riconoscerne la territorialità; nasce
un coordinamento delle organizzazioni sindacali etniche in Italia
(ed in Europa).
Seraratezza culturale
Gli anni 70 propongono un aspetto particolare del modo con cui le
identità si esprimono: mentre l'on. Fanti propone di
accorpare le Regioni della Padania, si impongono con energie le
"identità", alcune recuperando importanti elementi del
loro retroterra storico e psicologico, altre evidenziando la loro
separatezza culturale: si afferma un movimento multinazionale che
fa riferimento alla "civiltà mitteleuropea"; i "Quaderni
del mezzogiorno" propongono una rilettura della questione
meridionale e della cultura meridionale; attorno al Monte Bianco
si torna a parlare di "Nation Savoyarde"; la Sardegna si scopre
"Cuba del Mediterraneo" e progetta un federalismo dei popoli,
appunto, mediterranei. Posizioni inevitabilmente radicali
poiché il modello autonomista e quello regionalista hanno
perduto la poca credibilità di cui godevano: le Regioni a
Statuto ordinario sono senza potere, mentre il Ministro Aniasi
propone l'abolizione delle Regioni a Statuto Speciale.
Le prime elezioni europee
Le elezioni europee del 1979 rappresentano la chiave di volta per
il federalismo in Italia. I partiti italiani, al cui interno
militano gli impotenti federalisti italiani, inventano le
macroregioni elettorali che non corrispondono a nessuna
identità. Si realizza, così, ciò che Lussu
aveva invano tentato di fare nell'immediato dopoguerra: far
collaborare, nel nome del Federalismo e delle Autonomie, le forze
delle nazionalità, i regionalisti, i federalisti non
partiticizzati. Non c'è ancora un progetto vero di
trasformazione dello Stato in senso federale, progetto che viene
auspicato, ma la somma delle forze in campo evidenzia quali sono
le identità di cui il progetto federalista dovrà
farsi portatore.
Epopea nazionalitaria
Per le seconde elezioni europee, quelle del 1984, dopo aver preso
le distanze dal leghismo, 1'UV e PSdAz portano avanti una linea
"nazionalitaria", linea che si sta affermando in tutta Europa.
Gli studi di Sergio Salvi, Guy Héraud, Andrea
Chiti-Batelli, Aureli Argemi portano ad un'individuazione delle
identità che dovrebbero partecipare alla costruzione di
uno Stato federale. La proposta viene pubblicata dal Peuple
Valdôtain e viene presentata in occasione del raduno
europeo ad Aosta per la firma del Document Emile Chanoux sulla
autodeterminazione depositato all'ONU; il documento corrisponde
alla riflessione che dà corpo a numerose Carte Documenti
internazionali; l'UV non ne fa ufficialmente proprio lo schema,
ma afferma che fin quando l'Italia resterà uno Stato
sovrano. la sua forma istituzionale dovrà essere federale
e dovrà articolarsi attraverso queste
identità:
1. la Romandie, con la Valle d'Aosta e le valli francoprovenzali
del Piemonte.
2. l'Occitania.
2 la Slovenia, con le valli intorno a Gorizia l'est di Udine e
I'interland della costa di Trieste.
4. il Sud Tirol
5. la Ladinia comprendente il Friuli (senza la Venezia Giulia),
tutti i territori di lingua ladina, la circoscrizione di Porto
Gruaro (oggi Veneto).
6. La Padania comprendente la Liguria, il Piemonte (senza le zone
francoprovenzali e occitane), la Lombardia, l'Emilia, la Romagna,
il Veneto.
7. La Toscana senza la provincia di Massa Carrara (è
emiliana).
8. Il Meridione
9. La Sicilia.
10. La Sardegna.
La Lega
I partiti italiani, messi alle corde dal fenomeno tangentopoli,
si sentono in pericolo anche per effetto dei crescenti successi
della Lega; sì sforzano, quindi di affrontare le tematiche
federaliste, dapprima timidamente, poi facendosi addirittura
portavoce di un qualche federalismo considerato - ormai - una
scelta obbligata. La Lega sforna dapprima alcuni progetti
federalisti (suddividere lo Stato in tre Italie, poi in due, poi
articolarlo in una Padania ed un'Italia) ma, poco a poco,
è imbrigliata dai giochi dei partiti (il Polo
recupererà Miglio ed altri leghisti a posizioni più
moderate) che cercano di spaccarla e di indebolirla; infine Bossi
opera la scelta secessionista.
Se oggi in Italia tutti si dicono federalisti è
sicuramente merito della Lega che ha imposto in Italia una
problematica altrimenti relegata ai margini del dibattito
politico; se il dibattito sul federalismo è così
approssimativo e contraddittorio, è colpa della Lega che,
con la sua approssimazione e contraddittorietà, ha
consentito che il federalismo potesse essere considerato tutto e
il contrario di tutto.
Il quadro odierno
I federalisti europei e quelli italiani sono piuttosto
annacquati, privi di incisività e pur recuperando spazi
sono, di fatto, 'garanti' formali di un federalismo che i partiti
italiani faticano a comprendere e, soprattutto. ad accettare
davvero, chiamando "federalismo" ciò che federalismo non
è. L'UV, spaventata dalle sue stesse scelte
nazionalitarie, elabora e propone un vero e proprio progetto
moderato di trasformazione dello Stato in senso federale: chiama
Repubbliche le attuali Regioni e le federa insieme. La sinistra
non pare contraria a questo progetto e, udite udite, perfino la
Fondazione Agnelli che - a tutta prima - aveva ritenuto di dover
propone un accorpamento delle Regioni più piccole e la
cancellazione dei "privilegi" fiscali per alcune di esse, torna
sui suoi passi e adotta la proposta unionista.
Presidenzialismo
I nazionalisti italiani hanno una trovata di genio: il
federalismo va bene, ma deve esser attuato contestualmente alla
conferma della centralità dello Stato con l'introduzione
del Presidenzialismo.
Il federalismo fiscale
E per complicare ulteriormente le cose intervengono gli
economisti, i quali ammoniscono che in Italia non si può
fare un federalismo completo perché, ad esempio, il
sistema fiscale ha tali e tanti complicazioni che coinvolgono
l'intero paese da non poter immaginare un sistema fiscale per
ogni Repubblica dello Stato federale. Ciascuna di esse, quindi,
dovrà fare necessariamente dei sacrifici per poter gestire
la propria autonomia, pur tenendo conto che esiste pur sempre un
potere centrale a cui demandare l'equilibrato sviluppo
complessivo del paese. Siamo sulla strada di un
central-federalismo. Contraddittorio? No, in Italia abbiamo avuto
un socialista che ha creato una dittatura, abbiamo avuto i
nazi-maoisti ed un capo di stato accusato di essere anche capo
mafia.
Tutti contenti
A fronte di alternative quali la spaccatura del paese o il
ritorno del centralismo che qualcuno vagheggia, l'ipotesi di un
'federalismo all'italiana" (miscuglio di federalismo autentico,
autonomismo, regionalismo e centralismo, istituito attraverso le
Regioni) pare piacere a molti.
Le attuali Regioni a Statuto speciale si sentono rassicurate: non
scompariranno come il pericolo neocentralista fa tenere, ma
diventeranno un modello per la ridistribuzione di competenze
dallo Stato alle Regioni/Repubbliche. E se questo non è
proprio il Federalismo, pazienza.
Le attuali Regioni a Statuto ordinario vedono comunque potenziate
le loro competenze e, quindi, i loro spazi di gestione del potere
locale.
I nazionalisti, italiani ed i democratici italiani constatano
che, sostanzialmente, non cambia nulla e se tempi sono favorevoli
a forme di decentramento a loro poco gradite, l'importante
è che non si arrivi davvero al Federalismo e che il potere
resti sempre una prerogativa del centro nei confronti delle
Regioni.
I federalisti italiani sono troppo deboli per poter davvero
influire sostanzialmente sulle trasformazioni in atto; quelli
europei si compiacciono che, comunque, un'Italia un po' federale
cerchi dì andare in Europa.
I federalisti etnici neppure si accorgono di aver sacrificato
sull'altare della Realpolitik la possibilità di alcune
nazionalità (gli occitani, i friulani, ecc..) di avere
almeno una propria istituzione regionale autonomistica.
I nazionalitari restano fuori da ogni prospettiva politica
immediata, avendo davanti a se soltanto la strada del radicalismo
o quella degli indipendentismi, strada difficile e pericolosa
perché la guerra nella ex Jugoslavia ed il conflitto
irrisolto nei Paesi Baschi e nell'Irlanda del Nord, portano
l'opinione pubblica ad associare l'idea di rivendicazione etnica
a quella della violenza e della guerra.
E l'identità?
In questa situazione la problematica identitaria, così
cara ai veri Federalisti, scompare: si pensa ad un federalismo
che ha alla propria base le attuali Regioni le quali, come
abbiamo visto, non corrispondono a nulla, sono nate da un
progetto organizzativo e migliorativo della propria
funzionalità voluto dal potere centrale.
Diventa ridicolo, allora, trovare alle elezioni, movimenti come
quello che rivendica l'istituzione di una Regione Autonoma
Toscana. o quello che prospetta una separazione dell'Emilia dalla
Romagna, o ancora quello che su Trieste elabora progetti di
autonomia ed indipendenza; come già successo per il
federalismo, anche queste identità resteranno ridotte al
rango di campanile, di liste civiche, di velleitarismi da
convogliare nei progetti del polo di centro-sinistra o in quello
di centro-destra italiani.
Di quale federalismo stiamo parlando oggi?
Nell'Italia di oggi sarebbe tutto più facile se le
coalizioni, i poli contrapposti, la smettessero di litigare e di
scontrarsi sulle riforme del lo Stato ed ammettessero che tutte
chiamano federalismo qualcosa che non è il
federalismo.
Ma è vera anche un'altra cosa: poiché nessuno si fa
portavoce di cosa sia davvero il federalismo, anche l'uso
distorto di questo principio sociale, politico ed economico
è, in qualche modo, legittimato dal fatto che in sostanza
si parla di "federalismo all'italiana".
Per ragioni economiche, le aree ricche del nord del paese, le
regioni ricche del nord del paese, ritengono che avere più
autonomia e tenersi una parte degli introiti delle tasse le possa
rendere più ricche; le Regioni povere o impoverite del
sud, per ragioni inverse, ma analoghe, ritengono che una maggior
autonomia regionale consenta loro di raggiungere quello sviluppo
che ancora non hanno conosciuto.
Le Regioni a Statuto speciale rischiano di venire appiattite: se
la Valle d'Aosta, la Sardegna, il Tirol e le altre regioni
"Speciali" hanno solo gli stessi diritti e le stesse
caratteristiche di tutte le altre Regioni italiane, la loro
'specialità" perde connotazione e le loro ragioni
storiche, culturali, linguistiche, etniche e geografiche vengono
cancellate: il federalismo doveva unire le diversità, non
cancellarle.
L'idea di costruire l'Europa sulla base di un'Unione Federale
che avrebbe allontanato per sempre gli spettri della guerra e del
fascismo caratterizzò molti movimenti della Resistenza: il
Movimento Federalista Europeo (sorto a Milano nel '43), la Rosa
Bianca tedesca (i cui animatori furono trucidati dai nazisti nel
'43), il Comité Français pour la
Fédération Européenne (sorto a Lyon nel
'44), i Popoli Alpini (i cui rappresentanti si riunirono a
Chivasso nel '43), e altri. Non si trattò di un fenomeno
unitario: su quale tipo di unione europea si dovesse puntare non
c'era una convergenza di vedute: è però a questi
movimenti che dobbiamo la nascita di uno spirito europeista in
senso moderno.
Un editoriale di "Le Monde" constatava, un paio di anni or sono,
che "un'Europa senza memoria o, soprattutto, con la memoria
confusa, sarebbe disarmata di fronte a un ritorno di vecchi
demoni, specie se questi assumono il volto affabile e seducente
dell'estrema destra cortese ed educata". Con quella che definisco
"teoria del moltiplicatore federalista" intendo contribuire alla
ricerca filosofica e politica tesa ad armonizzare i federalismi
partendo dalla drammatica constatazione che nella società
europea si stanno affermando nuove forme di fascismo. A proposito
dell'ascesa al potere del centro destra in Italia, il filosofo
Norberto Bobbio scrisse: "il governo Berlusconi rischia di avere
davanti a sé e dietro di sé soltanto il fascismo";
palesemente fascista (o postfascista se vogliamo ammettere
qualche distinzione!) è una componente del suo governo,
quella del Movimento Sociale Italiano che veste "il volto
affabile" del suo leader Fini ed ha assunto la denominazione di
Alleanza Nazionale.
Il fenomeno italiano è emblematico di una realtà
europea dove forze di destra stanno conquistando importanti
spazi; del resto il sociologo Nolte interpreta il fascismo ed il
nazismo come una risposta al comunismo, legittimando - in qualche
modo - gli orrori della storia e riscoprendo i "valori" della
società occidentale anticomunista. Oggi in Italia i
"campioni" del federalismo mistificano non solo il significato
del termine, ma anche e soprattutto il significato politico della
vera rivendicazione federalista.
Al crollo del nazifascismo le aspirazioni di libertà non
andavano oltre forme più o meno accentuate di
decentramento amministrativo; in parte si trattava di un
rinnovato interesse per la tesi della separazione verticale dei
poteri che il federalismo avrebbe potuto permettere. Il problema
pareva essere quello della efficacia: è meglio, da un
punto di vista pragmatico, vivere in uno Stato centralizzato o in
uno Stato decentralizzato? A piccoli passi gli Stati europei si
sono avviati verso una forma di gestione decentrata del potere
che non mette totalmente in discussione la sovranità dello
Stato centrale, come invece farebbe il federalismo.
Alla fine degli anni 60, però, ha ripreso vigore, la
rivendicazione delle Nazioni senza Stato all'interno dell'Europa
occidentale, rivendicazione che ha messo in discussione la
legittimità degli Stati e la credibilità di una
costruzione dell'Europa basata su di essi. Con la caduta del muro
di Berlino e del comunismo è iniziato un processo di
liberazione anche presso i popoli dell'est. Lo sfascio orientale
si è prodotto proprio in tre Stati definiti "federali":
l'URSS, la Jugoslavia, la Cecoslovacchia. Nell'URSS il
federalismo era nato come una forma di libertà; il
comunismo voleva erigere un sistema di libertà, un sistema
di unione aperta di popoli ove sarebbero potuti entrare tutti
quegli Stati nei quali il proletariato avrebbe preso il potere e,
naturalmente, come si legge nei primi documenti rivoluzionari,
uscirne quando l'avrebbero desiderato. Così Lenin si
guadagnò l'assenso dei paesi asiatici; quando Stalin
capì che questo federalismo libertario avrebbe portato
alla disgregazione dell'URSS, centralizzò la gestione del
potere e ridusse il federalismo ad una mera facciata. Tito ha
imposto un centralismo analogo nella Jugoslavia, a vantaggio
esclusivamente della Serbia. In Cecoslovacchia il diseguale
sviluppo economico a danno della Slovacchia ha determinato il
crollo del sistema "federale".
Si spiega, così, la tendenza - molto attuale benché
mascherata - a preferire al "federalismo" classico (che determina
una perdita di buona parte della sovranità degli Stati che
fanno parte della federazione), il "confederalismo" (nel quale
gli Stati membri non effettuano alcuna cessione di
sovranità, l'esempio concreto l'abbiamo
nell'O.N.U.).
Gli inglesi che non sono favorevoli al federalismo, sono aperti
al discorso della 'casa comune europea', cioè ai popoli
dell'est, proprio perché questi condividono la loro
avversione all'idea di un federalismo europeo, avendo conosciuto
del federalismo soltanto la mistificazione. Eppure é
chiaro che neppure le Confederazioni funzionano automaticamente:
né il Commonwealth britannico né l'Unione francese,
né le varie associ azioni di Stati arabi hanno mai
funzionato. Neppure l'impero austro-ungarico che è stato
l'esempio più classico di "confederalismo" nel secolo
scorso, ha funzionato appieno: nell'impero vigeva solo un
positivo decentramento, ma la diplomazia autro-ungarica. retta
dagli ungheresi, preoccupati della avanzata degli slavi nei
Balcani, non seppe evitare la Prima Guerra Mondiale. Una
diplomazia federale probabilmente avrebbe potuto evitare il
conflitto, ma la suddivisione di compiti e competenze in
realtà confederali non fa gli interessi di tutti i
confederati.
Guy Héraud, uno dei massimi esperti di federalismo in
Europa, evidenzia come in quello che è considerato il
federalismo classico, gli Stati federali - membri cioè
della federazione - non sono definiti necessariamente dal
criterio nazionale, ma anche da altri criteri: geografico
(è il caso delle isole), economico (come nel progetto
delle cosiddette macroregioni europee), storico.
