di Claudio Magnabosco
INDICE
CONTRO LE CELEBRAZIONI DI CRISTOFORO COLOMBO |
IL BUREAU PER LE LINGUE MENO DIFFUSE CHIUDE
DAVVERO? | PER UN RILANCIO DELLA COOPERAZIONE
CULTURALE TRA NAZIONI SENZA STATO | PER UN
RILANCIO DELLA CONFERENZA DELLE NAZIONI SENZA STATO | UN INDIPENDENTISTA VALDOSTANO: Ricordo di Oscar
Perruchon | SE POTESSI PARLARE AI LEGHISTI ...
ED ESSERE ASCOLTATO | SE POTESSI PARLARE AI
VECCHI AMICI DEL CIEMEN IN ITALIA ... ED ESSERE ASCOLTATO |
SE POTESSI PARLARE AI FRIULANI ... ED ESSERE
ASCOLTATO | SE POTESSI PARLARE AI SARDI ... ED
ESSERE ASCOLTATO | SE POTESSI PARLARE AGLI
SLAVI DEL NATISONE ... ED ESSERE ASCOLTATO
Leggo una nota di Naila Clerici sui problemi dei pellerossa e
sul ruolo della sua associazione, la storica Soconas Incomindios,
nota nella quale lamenta che troppo spesso riesce, sì, ad
avere attenzione sulle problematiche dei nativi americani, ma
solo in modo superficiale, senza gli opportuni approfondimenti e
senza, soprattutto, lasciare davvero aperte le porte
all'espressione diretta dei problemi da parte di chi ne è
protagonista. Siamo invasi da esperti e studiosi che si applicano
alle diverse tematiche e problematiche e se ne appropriano,
scavalcando i legittimi depositari delle stesse. Gli studiosi
finiscono sempre coll'interpretare la realtà che
esaminano, con gli strumenti culturali di chi ha di quelle
realtà una visione distorta o, peggio, di chi ne è
nemico.
Interpretare, in questo senso, significa collocare l'esame e le
proposte che ne conseguono in scenari nei quali predomina sempre
una cultura maggiore e più grande che si dimostra
apparentemente democratica proprio nel suo calarsi su temi
minori. Questo non è il modo più corretto di
procedere o, quanto meno, non è il nostro modo.
Applicandoci ai problemi delle cosiddette "minoranze" noi ne
parliamo da protagonisti, non da esponenti di una cultura
dominante che vuol fagocitarle e per poterlo fare appieno se ne
propone come difensore. Questo dossier mette insieme alcune
situazioni nelle quali tutto ciò è dolorosamente
evidente.
Rilevo, così, anzitutto, che è arrivato un altro 12 ottobre e che anche in Italia, come negli Stati Uniti, si è celebrata alla grande la Giornata di Cristoforo Colombo. Ricordo bene la mobilitazione mondiale che, nei primi anni 90, portò alla costituzione di comitati contro le celebrazioni del quinto centenario della scoperta dell'America, anniversario di un genocidio senza fine. I diritti dei popoli autoctoni delle Americhe sono da sempre violati. Ricordare Colombo, quindi, può avere un senso solo se la lettura storica è capace di analizzare tutti gli aspetti dell'evento, anche quelli negativi. Altrimenti non facciamo altro che creare e celebrare la cultura della dominazione. Del resto non siamo forse in un periodo storico nel quale ci troviamo, proprio per ragioni di dominio, immersi in un clima di guerra? Torno ad tema più vicino al nostro specifico impegno.
L'applicazione dell'articolo 6 della Costituzione oggi sembra
un fatto acquisito; in realtà nelle sue formulazioni
burocratiche, la legge consente solo di fare qualcosa, poco, ma
comunque molto più di quanto era pensabile anni or sono,
quando era proibito fare anche il minimo indispensabile per
salvaguardarle. A questo, tuttavia, si è arrivati con
oltre 50 anni di ritardo, quando il sussistere di alcune
realtà linguistiche era - come è - fortemente
ridimensionato e non più pericoloso per l'unità e
l'unicità culturale dello Stato ... nazionale.
Ora ci troviamo di fronte alla notizia che le istituzioni europee
intendono affossare o già l'hanno fatto, il Bureau, creato
per attuare politiche nei confronti delle cosiddette lingue meno
diffuse. Notizia allarmante, per alcuni, presa ad esempio per
evidenziare la scarsa sensibilità dell'Europa verso le
diversità culturali e linguistiche. Questa è
l'apparente verità.
Ora qualcuno, leggendomi, potrà anche credere che mi sono
rimbecillito, ma io quasi mi compiaccio che si sia giunti a
questo indecoroso epilogo. Quando ho ricevuto il messaggio
dell'APM in merito, ho risposto di getto che la cosa non mi
sorprendeva, perché l'insensibilità europea verso
le minoranze è risaputa, ma anche perché questo
epilogo era scritto fin da quando il Bureau venne
istituito.
Questa è la notizia diffusa dall'APM:
Il fallimento dell'UE: l'Unione Europea rinuncia ad una
propria politica per le minoranze, in www.gfbv.it/2c-stampa/04-1/040806it.html.
E questa la mia risposta.
Devo dirvi, in tuta sincerità, che la notizia non mi
sorprende o non mi allarma: quando il Bureau nacque si
determinarono gravissimi problemi, soprattutto per quanto
concerne la rappresentatività delle nazionalità e
delle lingue dello Stato italiano; allora la questione fu gestita
in modo strumentale da militanti legati alla partitocrazia
italiana e nessuna delle organizzazioni storiche delle lotte
linguistiche trovò adeguato spazio. Né la LELINAMI,
né il CIEMEN , Né l'AIDILCM videro riconosciuto il
ruolo storico che avevano giocato. Per questo non ho mai
considerato l'EBLUL come rappresentante delle nazionalità
e delle lingue, ma - piuttosto - come lo strumento attraverso il
quale le nazionalità e le lingue potevano essere tacitate.
Ora che il risultato è quasi raggiunto e che le spinti
linguistiche sono quasi azzerate, mentre quelle politiche sono
criminalizzate, una struttura di questo genere non serve
più ... né agli Stati, né ai partiti.
Scusate la franchezza ed il mio proclamare, fuori dal coro, una
verità che, purtroppo avevo previsto si sarebbe prodotta.
Fare battaglie per salvare, oggi, una simile struttura mi sembra
una perdita di tempo, un fermarsi alla burocrazia europea, mentre
per le nostre lingue e per le nostre nazionalità ci
vogliono nuove dinamiche ed un rilancio dei contatti e delle
occasioni di collaborazione e di solidarietà sul piano
politico, su quello sindacale, su quello culturale.
Non sto a limare le idee e le affermazioni, anche se nella mia
risposta, bruciante ed immediata, non ho affatto curato i
dettagli letterari. Mi soffermo, allora, sulle mie stesse
conclusioni. E' necessario un rilancio. Un rilancio culturale, un
rilancio politico, un rilancio sindacale dell'azione di
solidarietà tra le nazionalità, i popoli, le
minoranze, le lingue meno diffuse che dir si voglia.
Credo che l'APM abbia un gran ruolo in tutto ciò, ma credo anche che si debba produrre una sinergia tra le diverse organizzazioni internazionali che si occupano delle nostre problematiche: APM, CIEMEN, AIDLCM - e resto in Europa - dovrebbero trovare un'occasione di incontro e di confronto, mentre in Italia dovremmo assolutamente ritrovare la possibilità di attuare momenti di collaborazione, come quelli che sempre quelle stesse organizzazioni resero possibili in passato e come quelle che si attuarono attraverso la LELINAMI. Propongo, pertanto la creazione di un tavolo di concertazione tra le nostre organizzazioni culturali, per capire insieme cosa è possibile e cosa è necessario fare in Italia. Uno degli obiettivi di questa dinamica potrebbe essere portare avanti l'affermazione di quanto previsto e contenuto nella Dichiarazione Universale dei Diritti Linguistici.
Credo sia assolutamente necessario, inoltre, dare nuova
dinamica alla CONSEU, Conferenza delle Nazioni senza Stato,
affidandole due compiti: affermare quanto sancito nella
Dichiarazione Universale dei Diritti Collettivi dei Popoli e
contrastare la Costituzione Europea, nella quale la stessa
nozione di popoli, riferita alle Nazioni senza Stato o come
altrimenti definite, è inesistente, nella quale non
è sancito alcun diritto, neppure in relazione alle
realtà regionali ed i diritti linguistici sono unicamente
riconosciuti alle lingue degli Stati.
Propongo, qui di seguito, il testo finale dell'ultima Conferenza
delle Nazioni senza Stato tenutasi a Cagliari, nella quale, tra
l'altro, è prefigurata l'esigenza di affrontare il
problema dell'identità europea e delle lingue alla luce
del fenomeno straordinario ed irripetibile delle
migrazioni.
CONSEU Conferenza delle Nazioni senza Stato d'Europa,
CONCLUSIONI DELLA QUINTA ASSEMBLEA GENERALE (Cagliari, 28
Settembre, 2003)
La 5a Assemblea Generale della CONSEU, riunita a CAGLIARI nei
giorni 26, 27 e 28 Settembre 2003, ha analizzato il progetto di
Costituzione Europea elaborato dalla Convenzione Europea, che
sarà posto in discussione in occasione della Conferenza
intergovernativa di Roma il 4 ottobre 2003 in www.gfbv.it/3dossier/eu-min/conseu-it.html.