Gli "States" americani, i "lander" tedeschi, le "province"
canadesi e australiane sono entità che procedono
essenzialmente dall'evoluzione storica; i casi dell'Alaska e
delle Awai dimostrano il ruolo della geografia; la religione
spiega la scissione del Cantone svizzero Appenzel in mezzi
cantoni; la lingua spiega la creazione del Cantone del Jura.
L'Europa sta nascendo soltanto attraverso un criterio economico e
storico. Essa produce, in questa dinamica, gli stessi fenomeni
che già si sono prodotti dalla nascita dei singoli Stati
e, cioè, l'oppressione delle Nazioni senza Stato, la
creazione di minoranze. L'inclusione di queste in uno Stato o in
un'Europa non ne cancella la dipendenza. Per il Jura francofono
inserito nel cantone tedesco di Berna, il fatto che la
federazione fosse costituita anche da cantoni italofoni e
francofoni non diminuiva la dipendenza dalle leggi emanate dalla
maggioranza germanofona. Per la Valle d'Aosta francofona il fatto
di appartenere ad uno Stato che sta costruendo l'Europa insieme,
tra gli altri, ai francesi, non muta più di tanto la
situazione linguistica e nazionale. Per catalani l'ingresso
nell'Unione Europea di Andorra rappresenta soltanto un appiglio
giuridico per il riconoscimento della propria lingua. Ritorniamo
allora alla domanda pragmatica che federalisti si ponevamo nel
dopoguerra: "è meglio vivere in uno stato centralizzato o
in uno stato decentralizzato?".
Negli Stati "democratici" che sono sorti nei dopoguerra, dopo la
caduta del nazismo del fascismo e del franchismo, alcune Nazioni
senza Stato si sono viste "octroyer" forme più o meno
ampie di autonomia, in virtù di una concezione politica
regionalista e del timore che potessero affermarsi rivendicazioni
indipendentiste. Oggi all'interno del loro territorio "regionale"
(spesso ritagliato lasciandone fuori aree significative, spesso
dividendolo in più realtà regionali, sempre
comunque non riconoscendone l'unità) esercitano una
autonomia politica ed amministrativa limitata e delimitata. Si
confrontano con lo Stato e con i suoi partiti ricercando un
potenziamento delle proprie posizioni attraverso la forza
(più o pieno preminente nelle diverse occasioni
elettorali) di partiti politici nazionalitari. Al di là
dei principi li fondo da questi stessi espressi, nella
quotidianità le loro energie sono quasi interamente
assorbite dall'amministrazione e dalla ricerca del consenso: lo
spazio a cui mirano è quello del potere locale (spesso
gestito in consorzio con partiti stato-nazionali) e quello della
rappresentatività nelle istituzioni dello Stato o
dell'Europa. L'autonomia di cui godono consente, talora, un certo
sviluppo, ma il fatto negativo che accompagna questo stato di
cose è la rinuncia, che l'accettazione del sistema stesso
della autonomia regionale comporta implicitamente, alla
rivendicazione della autodeterminazione. I confini degli Stati
non possono essere messi in discussione; la crescita del consenso
interno, quindi, non va oltre se stesso: del resto neppure con
una adesione di massa alle proposte più radicali si
determinerebbe l'accesso alla autodeterminazione, la cui semplice
postulazione teorica costituisce un reato.
L'ipotesi di una Europa a due velocità che affianchi alla
federazione degli Stati un momento aggregante delle Regioni (il
Comitato delle Regioni di oggi, qualcosa di più domani)
è accettata come il massimo dei risultati possibili. Nella
trappola del regionalismo si spengono, così, diritti dei
popoli; nella rivendicazione del regionalismo europeo si frantuma
e diventa utopia la speranza di un nuovo diritto dei popoli. Il
fallimento del federalismo classico, il crollo di quello
concretizzatosi nei paesi dell'est, la soluzione confederale che
salva ali Stati, le trappole del regionalismo, i limiti del
consenso autonomista, le strumentalizzazioni ideali del
federalismo ci pongono di fronte a due considerazioni: non
possiamo immaginarci di costruire in Europa federale dei Popoli
senza l'affermazione del diritto alla autodeterminazione degli
stessi; non possiamo immaginare di costruire un Europa federale
dei Popoli se non superiamo il concetto e la forma istituzionale
dello Stato. L'Europa dei Popoli non si costruisce con gli Stati,
né con quelli vecchi, né con quelli nuovi che
potrebbero nascere grazie all'esercizio della
autodeterminazione.
Il rischio che nasca una Europa guidata dalle forze di destra e,
se non fasciste certo para fasciste; il fatto concreto che,
comunque, l'Europa che sta nascendo è quella degli Stati,
sottolineano nella nostra rivendicazione del diritto alla
autodeterminazione anche il diritto, la libertà ipotetica
a non costruire affatto l'Europa, ma altre forme di aggregazione,
magari tra altre realtà. Resta, quindi, una sola strategia
percorribile per contrapporsi a questa perversa logica: quella
delle obiezione di diritto, la negazione, cioè, delle
regole vigenti nel diritto internazionale in quanto regole
scritte dagli Stati.
Del resto la crisi della forma statuale è riconoscibile,
ai giorni nostri, anche nella diversificazione delle forme di
oppressione che esercita sulle Nazioni per quanto attiene alla
lingua e alla cultura; l'omogeneizzazione culturale di cui sono
responsabili li sta progressivamente privando della loro stessa
identità culturale, linguistica, "nazionale", a vantaggio
di quell'esperanto tecnologico che è la lingua inglese, a
vantaggio delle leggi di mercato determinate principalmente dai
paesi leader del mondo moderno. Paradossalmente l'Europa si salva
da questa disidentificazione più grazie alla
pluralità delle Nazioni che ha fin qui oppresso che grazie
alla forza delle sue Nazioni dominanti. Torno all'esempio
italiano dove le forze politiche di destra, ancorate
all'interesse del vecchio nazional-statalismo, sono molto forti,
hanno già avuto accesso al potere, presumibilmente
torneranno presto al potere. E' quello che potremmo chiamare
"autofascismo", cancro del centralismo che colpisce chi lo ha
scelto come strumento di dominio e di oppressione. La crisi delle
forze politiche storiche, travolte in Italia come altrove, da
gravissimi fenomeni di corruzione ne è testimonianza.
Alcuni elementi inoltre, ricorda Paolo Di Nicuolo che cito quasi
testualmente, dimostrano il fatto che il pluralismo politico,
assicurato attraverso i partiti e la sovranità del popolo
esercitata attraverso le elezioni, non corrispondono a nessuna
realtà. Il suffragio universale richiederebbe il rispetto
di tre condizioni:
1 - la perfetta informazione degli elettori (ma sappiamo,
soprattutto in Italia, quanto la manipolazione dell'informazione
sia importante per costruire e gestire il consenso; Berlusconi
più che ex capo del governo e probabile futuro capo del
nuovo governo italiano, è leader di un impero telematico e
telecratico);
2 - la razionalità delle scelte dell'elettore (ma
ciò è possibile soltanto a livello locale dove
candidato ed elettori sono vicini, altrimenti nessun correttivo
tecnico, neppure i collegi uninominali, può consentire il
superamento di questo gap democratico);
3 - il rispetto da parte degli eletti della volontà degli
elettori (condizione che, in assenza del rispetto delle due
condizioni precedenti, è lasciata all'arbitrio degli
eletti).
I partiti politici definiscono arbitrariamente i loro programmi,
scelgono preventivamente i loro candidati, agiscono in un
intreccio di situazioni nelle quali forti sono le influenze
lobbystiche le quali mirano ad assicurarsi potere ed influenza
anche nei settori nei quali non hanno un interesse diretto. Il
sistema statuale della formazione delle volontà superiore
non riveste i canoni della democraticità. Lo Stato ha
assunto perfino competenze nel campo sociale che dovrebbero
essere basate sull'iniziativa privata, sulla famiglia, sul
volontariato.
Il parlamentarismo è in declino: i parlamentari sono
sempre più esautorati nelle loro funzioni legislative da
un esecutivo invadente e dalle decisioni assunte a livello
"tecnico". Una delle preoccupazioni che accomuna tutti gli
europei è, oggi, quella di ricostruire una democrazia che
sia vicina all'uomo.
Ora per arrivare, finalmente, alla nostra proposta di Europa
federale dei Popoli dobbiamo ricapitolare le condizioni,
necessarie per una buona federazione.
La nostra federazione dovrebbe raggiungere quattro
obiettivi:
1 - far scomparire la condizione minoritaria delle Nazioni;
2 - istituzionalizzare le Nazioni;
3 - assicurare un buon equilibrio tra i componenti la
federazione;
4 - avvicinare la democrazia all'uomo.
La Federazione degli Stati attuali non soddisfa nessuna di queste
quattro esigenze: non sopprime la condizione minoritaria,
spezzetta le Nazioni, è segnata da una grande
disuguaglianza dei suoi membri, non dà soddisfazione alle
esigenze di una nuova democrazia. Una federazione di Stati che
comprenda anche alcune Nazioni assurte, grazie all'esercizio del
diritto alla autodeterminazione, a istituzione statuale, non
sopprime tutte le condizioni minoritarie, non istituzionalizza
tutte le Nazioni, non soddisfa neppure le due ultime esigenze.
Una federazione di tutti gli Stati ottenibili attraverso
esercizio complessivo della autodeterminazione, mentre risolve
ipoteticamente le prime due esigenze non dà
automaticamente risposta alle altre.
Una federazione di Regioni può deminorizzare le Nazioni,
ma non le istituzionalizza e non può neppure riequilibrare
il peso dei suoi componenti: quanto peso politico avrebbero le
Nazioni estone o slovena a confronto con quella italiana,
tedesca, ecc.? Di contro potrebbe soddisfare l'esigenza di
avvicinare la democrazia all'uomo, il potere al cittadino. Ci
troviamo, quindi, di fronte al problema teorico assai complesso
di definire il nostro moltiplicatore federalista. Riccardo
VuilIermoz nel suo studio inedito sul federalismo di Alexandre
Marc ci aiuta ad essere sintetici: ci sono due tipologie di
trasformazione che conducono alla costituzione di un sistema
politico federale, quello di federalizzare e quello di federare.
La federalizzazione consiste nella trasformazione di un sistema
centralizzato (i singoli Stati in Europa) in un sistema federale.
La Federazione aggrega più realtà per costruire una
entità sopranazionale.
La nostra problematica si risolve qui: contro la federalizzazione
(benché in Italia la trasformazione dello Stato
centralista in stato federale sia considerata una tappa
importante) e contro il falso federalismo (il confederalismo), il
federalismo delle Nazioni senza Stato si pone l'obiettivo di
superare gli stati sovrani sia verso il basso che verso l'alto,
costruendo l'Europa attraverso il principio che Guy Héraud
chiama "esatto adeguamento": dal livello più basso
(cioè dai Comuni) si arriva all Europa passando attraverso
le Regioni (non concepite in quanto strutture del decentramento
statale, ma in quanto realtà territoriali) e fino alle
Nazioni, senza intervento dello Stato che - di fatto - non deve
più esistere.
Inevitabilmente la difficoltà a concretizzare questa
teorizzazione comporta un blocco politico: fino a quando la forma
dello Stato sussiste, è inevitabile che le Nazioni senza
Stato possano e/o debbano pensare che costruire un proprio Stato
sia la soluzione ottimale, prima e indipendentemente da qualsiasi
altro ragionamento: l'indipendentismo diventa, così, una
semplificazione della rivendicazione della "libertà",
considerando che tutto il resto non sarebbe altro che ostacoli
frapposti al suo esercizio ed al suo godimento.
Il moltiplicatore entra in funzione, quindi, solo quando il
problema della sovranità sia chiarito e definito
affermando che l'esistenza degli Stati va superata, anche se
poterlo decidere bisogna essere degli Stati.
Argomenti contro il micronazionalismo etnico
Articolo di Roberto MANCINI pubblicato sul numero 20 di
"Informazione" (2a quindicina, novembre 1999), organo valdostano
del MAV (Movimento Verde Alternativo).
Il problema politico fondamentale per chi non abbia rinnegato
completamente il marxismo è quello di ricordare il vecchio
Karl Marx di Treviri applicando creativamente le parti non
caduche del suo pensiero. Cosa significa ad esempio
l'affermazione secondo cui "la storia si manifesta prima in
tragedia e poi si ripete in commedia"?
Il razzismo riciclato del dopoguerra
Il pensiero razzista europeo non è morto nel 1945, quando
sono stati sconfitti gli stati guidati dai partiti fascista e
nazista. Il razzismo è sopravissuto alla sconfitta di
Hitler e Mussolini e si è riciclato, presentandosi in
forme storicamente nuove e differenti. Ecco il significato
dell'affermazione di Marx: ricercare i neo-razzisti moderni
pensando che essi si aggirino nella società come un tempo,
vestiti in orbace e con la svastica al braccio, è
ingenuità incredibile. Se questo è l'approccio
della Sinistra valdostana al problema, si tratta di un
atteggiamento dilettantesco, frutto di ritardo intellettuale e
culturale,
Come riconoscere dunque i neo-razzisti contemporanei? Come
snidarli? Come individuarli non in Alabama o in Ucraina ma qui,
sotto i camuffamenti che adottano a Introd oppure ad Arnaz, o a
Jovençan (tre Comuni della Valle d'Aosta, ndc) memori del
vecchio proverbio norvegese secondo cui "se ognuno pulisce il
marciapiede davanti casa sua, la città è
pulita"?
Le teorie etnoculturali del pensiero "völkisch"
Un utile criterio può essere la conoscenza del pensiero
völkisch, che si sviluppò nelle università
tedesche tra gli anni 20 e 30, confluendo successivamente nel
nazismo, La teoria "völkisch", termine che in italiano si
traduce in "etnoculturale", sostiene la prevalenza di una
concezione della cittadinanza che contrappone "das völk" a
"the people", e fa sì che in Germania si sia applicato (e
si applichi tuttora!) lo "jus sanguinis", il diritto del sangue:
cittadino tedesco è solo chi discende da genitori
tedeschi, parla tedesco e propaga la cultura tedesca.
Un lavoratore turco che lavora da 30 anni alla Mercedes non
sarà mai un cittadino germanico a pieno diritto, dal
momento che conserva le sue racines, la sua cultura turca, la sua
lingua. Al massimo sarà un ospite (gastarbaiter, ossia
lavoratore ospite) oppure un "tedesco d'adozione", come si usa
dire in VDA, suggerendo così l'idea che "chez nous"
giungano dall'Italia e dal mondo solo trovatelli, orfani o figli
di ballerine di malaffare. Ricordate il consiglio comunale di
Saint-Christophe (Comune della Valle d'Aosta, ndc) che nega la
commemorazione di Falcone? Al povero giudice italiano venne
negata la cittadinanza in omaggio allo ius sanguinis, non era
figlio di valdostani e nemmeno "valdostano di adozione"!
La reciprocità del diritto di cittadinanza
La notazione interessante è la seguente:
l'etnonazionalismo culturale del neo-razzismo non conosce la
reciprocità dei diritti, per cui concede l'integrazione
solo a chi abiura le proprie origini. Richiede ed alimenta il
culto delle radici, ma nega agli altri la memoria delle proprie.
Propaganda per sé l'orgoglio della nazionalità, lo
vieta agli altri: guai a dichiararsi italiani in VDA! Al massimo
ci si può dichiarare veneti, calabresi, lombardi,
piemontesi., ma italiani mai! In soldoni: il diritto di
cittadinanza, nelle repubblichine etniche, spetta solo a chi nega
la propria nazionalità statuale.
The people significa invece "ius soli", diritto del suolo: la
cittadinanza si acquisisce semplicemente risiedendo in un posto,
e questa è la concezione tipica dello stato nazionale
multietnico nato dalla Rivoluzione Francese. Secondo Bruno
Luverà, " un valido indicatore per riconoscere i movimenti
regionalisti etno-nazionalisti è fornito dal neo-razzismo
differenzialista. L'importanza del fattore territoriale,
coniugata alla tendenza ad assolutizzare l'identità
collettiva, la difesa del "noi" contrapposto agli "altri"...
caratterizza le teorie etno-nazionaliste in chiave
differenzialista.Il rivendicato diritto alle differenze,
attraverso la sacralizzazione delle diversità, produce
meccanismi di segregazione ed esclusione". Conclusione: "il
neo-razzismo ha mutuato alcune delle argomentazioni democratiche
dell'antirazzismo, ed è proprio in nome del diritto alla
differenza culturale o del diritto all'identità etnica che
attualmente il nazionalismo xenofobo si manifesta e si
legittima".
Insomma la modernizzazione del razzismo avviene spostandosi dalla
biologia (razza) alla cultura (etnia), assolutizzando il "diritto
alla differenza" o sacralizzando " l'elogio delle differenze".
Non più affermazioni tipo "i negri sono scemi e puzzano",
ma razzismo soft, contemporaneo e moderno: "i bianchi profumano a
causa della loro storia e cultura".
Il micronazionalismo, una visione irrigidita e bloccata
dell'identità
Secondo Claudio Magris, anziché di etnofederalismo
è più opportuno parlare di micro-nazionalismo,
poiché "esso implica una visione irrigidita, bloccata
dell'identità, mentre essa è qualcosa di mobile, di
fluido, che va costruito, smontato e ricostruito di continuo".
Ancora Magris: "il micro- nazionalismo esiste......laddove
l'ossessione della propria identità diventa predominante
ed assorbe in misura esorbitante le energie individuali,
immiserendo ed immeschinendo le persone in questa preoccupazione
unilaterale".
La teoria volkisch insomma pone un'enfasi speciale sulla
supremazia della nazione rispetto all'individuo, accentua la
radicata convinzione che razze, nazioni e tribù siano le
categorie umane fondamentali, rifiuta il concetto che le
popolazioni siano flessibili e mutevoli, senza correlazione fra
caratteristiche fisiche e culturali. Da qui nasce la disinvoltura
culturale con cui il fascismo, in omaggio al "continuismo" della
storia, dichiarava le camicie nere dirette discendenti della X
legione di Cesare, ed i soldatini analfabeti di Puglia eredi dei
pretoriani di Augusto. Metodo analogo usano Lino Colliard e
Roberto Nicco, alfieri del continuismo valdostano.
Allievo delle teorie volkisch, avendo studiato in Germania negli
anni 20, fu Hendrix Frensch Verwoerd, primo ministro del
Sudafrica dal 1958 al 1966 e ministro degli affari indigeni dal
1950 al 1958, che introdusse nello statuto del suo Paese la
parola apartheid, o "sviluppo separato". Secondo costui
"nell'attuale contesto sudafricano i bianchi... hanno la missione
di preservare la loro specificità, la loro cultura, la
loro storia, la loro identità".
Le analogie di pensiero tra nuova Destra völkisch e
federalismo etnico
Sempre secondo Bruno Luverà "tra il pensiero del
federalismo etnico e quello della nuova Destra völkisch si
possono individuare le seguenti idee-guida, assolutamente
parallele:
a) il federalismo basato sul criterio etnico quale elemento
costitutivo di un nuovo ordine europeo ("L'Europa delle
regioni"), in cui alla disintegrazione degli Stati nazionali
etnicamente eterogenei corrisponda la nascita di una federazione
di Stati regionali ("pays d'état") etnicamente omogenei;
il federalismo quale forma istituzionale che consenta l'esercizio
del diritto all'autodeterminazione.
b) La richiesta di una nuova mappa politica dell'Europa, con la
modifica degli odierni confini, considerati artificiali; la
revisione dei confini (magari mascherata da euro-regione del
Monte Bianco! ndr ) si configura come esplicito obbiettivo
politico.
c) La priorità assegnata ai diritti collettivi, di gruppo,
("I diritti del popolo valdostano nei secoli"! ndr) rispetto ai
diritti fondamentali dell'individuo; l'avversione verso
l'universalismo.
d) Il rigetto della società multiculturale, considerata
fonte di conflitti interetnici, la teorizzazione di forme di
razzismo differenzialista.
e) L'esaltazione di comunità naturali e omogenee ("i
popoli di montagna", ndr) contrapposte all'idea di nazione nata
dalla rivoluzione francese.
f) La relativizzazione della democrazia liberale, che necessita
di correttivi etnici.Un esempio recente di tali correttivi? La
nefanda e felicemente abortita legge Cottino, Fiou, Martin
(Consiglieri regionali valdostani) sul referendum dichiarava, al
terzo comma dell'articolo 1, "non essere soggette a referendum...
le leggi e disposizioni che riguardino la tutela di una
minoranza" e al quarto comma "le leggi di organizzazione interna
del Consiglio Regionale". Così ogni materia (
dall'indennità dei consiglieri alla produzione dei
campanacci) sarebbe divenuta "blindata" in quanto attinente alla
"difesa di una minoranza etnica".
Conclusioni: la Sinistra impotente contro gli "estremisti di
centro"
Il concetto di "estremismo di centro" è stato riproposto
dallo storico Giovanni de Luna per analizzare l'azione della Lega
Nord, i cui princìpi e la cui tattica non hanno trovato
spazio politico in VDA, per la semplice ragione che esso era
occupato dall'UV.
Estremista di centro è colui...." che è stato
capace di trasformare gli interessi in valori". Nota
Luverà che "questi interessi diventano valori importanti
nella misura in cui devono essere difesi contro gli altri. Con
una forte aggressività. Con accanimento. Proprio
osservando questa aggressività possiamo individuare il
connotato più significativo di questo estremismo: una
concezione perennemente conflittuale della politica". Non sembra
il ritratto della VDA, regione ricchissima che si lagna di
"genocidio culturale" dichiarandosi perennemente minacciata dal
"risorgente centralismo dello Stato"? D'altra parte l'espressione
in questione indica anche la capacità di diffusione e di
sconfinamento nel centro politico da parte delle tesi della nuova
Destra, fenomeno evidentissimo in VDA dove almeno 30 consiglieri
su 35 si definiscono "centristi", pur ispirandosi ( o adeguandosi
per inconsapevole opportunismo) alle teorie del separatismo
etnico.
I pericoli della rimozione storica
La Sinistra valdostana è squassata da un temibile
problema: fino a quando non cancellerà le censure e le
rimozioni storiche del primo dopoguerra, non riuscirà a
capire ciò che succede in VDA. Già in campo
nazionale si è visto come la Resistenza, per comprensibili
esigenze collegate alla Guerra Fredda, per anni sia stata
presentata solo come guerra di liberazione nazionale. C'è
voluto, nei primi anni 80, oltre ad un più generale
processo di distensione, il coraggio di uno storico quale Claudio
Pavone per delineare gli altri due aspetti della lotta armata: la
guerra civile e quella di classe.
Solo queste due altre chiavi di lettura consentono di capire
pienamente il fenomeno Resistenza, che non si esaurì nel
solo moto contro l'occupazione straniera.
L'omertosa Sinistra valdostana mantiene il più rigoroso
silenzio sul triennio 1943-46, quando forze secessioniste
foraggiate dalla Francia gollista tentarono il colpo
dell'annessione a Parigi. Già allora parte del fenomeno
non era giustificato dalla sacrosanta avversione al Fascismo (che
peraltro aveva seminato maggiori lutti e rovine in altre regioni
d'Italia), ma dal semplice calcolo opportunistico di schierarsi
con i vincitori della guerra. L'operazione consentiva un duplice
risultato: dare voce al tradizionale sentimento xenofobo del
localismo etnico e contemporaneamente ricreare una
verginità politica alla VDA, sopravvalutandone la
partecipazione alla Resistenza., Al Fascismo veniva così
attribuita la caratteristica di un movimento "italiano" di
importazione, estraneo alla società valdostana che vi si
sarebbe mantenuta estranea.. Si tratta di una evidente menzogna
razzista, facilmente smentibile dalla sola pubblicazione dei
nominativi dei podestà di Aosta, quasi tutti valdotains
doc.
In questo contesto storico di partenza si colloca l'ultimo
ventennio, in cui la VDA diviene il laboratorio privilegiato
dell'applicazione delle teorie separatiste espresse dalla nuova
Destra europea. Una cosa sono le regioni negli stati, un'altra le
regioni contro gli stati., E se la chiave di lettura della
recente storia politica di Deffeyes'square (il riferimento
ironico è al Palazzo della Amministrazione regionale della
Valle d'Aosta, sito in Piazza Deffeyes, ndc) fosse quella di una
minuziosa, intelligente, accurata guerra etnica combattuta con
armi soft contro gli italiani e contro la Repubblica? E se noi
italiani, per ignoranza e per opportunismo, non ce ne fossimo
nemmeno accorti?
L'internazionale etnonazionalista, sigle e uomini della
secessione leggera.
Intereg: (Internationales Institut fur Nationalitatenrecht und
Regionalismus, ossia Istituto Internazionale per il diritto dei
gruppi etnici e il regionalismo). Finanziato attraverso la
Bayerische Landeszentrale fur Politische Bildungsarbeit (ente
centrale bavarese di istruzione politica), fino alla sua
scomparsa è sostenuto caldamente da Franz Joseph Strauss.
Nella dichiarazione istitutiva dell'Intereg si precisa
l'obbiettivo di una " relativizzazione degli stati nazionali", al
fine di conseguire "l'affermazione di un diritto dei gruppi
etnici e dei princìpi dell'autodeterminazione e
dell'autonoma stabilità delle regioni".
BdV: (Bund der Vertriebenen), è l'associazione regionale
dei tedeschi espulsi dopo il 1945 dai territori orientali del
Terzo Reich.
Intereg nasce grazie al land della Baviera e su iniziativa dei
profughi dei Sudeti, la regione popolata da tedeschi grazie a cui
Hitler invase la Cecoslovacchia. Il BdV non riconosce gli attuali
confini della Germania
SL: (Sudetendeutsche Landsmannschaft), è la lega dei
profughi dei Sudeti.
Fuev: (Foderalistiche Union Europaischer Volksgruppen), Unione
federalista delle comunità etniche in Europa. Per gruppo
etnico, secondo la Fuev, si intende una comunità che si
definisce "attraverso caratteri che vuole mantenere come la
propria lingua, cultura e storia".
Nel 1961 il Ministero degli esteri di Bonn attribuiva a questa
organizzazione "l'intento di alimentare artificialmente questioni
delle minoranze lì dove non erano presenti, al fine di
provocare disordini". Dopo la caduta del muro di Berlino e
dell'Urss, tre milioni di cittadini di origine tedesca sono
presenti negli stati post sovietici, per cui Bonn, dopo il 1989,
ha iniziato a finanziare la Fuev.
VdA: ( Verein fur das Deutschum in Ausland), associazione per la
germanità all'estero
Alain de Benoist: è il massimo teorico del razzismo
differenzialista.
Guy Héraud: coeditore di Europa Ethnica, organo ufficiale
della Fuev e di Intereg, figura nel comitè de patronage
della "Nouvelle Ecole, la rivista della nuova Destra francese.E'
il padre del federalismo etnico (pudicamente chiamato
"integrale") , la dottrina istituzionale che presenta le "piccole
patrie", nate dalla secessione dallo Stato nazionale multietnico,
come l'estremo bastione contro la globalizzazione. Si tratta di
comunità locali in cui la gente si sente protetta da
vincoli di omogeneità innanzitutto culturali e
linguistici, appunto perché secondo Héraud l'etnia
è definita in base alla lingua, criterio principale e
giustificazione della nazione. A più riprese ha insegnato
in VDA durante i corsi estivi del "Centre d'Etudes
Federalistes".
Ma l'Italia esiste?
"Ma questo Paese, oggi così incerto di sè, non
è nato con Cavour e Garibaldi. C'era già prima, e
da tempo immemorabile, dato che lo si vede correre, con una sua
precisa fisionomia, sugli accidentati percorsi della storia da
almeno 2500 anni. Ci doveva essere, eccome, nel Duecento, se ha
unificato la lingua (letteraria, certo, come tutte le altre) ben
sette secoli prima della sua unificazione politica,
amministrativa e militare: evento unico nella storia
d'Europa."
Saverio Vertone. Prefazione a" Il carroccio tradito" di Enzo
Carnazza, Edizione Bietti. Milano 1998.
"E' presente ... una cattiva tendenza a creare unità
più piccole, che si vorrebbero omogenee ... La peggiore
delle prospettive è la cosiddetta Europa delle Regioni, in
cui unità nazionali omogenee - e quindi intolleranti - si
uniscono con una formazione sovranazionale retorica e
debole".
Ralf Dahrendorf
(Risposta inedita)
Agli "argomenti contro" proposti sul numero 20 di "Informazione"
(2a quindicina, novembre 1999), contrappongo questi "argomenti a
favore", non tanto perché io ritenga che le argomentazioni
di Roberto Mancini, autore delle due pagine in questione, siano
del tutto errate, ma perché egli mescola considerazioni
culturali oggettivamente valide e strumentalizzazioni passionali
delle stesse. E soprattutto perché in queste ultime
settimane intorno alla questione del micronazionalismo austriaco
è stato sollevato un dibattito deviante e bugiardo. Tanto
per sgombrare subito il campo da ogni possibile sospetto circa la
possibilità che anche miei intendimenti vogliano essere -
come i suoi - strumentali, dico subito che riconosco la
precisione ed il rigore dell'analisi che caratterizza
abitualmente gli scritti di Roberto Mancini (è la scuola
marxista che porta a questi risultati?); proprio per questa
ragione, però, stigmatizzo le imperfezioni del suo lungo
articolo "contro", frutto non di un'incapacità di
documentarsi correttamente, ma del gioco scorretto che gli fa
scegliere referenti e riferimenti culturali chiaramente
faziosi.
I libri che Mancini cita e da cui attinge a piene mani, sono
quanto di più nazionalista sia stato scritto in questi
ultimi anni; questo non mi scandalizza affatto, quindi non
criminalizzo gli autori, perché anch'essi - come tutti -
hanno diritto alle loro opinioni; mi infastidisce, però,
che si tenti di presentare opinioni ed idee come verità
oggettive e scientifiche.
Il loro nazionalismo che, per intenderci, chiamerò qui di
seguito "macronazionalismo", nasce come inevitabile risposta ai
successi del "micronazionalismo" che ha messo in crisi la cultura
dominante, ne ha evidenziato l'inadeguatezza. E il
"micronazionalismo", a sua volta, è nato per rispondere
agli eccessi del macronazionalismo. L'uovo e la gallina ... Il
vero problema, a mio avviso, è che restano inspiegabili le
ragioni per le quali alcune Nazioni hanno il loro Stato, altre
Nazioni no e - addirittura - ci sono Stati che o non hanno
nessuna identità nazionale o, al proprio interno, ne hanno
più di una.
Indipendentemente da come si reggono questi Stati, quale è
la fonte e quale è il diritto che consente tutto
ciò? Se sono le ragioni della storia a prevalere, allora
dobbiamo osservare che la storia non é finita e che,
quindi, ciascun micro o macronazionalismo può ritenere (a
torto o a ragione non importa, la storia non si fa problemi etici
o di giustizia e verità assolute) di aver diritto ad
assumere una propria forma istituzionale e a vederla riconosciuta
nel contesto internazionale. Se sono le ragioni
dell'identità a prevalere, allora è ancor
maggiormente inevitabile che chi ha o crede di avere
un'identità, possa ritenere che ciò gli dia dei
diritti, ad esempio quello ad accedere alla autodeterminazione
politica.
Purtroppo le ragioni della storia portano a considerare che, se
necessario, la violenza può diventare uno strumento di
liberazione e di affermazione del micro o del macronazionalismo;
le nazioni senza Stato hanno imparato da quelle che uno Stato ce
l'hanno, che il ricorso alla violenza diventa esecrabile soltanto
se non accompagnato dal successo della lotta intrapresa:
storicamente, il terrorismo che determina la nascita di uno Stato
diventata gloriosa epopea di liberazione nazionale, mentre quello
che non approda a nessun risultato resta inaccettabile scelta
sanguinaria.
E le ragioni dell'identità portano a fornire un alibi
culturale e nobile, vero o falso che sia, alla lotta politica che
i micro ed i macronazionalismi portano avanti per tentare di
modificare la storia a loro favore. Personalmente non ho avuto
nessuna difficoltà ad andare ben oltre quanto affermato da
Mancini: mentre egli accusa il micronazionalismo di esser
responsabile, anche in Valle d'Aosta, dei guasti causati da una
"nuova destra" e da una sorta di "estremismo di centro"
valdostano, evidenzio il rischio che il micronazionalismo produca
addirittura quello che ho chiamato "fascismo nazionalitario",
qualcosa di ben diverso e ben più grave delle semplici
strategie politico-amministrative per conquistare spazi di
potere. Il fatto è che il macronazionalismo italiano non
ha messo l'Italia soltanto a rischio di diventare fascista, ma ha
portato il fascismo al potere per oltre un ventennio: inoltre i
prodromi e le conseguenze di tale macronazionalismo e di tale
fascismo hanno pesantemente e negativamente caratterizzato
l'intera storia italiana di questo secolo.