LAVORARE CON I SINDACATI DELLE NAZIONI SENZA
STATO
La mondializzazione sta portando con sé anche logiche
economiche perverse: è inevitabile, quindi, che quello
sindacale sia, anch'esso, nostro terreno di concreto impegno. Per
iniziativa del Sindacato basco LAB, si è costituito a San
Sebastian un organismo internazionale di collegamento tra
Organizzazioni Sindacali delle Nazioni senza Stato.
Propongo, qui di seguito, il documento conclusivo dell'incontro,
certo che costituisca un'occasione di riflessione in
più.
PRIMA CONFERENZA INTERNAZIONALE DEI SINDACATI DELLE
NAZIONI SENZA STATO: RISOLUZIONE FINALE
Il sistema capitalista è giunto a stabilire un quadro
mondiale di valorizzazione del capitale che, senza troppe
difficoltà, gli permette di estendere il suo sistema di
sfruttamento basato sulla produzione e sulla appropriazione del
plus-valore prodotto dal lavoro sul mercato oltre che della
totalità della ricchezza prodotta dal lavorodomestico, di
asistenza e di cura, tradizionalmente affidato alla donna.
Il neoliberismo ideologico che permette questa offensiva del
capitale, attribuisce al mercato il potere di regolare i flussis
economici, crea e trasforma il ruolo delle istituzioni
internazionali (FMI, BM, OMC al limite attraverso l'ONU) per
consolidare il suo sistema e trasforma in merci perfino i diritti
e le conquiste sociali conseguite con anni e anni di lotte
politiche e sindacali.
Sono le imprese transnazionali ad imporre le loro leggi ed a
trasformare strutture come l'OMC in tribunali mondiali che
dettano le regole di funzionamento del mercato neoliberale. Con
il pretesto del libero accesso al mercato, proposto come una
bandiera, hanno trasformato diritti umani di base come la salute,
l'educazione, l'assistenza sociale, la casa e la cultura, in
merci che nelle mani del capitale multinazionale si comperano e
si vendono, sottoponendone il rispetto alla logica capitalista
con il solo scopo di trarre un po' di plus-valore sempre
più rilevante, nel più breve tempo possibile.
Il pianeta è diventato il campo di azione del capitale
multinazionale che, nella sua costante ricerca di riduzione dei
costi di produzione, ha fatto delle decolonizzazione uno degli
strumenti più efficaci per accentuare lo sfruttamento
della forza lavoro, oltre che un fattore supplementare
dell'instabilità economica, sia sul piano regionale, sia
sul piano mondiale.
Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza
l'alleanza tra il capitale ed i governi attuali che accettano e
rappresentano la divisione dei ruoli in questo ordine mondiale.
Le politiche pubbliche hanno acquisito un carattere unicamente
sussidiario, lasciando nelle mani del capitale l'iniziativa di
tutto ciò che concerne la politica economica ed il modello
di sviluppo. Resta agli stati il "privilegio" di privatizzare il
settore pubblico, di modificare le relazioni nel mondo del lavoro
e di agire come una forza d'urto contro la resistenza dei
lavoratori e delle lavoratrici.
Questa evoluzione del sistema capitalistico è stata
possibile grazie alla rivoluzione che è avvenuta nelle
relazioni di lavoro nelle imprese attraverso l'appropriazione da
parte del capitale delle innovazioni tecnologiche. Le riforme
successive nel mondo del lavoro rafforzano il potere dell'impresa
per determinare le relazioni nel lavoro. La gestione della forza
lavoro giunge ad affermarne una flessibilità estrema che
permette l'utilizzazione della forza lavoro stessa in funzione
dei bisogni della produzione, l'individualizzazione delle
relazioni nel lavoro e la competitività addirittura tra
gruppi d lavoro che dividono la classe dei lavoratori in
collettivi la cui realtà ed i cui interessi sarebbero
addirittura opposti.
Gli effetti di questo neoliberismo si fanno sentire su scala
mondiale, ma anche su ciascun popolo della terra. E' il sistema
di dominio che decide, in ogni istante, le regole del gioco, in
modo unilaterale, usurpando il diritto e la capacità dei
popoli del mondo di decidere sulle questioni che riguardano il
loro steso avvenire. Conseguenza di questa dittatura è il
carattere imperialista del sistema a livello politico, militare,
economico e culturale che si accentua con un evidente disprezzo
per l'ambiente, sfruttando senza scrupoli le risorse della terra,
utilizzando, al tempo stesso, anche i residui inquinanti; per i
popoli del mondo si accentua ogni giorno la difficoltà di
affermarsi in quanto tali, in modo sovrano ed indipendente. La
classe lavoratrice non è risparmiata da questa dittatura
che incoraggia la riorganizzazione delle classi sociali sulla
base della esclusione di un numero sempre maggiore di persone
dall'accesso al lavoro, dalla partecipazione equa alla
redistribuzione della ricchezza e ad una vita dignitosa. E' una
dittatura, inoltre, che mira a perpetuare la divisione sessuale
del lavoro ed a mantenere le donne in condizione di
sussidiarietà.
Questa così ampia riorganizzazione del sistema capitalista
determina lo sbandamento ideologico del movimento operaio, con
l'introduzione di valori che gli sono estranei, come
l'individualismo, la mancanza di solidarietà, il consumo
ad oltranza, una riorganizzazione che causa la rottura di classe
e la sua segmentazione in colletivi i cui interessi diventano
apparentemente opposti, ma anche con l'introduzione di elementi
di disprezzo nei confronti del ruolo stesso del movimento
sindacale. Mentre il capitale si attrezza per il controllo totale
del plus-valore creato nei suoi centri di lavoro e mette in campo
gli strumenti necessari alla sua offensiva ideologica, il
sindacalismo (maggioritario, classico, burocratizzato,
istituzionalizzato ...), partendo da posizioni parziali ed a
breve termine, inizia soltanto ora a tentare di colmare il
divario che spacca la classe operaia, privandola della
capacità reale di reagire e condizionando negativamente il
proprio stesso ruolo di sindacalismo come strumento di
contro-potere con capacità di contribuire efficacemente
alla costruzione di un nuovo modello di società.
Partendo da questa analisi i sindacati (di classe) delle Nazioni
senza Stato firmatarie esprimono la loro intenzione di operare
per costruire un modello di società alternativo, non
sottomesso alle attuali regole del sistema neoliberale, ed a
proporre, inoltre, un nuovo modello sindacale che, in termini di
rivendicazioni, di modelli di intervento e di strutture
sindacali, si adatti alla nuova realtà che la classe
lavoratrice rappresenta.
Affermiamo che la risposta e l'alternativa al modello della
globalizzazione neoliberale, passa attraverso la critica radicale
di quel modello stesso, ma passa anche attrvaerso il
rafforzamento ideologico della classe lavoratrice, attraverso la
ricomposizione della classe operaia in quanto soggetto delle
trasformazioni e attraverso la volorizzazione del movimento
operaio e sindacale come strumento di mutamento politico ed
economico.
Accettiamo la sfida del recupero del sindacalismo, del suo ruolo
di rappresentazione degli interessi dell'intera classe operaia,
uscendo dal deficit storico relativo alla considerazione
sussidiaria del ruolo della donna nel mercato del lavoro e nella
società ed alla divisione sessuale sul piano pubblico e
privato del lavoro ed anche alla dissociazione tra difesa dei
diritti individuali dei lavoratori e delle lavoratrici.
Ci impegnamo per la riconquista della sovranità dei popoli
in quanto diritto e risposta all'uniformizzazione imposta dalla
globalizzazione. L'esercizio democratico della sovranità
rende possibileuna difesa più vicina ai diritti di classe
dei lavoratori, senza far venir meno la necessaria
solidarietà tra i popoli.
Donostia/San Sebastian 19 maggio 2004
Ai lavori della Conferenza hanno preso parte anche rappresentanti sindacali della Scozia, dell'Angola, del Venezuela, dell'Argentina, del Messico, della Repubblica Dominicana, dell'Ecuador, dell'Uruguay, della Bolivia. Messaggi di solidarietà sono pervenuti da rappresentanze sindacali di numerosi altri paesi.
Dei suoi modi austeri e per certi versi aristocratici, negli
ultimi tempi era rimasto poco, ed il suo incedere penoso ed
incerto non lasciava trasparire che egli fosse Stato uomo capace
di audaci anni di militanza politico indipendentista. Chi
è impegnato da sempre nell'area indipendentista si
sorprese un poco quando il professore si buttò nella
mischia con veemenza, criticando non solo il palazzo del governo
valdostano, ma il governo dello Stato ed i governi degli Stati in
genere.
Questa sua collocazione ideale e politica sorprese i più
che lo ricordavano democristiano, poi demopopolare, poi leghista
ma, soprattutto, studioso attento delle cose giuridiche, tanto
che di lui resta un bel libro scritto con Valdo Azzoni e dedicato
alla figura del Presidente della Giunta nella regione autonoma
Valle d'Aosta. Non di questo o quel Presidente della Giunta, ma
del Presidente in senso generale, quello che riassume in se le
competenze del Prefetto e la contraddizione fondamentale del
rappresentare, nello stesso tempo, la massima carica della
Regione e la massima carica dello Stato nella Valle.
Per un lungo periodo il prof. Perruchon tentò di dar voce
ad un indipendentismo romantico e dissennato, poiché, come
egli diceva, non si può fare l'indipendenza della Valle
d'Aosta se non possiede neppure un aereo che possa imporla e
difenderla. Si immaginò, un poco vaneggiando, potesse
sussistere in Valle d'Aosta una volontà popolare di
contrastare Roma ed i governi europei; la sua voce suonò
forte mentre in Valle d'Aosta cercava spazi quel famoso Crevelle,
anarco-monarchista francese che tentava di fomentare una rivolta
la cui repressione avrebbe fatto della Valle d'Aosta una terra di
lotte violente ed un caso internazionale.