Nelle due pagine di Mancini, quindi, stonano le foto di
D'Annunzio e Corradini (l'articolo di Mancini è stato
pubblicato corredato di foto e cartine geografiche, ndc),
portavoci del macronazionalismo italiano, perché nulla
hanno a che fare con le ragioni addotte dai micronazionalisti;
questi, tutt'al più, se un riferimento possono avere avuto
nella cultura italiana, è stato un riferimento libertario
e l'hanno trovato in Salvemini e in Gramsci, tenaci oppositori
del macronazionalismo e coerenti sostenitori di una diversa
concezione dei diritti dell'identità. Stonano, quindi,
anche le citazioni tratte da Luverà, Dondi e Rumiz: che
siano dei macronazionalisti a smentire le ragioni dei
micronazionalisti non può essere un fatto culturale,
è pura contrapposizione. Potrebbe aver ragione, Mancini,
soltanto quando insinua (ma gli accenni in tal senso sono troppo
deboli ed incerti) che è il nazionalismo ad essere un
fatto negativo in se, nella dimensione micro o macro, nella
prospettiva economica come in quella identitaria. Potrebbe
soltanto, perché - in realtà - il senso di
appartenenza ed il senso della identità collettiva, sono
presenze costanti nell'umanità, e solo nella scelta del
tipo di lotta da portare avanti possono diventare negative o
positive. L'esaltazione dei diritti collettivi che Mancini
critica definendoli un assurdo regressismo ed un atteggiamento di
sostanziale rifiuto dei diritti dell'uomo, è patrimonio
della sinistra che lottò per l'emancipazione degli
oppressi descrivendo, nella "Carta di Algeri", i diritti dei
popoli: era la sinistra di Lelio Basso.
L'affermazione dei diritti collettivi è patrimonio di
un'altra sinistra che lottò per la liberazione del terzo
mondo descrivendo ne "I dannati della terra" un nuovo sogno
libertario: era la sinistra di Franz Fanon. L'affermazione dei
diritti collettivi è patrimonio di un'altra sinistra
ancora, quella che nella "Dichiarazione Universale dei diritti
collettivi dei Popoli" esprime l'esigenza di costruire un'Europa
ancorata a valori sociali e socialisti: è la sinistra
Gallega, Basca, Irlandese che, attraverso formazioni politiche
micronazionaliste, rappresenta i diritti dei lavoratori, dei
proletari, dei lavoratori. Al senso di identità ci si
può contrapporre, considerandolo un retaggio
scomodo-inutile e pericoloso del passato e, in nome dell'uomo
nuovo (libero - cioè - da tutti questi retaggi) inventato
dal marxismo, auspicare che nella storia e nella società,
altre e non quelle nazionali siano le aggregazioni solidaristiche
tra i gruppi umani; ma poiché, piaccia oppure no,
quell'uomo nuovo non esiste, la contrapposizione si riduce ad
esser null'altro che contrapposizione.
Nella società moderna e contemporanea la tipologia delle
contrapposizioni più diffusa risulta legata a due diversi
modelli di gestione del potere: il potere lontano e centralistico
e il potere vicino e localistico. Se in questa contrapposizione
evidenziamo la ragioni economiche che caratterizzano i
contendenti, magari l'uno arricchito perché sfruttatore e
l'altro impoverito perché sfruttato, torniamo ad un
problema di contrapposizione di interessi di classe. Se in questa
contrapposizione evidenziamo che i contendenti parlano lingue
diverse ed hanno una storia diversa, torniamo ad una
contrapposizione nazionale. Se le ragioni economiche e quelle
identitarie si propongono contemporaneamente, la contrapposizione
finisce col diventare conflitto, perché è in gioco
la sopravvivenza. Non sono poco i marxisti di grande prestigio
che hanno studiato queste problematiche, giungendo a far propria
la rivendicazione dei diritti delle nazionalità e dei
micronazionalismi, pur collocandola in una visione paradigmatica
incentrata sulla solidarietà tra gli oppressi,
classi-popoli o gruppi sociali che siano.
Ed è proprio dal pensiero di costoro che possiamo trarre
utili considerazioni sul fatto che il micro ed il
macronazionalismo, ispirati da criteri di privilegio, di
vantaggio, di mantenimento di posizioni di superiorità su
altri, o di conquista di tali posizioni, diventano ingiusti ed
ingiustificati. Il micronazionalismo, comunque, non è
necessariamente di destra, così come non è il
macronazionalismo. C'é addirittura il "paradosso Vertone",
citato da Mancini: Saverio Vertone ex comunista, transitato a
Forza Italia, scrive dell'Italia: "c'era ...da tempo
immemorabile, ci doveva essere nel 200 se ha unificato la
lingua..."; paradosso perché ciò che scrive
Vertone, e Mancini approva, non è diverso da ciò
che scrive Héraud, e Mancini stigmatizza; la sola
differenza è che Vertone difende il diritto storico ed
identitario di una nazione che è riuscita a darsi uno
Stato, mentre Héraud difende il diritto storico ed
identitario di Nazioni che non hanno o non hanno più uno
Stato.
Potrebbe aver ragione, Mancini, a questo punto, se riportasse i
termini della contrapposizione ad un problema di confronto
sociale e politico tra destra e sinistra, per contrastare gli
egoismi della prima e ridare respiro ai valori dell'altra.
Potrebbe soltanto, perché dovrebbe fare i conti con il
micronazionalismo di sinistra che, per restare in Italia, ha
avuto nei sardisti, nei friulani, negli occitani personaggi
significativi, con i quali Mancini finirebbe per risultare
contrapposto per via del suo provocatorio e continuo ribadire la
propria italianità. Potrebbe soltanto, perché un
esponente di spicco come Luciano Caveri (Deputato della Valle
d'Aosta, ndc), è addirittura diventato membro del Governo
italiano, un Governo di sinistra-centro, deviando il
micronazionalismo valdostano fino a farne una delle componenti
del macronazionalismo, riproponendo la vecchia formula di
convivenza della "petite" e della "grande Patrie".
Potrebbe soltanto, perché dovrebbe fare i conti con un
documento del 1919, "il comunismo e la Valle d'Aosta" che la
tradizione politica attribuisce a Gramsci e che la sinistra ha
completamente dimenticato anche in questo anno di singolare e
significativo anniversario: Gramsci vi afferma il diritto e
l'importanza della lingua francese in Valle d'Aosta e testimonia
della sensibilità che una parte della sinistra ha sempre
mostrato per il ... micronazionalismo valdostano. In Valle
d'Aosta è successo, così, che i difensori del
micronazionalismo di destra e di centro si sono arroccati ed
hanno costruito un'area monolitica, finendo coll'attirare in
questa anche la sinistra; tutti gli altri o sono rimasti
rappresentanti del macronazionalismo italiano, o sono risultati
incapaci di proporre un modello diverso, essendo tradizionalmente
legati a principi e concezioni sì di sinistra, ma superati
come il vetero internazionalismo che intende la
solidarietà tra i popoli come solidarietà tra gli
Stati costituiti. Personalmente credo che le ragioni della storia
e quelle dell'identità vadano mediate e riformulate
attraverso la pratica di un nuovo diritto internazionale. E credo
che questo diritto internazionale non debba essere applicato a
favore di quelle Regioni per le quali l'egoismo economico
è l'unica connotazione storica-identitaria-politica che
possono addurre: è il caso della Padania.
Molti dei contenuti solidaristici e progressisti cui Mancini fa
riferimento denunciando che mancano completamente nei progetti
del micronazionalismo, sono - in realtà - adeguatamente
considerati nel progetto di "nazione inclusiva" che ambienti
indipendentisti (quindi micronazionalisti) portano avanti in
alternativa all'egoismo regionalista italofilo di una parte
dell'U.V in Valle d'Aosta, della SVP in Sud Tirol, del PsdAz. In
Sardegna. Mancini potrebbe scoprire allora che tra il suo
provocatorio dichiararsi italiano "contro" i valdostani ed il
servilismo valdostano che perpetua volontaristicamente un sistema
di dipendenza dall'Italia, c'è poca differenza: se lui
parlasse e scrivesse in francese, o l'U.V. lo facesse in
italiano, non emergerebbero sostanziali divergenze: tra macro e
micronazionalismo così concepiti c'è un sottile
collegamento, c'è un'incredibile ma reale
complicità: nessuno sopravvive senza l'altro! Preferisco,
quindi, restare in attesa di un Mancini rivoluzionario, capace di
nuovi gesti di generosa rivolta, ad esempio a fianco
dell'indipendentismo e della sua genuinità, per
riconoscere che nel vero continuismo della storia e
dell'identità dei valdostani (non in quello
istituzionalizzato) nessuno è escluso, a patto che non lo
siano per primi i valdostani stessi; credo non sia difficile per
nessuno constatare che nella realtà valdostana debbano
convivere componenti sociali ed etniche diverse (è questa
la società multietnica?), ma che sussista il diritto dei
valdostani di più lunga origine, ad esistere, ad esprimere
la loro cultura, a parlare la loro lingua (a proposito, é
il francoprovenzale!), ad ambire alla assimilazione spontanea e
reciproca con gli immigrati.
In fondo la Valle d'Aosta non potrà mai essere altro che
valdostana anche se la valdostanità crescerà e
cambierà: la Valle d'Aosta non potrà tornare ad
essere Tir Na Mor Arch, la Valle della Grande Orsa di celtica
memoria, ma neppure potrà mai essere un territorio
d'oltremare del Mahgreb, come la Guadalupa e la Martinica lo sono
della Francia. Resta evidente che sussiste una collusione tra
certe organizzazioni del micronazionalismo e la nuova destra
europea, ma anche su questo ci sono alcune cose da precisare;
anzitutto che non si tratta affatto di una novità: in
epoche non lontanissime si verificarono tentativi di coinvolgere
i movimenti micronazionalisti nelle strategie del terrorismo nero
internazionale; questi tentativi furono messi in moto da
nostalgici postcollaborazionisti del nazismo tra i bretoni, i
fiamminghi ed i croati e furono smascherati dai micronazionalisti
di sinistra, impegnati dall'accordo e dalla Carta di Brest a
realizzare un'Europa socialista dei popoli. E resta evidente che
molte delle organizzazioni micronazionaliste di destra o di
centro estremo, si sono collocate nelle diverse organizzazioni
internazionali, ivi compresa la FUEV, contestatissima da Mancini,
il quale dimentica di sottolineare che fu addirittura presieduta
da Severino Caveri (leader storico valdostano, zio dell'attuale
deputato, Luciano, ndc) le quali non hanno davvero il coraggio di
portare avanti un progetto "rivoluzionario"; queste si
riconoscono in quel progetto di "Europa delle Regioni" che, non
si dimentichi, é un progetto gradito agli Stati: se si
farà l'Europa delle Regioni, infatti, consegnando loro
briciole di potere, nessuno contesterà più la
legittimità degli Stati costituiti e nessuno
chiederà più l'autodeterminazione per le Nazioni
senza Stato. Quello stesso Severino Caveri, inoltre, mentre
attuava queste scelte internazionali, governava la Valle d'Aosta
forte di un accordo tra UV e partiti di sinistra, in un periodo
nel quale al PCI era preclusa qualsiasi possibilità di
accedere al potere non solo nazionale, ma anche locale, e nel
quale la Chiesa addirittura scomunicò quanti si resero
complici di una simile alleanza politica.
E, per capirci fino in fondo, tra i micronazionalisti c'è
chi non crede affatto che questa Europa sia un obbligo e che la
si debba fare perché l'ha ordinato il dottore; c'è
chi non crede affatto che la mondializzazione e la
globalizzazione siano inevitabili e siano, invece, il risultato
della dominazione americana su gran parte del mondo, della
affermazione - cioè- di un ipernazionalismo. Propongo, in
conclusione gli estratti di due documenti che corredano questa
mia analisi e sostengono queste mie posizioni dimostrando, ad
esempio, che "la costruzione del paese basco può avvenire
solo con una visione di sinistra" e che "l'ondata di
contestazione radicale degli anni 60 e 70 imprime una improvvisa
svolta a sinistra alle rivendicazioni regionali che a lungo erano
rimaste legate alla destra tradizionale". Sono così
smentite le affermazioni di Mancini secondo le quali la difesa
del micronazionalismo connota l'azione politica ed il pensiero
della nuova destra.
L'offensive que le Capital a lancé contre le travail
est telle que des droits fondamentaux obtenus par les
travailleurs, après des années de lutte, sont remis
en cause. Le droit à un emploi et à une vie digne
sont reconnus pour tous les citoyens comme des
éléments de base pour que toute personne puisse
s'intégrer dans une société. Pourtant la
triste réalité nous démontre que même
si l'économie croît à un rythme important et
que beaucoup d'entreprises et de banques obtiennent des
bénéfices toujours croissants, les poches des
pauvreté augmentent et le chômage se maintient de
façon structurelle à des niveau importants. Par
ailleurs, la précarité dans le travail augmente de
façon alarmante, les entreprises de travail temporaire en
font leur choux gras et des secteurs entiers de la population
comme la jeunesse, les femmes ou les handicapés subissent
les conséquences de cette situation.
Il existe aujourd'hui au Pays Basque assez de richesse pour que
tous les citoyens puissent vivre dignement, malheuresement cette
richesse est mal repartie. Le patronat et l'administration ont
refusé ces dernières années de faire le
nécessaire pour résoudre le chômage et
l'exclusion sociale en réduisant par exemple la semaine de
travail à 35 heures et à établir un salaire
social. Le syndacalisme basque ... a appelé à la
lutte générale pour faire avancer cette
revendication.
Si les organisations syndicales ont été le fer de
lance de cette grève, les forces politiques et autres
mouvements sociaux qui souhaitons construire un Pays Basque plus
juste et solidaire avons pris part à la mobilisation...
Il a étè mis en évidence que le processus
politique qui démarre avec l'Accord de Lizarra-Garazi ...
se base sur la nécessité de construire une
sociétè intégrée pour tous les
citoyens basques à partir des valeurs de la gauche... La
rupture du blocage informatif entre les pays,
l'internationalisation des conflits, la coopération entre
les organisation en lutte pour la liberté de leur pays, la
coordination de l'Internationalisme Solidaire pour former un
front mondial de luttes dignes et justes contre la globalisation
capitaliste, gênent le système. C'est pour cela
qu'il réagit par la répression ...
Nous pouvons aujourd'hui affirmer avec fierté que nous
avons été et que nous continuons de l'être un
des pays les plus solidaires et internationalistes... Celà
répond à la nouvelle conception de la
solidarité basque avec les peuples du monde et aussi des
autre peuples du monde avec le Pays Basque.
Euskal Herria
Stato e nazione: verso il divorzio?
Lo Stato nazionale sembrava ormai un dato acquisito, storicamente
irreversibile. Eppure oggi è in crisi e proprio in quei
paesi in cui sembrava aver le radici più profonde. In
Europa sono ormai molte le popolazioni minoritarie fra cui si
assiste ad un risveglio di identità, cui si accompagna
spesso la contestazione dei tradizionali apparati statali ...
Secondo queste popolazioni va data priorità
all'affermazione della loro identità collettiva che ha
come elemento essenziale la lingua, anche nel caso in cui questa
sia parlata solo da una minoranza della minoranza ...
Questa identità collettiva è inoltre cementata da
un vivissimo senso del passato ... L'evoluzione dell'Europa
moderna si è rivelata spesso per questi popoli una
minaccia mortale. E' stata brutalmente erosa la loro base
economica ... la corsa alla risorse naturali ha accentuato ancor
più questo effetto negativo ... Il declino delle varie
lingue è stato radicale ... Negli anni 60 e 70 si è
avuto un improvviso rovesciamento di questa tendenza negativa. Le
lotte di liberazione del terzo mondo, dal Vietnam alla Guinea
Bissau, da Cuba alla Palestina, affermavano in modo dirompente la
capacità di resistenza dei popoli dominati e la loro eco
risuonava anche nella vecchia Europa ...
I fatti del maggio '68 sono stati l'espressione spettacolare di
nuove idee e di nuove sensibilità... L'ondata di
contestazione radicale imprime un'improvvisa svolta a sinistra
alle rivendicazioni regionali che erano rimaste legate alla
destra tradizionale. Oggi dopo alterne vicende ci sono filoni del
pensiero di orientamento socialista che ritengono di difendersi
contro l'egemonia capitalistica mediante un rafforzamento dello
Stato; altre, invece, mettono sotto accusa direttamente lo Stato
nazionale in quanto struttura di massificazione ...
Mentre la crisi dell'Europa orientale ha posto l'accento sui
diritti individuali, dei dissidenti prima, dei cittadini poi, le
dissidenze regionali dell'Europa Occidentale portano avanti, in
primo luogo, una lotta per i diritti collettivi.
Jean Chesnaux
I PERCORSI DI UN INDIPENDENTISMO SOSTENIBILE
Documento presentato alla Conferenza delle Nazioni senza Stato
(gennaio 2000, Barcelona)
La cultura dell'Autonomia come cultura della minorizzazione e
della dipendenza
Nel corso dei 50 ultimi anni di storia vissuti in regime di
dipendenza dalla Stato italiano, le nazionalità non hanno
saputo produrre altra cultura politica che quella più
congeniale al miglior funzionamento dello Stato, la cultura
dell'autonomia amministrativa: lo Stato funziona meglio quando
è amministrativamente decentrato e consente la
sopravvivenza di istituzioni locali più vicine ai
cittadini di quelle centrali che pur continuano a detenere e ad
esercitare il vero potere; lo Stato, inoltre, è governato
con più libertà di manovra per i detentori del
potere, se le tensioni sociali che potrebbero prodursi al suo
interno, sono sopite, controllate, gestite con forme di
autogoverno locale più o meno ampie, concesse e permesse
ad istituzioni attraverso le quali lo Stato continua ad
amministrare il "suo" territorio.
La "specialità"
Lo Stato italiano rispetto alle nazionalità comprese e
compresse nel suo territorio, ha agito ancor più
subdolamente: il decentramento e l'autonomia hanno avuto una
connotazione "speciale" ed una connotazione "ordinaria"; il
trattamento "speciale" equivale al riconoscimento dell'esistenza
di una situazione pericolosa per lo Stato e, per questo,
opportunamente imbrigliata: ci sono - cioè - in Italia
nazionalità che, senza forme di decentramento e di
autonomia "speciali", potrebbero legittimamente affermare che i
loro diritti sono violati e che, senza autogoverno, potrebbero
considerare del tutto ingiustificata la loro collocazione
all'interno de confini dello Stato italiano e sotto la sua
sovranità.
Il soffocamento delle questioni nazionalitarie
Il sistema della "specialità" ha apportato un certo
benessere ed una qualche ricchezza ad alcune nazionalità
che hanno ottenuto un riconoscimento statutario e sono - oggi -
delle Regioni Autonome a Statuto Speciale, ma è valida per
tutte le nazionalità una considerazione espressa nel 1948
dai più accesi sostenitori della "question
valdôtaine": il sistema delle autonomie speciali ha portato
alla "endroumia", ha - cioè - addormentato e sopito le
tensioni, proprio come lo Stato desiderava.
Per essere più italiani
Le forze politiche nazionalitarie hanno amministrato le loro
Regioni esattamente come lo Stato voleva facessero; il fatto che
negli ultimi tempi queste stesse forze politiche abbiano
sottoscritto alleanze politico-elettorali organiche con partiti
italiani, dove militano esponenti della partitocrazia che governa
da 60 anni un'Italia centralista, significa che l'assimilazione
alla logica politica italiana si è davvero
completata.
Piccole patrie per rispettare un "equivoco" storico
Questo perverso legame con l'Italia, del resto, ha avuto un
precedente ideologico nella considerazione delle
nazionalità come "piccole patrie" all'interno della
"grande patria", l'Italia. L'equivoco ha avuto un peso
particolare poiché l'oppressione subita dalle
nazionalità da parte del nazionalismo fascista, ha portato
a considerare che ogni nazionalismo è negativo, mentre
sarebbe positivo il "patriottismo" interno ad un sistema
democratico Stato-nazionale.
Dipendenza psicologica
La questione nazionalitaria si è arenata a causa della
incapacità o della impossibilità per le
nazionalità, di uscire da una logica di dipendenza
psicologica, prima ancora che politica ed istituzionale; quella
stessa incapacità che ha determinato l'accettazione della
autonomia e della specialità come progetti ultimi e non
come punti di partenza verso la conquista di una sovranità
vera e propria.
Il processo di liberazione nazionale delle
nazionalità
Il processo di liberazione di cui le nazionalità hanno
bisogno diventa, quindi, prima di tutto un processo di
liberazione da se stesse, dalle stratificazioni di una cultura
della dipendenza che si sono sovrapposte sul loro stesso tessuto
culturale e sociale.
La consapevolezza dell'identità collettiva
Questo processo di liberazione deve essere, quindi, precedente a
qualsivoglia strategia volta a proporre e rendere possibile
l'esercizio del diritto alla autodeterminazione e, quindi,
l'indipendenza e/o la costituzione di un proprio Stato. E' un
processo difficile poiché non mira a restaurare un
presunto passato bucolico ed armonioso, ma punta ad affermare una
consapevolezza: all'esercizio del diritto alla autodeterminazione
si può giungere solo riaffermando il dovere di preservare,
insieme all'uomo, il suo rapporto con il territorio nel quale
egli, insediato da secoli o giunto da poco (quindi autoctono o
immigrato), può continuare ad essere valdostano, sardo,
friulano, occitano, sudtirolese, ladino, ecc. Ben al di
là, quindi, di una concezione del popolo come etnia e
della etnia come razza!
Le certezze della lingua
Le parole delle apparentemente povere lingue delle
nazionalità, non sono parole vane ed equivoche: ad ogni
termine corrisponde qualcosa di preciso, di specifico, di
indiscutibile; ed anche i concetti, le idee, l'elaborazione
poetica e quella culturale che solo apparentemente non sono
producibili nelle lingue delle nazionalità" (perché
si ritiene siano soltanto delle parlate incapaci di andare al di
là delle espressioni legate alla cultura materiale),
corrispondono sempre ad un dato reale.
Il progresso come spoliazione o come valorizzazione
dell'identità?
Lo scontro che ha visto le nazionalità perdenti dal punto
di vista politico, è stato lo scontro con il progresso? E'
stata l'industrializzazione, è stato il turismo, sono
stati i media a mettere in crisi l'identità delle
nazionalità? L'identità collettiva delle
nazionalità è entrata in crisi per un'intrinseca
arretratezza e per la conseguente incapacità di assorbire
il nuovo, uomo o tecnologia o idea che fossero? La salvezza
dell'identità sta nel suo vivere in se stessa e di se
stessa, chiusa al mondo, impenetrabile, imperscrutabile nel suo
conservare caratteristiche ataviche al limite del
tribalismo?
L'humus dell'identità
Non abbiamo mai saputo davvero evidenziare il fatto che la
dimensione del rapporto con il proprio territorio è stata
l'humus dell'identità e della lingua delle
nazionalità: quindi non il progresso ha sottomesso le
nazionalità, ma il progresso concepito come sviluppo
culturale che non le riguardava. Questa è stata la logica
di chi ha voluto sfruttare le ricchezze delle nazionalità,
sottomettendole; questa è stata la logica delle
nazionalità stesse che non sono state sempre capaci di
opporsi davvero allo sfruttamento che subivano. Quando le
nazionalità perdono la loro capacità di
autoaffermazione perdono parte della loro anima. Quando le
nazionalità non sanno difendere il loro territorio,
perdono parte della loro identità. Quando le
nazionalità perdono la loro lingua, perdono l'unico modo
per potersi rapportare al proprio territorio in modo
autentico.
Le altre culture autoctone
Non è sciocco proporre riguardo alle nazionalità
dello Stato italiano ed alle nazionalità europee,
osservazioni analoghe a quelle che oggi vengono fatte nei
confronti dei Pellerossa degli States, degli Aborigeni
dell'Australia, ecc.
I pericoli della new age
Oggi le culture autoctone, infatti, sono tutte oggetto di grande
attenzione da parte dei fautori della cosiddetta new age che
altro non è se non un sincretismo religioso e culturale.
Le culture dominanti hanno ormai esaurito i valori/disvalori con
i quali hanno giustificato la loro assunzione di potere e la
costruzione di un sistema mondiale basato sul rapporto tra
dominio e minoranza che è risultato loro favorevole. Nel
momento in cui i fenomeni economici, sociali e politici paiono
assumere una dimensione mondiale (e da qui la mondializzazione),
la new age costruisce una cultura universale, apparentemente
buona per tutte le stagioni e per tutti gli angoli del
mondo.
Un altro mondo è possibile
Con l'affermazione della new age non solo si crea una nuova
cultura, ma si cancella l'autenticità delle ultime culture
autoctone sopravvissute. Le culture autoctone paiono
rappresentare l'antitesi della mondializzazione, poiché
prefigurano la possibilità di una concezione diversa del
mondo e di un diverso rapporto fra uomo e territorio, tra uomo e
natura, rispetto a quelli che - invece - si affermano come
prodotto di una civiltà che ha generato i genocidi, il
rischio atomico, l'alterazione degli equilibri ecologici, ecc. La
sacralità con cui il rapporto con la terra è
vissuto dalle popolazioni autoctone, è un qualcosa di
sconosciuto alle culture dominanti, tutte improntate
sull'ipersfruttamento delle risorse, culture che mirano oggi ad
impossessarsi di riti, credenze, usi, costumi, abitudini,
riciclandoli a proprio uso e consumo, ottenendo due risultati:
darsi un contenuto e far morire la prova che un'altra concezione
del mondo è possibile.
Il rifiuto della mondializzazione
Come nazionalitari, dobbiamo convincerci di essere depositari di
una visione del mondo diversa da quella che ha prodotto la
mondializzazione; ancora una volta non perché il progresso
ci debba allarmare, ma perché una certa concezione
dell'uomo lo disumanizza: l'uomo delle culture dominanti non ha
più risorse culturali, nel senso che ha perduto, sposando
una concezione economica dello sviluppo inteso come sfruttamento
delle risorse e degli altri uomini, la percezione del mito, della
continuità della storia, della possibilità di una
miglior utilizzazione non speculativa delle risorse che la terra
ci fornisce.
La concezione dinamica della vita
Senza questa concezione "dinamica" della vita, l'uomo
continuerà a giustificare ogni nuova guerra come se fosse
l'ultima, mentre invece dovrebbe redistribuire la ricchezza in
tutto il mondo e costruire un vero diritto internazionale che
metta fine alla possibilità stessa dei conflitti. Solo con
una concezione identitaria della vita (nel senso che l'uomo
può vivere davvero soltanto se vive in una comunità
in cui si riconosce, e nel senso che solo possedendo ed essendo
partecipe di una identità collettiva può
comprendere e rispettare le identità altrui) l'uomo non
avrà bisogno di partire alla ricerca di una new age:
l'umanità è - originariamente - una soltanto sulla
terra e se di differenziazioni culturali ha avuto bisogno per
vivere ai quattro diversi angoli del mondo, vuol dire che la
diversità è una caratteristica imprescindibile
affinché l'uomo possa continuare a vivere in qualunque
angolo della terra ed in tutti. Il "popolo mondo" di cui si parla
in questi tempi è il popolo della unità nella
diversità.
La concezione dinamica dell'identità
Se nel suo territorio l'uomo delle nazionalità ha potuto
vivere e vive da millenni, noi nazionalitari di oggi siamo
chiamati ad esser testimoni di come nel corso dei secoli, anche
quando le nostre nazionalità sono state dominate, anche
quando non siamo stati liberi, abbiamo - almeno in parte -
conservato la nostra identità; la concezione dinamica
della storia comporta il rendersi conto che nulla nella storia
è definitivo e che l'identità collettiva dei popoli
o vive o sopravvive oppure scompare, come scompaiono le specie
animali e le varietà vegetali. Certo anche quando vive o
sopravvive l'identità si trasforma: ciò che
è importante, tuttavia, è che le trasformazioni
siano il frutto di una normale evoluzione storica e non la
risultante di una dipendenza; ciò che è importante
è rendersi conto che quando una identità scompare,
le cause non sono mai naturali, ma indotte da altri uomini.
Il diritto degli Stati poggia sulla logica della
sovranità
Nell'epoca in cui i sistemi politici sono retti dalle logiche
della sovranità su cui poggia il diritto degli Stati, le
nazionalità non possono rinunciare a rivendicare il
diritto alla sovranità sul proprio territorio; e questo
non per una adesione assoluta e teleologica al principio di
sovranità e all'idea di Stato, ma perché altrimenti
è un altro Stato ad esercitare la sua sovranità sul
loro territorio.
I mutamenti tecnico-scientifici nuovo strumento di
alienazione?
In condizione di dipendenza, lo abbiamo visto, l'identità
riesce a sopravvivere ugualmente, e le nazionalità sono
sopravvissute fino ad oggi. I mutamenti in atto per effetto della
mondializzazione sono, però, più rapidi e
più profondi di qualsiasi altro mutamento prodottosi nei
secoli precedenti: noi non possiamo essere certi che questi
mutamenti ci portino davvero da qualche parte e, soprattutto, non
si capisce per quale ragione debbano portarci fuori da noi
stessi.
Una logica distruttiva
Temiamo fortemente che l'umanità stia correndo verso il
baratro della distruzione della natura e della vivibilità
stessa sulla terra; la scienza medica, è in grado di
intervenire su molte delle più gravi malattie che
affliggono l'uomo, ma nessuna scienza risolve la fame ed il
sottosviluppo che sono la malattia della società dello
sviluppo, più interessata a progetti di modificazione
genetica dell'essere umano che solo il nazismo avevo fino ad ora
osato ipotizzare, che a salvare i propri simili dalla fame e
dall'impoverimento.
La sovranità é irrinunciabile
In questo mondo, in questa epoca, quindi, per le
nazionalità l'esercizio della sovranità è
irrinunciabile, la costruzione di un proprio Stato è
irrinunciabile, l'affermazione della propria lingua è
irrinunciabile.
Una azione politica nata da una filosofia della vita
Se tutto ciò basta a spiegare l'esigenza di un movimento
che si faccia portatore di una filosofia della vita stessa,
dobbiamo tornare ad alcune considerazioni iniziali per
evidenziare che le nazionalità dello Stato italiano,
cresciute in condizione di dipendenza, e talora in una dipendenza
dorata (dalla quale - cioè - hanno tratto ricchezza
apparente), hanno perduto gran parte della capacità di
dare alle parole un significato reale.
Liberarsi dalle parole della dipendenza
La potenza di una lingua/espressione, di una cultura materiale
è proprio quella di poter dar concretezza alla
immaterialità, al pensiero, all'idea; parlando di
indipendenza noi dobbiamo liberarci della crosta di "parole" che
si è formata sulle ferite delle battaglie delle singole
nazionalità senza guarirla: autonomia, regionalismo,
federalismo, Europa ed un vocabolario di mille parole della
politica utilizzate quotidianamente, sono prive di significato o,
peggio, significano tutto e il contrario di tutto, riuscendo a
costruire il più perverso dei sistemi della dipendenza, la
dipendenza intellettuale e culturale nel nome
dell'autonomia.
No ai compromessi
Il primo richiamo è, quindi, ad una "liberazione
nazionale" tutta interna alla nostra cultura, alla nostra
politica, alla nostra religiosità, ai nostri sentimenti;
l'obiettivo non è certo quello di vivere un periodo di
ascetismo intellettuale per "purificarci", ma quello di non
accettare alcun compromesso intellettuale, evidenziando che le
parole della autonomia, la cultura della autonomia di cui si
è alimentata la stessa battaglia politica che ci è
stata trasmessa come un valore positivo, sono false e straniere.
In un certo senso dobbiamo prepararci ad un periodo di
clandestinità culturale, ben sapendo che non saremo
capiti, ma - più facilmente - saremo fraintesi.
L'uomo
Ridare il giusto significato alle parole, significa ridare un
significato ai rapporti tra gli uomini: quando si dice che la
parola data è sacra non si fa solo riferimento ad un detto
popolare, ma ad una saggezza popolare. Ridare significato ai
rapporti tra gli uomini significa ricostruire un sistema di vita
"insieme" nel quale, "insieme", è possibile riconoscere
quella "dinamicità" della storia che ci fa affermare -
oggi - il diritto delle nazionalità
all'indipendenza.
I primi passi dell'indipendenza
Se il processo di indipendenza parte, quindi, da una particolare
dinamica di "liberazione nazionale", vissuta tutta al nostro
interno, come sorta di resettazione culturale, il secondo passo
riguarda le azioni da mettere in atto perché
l'indipendenza sia possibile e possa essere attuata.
Le fonti del diritto
Prima di individuare le fonti del diritto e di pensare, quindi,
di farvi ricorso, bisogna affermare che accedere all'indipendenza
comporta l'acquisizione piena e totale della sovranità;
attualmente la sovranità è esercitata dallo Stato
italiano ed è allo Stato italiano che bisogna strapparla;
l'obiettivo apparentemente chiaro risulta, in realtà,
complicato dal fatto che lo Stato italiano ha delegato parte
della propria sovranità all'Europa.