Bastò poco alle forze dell'ordine per tacitare questi
indipendentismi; bastò inguaiare il prof. Perruchon, le
cui dichiarazioni dure e provocatorie parvero pericolose, anche
se non sarebbe Stato difficile capire quanto erano, in
realtà, soltanto velleitarie e senili. Bastò poco
al mondo politico per tacitare altre voci indipendentiste,
sostanzialmente appartenenti a persone legate all'UV e deluse
dalla stessa.
Restarono a fare gli indipendentisti, pochi ex arpitani e alcuni
ex leghisti, persone che non avendo quasi mai militato nell'UV,
potevano almeno porsi in alternativa ideale ad essa, potendo
vantare un'indipendenza psicologica anche dai leader dell'UV che
spesso hanno manovrato gli indipendentisti per creare un
parcheggio di voti e di ideali, nel quale collocare tutti gli
scontenti, senza far danno alle battaglie politiche contingenti
per la gestione del potere autonomistico.
Perruchon fu voce che finì con l'infastidire tutti, anche
gli indipendentisti che si ritrovarono a fare i conti con troppe
stranezze e con l'incapacità di capirle e di spiegarle:
gli autonomisti/indipendentisti savoiardi, i veneti di San Marco
che occuparono il campanile, il separatismo leghista che è
finito addirittura fra le braccia di Berlusconi e Fini ed i
fulmini di Perruchon furono una cornice troppo complessa e
contraddittoria per farvi riferimento e per render credibile un
già improbabile indipendentismo valdostano.
Perruchon pagò a caro prezzo le sue considerazioni storico
politiche e bastò un procedimento giudiziario a stroncarlo
come uomo e come militante. Dopo quell'episodio la sua salute
divenne ancor più malferma di quanto potesse renderla
l'età avanzata e, probabilmente, si accorse di inseguire
da solo un mito e di non avere nessuno dietro di se, se non
qualcuno pronto a spingerlo oltre il limite, per lasciarlo poi,
solo. Triste conclusione e lento spegnersi di un'intelligenza
fatta di genialità inespresse.
Poi la malattia si fece più grave, gli anni divennero un
peso ed era difficile incontrarlo perfino nei pressi di casa,
assorbito nei pensieri di una lenta passeggiata. Molti si sono
dimenticati di lui, altri si chiedono se fosse più giusto
ricordare l'uomo, il professore, la persona che fu per quasi
tutta la vita o quel che tentò di diventare negli ultimi
anni, quel fantasma dell'indipendentismo, di cui egli
rappresentò la più incredibile propaggine politica,
lui che da uomo di cultura, avrebbe potuto - invece - contribuire
a costruirne la concreta base culturale: l'indipendenza
intellettuale e psicologica, da cui potrebbe discendere, e
discenderà un giorno, l'altra.
Devolution falsa conquista
A molti di voi il mio nome è sicuramente sconosciuto, ma
non lo è per alcuni dei vostri leader con i quali ho
incrociato, in tempi lontani, difficili percorsi e confronti.
Erano gli anni dei vostri primi passi ed io rappresentavo l'Union
Valdotaine, il partito autonomista e federalista storico della
Valle d'Aosta, negli incontri che si svolgevano in giro per
l'Italia per mettere insieme il movimento nazionalitario ed i
federalisti contro il centralismo romano.
Per le elezioni europee del 1979, l'UV creò un listone
che si presentò in tutta Italia; nel corso di quella
campagna elettorale Umberto Bossi incontrò casualmente
Bruno Salvadori, leader dell'UV. Un anno dopo Salvadori
morì in un incidente stradale ed io ebbi l'incarico di
continuare a tessere la rete di contatti. Ci misi del mio:
allora, come oggi, avevo una mia visione politica e faticavo a
leggere nel leghismo nascente un fenomeno davvero utile e
compatibile con gli interessi del movimento nazionalitario.
Fui tra i protagonisti o tra i responsabili - se volete -
dell'interruzione dei rapporti tra il movimento nazionalitario ed
il leghismo che si tradusse nella presentazione alle elezioni
europee del 1984 di due diverse liste, quella delle
nazionalità e quella dei leghismi. Molti non mi
perdonarono il fatto che io, cimbro/veneto di origine, non
sposassi la causa della Liga e della Lega e, anzi, per certi
versi mi contrapponessi ad esse per stringere legami - come feci
- con il Movimento Meridionale.
Fin qui la storia che sintetizzo per permettere ai lettori di
conoscermi e, quindi, di leggere questo mio commento alla
cosiddetta devolution, considerandomi o il traditore di sempre
oppure, più correttamente, uno studioso il cui impegno
militante si è tradotto nell'esigenza di affermare che una
cosa sono le nazionalità, un'altra le popolazioni che,
convivendo in una data area geografica, armonizzano le loro
diversità in un progetto di rispetto reciproco: solo
questa è, a mio avviso, e può essere la Padania,
area geografica, con grande peso e rilevanza politica ed
economica. Se esiste una Padania esiste, quindi, come esiste
l'Arco Alpino, come esiste l'area Mediterranea, zone/aree
geografiche nelle quali si producono vicinanze, similitudini e
sintonie tra popoli e Nazioni diverse.
I leghisti hanno analizzato la realtà delle Regioni a
statuto speciale, quelle la cui autonomia è basata sui
diritti che la specificità etnica, linguistica, storia e
geografica non poteva negare a popoli/nazionalità/Nazioni
senza Stato/ minoranze che dir si voglia. Senza quella
specificità non sussisteva la possibilità, almeno
nelle logiche giuridiche italiane, che quel tipo di autonomia
venisse riconosciuto ed attribuita, tant'è che
nell'ordinamento italiano vennero create anche le Regioni
"ordinarie", istituzioni le cui caratteristiche erano e sono di
mero decentramento.
La devolution non fa altro che attribuire alle regioni,
competenze, alcune significative, altre meno, ma che si tratti -
ancora - di semplice decentramento è indiscutibile: Se si
trattasse, infatti, di "federalismo" ci troveremmo in tutt'altra
situazione, nel senso che tutte le competenze dovrebbero essere
attribuite alle "Regioni" e ad esser definite e delimitate
dovrebbero essere solo le competenze che le Regioni attribuiscono
e riconoscono allo Stato.
L'esempio cui i leghisti hanno spesso attinto, quello della Valle
d'Aosta, non è perfetto ed i valdostani ritengono che la
pur ampia autonomia che hanno ottenuto nel 1948, non corrisponda
affatto alle loro aspettative; i valdostani, inoltre, hanno
atteso un trentennio per veder chiaramente formulato il principio
del riparto fiscale, quella sostanziale forma di autonomia che
attribuisce alla Regione i 9/10 di tutte le tasse pagate in Valle
d'Aosta.
La Valle d'Aosta ha un ampio elenco di materie nelle quali ha
competenza primaria ed ha visto riconosciuta e tutelata la
propria specificità etnica e linguistica; eppure neppure
questo è vero federalismo, anzi i valdostani hanno
definito l'autonomia in due modi "endroumia" e "decaffeinata", il
primo dei quali significa che l'autonomia ha addormentato la
rivendicazione di più sostanziali diritti, mentre il
secondo spiega che l'autonomia toglie al diritto la sua sostanza
più profonda..
La devolution non è federalismo e non è neppure
vera autonomia. Tuttavia addormenterà le tensioni e le
rivendicazioni, poiché mi pare assolutamente chiaro che la
Lega stia tentando di far credere di aver finalmente vinto la
propria battaglia per il federalismo. La gestione e
l'amministrazione delle nuove competenze assorbiranno molte
energie e molte risorse, distogliendole dall'impegno politico di
una vera rivendicazione federalista.
La Lega rischia, in questo modo, di spegnersi, di considerare
esaurito il proprio ruolo storico avendo infine raggiunto il
risultato che si prefiggeva. Credo che per raggiungere questo
obiettivo assai poco significativo, la Lega abbia contribuito a
compromettere la reale possibilità di attuare una
trasformazione in senso federale dello Stato, così come in
passato contribuì, al pari dell'estrema destra, a bloccare
la legge di attuazione dell'articolo 6 della Costituzione che per
oltre 50 promise inutilmente tutela alle cosiddette minoranze
linguistiche e che tardò ad essere applicata: i leghisti
non sposarono la causa della difesa delle lingue delle minoranze
storiche, ma tentarono di avallare la stessa identità
etnica dei lombardi, degli emiliani, dei toscani, ecc.
ingenerando una confusione di cui poterono approfittare i
centralisti.
Credo e temo che questa devolution possa diventare il primo passo
di una crisi irreversibile della Lega; per un po' di tempo
riuscirà a celebrare entusiasticamente il successo della
devolution e, magari, addirittura ad aumentare i propri consensi,
o quanto meno a non perderne, ma poi dovrà calarsi nella
realtà della applicazione di quanto ha voluto e difeso ed
allora sarà chiaro a lei e a tutti, di quanti siano i
limiti e le contraddizioni di questo risultato.
Sono personalmente fuori dai giochi della politica, resto -
quindi - un osservatore quasi esterno; ma se mi si riconosce un
minimo di credibilità il contenuto di questa lettera
è, sostanzialmente, una sintesi di ciò che ho
sempre pensato del leghismo.
Se potessi parlare ai leghisti ... ed essere ascoltato, direi
loro di ripensare al ruolo della Lega e di far nascere o
rinascere, le vecchie, radicate e profonde organizzazioni
politiche "regionali", sciogliendo la Lega per costruire,
finalmente, quel soggetto politico realmente federalista, la
federazione dei partiti regionali, federalisti e nazionalitari,
antidoto ed antitesi al Polo e all'Ulivo, non terza via, ma unica
alternativa: la trasformazione dello Stato e dell'Europa in senso
federale.
Ricordo che nel 1979, quando l'U.V. proponeva un'alleanza per le
elezioni europee a tutti i partiti autonomisti, federalisti,
regionalisti, nazionalitari, analizzando il progetto della lista,
tutto teso a riaffermare il diritto all'autodeterminazione dei
popoli, a trovar spazio per i diritti della Nazioni senza Stato,
a trasformare lo Stato italiano in senso federale, Sergio Salvi
scriveva che "100 campanili non fanno una Nazione".
Morale, bisogna pur distinguere cosa sia una Nazione senza Stato
e cosa sia una variante regionale, una cultura locale. Il
leghismo ha fatto troppa confusione in questo campo. Oggi che i
diritti delle nazionalità sono negati e criminalizzati
(chiedere l'affermazione del diritto all'autodeterminazione
significa esser considerati dei terroristi), il tentativo di
lavorare sul diritto positivo, facendo chiarezza dei termini e
delle problematiche comporta la necessità di non avere
punti deboli e contraddittori. Le posizioni e le scelte della
lega sono il punto debole di ogni rivendicazione di tale diritto.
Spero che quando i leghisti se ne renderanno conto, non sia
troppo tardi.
IL CIEMEN, I DIRITTI DEI POPOLI,
L'AUTODETERMINAZIONE
Per una storia dal 1975 ai giorni nostri
Quando il CIEMEN si costituì (1975), le nazionalità
dello stato italiano stavano attraversando un momento di
particolare e positiva attività: erano in atto molteplici
tentativi di aggregazione delle loro forze politiche, si stavano
ponendo le basi per stabilire rapporti tra le loro organizzazioni
sindacali. La nascita del CIEMEN rese possibile l'approfondimento
delle problematiche che stavano a monte di queste dinamiche e,
insieme, determinò il perfezionarsi di una certezza:
portando avanti tutte insieme un confronto con lo Stato, le
nazionalità sarebbero state più forti.
Per non andare a cercare eventi troppo lontani nel tempo che
diano una valore storico a questa azione di unità nella
diversità (ma potremmo ricordare almeno che nel '43, sotto
il fascismo, le nazionalità dell'arco alpino rivendicarono
l'autonomia e spazi istituzionali simili ai cantoni svizzeri; che
nel '47 nella nascente democrazia italiana post-fascista le
nazionalità proposero di trasformare lo Stato in senso
federalista, ecc.) è dal 1970 che bisogna cercare i primi
momenti di una fattiva cooperazione tra sardi, friulani, sloveni,
valdostani, occitani, sudtirolesi in chiave chiaramente
nazionalitaria: intellettuali e rappresentanti di organizzazioni
culturali si riunivano spesso a Milano, ad Aosta e in Sardegna,
crearono un Movimento (il MEM, Movimento Europeo Minoranze),
primo passo verso un accordo elettorale da concretizzare
aggregando tutti i partiti nazionalitari per le elezioni europee.
La nascita del CIEMEN diede la pennellata internazionale al
movimento delle nazionalità in Italia ed evidenziò
che non erano più accettabili le contraddizioni e le
confusioni tra autonomismo, regionalismo, federalismo,
confederalismo, indipendentismo, separatismo che spesso
caratterizzavano il linguaggio del progetto politico delle
diverse organizzazioni nazionalitarie, quasi non sussistessero
sostanziali differenze nel significato di quei termini.
Il CIEMEN mosse i primi passi in una Italia e in
nazionalità che avevano un gran bisogno di capire; i libri
di Sergio Salvi, ma anche quelli di Edoardo Ballone e di Massimo
Olmi, evidenziavano che la questione linguistica, quella che
aveva portato ad un interminabile dibattito sulla applicazione
dell'articolo 6 della Costituzione italiana ("la Repubblica
tutela le minoranze linguistiche"), non prescindeva dalla
questione nazionalitaria: la definizione "minoranze
linguistiche", infatti, sembrava voler tutelare più che i
diritti reali delle lingue delle nazionalità all'interno
di un loro territorio definito, le prerogative dell'unità
dello Stato e della sua lingua, l'italiano; riconoscere
l'esistenza di semplici minoranze culturali all'interno di una
Stato definito nazionale ed unitario, diventava - infatti - per
lo Stato un gesto democratico e meritorio, mentre riconoscere
l'esistenza di minoranze nazionali identificate attraverso la
lingua ed il territorio, avrebbe significato ammettere la
plurinazionalità dello Stato, riconoscimento che in alcun
modo né gli apparati né i partiti dello Stato
potevano accettare senza che venissero meno il loro ruolo e la
loro stessa legittimazione.
Per capire meglio quanto la situazione potesse essere esplosiva,
analizziamo brevemente la situazione delle diverse
nazionalità. l'Union Valdotaine governava una Valle
d'Aosta che stava conquistando fette importanti di reale
autonomia, come il riparto fiscale che attribuiva alla Regione
Autonoma Valle d'Aosta i nove decimi di tutte le tasse pagate in
Valle d'Aosta, preconizzando una situazione di federalismo
fiscale. La Sudtirolervolkspartei governava la Provincia di
Bolzano proponendo modelli di separazione tra tedeschi ed
italiani che sembravano esportabili, anche perchè la
qualità della vita nella Provincia tedesca di
Bolzano/Bozen, confermava che l'autogoverno corrispondeva a
migliori opportunità di progresso. In Sardegna il fermento
politico era così forte che gruppi di estremisti
ispirarono all'editore Gian Giacomo Feltrinellli l'ipotesi di
poter fare della Sardegna la Cuba del Mediterraneo; Feltrinelli
morì confezionando una bomba, il sardismo superò i
velleitari propositi di lotta armata e sul bisogno di
identità il Partito Sardo d'Azione ricostruì un
consenso che lo portò ad ottenere esaltanti successi. In
Friuli il Movimento Friuli si avviava a trasformare in consensi
elettorali la grandissima adesione popolare a tutto ciò
che dava forza e corpo alla cultura friulana, a cominciare dalla
grande mobilitazione per l'Università di Udine/Udin; il
Friuli, scosso da un terribile terremoto, proprio in quegli anni
riscoprì il proprio orgoglio identitario; ne era convinto,
in particolare Sergio Salvi che fece una scommessa intellettuale
proprio sulle possibilità di riscatto nazionale del Friuli
(insieme alla Sardegna). In Occitania nasceva il MAO, Movimento
Autonomista Occitano che rivendicava il riconoscimento dei
diritti culturali ed amministrativi rispondenti al criterio di
territorialità.
Nel 1979 alle elezioni europee si presentò in tutta Italia
una lista delle nazionalità che sfiorò la conquista
di un parlamentare europeo, risultato che ottenne nel 1984,
quando mentre i partiti nazionalitari erano saldamente legati tra
loro, nasceva anche un vero e proprio coordinamento delle
organizzazioni sindacali nazionalitarie e la cooperazione delle
nazionalità sul piano culturale portava, propria grazie
alla spinta del CIEMEN, a fervidi scambi. Di tutto ciò il
CIEMEN fu protagonista e testimone con la sua rivista
"Minoranze", diretta da Carlo Alberto Delfino ed alla cui
redazione parteciparono tutti i maggiori studiosi del problema in
Italia. Quando il CIEMEN presentò la realtà sarda,
furono intellettuali come Antonello Satta, Lilliu e Spiga a
firmare importanti contributi diffusi a livello
internazionale.
Personalmente ritengo che il lavoro del CIEMEN in Italia sia
stato di fondamentale importanza sia per giungere alla
sottoscrizione, nel 1984, di quella Carta dell'Autodeterminazione
che è la Dichiarazione Emile Chanoux (martire della
resistenza valdostana antifascista), sia per la successiva
creazione della Conseu, la Conferenza delle Nazioni senza Stato.
Ma non è solo opinione personale il fatto che la ventata
di entusiasmo e di chiarezza culturale che le nazionalità
espressero in quegli anni in Italia, fosse dovuta proprio al
ruolo che il CIEMEN seppe esercitare. Il CIEMEN influenzò
effettivamente i partiti, i sindacati, le organizzazioni
culturali, i media; i principali attori di questo particolare
"fenomeno" (uomini politici, intellettuali, esponenti della
cultura e dei media), furono tutte persone coinvolte
nell'esperienza CIEMEN. In molti documenti congressuali di
partiti, sindacati e di organizzazioni culturali, il ruolo del
CIEMEN è chiaramente indicato e riconosciuto.
Una esperienza complessa e dalle molteplici sfaccettature quella
del lavoro "italiano" del CIEMEN: dall'Italia molti partivano
d'estate per seguire i seminari di Saint-Michel de Cuixà
(lo ricorda anche Marras nel suo libro su Antonio Simon Mossa e
il sardismo); in Italia si realizzavano attraverso il CIEMEN
importanti mostre d'arte come quelle dedicate al catalano
universale, Joan Mirò; su tutto l'arco alpino si
realizzavano eventi musicali dedicati alle musiche delle
nazionalità; vennero proposte manifestazioni
internazionali dedicate al cinema delle nazionalità, ecc.