Fuori dall'Italia
Da questa considerazione nasce la constatazione che il nostro
indipendentismo non può pensare ad un distacco delle
nazionalità dall'Italia per restare automaticamente in
Europa, poiché, ormai, l'Europa sta alle
nazionalità esattamente come lo stesso Stato italiano sta
in rapporto ad esse: l'Europa esercita sulle nazionalità,
e sempre più la eserciterà, una parte della
sovranità un tempo gestita dallo Stato italiano; è
come se, invece di dipendere da uno Stato, le nazionalità
dipendessero da uno Stato e un sovrastato. Il nostro
indipendentismo, quindi, deve fare i conti con quella che
potremmo chiamare la teoria della doppia dipendenza, teoria che
individua nei meccanismi di costituzione dell'Europa, una
complicanza ed una ulteriore difficoltà frapposta alla
realizzazione di quel sogno che abbiamo chiamato Europa dei
Popoli.
Fuori dall'Europa
L'Europa dei Popoli è, però, solo una alternativa
ipotetica alla doppia dipendenza: è la ripetizione della
ideologia (falsa filosofia) che ha legato le "piccole patrie"
alla "grande patria" italiana. Ne consegue che il nostro
indipendentismo si deve contrapporre, contemporaneamente, allo
Stato italiano ed alla Europa e, ciò facendo, deve
proporre un quadro diverso da quello europeo, uno scenario
istituzionale diverso al cui interno le nazionalità che lo
desiderano si possano collocare come Stati indipendenti.
Costruire uno Stato
Questo che può apparire un puro esercizio filosofico (nel
senso che nella improbabilità di deprivare lo Stato
italiano della propria sovranità sulla nazionalità
e nella improponibilità di riuscire a star fuori dal
mercato europeo, noi ci immaginiamo addirittura di costruire una
Europa che dovrebbe essere il risultato del contemporaneo accesso
alla autodeterminazione da parte di tutti i Popoli europei, o -
addirittura - di non costruire affatto neppure l'Europa dei
popoli, ma altre aggregazioni di popoli) è, in
realtà, una proiezione nella storia della utopia
indipendentista. Chiarita la contestualizzazione
storico-politica, possiamo più agevolmente indicare le
fonti del diritto in nome del quale si potrà accedere
all'autodeterminazione e, quindi, all'indipendenza ed alla
costituzione di uno Stato per ciascuna nazionalità che lo
desideri.
Il diritto alla Autodeterminazione
Il diritto internazionale riconosce, sulla carta, il diritto dei
popoli alla autodeterminazione, ma non chiarisce quali siano i
popoli; questo non costituisce implicitamente il riconoscimento
del diritto alla autodefinizione, da cui potrebbe derivare la
possibilità di applicare effettivamente il diritto per
quanti si definiscano un popolo; né sancisce l'esistenza
di una autorità internazionale cui i popoli possano
rivolgersi quando intendano risolvere il problema del loro status
di dipendenza, liberandosi e rendendosi indipendenti.
Poiché questo diritto è stato disegnato dagli Stati
costituiti, esso non potrebbe in alcun modo comportare l'accesso
alla autodeterminazione da parte di tutti e di chiunque, in
quanto ciò costituirebbe una destabilizzazione degli Stati
stessi: il diritto internazionale formula, quindi, un principio
generico che fissa - in sostanza - l'applicabilità della
autodeterminazione solo quando i popoli abbiano la forza di
imporla.
Il diritto internazionale come legittimazione del dominio
degli Stati
Il diritto internazionale e il diritto interno ai singoli Stati,
hanno - tuttavia - sopito le tensioni indipendentiste, applicando
le regole del rispetto e della tutela delle minoranze etniche le
quali, altro non sono - come abbiamo già visto - che
popoli senza Stato ai quali pur di non riconoscere il diritto a
diventare Stati, si applicano norme speciali di autonomia, di
autogoverno, di decentramento, di tutela linguistica preservando,
tuttavia, ad un centro l'esclusivo esercizio del potere. A tal
punto il diritto internazionale si è fatto perverso da
aver promosso una cultura della pace che criminalizza le
rivendicazioni indipendentiste, considerando le loro
rivendicazioni destabilizzanti di un equilibrio apparentemente
"democratico". Poiché lo Stato applica o promette di
applicare norme "democratiche" di tutela delle minoranze, se le
nazionalità chiedono di più, diventano nemiche
dell'ordine costituito e della legalità.
La criminalizzazione degli indipendentismi
I popoli senza Stato hanno sviluppato, per questo, loro
documenti, loro Dichiarazioni Universali, nelle quali rifiutano
di esser considerati delle minoranze alle quali un potere
estraneo ed esterno applica o non applica, a suo piacere, norme
di tutela parziale, senza riconoscere mai il diritto di tutelarsi
e rappresentarsi da se. Questa azione a livello internazionale
deve continuare ed accentuarsi non perché, così
facendo, si afferma automaticamente un diritto diverso da quello
concepito dagli Stati, ma piuttosto perché si afferma una
diversa cultura del diritto: partendo dal rifiuto della
criminalizzazione degli indipendentismi, si dimostra che la
mancata applicazione del diritto alla autodeterminazione secondo
modalità pacifiche, determina il ricorso ad una diversa
strategia che i popoli senza Stato sono talvolta costretti ad
adottare per avere un futuro.
Diritto alla violenza?
Sembra, infatti, che il diritto internazionale alla
autodeterminazione entri in funzione solo quando, in virtù
di tensioni e situazioni fortemente conflittuali, l'esercizio
della stessa viene imposto o con le armi o con forme articolate e
decise di disobbedienza civile delle cosiddette "regole
democratiche". Se la criminalizzazione di queste rivendicazioni
non ottiene effetti, per risolvere tali tensioni il diritto
internazionale si limita a prendere atto della situazione e a
riconoscere il nuovo Stato, i nuovi Stati che ne
scaturiscono.
Genocidio
Ciò che deve crescere ed affermarsi, anche sulla base di
corrette riflessioni su ciò che nella storia si è
prodotto e si produce in merito alla tensioni indipendentiste,
è - quindi - una nuova diffusa cultura: o il diritto alla
autodeterminazione diventa un diritto che può essere
concretamente esercitato in modi non violenti e veramente
democratici, oppure le tensioni nel mondo non finiranno, oppure
ancora se finiranno, sarà perché si sarà
completato il genocidio dei popoli senza Stato.
Nazioni senza Stato
Per le nazionalità dello Stato italiano il diritto alla
autodeterminazione deve, quindi, essere esercitato, in primis,
rispetto all'Italia. Ed è rispetto all'Italia che il
percorso indipendentista attua i suoi primi passi di "liberazione
nazionale", rifiutando tutto il linguaggio autonomista e
regionalista, rifiutando che le nazionalità vengano
considerate delle minoranze, delle comunità, ecc.,
affermando che ogni nazionalità identifica un popolo, un
popolo cosciente della propria identità e, quindi, una
Nazione, una Nazione senza Stato poiché, la storia gli ha
negato, fino ad oggi, l'accesso alla autodeterminazione.
Rifiutare il (falso) federalismo
Il rifiuto più difficile, almeno dal punto di vista
psicologico, da frapporre alla cultura autonomistica è il
rifiuto del federalismo, un rifiuto da esprimere non come
rinuncia aprioristica al federalismo stesso, ma come
necessità di chiarire che cosa sia il federalismo: il
federalismo cui le nazionalità pensano, ipotizzando la
trasformazione dello Stato italiano, oggi non ha più lo
stesso significato che aveva quando venne formulata dalla
Dichiarazione di Chivasso (Dichiarazione dei popoli alpini,
dicembre 1943); oggi il federalismo di cui si discute in Italia
non è altro che una proposta neoregionalista per far
funzionare meglio lo Stato italiano e per consentire allo Stato
di conservare l'esercizio del potere
Alexandre Marc contro gli Stati
Il rifiuto del federalismo, inoltre, evidenzia un problema di
carattere ideale se non ideologico: il federalismo integrale o
globale, quello - per intendersi - che si rifà ad
Alexandre Marc, non concepisce la nozione di Stato come noi la
percepiamo e cerchiamo di realizzare; il suo federalismo supera,
scavalca, nega lo Stato e la sovranità; é un
sistema teoricamente perfetto, nel quale ogni decisione viene
assunta al livello che è in grado di assumerla, senza
sovrapposizioni. Possiamo noi accettare questa analisi? Se le
nazionalità si trovassero in un'altra situazione e non
nella situazione di dipendenza in cui si trovano, senz'altro
sì. Noi non possiamo considerarci paladini dell'idea di
Stato in senso assoluto, ma - piuttosto - dobbiamo chiarire che
avere un proprio Stato è l'unico strumento che può
consentire ad un popolo di sedere liberamente nel Consesso delle
istituzioni internazionali che sono formate da ... rappresentanti
di Stati. E se anche la logica dello Stato non è ottimale,
non si può rinunciare ad adottarla, perché,
così facendo, si rimane sostanzialmente dipendenti da un
altro Stato.
Gli Stati sono superati?
La logica secondo la quale gli Stati sarebbero, ormai, superati
sembra risultare valida solo per i popoli/Nazione senza Stato e
questa è una beffa: ora se per un "miracolo" della storia
la sovranità degli Stati attuali venisse meno, anche noi
potremmo rinunciare all'obiettivo di costruirci uno Stato; ma il
superamento degli Stati è soltanto presunto e viene
ipotizzato unicamente per impedire a chi non ha un proprio Stato
di conquistarselo.
Guy Héraud e l'Europa dei Popoli
Potremmo, allora, seguire l'altra corrente del pensiero
federalista globale o integrale, secondo le linee tracciate da
Guy Héraud; ma qui interviene un altro equivoco, quello di
ipotizzare che questo federalismo integrale trovi attuazione
nell'Europa. Anche l'Europa è un sogno, o forse
addirittura un mito: così come dobbiamo rinunciare al
federalismo, dobbiamo pure rinunciare all'Europa in quanto tappa
obbligatoria della nostra storia. Anche quando le singole
nazionalità diventassero indipendenti, se rimanessero
automaticamente legate ai meccanismi dell'Europa; o se
diventassero indipendenti solo nel momento in cui tutti i popoli
lo diventano e nascesse l'Europa dei popoli, non potremmo, in
nessun modo, dirci davvero indipendenti. Esercitando la nostra
sovranità, infatti, dovremmo poter decidere come e con chi
percorrere nuovi cammini della storia: se sarà con
l'Europa e nell'Europa, e se questa Europa sarà l'Europa
dei Popoli tanto meglio, ma altri sono gli scenari, almeno
ipotetici che non dobbiamo precluderci di poter realizzare: per i
valdostani la costruzione della Nazione francoprovenzale, ad
esempio, dando vita ad istituzioni che governino quella che, per
secoli, è stata l'ampia area geopolitica di cui il
francoprovenzale era la lingua.; per i sardi la nascita di una
Sardegna collegata ad istituzioni di cooperazione mediterranea,
come prefigurato fin dagli anni 20 e 30 del secolo che si
è appena chiuso; per gli Occitani la nascita, a scavalco
delle Alpi, di una Nazione che non ha mai avuto un proprio Stato
o proprie istituzioni vere e proprie, ecc.
L'essenzialità della rivendicazione
indipendentista
Ciò che gli indipendentisti devono, quindi, apprestarsi a
concretizzare è una semplificazione del linguaggio
politico ed una nuova metodologia del pensiero, secondo la quale
l'obiettivo è uno solo: l'indipendenza Questo obiettivo
diventa l'elemento primario, sostitutivo di qualsivoglia
ideologia, analisi sociologica, altra proposta politica,
considerazione etica, sovrastruttura culturale, impegno
elettorale. Tutto il resto deve avere per gli indipendentisti il
ruolo che hanno le lingue straniere: servono per parlare con chi
non conosce la nostra, ma non sono la nostra: possiamo, quindi,
parlare di autonomia, di federalismo, di regionalismo, di
bilinguismo, di unione europea ecc. ma dobbiamo farlo con il
necessario distacco, sapendo che, nel farlo, ci poniamo sul piano
di un dibattito politico diverso da quello che ci interessa
davvero ...
Un prologo indipendentista per i nuovi Statuti di
Autonomia
Noi possiamo, quindi, parlare anche di Statuti di Autonomia in
senso indipendentista, poiché se gli Statuti di Autonomia
fossero concepiti come un passo verso l'esercizio della
autodeterminazione, anche a noi potrebbe interessare il dibattito
sulla autonomia. In questo senso, poiché, in questi tempi,
in Italia si sta parlando di modificazione degli Statuti di
Autonomia delle Regioni ad Autonomia speciale, noi dobbiamo
utilizzare questo dibattito per sottolineare che ogni Statuto di
Autonomia, in prospettiva indipendentista, può diventare
il primo atto istituzionale contenente la formulazione concreta
del diritto alla autodeterminazione. Deve diventare il primo atto
in questo senso! Gli indipendentisti devono chiedere che lo
Statuto di Autonomia delle loro "Regioni" sia modificato con
l'inserimento di un preambolo che fissi e riconosca la
possibilità di accedere alla autodeterminazione. Noi siamo
certi che l'indipendentismo debba individuare gli spazi giuridici
nei quali insinuare l'esigenza di un diritto che regoli e
garantisca l'accesso dei popoli alla autodeterminazione: quale
occasione può esser migliore del dibattito sulla
modificazione dello Statuto di Autonomia?
L'affermazione di un principio anche nella dimensione
europea
Raggiungere un tale risultato significherebbe introdurre nelle
stesse istituzioni europee un principio, in virtù del
fatto che questo è formulato in un atto costituzionale di
uno dei suoi Stati. Il dibattito sulla Carta europea dei diritti,
su una ipotesi di Costituzione europea, ci interessa e ci
riguarda - certo - ma sicuramente non per ottenere nuove promesse
o perché i nostri diritti vengano, di nuovo, soffocati
creando spazi che non ci interessano e circoscrivono
pericolosamente l'esercizio totale e reale dei nostri
diritti.
Quello che i partiti autonomisti non fanno
In questa prima proposta di concretizzazione dell'indipendenza,
si evidenziano quelle che sono le contraddizioni dei vecchi
partiti autonomisti: noi siamo convinti che non faranno neppure
un tentativo in questo senso. Il che dimostrerà,
finalmente, che hanno sposato appieno le tesi dell'autonomismo
rinunciando a rivendicare l'autodeterminazione. Il che significa,
quindi, che hanno usato lo strumento del movimento nazionalitario
non per affermare dei diritti, ma per ottenere dei privilegi; il
che significa che preferiscono ai rischi storici della
autodeterminazione e della indipendenza, lo spazio rassicurante
della dipendenza pagata in termini di autonomia e di privilegi
fiscali o economici. L'autonomismo può nascere
dall'esercizio della autodeterminazione? Non è di per se
scandaloso: dobbiamo, infatti, prevedere che tra le opzioni
possibili al momento di esercitare l'autodeterminazione, ci sia
anche la libera scelta di restare in Italia, con una qualche
autonomia. Purché di libera scelta si tratti e non di
limite istituzionale. Purché sussista sempre, e non sia
criminalizzata, la possibilità di recedere.
L'indipendenza sostenibile
E' a questo punto della nostra teorizzazione che sorgono due
problemi: il primo dà il titolo a questo breve saggio e
parla di indipendentismo sostenibile, il secondo deve spiegare il
concetto di Nazione inclusiva cui dobbiamo metter mano. Per
indipendentismo sostenibile dobbiamo considerare l'analisi delle
nostre società e delle loro prospettive di sviluppo,
analisi che si faccia progetto capace di dimostrare a tutti gli
abitanti del territorio delle nazionalità che
l'indipendentismo è davvero non solo possibile, ma
rappresenta anche la migliore delle prospettive di sviluppo
sociale ed economico che la nazionalità possa disegnare
per il proprio futuro.
La Nazione inclusiva
Per Nazione inclusiva dobbiamo intendere quella che, forte delle
proprie caratteristiche identitarie collettive, mentre le
premette a condizione storica che spiega e giustifica la
rivendicazione del diritto alla autodeterminazione, le afferma,
le riafferma anche se all'interno del proprio territorio sono
mutati alcuni aspetti della composizione sociale: le
nazionalità non diventeranno certo indipendenti
perché, ospitano molti arabi, africani o molti "italiani";
per la verità se questa connotazione sociale venisse
addotta per una rivendicazione anche solo autonomista, verrebbero
meno perfino le ragioni di esistere come Regioni.
L'impossibilità di una nuova integrazione
La Nazione inclusiva è, quindi, un concetto
necessariamente nuovo che deve sostituire il concetto di
integrazione: dobbiamo renderci conto che per le società
tradizionali e autoctone, non è più possibile
assorbire la numerosissima componente di immigrati vecchi e
nuovi; le nazionalità corrono, piuttosto, il rischio
inverso, quello di essere assorbite e fagogitate loro
stesse.