L'elenco di ciò che è stato fatto sarebbe troppo
lungo e servirebbe a poco proporlo in forma autogratificante e
celebrativa.
Con orgoglio i militanti del CIEMEN in Italia ricordavano allora
di aver espresso attenzione e solidarietà sui giornali
delle diverse nazionalità, già all'inzio degli anni
'60 all'abate Aureli Escarrè, quando questi fu esiliato da
Franco; tutto ciò costruì quasi un mito della
solidarietà internazionale, mito rafforzato dalla passione
con cui venivano seguite le drammatiche vicende che
interessavano, ad esempio, i Paesi Baschi e l'Irlanda prima, ma
anche la Corsica e la Bretagna poi. Di lì a poco l'Italia
entrò in un periodo di grave crisi istituzionale; veniva
travolta da continui scandali che determinarono la morte di
quella che veniva chiamata la "partitocrazia". Il momento era
molto delicato e fu proprio in questo momento che le contromisure
messe in atto per frenare le rivendicazioni delle
nazionalità cominciarono a produrre i loro effetti.
Era nata, nel frattempo, l'esperienza del leghismo che proponeva
di estendere le specificità politico-amministrative della
Valle d'Aosta e della Provincia di Bozen a tutte le regioni
d'Italia, e questo mentre la Lega giocava pesantemente la carta
del razzismo contrapponendo il nord ed il sud dello Stato,
proponendo di dividere l'Italia in due o tre macroregioni, la cui
identità ed il cui ritmo di sviluppo estremamente
differenziati, non impedissero al nord di entrare nelle dinamiche
monetarie, commerciali e politiche dell'Europa; la Lega sosteneva
che il sud costituiva una palla al piedi per lo sviluppo del
nord. Poi "perfezionò" la sua rivendicazione individuando
nel nord l'esistenza di una nazione fittizia, la Padania. A
livello partitico, sindacale e culturale si creò una
frattura pesante tra le nazionalità ed il leghismo; il
CIEMEN - o quanto meno gli uomini di punta del CIEMEN in Italia
in quegli anni - ne fu il protagonista, affermando che la causa
delle nazionalità rischiava di esser compromessa dal
razzismo della Lega che rivendicava sì il diritto
all'autodeterminazione dei popoli ed il rispetto dei diritti
linguistici, ma lo faceva in modo contraddittorio, confuso e
razzistico.
Sulla questione linguistica si riproposero le vecchie e ben note
contrapposizioni dei nazionalisti italiani che non volevano
venisse riconosciuto alcun diritto alle altre lingue; i leghisti
complicarono la questione chiedendo che anche le lingue regionali
della Toscana, della Liguria, della Lombardia, ecc. ottenessero
la stessa tutela che la Costituzione aveva almeno formalmente
garantito alle lingue delle nazionalità; e quando a
livello europeo si concretizzò la possibilità di
sostenere le lingue delle nazionalità (definite "meno
diffuse"), la prima applicazione di questo proposito fu affidata
ad una organizzazione controllata da esponenti della
partitocrazia di lingua e cultura italiane. Sulla questione
politica fecero presa, poco a poco, le strumentalizzazioni e
l'azione di criminalizzazione messe in atto nei singoli Stati:
definirsi nazionalitari e proporre la costruzione di una Europa
dei Popoli al cui interno le nazionalità potessero
autodeterminarsi, sembrò una azione antidemocratica ed
antieuropea. Oggi è l'Unione Europea, con la sua
Costituzione, a sancire definitivamente l'impossibilità
per i popoli di accedere alla autodeterminazione. E, in
proiezione, tutti coloro che contrastano la costruzione di un
assetto continentale e mondiale ispirato al più egoistico
dei liberismi, diventano dei teroristi e dei nemici della
libertà e dei diritti dell'uomo.
All'interno dei partiti nazionalitari bastarono, così,
qualche insuccesso elettorale e qualche gelosia (il sardista
eletto nel Parlamento Europeo per due legislature successive non
consentì anche ai portavoce dei partiti nazionali alleati
di sedere nel Parlamento Europeo attraverso la rotazione) per
frantumare gli accordi e rimettere in gioco il leghismo che
spopolò in Friuli, tentò di sbarcare in Sardegna
con Miglio invitato da Melis, cancellò la rivendicazione
occitana e tentò di mettere in crisi l'autonomismo
politico in Valle d'Aosta, conquistando tre dei 35 seggi nel
Consiglio regionale della Vallée con una lista
contrapposta a quella dell'UV (al cui interno molti si
interrogavano se era opportuno andare a braccetto con Bossi,
oppure se era meglio scaricarlo chiaramente). Una cosa è
certa: Bossi ed il leghismo rivendicarono il diritto alla
autodeterminazione dei popoli in modo così razzista e
pasticciato che divenne impossibile proporre su un tema
già così difficile da far passare nella cultura e
nell'opinione pubblica, i necessari distinguo. E quando la lotta
armata di alcune nazionalità venne indicata come una delle
tante forme di un indiscriminato terrorismo (la criminalizzazione
dei baschi, degli irlandesi e, oggi, dei bretoni, ha radici
lontane), il gioco contro la rivendicazione nazionalitaria
toccò il suo apice.
Perchè il CIEMEN non seppe reagire? Credo che non avrebbe
potuto reagire in nessun modo poiché le modificazione
della situazione politica italiana ebbero un carattere epocale e
complessivo. Certo è che da quando il CIEMEN poté
insediarsi nella sua sede naturale, Barcelona, la sua voce in
Italia si affievolì e, poco a poco, divenne la voce
soltanto di alcuni intellettuali che non riuscivano neppure
più a farsi sentire. Al CIEMEN venne così meno la
presa all'interno delle forze politiche, di quelle sindacali e di
quelle culturali; anche il confronto e la collaborazione con le
istituzioni divennero precarie; poco a poco anche quando in
Italia nuovi spazi si aprivano per discutere ed affrontare le
problematiche nazionalitarie in convegni, congressi,
manifestazioni e studi, gli organizzatori si rivolgevano
sì al CIEMEN, ma alla sede di Barcelona, tanto che oggi
del CIEMEN in Italia si ha una immagine personificata nel suo
segretario generale fondatore, Aureli Argemi, la cui risposta
positiva ai diversi inviti che gli vengono rivolti, purtroppo non
aggiunge nulla alla storia del CIEMEN in Italia e, soprattutto,
non contribuisce a rilanciarlo: così personificato il
CIEMEN non fa più paura.
Si è persa a tal punto la coscienza di cosa sia stato il
CIEMEN, che a Cagliari durante i recenti lavori della CONSEU, ci
sono state delle contestazioni anche pesanti rivolte alla
segreteria del Congresso, quasi che il tema prescelto per i
lavori, la Costituzione Europea, permesse di produrre uno sforzo
giuridico del tutto inutile, mentre - si diceva - è
necessario rilanciare il grande tema del diritto alla
autodeterminazione. E' toccato, allora, propria a chi scrive
ricordare che il CIEMEN ha una sua storia e che l'incontro sardo
voleva approfondire il tema della Costituzione per dimostrare la
capacità delle nazionalità di essere propositive e
non solo velleitariamente rivoluzionarie.
Che ne è delle organizzazioni nazionalitarie in Italia,
oggi? Il quadro non sarebbe così negativo se accettassimo
un metro di misura diverso da quello che abbia per riferimento la
coerenza della rivendicazione nazionalitaria: l'UV è
ancora saldamente al potere in Valle d'Aosta; la SVP governa
sempre Bolzano; i nazionalitari friulani sono tutti parcheggiati
all'interno di una Lega che non è voce di secondo piano in
Friuli (stento a credere che la loro sia una scelta ideale, ma
ritengo che la loro sia una scelta strategica); degli sloveni si
parla poco, stranamente, ma dopo che la fine della Iugoslavia ha
portato alla nascita della Slovenia, almeno sul piano culturale
respirano un'aria diversa e più positiva; gli occitani
sono attivi sul piano culturale e su quello di una complessa
imprenditoria turistica giocata proprio sulla valorizzazione
delle loro peculiarità; i sardi sono perennemente in
altalena, alternano periodi di grande entusiasmo a periodi di
ripiegamento che spiegano il perchè di così tante
divisioni interne, eppure anche nei momenti meno positivi restano
vitali e dinamici.
Per un certo periodo di tempo e da quando si è imposta in
Italia, la nuova realtà politica del centro-destra di
Berlusconi e dell'ex fascista Fini, alleati con il leghismo,
è sembrato sussistesse per le nazionalità almeno lo
spazio per presentare un progetto politico alternativo: far
sentire la loro voce nel dibattito sulla trasformazione dello
stato in senso federale. In realtà destra e sinistra hanno
tentato di accaparrarsi del modello scozzese e di quello
catalano, ma alla fin fine, hanno trasformato il discorso sul
federalismo in una burla, sì che per federalismo oggi in
Italia si intende solo il trasferimento di alcune competenze
dallo Stato alle regioni; l'ipotesi che le nazionalità
rilanciassero la questione dei loro diritti è venuta meno
perchè a farsi sentire sono stati soltanto alcuni
intellettuali, presto zittiti.
Ai vertici di nessuno dei maggiori partiti delle
nazionalità, vengono ancora fatti dei discorsi
nazionalitari; tra i sindacati solo il sindacato valdostano
(SAVT) e quello sardo (CSS) si dichiarano nazionalitari; i
concetti stessi di nazionalità e di diritto alla
autodeterminazione restano, tuttavia, sempre più spesso
sottintesi anche per queste organizzazioni, perchè ogni
formulazione espressa in tal senso genera ondate di reazioni e di
isterismi talora ingestibili anche all'interno di quelle stesse
organizzazioni: dovrebbero orgogliosamente confermarli e
rivendicarli, ma al loro stesso interno sussiste la paure di
esser criminalizzati. SAVT e CSS sono, comunque le uniche
organizzazioni nazionalitarie che seguono ancora concrete
dinamiche internazionali e non si peritano di esprimere la loro
solidarietà quando altre nazionalità (nel caso
particolare i baschi, oggetto di una concreta oppressione) si
trovano in situazioni di difficoltà.
Dirò, in altra parte, dei sardi, ai quali mi sento di
rivolgere un appello da sardista, quale sono per sentimenti e per
affetti: ho un bimbo che vive in Sardegna con sua mamma che
definisco spesso "sarda, sarda"... è tutto dire; vanto un
passato di vicinanza particolare al sardismo, poiché
Michele Columbu mi designò come funzionario di nomina
politica del Parlamento Europeo al suo fianco nel 1984.
E' molto importante, in Italia, il lavoro culturale svolto dal
sito di Bolzano della Associazione per i Popoli Minacciati, che
pubblica studi e documenti sulla questione nazionalitaria cui
accedono diverse migliaia di persone. Segno che sopravvive un
interesse culturale e che la voce di quanti ancora parlano del
CIEMEN e della questione nazionalitaria non è del tutto
spenta. Chi fosse interessato a ricollocarsi in una costruttiva
dinamica internazionale, può leggersi i materiali di www.gfbv.it.
Negativa, comunque, almeno per chi scrive, la scelta di alcuni
intellettuali nazionalitari di stare ad ascoltare le sirene del
leghismo. Qualcuno intravide nel leghismo uno strumento politico
capace, prima o poi, di dare una spallata allo Stato ed ai suoi
centralismi ed oggi ci ritroviamo con un leghismo che sostiene un
governo centralista.
Purtroppo in Italia si vanno affermando anche altri fenomeni
paralleli e similari al leghismo, come la moda del celtismo, che
trasformano anche il più coerente dei propositi culturali
in una farsa o in un proclama carnevalesco. Credo sia questo
l'errore di fondo di ogni sincretismo, da quello religioso a
quello musicale. Così possiamo immaginarci una nazione
celtica, una nazione etrusca, la rinascita di Atlantide, ma
intanto scarichiamo scorie radioattive in Sardegna, neghiamo ai
baschi che lo chiedono democraticamente di poter accedere alla
autodeterminazione, ficchiamo in galera i bretoni, ecc.
Una prova che leggo bene la situazione? Nessuno si preoccupa
più neppure di contrastare la rivendicazione formale di
taluni diritti delle lingue e delle culture; del resto molte
lingue minoritarie dello stato italiano (il grecanico,
l'albanese, il catalano, i dialetti tedeschi) sono in stato di
pre-morte; altre (l'occitano e il francoprovenzale si stanno
trasformando in dialetti fortemente italianizzati ed italiani).
La legge di applicazione dell'articolo 6 della Costituzione
è stata finalmente approvata, ma più di 50 anni di
ritardo son bastati per farne cadere molti dei contenuti
potenzialmente rivoluzionari. Nessuno contrasta più i
diritti linguistici perchè, tranne che in rari casi, non
esiste quasi più la stessa questione linguistica. In
Sardegna , e non solo, l'applicazione della legge ha dato vita a
litigi sulla stessa natura della lingua, roba vecchia e
già prodottasi ovunque si siano standardizzate le lingue.
Un suggerimento: i friulani per risolvere la questione hanno
patto predisporre la standardizzazione della loro lingua da un
catalano, altrimenti nessun friulano avrebbe mai accettato che un
friulano facesse assumere alla parlata di una Valle o di un
paese, assumesse un ruolo anche solo apparentemente meno
importante di altri.
Dopo le elezioni regionali di questo 2003, in Valle d'Aosta l'UV
conta su 18 dei 35 seggi in Consiglio regionale e la forza
elettorale dei nazionalitari, misurata alle precedenti elezioni,
è dell'1%. Cito questo dato non solo perchè
è quello a me più vicino, ma perchè la crisi
della rivendicazione nazionalitaria è tutta nella analogia
tra questo dato valdostano e quello delle altre
nazionalità. E' ormai quasi passata l'idea che siamo in
Europa e quindi le questioni locali siano superate (come se i
diritti delle nazionalità fossero una mera questione
locale interna a stati democratici); l'Europa promette di
difendere lingue e identità particolari, esattamente come
fece lo Stato italiano che promise tutela e rispetto, poi
dimenticò per più di 50 anni le promesse e quando
vi ci si applicò, la maggior parte delle lingue e delle
identità erano morte.
Chi parla ancora di nazionalità oggi in Italia?
Principalmente i no-global. Realtà da guardare
positivamente e, al tempo stesso, con nuova preoccupazione. Negli
anni nei quali il CIEMEN nasceva, facemmo non poca fatica a
spiegare che per "minoranze" (termine desueto e riduttivo che
tentammo in tutti i modi di superare, anche se per molti - allora
e ancora oggi - identifica la realtà) non si poteva
intendere tutto e niente, dagli omosessuali alle donne, dai
bambini non nati agli immigrati, dai portatori di handicap alle
nazionalità, perchè questa pulviscolo identitario
non aveva in se una qualche unicità. Facemmo molta fatica
a spiegare che, al più, si poteva parlare di minoranze
nazionali nel senso numerico del termine e non in quello
concettuale di minoranza applicabile a 360 gradi.
Felix Guattari litigò con me proprio su questo: lui
convinto che la polverizzazione delle identità personali,
collettive, psicologiche e psichiatriche, avrebbe fatto saltare
il sistema ed io convinto - invece - che l'identità
nazionalità sia un unicum al cui interno si producono
molte diversificazioni di condizione personale, umana, religiosa,
sessuale e - addirittura - politica, queste sì vere e
proprie minoranze; e convinto, altresì che le regioni, la
cooperazione transfrontaliera, il federalismo, l'autonomia e di
tutta una lunga lista di opzioni, presentati come spazio
operativo e momenti grazie ai quali l'identità può
sopravvivere in attesa di potersi pienamente affermare attraverso
l'applicazione del diritto alla autodeterminazione, siano
sostanzialmente una fregatura. Purtroppo questa sottolineatura
evidenzia che il dibattito riguarda singoli intellettuali e non
più un movimento come il CIEMEN riuscì ad
essere.
Un bilancio negativo per 25 anni di attività? Niente
affatto. Siamo qui a scriverne e a parlarne, vuol dire che
sussiste almeno una coscienza. Al CIEMEN il delicato compito di
saper operare, quando opera in Italia, dandosi o un progetto che
non sia di pura salvaguardia della dignità e della
sopravvivenza della sua sigla, ma abbia la capacità di
rimetterla concretamente in gioco.
Non sono friulano e non credo vi interessi più di tanto
stare ad ascoltare lontane dichiarazioni d'amore, anche se
arrivano da chi, come me, ha trascorso anni e anni di militanza
dalla parte delle nazioni senza Stato, trovando in Friuli
qualcosa di più di una seconda patria. Devo dire che da
sempre mi sorprendo del fatto che conosco le qualità del
popolo friulano, ne ammiro l'orgoglio e l'onestà, eppur mi
chiedo come sia possibile che questo popolo sia sempre al
servizio di altri popoli e si sia sentito austo-ungarico prima e
italiano poi, senza accorgersi che essere il popolo friulano
doveva voler dire qualcosa di diverso. Tra l'altro doveva voler
dire non andare a morire facendo le guerre di altri. Magari
doveva voler dire non andare affatto a morire.
Sono valdostano, ma le mie origini familiari si perdono nel
Veneto e, da parte di padre, nella parte montana del Veneto,
quell'altipiano di Asiago dove vissero e si stanziarono i cimbri.
La mia famiglia arriva da lì. Appartengo, quindi, per
nascita e per adozione, alla grande famiglia dei cittadini dei
popoli alpini e in tal senso, sentirmi vicino ai friulani ha
già una sua spiegazione. Non ho mai trascurato, per
questo, la dimensione alpina dei problemi e, culturalmente, ho
fatto miei i valori espressi a Chivasso, a Desenzano, a
Coumboscuro che difendono ed affermano la specificità dei
popoli alpini.
A Desenzano, in particolare, e siamo nel 1947, insieme ai
valdostani e ai sudtirolesi ci sono anche i friulani di D'Aronco,
quelli che - di fatto - anticiparono la rivendicazione
autonomista del Friuli e del Movimento Friuli. Dopo il terremoto
in occasione del quale il centro internazionale che avevo
attivato a Milano tentò di amplificare la voce del
movimento delle tendopoli, diedi il mio piccolo apporto alla
miglior conoscenza di questo popolo straodinario che è il
popolo friulano.
Nel lavoro sindacale, in quello politico, in quello culturale
tentai di tessere una rete di contatti e di rapporti con i
friulani, proponendo nella mia Valle d'Aosta, eventi culturali
legati al Friuli: uno scambio di corali, una mostra sul Pasolini
friulano, il film di Padre Davide maria Turoldo "Gli ultimi", le
iniziative teatrali e musicali del Premio Friul,
l'attività di Radio Onde Furlane, i libri di Andrea
Valcic, i fumetti di Sandri Di Suald, ecc. fino a spingere
affinchè i friulani residenti in Valle d'Aosta si
costituissero in Fogolar, cosa che fecero puntualmente. Affiancai
Adrian Ceschia nel suo impegno con la LELINAMI e mi sentii
enormemente lieto quando per dare una koiné alla lingua
friulana, venne scelto di avvalersi di un professore catalano,
amico del mio centro internazionale ...