La Nazione inclusiva è un concetto di convivenza civile
cui possiamo affidare parte dei destini delle nazionalità:
sarà la condivisione di un vivere insieme in un certo
territorio, con certe caratteristiche, una storia ed una lingua,
a caratterizzare, prima o poi, poco a poco, la scelta di quanti
non possono condividere immediatamente l'identità della
nazionalità che li ospita, sia perché troppo
recente è la loro immigrazione, sia perché troppo
forte è - ancora - il legame con la loro identità
originaria, sia perché troppo in crisi è
l'identità stessa della nazionalità che li
ospita.
Come nazionalitari ed indipendentisti ci stiamo, quindi,
assumendo la responsabilità di chiedere aiuto a quanti
vivono nel territorio delle nostre nazionalità pur non
avendone assimilato l'identità, poiché questo
può essere l'interesse di tutti e per dare a questa
indipendenza, una cultura e valori che devono esser l'esito di
una storia autentica e non il risultato di una
denazionalizzazione di cui gli immigrati (vittime anch'essi di
un'altra disidentificazione) sono strumento spesso
inconsapevole.
Gli elementi costitutivi dell'identità
collettiva
Ci sono molti modi per preservare gli elementi identitari
collettivi di un popolo e per sposarli quando si entra a farne
parte. Il difficile è senza dubbio saper "includere" nei
valori della Nazione qualcosa di diverso dagli elementi che, per
secoli, ne hanno caratterizzato l'identità.
Imparare le lingue - salvare le lingue
Non dovrebbe esser difficile far capire a tutti che questo
confronto è assurdo se consideriamo che, oggi come oggi,
l'apprendimento delle lingue non è più così
complesso come un tempo, che tre/quattro e non una soltanto o due
devono essere le lingue conosciute dalle future generazioni per
restare sul mercato del lavoro e che, comunque, una sola è
la lingua propria di ogni nazionalità: queste e non le
lingue del mercato e degli Stati, sono in pericolo.
Le nazionalità e gli "altri"
La Nazione inclusiva, quindi, mentre afferma, autodefinisce
l'identità collettiva storica della nazionalità,
evidenzia che non ci sono altre identità collettive che
possano rappresentarla o sovrapporsi ad essa ed i suoi diritti,
anche se molteplici sono oggi le componenti presenti nel suo
territorio per effetto delle migrazioni. All'interno delle
singole nazionalità dello Stato italiano, ad esempio, i
non autoctoni sono un crogiolo di emigrati/immigrati che
conservano profonde radici nelle zone di provenienza: sono,
quindi sardi in Valle d'Aosta, friulani in Sardegna, meridionali
(provenienti anche dalle aree grecaniche e albanesi) in Friuli,
ecc., prima ancora che semplicisticamente "italiani"; non sono
antinazionalitari, come invece vorrebbe renderli la propaganda
politica e come li rendono talora gli errori dei partiti
autonomisti che ancora non sanno liberarsi di una certa malcelata
xenofobia nei loro confronto e nei confronti dei nuovi immigrati
terzomondiali.
Ogni nazionalità, come già abbiamo affermato, non
avrebbe alcun diritto se la sua identità autentica fosse
stata sostituita dal prevalere di altre identità. E i
sostenitori della società multietnica devono ancora
spiegare quale diritto sia applicabile ad un territorio che
voglia autogovernarsi sulla base della multiculturalità
della sua popolazione.
L'identità come crogiolo delle identità
compatibili
Quello di "Nazione inclusiva" è quindi, un concetto che
mira alla persuasione, alla adesione spontanea, alla crescita tra
gli immigrati nel territorio di una nazionalità, di una
cultura capace di avere i suoni della nazionalità
ospitante, e come collante identitario (in una realtà di
identità molteplici che sperimentano la loro
vitalità residua e la loro compatibilità, la loro
possibilità di sopravvivenza) la condivisione di un
territorio che determina comuni comportamenti culturali e scelte
di vita.
Credo che nessuno griderebbe allo scandalo il giorno in cui ad
esempio in Valle d'Aosta non ci fosse più nessuno che
parla sardo o arabo; ben più grave sarebbe la situazione
se scomparisse il francoprovenzale.
L'autonomia che nessuno voleva
L'errore in cui sono incorse negli ultimi 60 anni le
nazionalità dello Stato italiano è stato quello di
vivere in un sistema autonomistico che nessuno voleva,
perché i più convinti assertori dei diritti
dell'identità volevano l'indipendenza e gli altri non
volevano nessuna autonomia, propendendo per un centralismo ancora
maggiore da parte dello Stato; ed è stato un errore anche
quello di pensare che giustizia sarebbe stata fatta attraverso la
parificazione di due lingue, quella dello Stato e quella della
nazionalità. Il bilinguismo, in realtà, al di fuori
della dimensione individuale e culturale, politicamente si
è sempre rivelato fallimentare, poiché ha
consentito una ancor maggiore affermazione e diffusione della
lingua dello Stato su quella della nazionalità.
Emigrare in casa propria
E se la società delle nazionalità ad autonomia
speciale è pur cresciuta, se un certo benessere si
è pur diffuso grazie anche alla autonomia, questo è
stato per tutti il prezzo da pagare: accettare la
disidentificazione. Le logiche del dominio che hanno imposto
quelle della minoranza, guardano molto più a lungo termine
degli obiettivi immediati, quale è stato la conquista di
una autonomia qualunque da parte delle nazionalità; in
modo quasi indolore all'interno delle nazionalità si
è avviata una volontaria emigrazione da loro stessa, dalle
loro caratteristiche.
Per gli immigrati veri si è posto un problema inverso:
persa o quasi la propria identità è stato poco
importante acquisirne un'altra, o non acquisirne nessuna,
trovando più comodo condividere quella fittizia dello
Stato.
Una volta che le nazionalità avranno acquisito la loro
indipendenza, questi immigrati che non hanno saputo o voluto
farsi includere, dovrebbero forse essere cacciati come gli
albanesi dal Kossovo?
Normalizzare la vita culturale
Un articolo apparso su "La Stampa" sul problema della storia
delle nazionalità, definì morta di povertà
l'identità tradizionale, non nata per troppa ricchezza
quella nuova e, quindi, interrotto il filo di una
continuità storica. La risposta degli intellettuali delle
nazionalità evidenziò l'urgenza di ricucire quella
continuità partendo dalla normalizzazione della vita e del
dibattito culturale e politico: gli immigrati che non si sentono
appartenenti alla nazionalità ospitante sono
"intolleranti, nel loro chiamarsi fuori dalla tradizione per
costruire una identità altra; nel loro sentirsi estranei
alla nazionalità senza cultura perché in crisi
culturale, in definitiva si dichiarano stranieri". Venne
altresì, considerato che è oggettivamente
difficile, per un immigrato, integrarsi ed assimilarsi nel vuoto
di coscienza da cui sono colpiti gli stessi autoctoni,
concludendo che - oltre alla integrazione - c'è la strada
della pura convivenza nella diversità (non vige l'obbligo
di essere e sentirsi appartenenti a quella nazionalità); e
c'è, la strada della cultura come libertà,
espressione di una cultura universale che non ha bisogno di
etichette e non è né a favore né contro
nessuno; sussiste - cioè- il diritto individuale che
sempre deve essere rispettato, ma che non può sovrapporsi
al diritto collettivo; in nome del diritto individuale, non si
possono negare i diritti che spettano ad una collettività
di individui che come collettività si riconoscono.
Chi può definirsi popolo?
Quali conseguenze derivano dalla liberazione nazionale?
L'intreccio dei 'rifiuti culturali" cui abbiamo fatto accenno
comporta, da parte nostra, una preparazione politica
considerevole. Se è pur vero che nessuno può
permettersi di stabilire chi possa definirsi un popolo e chi,
quindi, abbia diritto alla autodeterminazione, abbiamo un nostro
canone interpretativo per dirimere la questione: il principio di
identità
Perché nascono gli Stati?
Sappiamo bene che gli Stati nascono anche e soprattutto per
ragioni diverse da quelle identitarie e nazionali e che, anche
quando affermano di essere degli Stati nazionali, in
realtà non lo sono e possono solo tentare di diventarlo,
omogeneizzando le diverse identità presenti nel proprio
territorio o condizionandole ad una identità dominante.
Quindi tutti possono, almeno potenzialmente, accedere alla
autodeterminazione per le più diverse ragioni, prime fra
queste quelle economiche. A noi il criterio egoistico ed
economico non pare eticamente proponibile, anche se siamo consci
che nella storia e nella politica l'eticità sembra un
valore superato.
Uno Stato per le Nazioni senza Stato
Noi rivendichiamo nel diritto internazionale la
possibilità che l'esercizio della autodeterminazione sia
assicurato ai popoli che sono delle Nazioni senza Stato. Quando,
quindi, parleremo della situazione italiana, se da un lato
potranno interessarci tutti i movimenti che mirano a far saltare
la sovranità dello Stato, dall'altro nei confronti di
questi dovremo avere un atteggiamento chiaro, altrimenti il
diritto alla autodeterminazione non ci sarà consentito non
solo perché lo Stato ed il diritto ce lo impediranno, ma
anche perché, potenzialmente, sono mille le sfaccettature
della identità italiana, ciascuna delle quali potrebbe
rivendicare il diritto a darsi uno Stato sulla base della
semplice convenienza o di una presunta volontà.
Le Regioni senza identità
Anche a questi movimenti noi dobbiamo proporre, per favorire la
loro stessa crescita, la cultura dell'identità. Spesso in
Italia sorgono movimenti di rivendicazione politica la cui radice
identitaria scaturisce dalla identificazione di un territorio
regionale. Ma in Italia le Regioni non esistono! Sono i
più autentici esponenti del pensiero regionalista ad
affermare che le Regioni italiane sono state disegnate a tavolino
dai geografi, preoccupati di proporre solo una suddivisione
territoriale attraverso la quale lo Stato potesse essere
amministrato e governato. Ora prendere queste Regioni e
riconoscere loro una identità ipotizzando che, in forza di
questa, possano accedere alla autodeterminazione sarebbe un
assurdo. In questa assurdità sono caduti perfino i partiti
autonomisti. che hanno formulato un progetto di trasformazione
dello Stato italiano in senso federale, trasformando tutte le
attuali Regioni in Repubbliche.
L'improponibile Padania
Il criterio identitario collettivo diventa ineludibile per gli
indipendentisti, anche rispetto ala proposta della Padania,
l'esempio più moderno e concreto di costruzione di una
identità inesistente. Anche rispetto alla Padania
c'è da dire che qualora l'Italia non fosse riuscita ad
entrare nel circuito bancario dell'euro, la spaccatura politica
tra nord e sud sarebbe stata possibile, ma se questo dimostra,
una volta di più, che l'identità non appare
preminente nel disegnare gli scenari istituzionali possibili,
consolida ancor più la nostra certezza che senza
identità non c'è diritto e che per ogni
identità deve esistere un diritto.
Il diritto positivo
Il diritto che riguarda le vere Nazioni senza Stato è il
diritto alla autodeterminazione ed all'indipendenza. Che altri
raggiungano l'indipendenza per ragioni diverse non ci riguarda,
né ci impone un atteggiamento culturale di ostilità
nei loro confronti; noi dobbiamo, però, mirare alla
positività del diritto.
L'articolo 6 della Costituzione italiana
Non possiamo dimenticare che in Italia, l'applicazione
dell'articolo 6 della Costituzione, quello che assicurava alle
minoranze linguistiche una "tutela", è rimasto inapplicato
per quasi 60 anni perché, non si è voluta far
chiarezza su chi siano queste minoranze linguistiche: al
costituente era, in realtà, chiaro che queste erano i
popoli parlanti una lingua completamente autoctona o avente una
corrispondenza oltre i confini dello Stato; molteplici iniziative
hanno, tuttavia, mirato ad affermare che il lombardo, l'emiliano,
il piemontese e l'umbro avevano gli stessi diritti del tedesco,
dello sloveno, del sardo, ecc.. Poiché, in Italia per
ragioni storico geografiche esistono molteplici
dialetti/lingue/parlate, riconoscerli e tutelarli tutti con una
stessa legge sarebbe risultato impossibile ed è risultato
più facile non tutelare nessuno. L'articolo 6 della
Costituzione è rimasto, cosi, inapplicato. Riguardava,
anzitutto, i popoli/Nazioni senza Stato per i quali la conquista
di un diritto linguistico non poteva certo costituire il rispetto
reale e completo della loro identità e dei loro diritti,
ma costituiva un importante risultato da tentare di conseguire ed
è venuto meno perché, non c'è, certezza del
diritto. Analogamente il diritto alla autodeterminazione non
può riguardare tutti e chiunque, ma - a nostro avviso
almeno - solo i popoli/Nazione senza Stato.
Stati senza Nazione
Ciò non impedisce, e lo abbiamo visto, che altre forme di
Stato nascano su principi diversi da quello identitario, sulla
base ad esempio di un diritto che deve essere diverso rispetto a
quello applicato ai Popoli: se non esiste per i popoli un diritto
ad esistere; se, non viene applicato ai popoli il diritto alla
autodeterminazione, la storia continuerà a proporre tristi
pagine di lotte per conquistare con strumenti questo diritto a
chiunque abbia la forza per imporsi.
Noam Chomsky
Scrive Noam Chomsky: "in questi tempi di profonda corruzione
intellettuale, le dottrine economiche predicate dai padroni, come
la democrazia ed i diritti umani, sono strumenti di potere
applicabili solo agli altri, in modo che questi possano essere
derubati e sfruttati più facilmente".
No alla democrazia
No alla democrazia! Anche questa è una affermazione a suo
modo difficile da proporre perché ci impone di riflettere
su altri rifiuti culturali di cui dobbiamo mostrarci capaci nel
processo di liberazione nazionale: uno di questi riguarda una
certa concezione della democrazia. Gli indipendentisti non
possono, per questo, considerarsi democratici nel senso comune e
borghese del termine: la democrazia comporta, almeno
teoricamente, il rispetto di criteri come quello numerico in base
al quale si è instaurato un sistema politico basato sul
rapporto dominio-minoranza. E si introduce anche l'assurdo
storico che, ridotto in minoranza rispetto alla popolazione dello
Stato, un popolo sia minorizzato anche all'interno del proprio
territorio per effetto delle immigrazioni. Gli strumenti normali
della democrazia formale non bastano a riconsegnargli i diritti
che ha acquisito storicamente: se a decidere dell'indipendenza di
una nazionalità saranno chiamati i cittadini dello Stato
di cui la nazionalità rappresenta una minoranza, o gli
immigrati nel territorio della nazionalità stessa, i
diritti di questa nazionalità saranno calpestati ancora
una volta. Per questo abbiamo elaborato la teoria della Nazione
inclusiva, per non fare della democrazia rappresentativa un
fardello del progetto indipendentista. Ciò non ci
impedisce di parlare di democrazia e di dimostrare quanto poco
democratici siano quelli che democratici si proclamano ad ogni
piè sospinto, violando - però - impunemente le
regole che hanno formulato. Del resto fin tanto che i cittadini
delle nazionalità resteranno cittadini di uno Stato retto
da una altra nazionalità, dovranno subirne le leggi,
comprensive di diritti e doveri, pur mirando ad andare
oltre.
L'illegalità indipendentista
Ci collochiamo, quindi, come indipendentisti in una area di
illegalità, poiché, la democrazia stessa comporta
un assurdo: oggi come oggi lo Stato italiano non concepisce
nessuna formula di accesso alla autodeterminazione; quindi anche
qualora la maggioranza di una nazionalità fosse favorevole
all'indipendenza e volesse esercitare il diritto alla
autodeterminazione, si scontrerebbe con un limite della
democrazia stessa: quello di essere in condizione di
illegalità... quand'anche sia raggiunta la condizione di
maggioranza numerica, poiché l'autodeterminazione non
è un diritto riconosciuto ed esercitabile. Quindi il
principio numerico della democrazia è sbagliato come
principio assoluto, altrimenti gli italiani avrebbero sempre
ragione di fronte ai valdostani; ed è sbagliato anche come
principio relativo, poiché pone dei limiti a se stesso: ci
sono - cioè - delle cose che non possono essere fatte
neppure se tutti sono d'accordo. Questi sono i prodromi di un
regime.
Senza Indipendenza non c'è democrazia
Ecco la ragione per la quale gli indipendentisti rifiutano anche
la democrazia formale e la democrazia come strumento di presunto
esercizio del potere da parte del popolo, poiché, se i
popoli non sono liberi ed indipendenti non c'è, democrazia
possibile.