Mille cose, passando per la condivisione del Progetto di far
avere il Premio Nobel per la letteratura al poeta friulano Domeni
Zannier , agli incontri con Pre Checco, al lavoro con gli sloveni
e con gli slavi del Natisone, agli amori che si intrecciaro tra
valdostani/e e friulani/e e che essendo legati all'insieme di
queste attività, mi videro o coinvolto o testimone. Mentre
scrivo, di getto, cerco di non dimenticare nulla del mia passato
"friulano", ma mi basta ricordare il presente, per esser certo
che se ho dimenticato di citare qualcosa non è certo
perché non gli attribuisco importanza; in tempi
recentissimi un mio romanzo d'amore che raconta la storia di un
maturo uomo bianco ed una giovane africana, portata
clandestinamente in Italia e costretta a prostituirsi, ha avuto
un certo successo. Con mia sorpresa sono stato contattato da un
gruppo teatrale friulano, il Teatro Incerto, che ha preso
ispirazione da quel mio libro per portare in scena una
pièce che si intitola "Isoke"...un successo che ha
iniziato ad eser rappresentato in giro per l'Italia.
Amo, quindi, il Friuli, il mio Friuli, il vostro Friuli e non ho
altra spiegazione che questo amore per prendere l'ardire di
parlare ai friulani. Parlo ai friulani perché è in
corso la discussione sulla riforma dello Statuto di Autonomia e
perché ad esso è legato il futuro stesso del
Friuli. E lo faccio come studioso delle cose internazionali e dei
diritti delle cosiddette nazioni senza stato. Credo non si possa
negare che il Friuli è una nazione senza stato e se
affermo subito, chiaramente, che non credo ,necessariamente, al
fatto che ogni nazione debba per forza avere uno stato,
sarà chiaro a tutti che a me sta a cuore la vera
identità del Friuli (... e della Valle d'Aosta, della
Sardegna, ecc. ecc.) e poco mi preoccupo del resto.
Questa corrispondenza tra nazione e stato è un retaggio
del risorgimento o del falso storico che portò alla
nascita degli stati nazionali, i quali erano sì degli
stati, si legittimavano sì con le argomentazioni del
diritto identitario, ma non erano affatto unitari, anzi, si
trattava sempre di stati plurinazionali che per eser nazionali
non seppero far altro che comprimere le identità
più deboli o meno numerose, trasformarle in minoranze,
determinanrne - se possibile .- la scomparsa o, al più,
stremarle in storici tentativi di ottenre qualche diritto in
quanto, appunto, minoranze.
Il massimo della democrazia di cui gli stati nazionali si sono
resi capaci, è stato promettere tutela alle minoranze e,
in qualche caso, assicurare qualche tutela reale; assai poco se
si pensa che uno stato legittimandosi come nazione, avrebbe
dovuto affermare nel diritto che, davvero ogni nazione può
e deve avere un proprio stato. Da federalista vorrei riuscire a
superare la forma stato o, meglio la forma stato nazionale, per
questo mi limito a chiedere per le nazioni sneza stato il diritto
alla autodeterminazione, che non vuol dire darsi uno stato, ma
scegliere il proprio assetto istituzionale che comprende anche la
possibilità di darsi uno stato, ma non solo quella.
Credo, quindi, che lo stesso preambolo di un testo statutario
dovrebbe contenere specifici riferimenti al diritto alla
autodeterminazione, indicato, se non altro, come obiettivo non
ultimo e non residuo, ma come principio ispiratore; uno Statuto
che sia tale deve esser sritto nellpo spirito giusto e non
partire da elementi di limitazione ulteriori rispetto alla
limitazione, già di per se significativa, di scrivere una
autonomia interna ad uno Stato, senza potersi "inventare" una
forma di versa di affermazione del proprio diritto ad esisetre
come popolo.
Tra i riferimenti giuridici del diritto sarà, quindi, bene
non scrivere i vari riferimenti alle varie carte dei diritti
dell'uomo, ecc. ecc., tutte scritte dalle maggioranze per
affermare il proprio primato e per scrivere in che modo gli
altri, e le minoranze in particolare, devono sottstare alle loro
regole 2democratiche". I documenti di riferimento non possono
essere che quelli scritti dai popoli stessi: per il Friuli penso
che il riferimento alla Dichiarazione di Chivasso, sottoscritta
nel 43 da rappresentanti valdostani e occitani non abbia valenza
diretta; certamente, però, ha valenza diretta la
Dichiarazione di Desenzano, sottoscritta nel '47, idealmente
legata all'altra e, comunque, sottoscritta anche da Friuliani
come il prof. D'Aronco, padre della autonomia friulana.
Penso che l'unico documento internazionale di riferimento sia la
Dichiarazione Universale dei Diritti Collettivi dei Popoli,
scritta sulla spinta dell'attività del CIEMEN, un Centro
internazionale che ha avuto amici e collaboratori in Friuli e che
può vantare la simpatia di quel Xavier Lamuela, il
linguista che ha attivamente e concretamente lavorato alla
normalizzazione della lingua friulana. Inevitabilmente se il
dirittto è molto più ampio di quanto il contesto
statutario possa di per se riconsocere, le dichiarazioni di
principio hanno doppio valore: hanno valore in se e per se, come
premessa di una reale autonomia, ed un valore in prospettiva
storica, legato alla suppositizone che diverse possano essere le
soluzioni cui il Friuli ricorrerà in un futuro ancora
tutto da disegnare.
Sarà allora opportuno che il testo dello Statuto sancisca
il diritto dei friulani ad esser rappresentati nel Parlamento
Europeo non in virtù di un normale conteggio numerico dei
voti, ma costituendo una circoscrizione elettorale specifica,
avulsa da quella delle macroregioni e di ogni altro artificio
elettorale; i friulani devono entrare nel Parlamento Europeo,
come rappresentnati del popolo friulano e non come parlamentare
eletti in una circoscrizione articolata e composita, nella
qusale, però, le identità si confondono.
Sarà inoltre opportuno ed indispensabile che al Friuli sia
riconsociuta libertà e diritto nella costruzione di
rapporti di ogni tipo e natura (commerciali, culturali, ecc.) con
la propria area culturale transfrontaliera di riferimento,
cioè la realtà ladina, dando ugual
titolarità di diritti e di rappresentatività alla
comunità slovena e trovando gli opportuni spazi
affinchè la complessa realtà slava non sia
soffocata nel percorso di unifermizzazione slovena. Un'area
ladina che comprenda anche il mondo romancio, costituisce un'area
di cooperazione con un potenziale di sviluppo veramente
straordinario.
Altra dimensione ottimale per l'affermazione dell'identità
friulana è quella dell'arco alpino, essendo appunto
l'intero arco alpino un'unica area con elementi di unità
culturale e strutturale. Sostanzialmente l'autonomia non deve
essere sancita solo nel rapporto tra Regione Friuli e Stato
italiano. L'autonomia può e deve essere altro. Credo vada
firmata, anzitutto, una sorta di Carta Friulana, una sorta di
Costituzione che abbia valore solo per i friulano e non possa
esser sogegtta ad approvazioni esterne, ma valga come patto
interno al popolo friulano e sia il documento di base di tutti i
rapproti che il Friuli sottoscrive con l'esterno. Sarà,
quindi, necessario che il Friuli agisca con spirito sussidiario e
federale sia con tutta la comunità ladina che con la
comunità alpina.
Dopo sancirà i termini del suo rapporto con lo Stato che
dovranno essere ispirati al principio federalista secondo il
quale tutto ciò che il Friuli è in grado di
affrontare da se, non dovrà esser sottoposto a vincoli e
limiti da parte dello Stato, cui - di contro - saranno delegate
le competenze nelle materie la cui soluzione non è
possibile al solo livello locale. E dovrà restare la
possibilità al Friuli di stare in Europa, di starci
direttamente e non attraverso lo Stato. Si pone a questo punto,
in modo inequivocabile, l'esigenza che queste proposte
(ovviamente rialaborate, modifcate, integrate, ecc - insomma -
una proposta friulana nuova ed orginale) siano portate avanti da
una forza politica friulana forte e coerente.
Credo debba rinascere un nuovo Movimento Friuli, credo si debba
far piazza pulita di movimenti e movimentini, credo si debba
assumere la responsabilità politica di negare ai politici
friulani l'alibi di potersi dire friulani militanto in partiti e
poli stato-nazionale, credo si debbano imputare chiaramente alla
lega e ai leghismi, precise responsabilità in ordine al
ritardo con cui il Friuli sta assumendo in pieno la cosciente
responsabilità di se stesso. Decisioni politiche pre il
Friuli prse fuori dal Friuli, in dimensione italiana o in
dimensione friulana, vanno contro il Friuli e la sua
identità. Credo che qualunque popolo debba ormai
considerare che determinati standard nella qualità delle
prestazioni ad esempio scolastiche ed educative, non sono
competenza di uno stato che le vuole uniformare per assicurare
pari diritti a tutti i suoi cittadini; gli standar qualitativi
sono relativi ai diritti fondamentali dell'uomo, quindi vanno
assicurati da qualunque Stato, da qualunque regione, ecc.
ecc.