No ai diritti umani
Tornando a Chomsky dobbiamo anche chiarire l'altro "equivoco" dei
nostri tempi, quello dei diritti umani. A 50 anni di distanza
dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, noi ci
troviamo nella situazione di impegnarci affinché i diritti
fondamentali dell'uomo siano rispettati e di doverlo fare a
fianco di potenze come quella americana che, sostanzialmente,
affermano di difendere più di chiunque altro, i diritti
dell'uomo. La potenza americana, però, non solo è
sorta attraverso il genocidio degli unici veri americani, i
pellerossa, ma oggi è protagonista di non pochi paradossi;
difende i diritti dell'uomo, come quello a non subire torture,
con una eccezione: se la tortura si conclude con la morte su di
una sedia elettrica, in una sala invasa da gas, o con una
iniezione letale, i diritti umani possono anche non essere
rispettati; afferma il diritto alla vita, ma è
protagonista di vicende belliche nelle quali, vedi Vietnam, Iraq
o nella ex Jugoslavia, le popolazioni civili non sono risparmiate
dalla "chirurgia" di bombardamenti iniqui. Non sono certo gli USA
a violare più di altri i diritti umani; ma se a violare le
regole sono gli stessi che le proclamano e le impongono agli
altri, siamo di fronte ad una falsa preoccupazione, ad una falsa
affermazione di diritti dell'uomo.
Non ci sono veri diritti dell'uomo senza diritti collettivi
dei popoli
Il vero errore della cultura dei cosiddetti diritti umani,
inoltre, consiste nell'assenza di una sua applicazione sul piano
collettivo: quale uomo potrà mai sentirsi davvero
rispettato nei suoi diritti umani se nessuno può
perseguitarlo per la sua lingua, per la sua religione, per la sua
razza, ecc. ma se comunque - al di là delle enunciazioni-
egli non potrà veder rispettato l'esercizio, l'uso, la
libertà di queste sue caratteristiche nel contesto del
popolo cui appartiene. All'individuo non serve esser rispettato
per la sua lingua se gli è permesso solo di farlo da solo
o nel chiuso della propria casa, perché se nessuno si
preoccupa di assicurargli di poterla parlare con gli altri uomini
del suo popolo, in un territorio che sia libero ed indipendente,
di fatto anch'egli prima o poi non la parlerà più.
Riconoscere dei diritti fondamentali all'individuo e non al
popolo di cui egli è parte, nel quale egli vive e si
realizza, al cui interno egli comunica, si esprime e crea,
significa condannare l'individuo e il popolo stesso a morire
proprio perché, l'esercizio di quei diritti è mal
formulato e mal riconosciuto.
Le mobilitazioni contro l'ETA
Sono relativamente sorpreso delle mobilitazioni popolari contro
la violenza in Spagna e nei Paesi Baschi: la lotta armata
dell'ETA e la risposta repressiva di Madrid sono una costante
della storia antifranchista e post-franchista; la spirale di
sangue è lunga ed apparentemente inarrestabile; attentati,
violenze ed esecuzioni paiono uno strumento ineludibile di lotta
politica. Proprio per questa terribile "abitudine" alla violenza,
però, le mobilitazioni popolari contro l'ETA mi appaiono
indotta sul filo dell'emozione da ragioni molto meno nobili del
voler testimoniare orrore per ogni nuovo
assassinio/esecuzione.
Le vere ragioni delle mobilitazioni contro l'ETA
L'ETA va fermata non solo perché uccide e neppure
perché molti suoi militanti sono stati uccisi. Ma se non
per queste ragioni, allora perché? Forse perché
è necessario bloccarne le azioni che spaventano perfino i
turisti determinando (come fecero gli islamici seminando il
terrore tra gli appassionati dell'archeologia egizia) addirittura
un problema economico? O perché è ora di liberare
gli imprenditori dalla "tassa rivoluzionaria" (le tasse ingiuste
spettano solo agli Stati!), un pizzo imposto dall'ETA? O
perché troppe sono le innocenti vittime basche assassinate
da servizi segreti, giustizieri e fascisti solo perché
sospettate di simpatizzare con l'ETA, per debellare la quale si
ritiene sia necessario smitizzare il martirologio basco iniziato
a Guernika?
Bloccare tutti gli indipendentismi
Per rispondere bisogna affrontare un discorso molto ampio che non
riguarda solo Euskadi. La nascita dell'Europa mette i poteri
politico-economici di fronte al bisogno di un assetto
istituzionale stabile che consenta al capitale di agire sicuro ed
indisturbato su tutto il continente. Ciò comporta da un
lato il ridimensionamento delle indipendenze dei singoli Stati e,
dall'altro, l'esigenza di chiudere i conti con ogni possibile
altro indipendentismo. L'Europa sta diventando un grande Stato
che si arroga, per ragioni economiche, il diritto di occupare
tutti gli spazi che spettano ad una potenza mondiale; per questo
non può ammettere debolezze e conflittualità
interne.
Le minoranze
Lo "minoranze" che dalla divisione del mondo in blocchi e
dell'Europa in Stati contrapposti avevano tratto se non
l'applicazione di tutti i diritti che spettano ai popoli, forme
di "garanzia intenzionale" per ottenere più o meno ampie
autonomie, oggi sono abbandonate a se stesse; alcune per la loro
"liberazione" avevano addirittura ottenuto denaro e armi da parte
di non troppo occulti finanziatori (I paesi dell'Est, l'URSS
Gheddafì, gli stessi Stati Uniti, ecc.) interessati
più che ai loro diritti alla destabilizzazione
dell'occidente; oggi sono cellule impazzite, tanto prive di
stratega da non rendersi conto di quanto si danneggiano
vicendevolmente: la violenza dell'ETA, ad esempio, rende
più debole l'indipendentismo sardo; quella dell'IRA
metteva in allarme perfino contro il modesto radicalismo
occitano; l'indipendentismo catalano (nazionalitario) che si
collega con quello padano (economico) rende meno credibile
l'indipendentismo nazionalitario in Italia e spiegabile, invece,
la logica economica degli Stati europei; e non dimentichiamo che,
benché sia chiara la radice dei conflitti locali (sono le
potenze che li innescano o li spengono a seconda delle loro
esigenze strategiche!), il timore di una trasformazione degli
indipendentismi in balcanizzazione fa presa in un'opinione
pubblica ancora stravolta dalle violenze etniche nella ex
Jugoslavia.
Gli Stati sono, ormai, delle minoranze
La complessità della situazione è determinata anche
dal fatto che, innegabilmente, è in atto un braccio di
ferro tra grandi forze egemoni europee (Francia Germania,
lnghilterra), le quali possono, da un momento all'altro, mandare
all'aria l'Europa e la sua moneta se la dimensione continentale
non soddisferà i loro egoismi nazionali attraverso
opportune compensazioni; cominciano - cioè - a comportarsi
come "minoranze " inquiete perché inserite in un assetto
imposto dalle logiche del mercato e dalla mondializzazione dei
fenomeni economici, ma non sono ancora capaci di sopire le loro
ambizioni nazionalistiche. Al loro interno hanno, comunque,
acquietato le contrapposizioni politiche troppo forti (con la
logica democratica dell'alternanza e del bipolarismo) ed hanno
messo mano al problema degli indipendentismi: grandi promesse a
Gallesi e Scozzesi e nuove speranze agli irlandesi (per isolare
l'ala più dura dell'IRA) da parte del nuovo premier
inglese; blocco totale delle rivendicazioni etnica in Francia,
dove il FNLC, infiltrato dalla mafia e dalla delinquenza locale,
sta perdendo la legittimazione popolare che pure i corsi gli
avevano espresso in passato; criminalizzazione delle
rivendicazioni etniche con le accuse di nazismo mosse in Germania
ad un organismo di raccordo con i popoli dell'Est.
Gli interessi economici
Ecco il vero perché di tanta emozione in Spagna; ecco
perché, se pur per tutt'altre ragioni, la Lega Nord ha
fatto paura in Italia: non si possono gestire e controllare la
politica e l'economia in Europa in presenza di tensioni
indipendentististe. La decisione assunta nel recente passato di
allargare l'Europa (e la Nato) coinvolgendo soltanto Polonia,
Romania e Repubblica Ceca, corrisponde non tanto alla paura che
altre realtà fossero, al momento, politicamente
inaffidabili o economicamente troppo al di sotto degli standard
europei, quanto al persistere al loro interno di tensioni
nazionalitarie ed etniche; meglio, quindi, che esse continuino a
sentire addosso il fiato russo, sia perché devono - per
strategie mondiali decifrabili (c'è una sotterranea
seconda edizione del Patto di Yalta) - restare in quell'area de!
mondo, sia perché l'Europa non ammette
conflittualità interne e non accetterà mai di
integrare nell'Unione Europea popoli che non le abbiano risolte.
Non c'è modo di contrapporsi a questa politica dell'Europa
e dei suoi Stati.
L'autodeterminazione
Si è ritenuto che la soluzione potesse consistere
nell'applicazione del diritto alla autodeterminazione; il
ragionamento semplificato poteva essere questo: vediamo con un
referendum se i baschi vogliono l'indipendenza, in modo che
rivendicarla con le armi sia una scelta criminale; offriamo
questa stessa opportunità a tutti i popoli affinché
la lotta armata non debba risultare l'unica possibile, anche per
chi non l'ha ancora intrapresa.
La violenza nella storia
Nella storia, purtroppo, troppi Stati sono sorti grazie all'uso
della violenza le cui vicende sono diventate, così, eroica
epopea di una storia patria. In fondo i baschi stanno seguendo
questo stesso itinerario; se è antistorico sarà la
storia a dirlo. Il ricorso all'autodeterminazione non violenta,
comunque, non è possibile: non perché non esista il
diritto chiaro ed accettato, ma perché i risultati
dell'esercizio di questo diritto sono potenzialmente eversivi e
contrari agli interessi degli Stati: l'indipendenza di Euskadi
non piace solo a ETA, ma anche a realtà politiche
"moderate" il cui potere specifico (come, del resto, la stessa
autonomia istituzionale) è rafforzato dai timori che ETA
incute a Madrid; l'area del consenso nazionale basco ha ben
più del 50% dei voti, quindi un referendum
sull'indipendenza potrebbe effettivamente sancirla. Del resto non
fu Federico Chabod a segnalare ripetutamente a Roma che senza la
concessione di un'autonomia, la Valle d'Aosta posta di fronte a
un referendum separatista, avrebbe scelto quasi sicuramente la
Francia?
Il federalismo? Chi lo propone davvero muore
L'altra soluzione, quel federalismo indicato da Chanoux per
superare definitivamente e senza altre violenze l'oppressione dei
popoli e gli irredentismi, è più utopistica
dell'indipendentismo: l'averla formulata gli costò la
vita.
Le lingue
Lingue e culture in Europa non sono più un problema ora
che molte minoranze linguistiche sono quasi scomparse. Ora che il
linguaggio informatico ha omologato la comunicazione. Ora che gli
Stati ne negano la tutela anche se nella dimensione continentale
il diritto linguistico è chiaramente formulato. L'Europa,
ormai, riconosce le lingue delle minoranze, definendole "meno
diffuse", come propria ricchezza, purché gli strumenti per
gestirla restino in mano ad apparati culturali controllati dallo
Stato e dai suoi partiti. Addirittura l'Europa riconosce la
valenza delle lingue e delle culture "regionali", indicando con
ciò l'unica dimensione territoriale in cui le
"identità" possono esprimersi.
Le istituzioni regionali europee
Le Regioni, i Lander, le Comunità convenzionalmente
definite soltanto "Regioni", costituiscono un ottimo momento di
decentramento, sono esperienze positive di una qualche autonomia,
terreno di applicazione di forme di sussidiarietà,
prudente sperimentazione di autonomie imperfette, ma poggiano su
nulla di più di un insieme di poteri che discendono sempre
da un potere superiore; per esse é disegnato un "ruolo
europeo" che, partendo dal Comitato delle Regioni istituito dal
trattato di Maastricht, è destinato a rafforzarsi, ma che
non hanno né richiesto, né contribuito a
determinare: altri hanno deciso per loro.
Le Nazioni senza Stato, le Nazioni senza Regione
Purtroppo, però, questa forma apparente di democrazia di
base, proposta e imposta come unica realtà possibile, come
unico spazio di libertà per le identità, presenta
grosse contraddizioni: intanto perché in Europa ci sono
identità specifiche cui non è riconosciuto neppure
questo spazio istituzionale minimo di carattere "regionale":
pensiamo agli occitani, che non esistono come realtà
territoriale; poi perché altre identità risultano
divise oltre che dai confini di Stato, anche da quelli regionale
e, quindi, anche nelle dinamiche europee destinate alle Regioni
restano divise; e infine perché - e questa la
considerazione chiave della riflessione - mentre alcune
identificano delle Nazioni senza Stato, altre non hanno nemmeno
ragioni geografiche di esistere, ma esistono in virtù di
una connotazione economica.
La criminalizzazione di chi non sta al gioco
Criminalizzando gli indipendentismi l'Europa impone un unico
spazio identitario, le Regioni, ma questo non basta a sopire le
rivendicazioni massimaliste. E quand'anche bastassero il bastone
e la carota (la concessione di un'autonomia e la repressione di
ogni ulteriore rivendicazione), come la reazione spagnola fa
credere, il problema continua a riaffiorare.
Il leghismo: ma l'economia è
un'identità?
Il leghismo pone un problema di identità nuova, di come il
problema della identità possa presentarsi sotto forme
diverse da quelle specificatamente identitarie, coagulando
realtà nazionalmente disomogenee, ma tra loro vicine dal
punto di vista economico e psicologico; il leghismo può
esser giudicato come un fenomeno negativo, egoistico, ecc., ma
è un fenomeno reale ed identifica un potenziale
contenzioso politico in Italia e in Europa.
Residui di nazionalismo statale
Francia, Germania e Inghilterra più degli altri Stati
europei rinunceranno davvero ad agire in quanto specifiche
identità nazionali per esser solo europee o non sono,
ormai, le nuove 'minoranze' dell'Europa?
Il concetto di francofonia non è forse qualcosa dì
più di una semplice affermazione linguistica e culturale e
non assume valenza di spazio politico-culturale-economico
specifico non scaturito e non voluto dalle dinamiche europee, ma
da quelle francesi?
Superare l'Europa
Lo scenario delle identità possibili, in virtù di
quest'ultima considerazione, può addirittura configurare
il superamento dell'Europa: proviamo - ad esempio - ad immaginare
quale immenso potenziale sia rappresentato dal Mediterraneo dal
punto di vista culturale, politico, economico, strategico,
disegnando una qualche omogeneità di intenti (storicamente
non così assurda) tra catalani, occitani, sardi, corsi,
siciliani, maltesi, nordafricani e sud-italiani.
Gli Stati e L'Europa responsabili di una pulizia
etnica
Una conclusione: è la realtà istituzionale Europea
ad imporre una "pulizia etnica" apparentemente non violenta, ma
comunque reale, in Europa: ne va della stabilità politico-
economica delle istituzioni statali, anche a fronte di un futuro,
forse non troppo lontano, nel quale la stessa Europa sarà
anacronistica a fronte di nuovi scenari e di nuove esigenze. Per
questo l'ETA ed altre sigle continueranno ad operare. La
verità è semplice: i prodotti istituzionali della
omologazione e della massificazione (gli Stati, l'Europa) non
sono la norma e l'identità la devianza; la
mondializzazione politico-economica non è il diritto e la
specificità una barbarie.
Ci sono tre strade: l'accettazione da parte delle Nazioni senza
Stato della logica delle Regioni; la diffusione del leghismo
(cioè l'autonomia conquistata non per ragioni storiche,
etniche, linguistiche, ma per calcolo economico) su scala
continentale; il rovesciamento dei contenuti progressisti della
rivendicazione identitaria in un movimento reazionario con i
tratti della ribellione anarco-collettivista proposta del
filosofo dello spiritualismo etnico, Julius Evola, formulata
dalla teoria dell'operaio-sociale di Toni Negri, espressa dal
sindacalismo rivoluzionario di Sorel. L'unica via percorribile
per le Nazioni senza Stato è, in realtà, la
chiarezza e la coscienza di dover smascherare strategie occulte
che trasformano in valori positivi (le Regioni) gli strumenti
concreti ed apparentemente democratici che - in realtà -
limitano l'esercizio della libertà politica.
Poi si può anche accettarne la logica perché
inevitabile e preferibile al sangue della rivolta, a condizione
che dalla coscienza dei fenomeni non nascano acquiescenza ad essi
e cointeressenza neocoloniale.
Claudio Magnabosco, Via Parigi 80, 11100 Aosta, e-mail: claudio.magnabosco@tiscali.it, cell. 340.7718024