Non esiste, quindi, non deve esistere il problema di uno Stato
che vuol tenere la propria mano paternalistica su un dato
territorio o su una data nazionalità con la scusa
dell'interesse nazionale. Per interesse nazionale il Friuli '
diventato terra di servitù militari e di invasione
militare; per interesse nazionale il Friuli fu terra dove si
dovette e morire per la patria italiana. Ora mi sento di
affermare con chiarezza una cosa che ho già urlato ai
sardi: come è possibile che siate storicamente pronti a
morire per una patria che non è la vosta e rispetto alla
vostra fatichiate adirittura a sentirla come tale e, quindi, a
porvi in sua difesa con la stessa disperata e assoluta devozione
dimostrata versoun'altra patria?
Non è più epoca di confini? Bene, chi più
del Friuli, che fu terra della cultura mitteleuropea, può
capire e condividere questa affermazione? E come mai al posto di
una cultura multinazionale come quella mitteleuropea si è
voluta imporre la cultura nazionale di un'Italia che si è
dimostrata spesso estranea e nemica? E perché se non
esistono più i confini si continuano a proporre il Friuli
il ruolo di cerniera tra i popoli e i progetti di cooperazione
transfrontaliera...ma quale frontiera deve esere superata?
Certo anche il Friuli deve far conto con problemi complessi: ma
la presenza slovena e slava, ad esempio, è una delle sue
ricchezze, non uno dei suoi problemi; il fatto di dover avere una
scuola capace non di assicurare un falso bilinguismo
(italiano-friulano, italiano-sloveno) deve diventare un impegno
per avere una scuola multilingue, nella quale gli studenti -
partendo dalal loro lingua (che non può che essere una ed
una sola), fanno propri altri codici linguistici: il Friuli,
quindi, deve essere terra in cui la scuola funziona almeno in
quattro lingue, oltre alla lingua italiana, comprendendo anche la
lingua inglese, ormai strumento indispensabile ed utile.
Già l'inglese, maledetta lingua della colonizazione,
lingua dell'imperialismo, nuova lingua che - come il latino un
tempo, si sta affermando ovunque. Consideriamola nella sua atuale
condizione di crisi: al pari del latino si diffonde e si
differnezia già; sì che fra non molto avremo un
inglese tecnico di comunicazione ed una serie di lingue
neo-inglesi; fra due o trecento anni forse le difenderemo per il
loro radicamento e la loro specificità, così come
oggi difendiamo le lingue neolatine... Una lingua finisce col
morire nel momento stesso in cui crede di potersi sovrapporre ad
un'altra; anche per questa considerazione noi dobbiamo difendere
con magior forza la nostra lingua, il Friulano in Friuli, il
sardo in sardegna, ec. .. poiché le nostre lingue non
saranno mai lingue che imporremo nella comunicazione o nei
comemrci o nella politica, ad altri, mentre altri ci impongono la
loro; nella scuola useranno e ci insegneranno sempre lingue
altre, ma se non saremo noi ad usare edinsegnare la nostra
nessuno lo farà al nostro posto.
Lo Statuto del Friuli, quindi, dovrà affermare chiaramente
che nessun popolo nasce bilungue, quindi il Friuli
affermerà che la lingua del Friuli è il friulano (e
dovrà saper formulare adeguatamente l'esistenza e
l'importanza dello sloveno e delle parlate slave...), andando
oltre qualsiasi falso bilinguismo e qualsiasi affermazione del
diritto della lingua friulano che non è fatto residuo,
secondario o diritto che discende da altri, ma espressione
diretta del diritto e dell'identità dei friulani. Questo
non vorrrà dire chiusura di fornte alla relatà del
ruolo e della importanza della lingua italia e della lingua
inglese, ma vorrà semplicemente dire che l'omologazione
non può pasare. Si badi nessuno, né l'Europa,
né l'Italia, affermeranno mai l'identità del
Friuli, che per loro resterà sempre e soltanto una regione
più o meno speciale. Tocca ai friulani farlo.
Lettera aperta pubblicata dalla rivista Sardinna in
occasione delle elezioni regionali del 2004
Un giorno, forse, riuscirò a staccarmi da questa Valle
d'Aosta dove pur son nato, ma non tornerò nelle alte
vallate venete dove ancora si parla il cimbro e da dove partirono
i miei migranti avi paterni; non andrò neppure a cercare
quel parente britannico, scrittore e viaggiatore che nell'800
visitò Verona e fece un figlio con una dama del posto, mia
lontana prozia. Andrò in Sardegna. Tornerò in
Sardegna dove si sono svolti momenti importanti del mio lavoro
politico e culturale a fianco delle Nazioni senza Stato. E dove,
soprattutto, vive mio figlio minore, un bimbo ancora, che parla
sardo e mi pone di fronte - come dico scherzosamente - non ad un
problema di lingua materna, ma ad un problema di lingua filiale:
capisco il sardo, ma non lo conosco ancora quanto basta per
poterlo parlare con lui.
E' sufficiente tutto ciò a render credibile il mio
proposito di parlare ai sardi? Credo di sì: ho dire cose
con il cuore e non ho alcun interesse di parte. Per quel che ho
conosciuto della Sardegna in passato - e non è poco - oggi
faccio molta fatica a decifrare come e perchè alcuni
personaggi abbiano cambiato collocazione politica, perchè
amici di cui conoscevo la comune militanza, oggi si ritrovino su
fronti opposti; e, soprattutto, come sia possibile che esponenti
della partitocrazia italiana di ieri, oggi possano presentarsi e
proporsi come sardisti, pur mantenendo un legame a filo doppio,
con una casa madre romana, giocando su due tavoli, Roma e
Sardegna, un gioco politico nel quale la Sardegna viene sempre
dopo.
Vedete, miei cari lettori sardi, anche nella mia Valle d'Aosta
sono successe e succedono cose di questo genere ed io ho amici
tra quanti - anche con onestà - credono di poter fare
questo stesso gioco e militano ad Aosta in schieramenti che
definiscono autonomisti o nazionalitari, anche se tutta la loro
storia dice che essi non sono davvero capaci di ragionare
coerentemente in questo senso, poiché sempre e comunque
guardano a Roma, dove si prendono le decisioni e dove, magari,
hanno giurato fedeltà all'unità dello Stato. Il
problema, allora, non è la loro qualità umana
(siamo tutti uomini e donne con difetti e virtù), ma il
senso del loro agire politico e l'effetto di questo sulla nostra
vita come collettività.
Tutti costoro sono sicuramente valdostani e sono sicuramente
sardi, e ci mancherebbe che - adesso - io volessi esser
più sardo di costoro, ma ... Credo che una lezione
politica sia stata chiaramente recepita in Valle d'Aosta, dove
l'UV ha 18 seggi su 35 in Consiglio regionale e dove forse,
presto o tardi, si spaccherà, ma dove - comunque -
resterà sempre chiaro che le divisioni interne al
movimento valdostano, favoriscono sempre e comunque quelli che
non voglio bene alla Valle d'Aosta e quelli che antepongono al
bene della Valle d'Aosta il bene dell'Italia e gli interessi
romani. Leggete queste righe sostituendo i valdostani con i sardi
e capirete al volo perchè io mi permetta di scrivere ai
sardi!
A me interessano ben poco le ragioni di tante diversità e
contrapposizioni in Sardegna e, anzi, sono convinto che nessuno
ha ragione e che tutti hanno torto, perchè non hanno
capito questa lezione fondamentale: l'unità è
sempre indispensabile. E allora che senso ha fare appello ad una
diversa concezione dello Stato e dell'Europa, rivendicando per i
valdostani e per i sardi gli spazi di rappresentatività e
diritto dovuti ad una concezione legata alla unità nella
diversità, se in Sardegna questa stessa diversità -
e se in Valle d'Aosta ... - comporta soltanto divisioni. Se
c'è qualcuno che osa credere in Sardegna di essere lui nel
giusto e - di conseguenza - rilegge a suo modo la storia delle
divisioni e scrive le proposte del futuro contro gli altri,
ebbene costui sappia - sappiate - che vista da fuori questa
è una situazione assurda ed inaccettabile.
Certo capisco che mentre qualcuno sogna la rivoluzione, altri
vogliono solo più potere per governare la Sardegna con
piglio manageriale. So, in buona sostanza, che se le vecchie
categorie destra e sinistra ancora hanno un senso, lo hanno anche
nel sardismo e nel movimento valdostano, come ce l'hanno ovunque.
So anche, però, che nei paesi baschi il partito moderato e
quello progressista, con l'appoggio esterno di quello
rivoluzionario, stanno mettendo in crisi il governo centrale di
Madrid e lo fanno ben sapendo che se battaglia sarà vinta,
ci sarà da scontrarsi e da confrontarsi tra baschi. su
come governare il Paese Basco Libero; ma a Guernika i baschi
morivano sotto le bombe e le bombe non si chiedevano quali sogni
e quali idee avessero in testa i baschi che morivano. Vorrei
l'unità dei sardisti, ma - in tutta sincerità - mi
pare sia difficile che questa possa essere assicurata da coloro
che ancora vivono rancori così vecchi da non poterne
neppure più ricordare le esatte ragioni, per poter davvero
superare le ragioni delle divisioni, perchè - diciamocelo
chiaro - anche in Sardegna, come in Valle d'Aosta e come ovunque
- le divisioni nascono prima di tutto per interesse di parte e
solo dopo vengono date loro pennellate di idealità per
renderle più credibili.
Non mi piacciono i vecchi litigiosi, quindi, e non mi piacciono
neppure i nuovi salvatori della patria, quelli che, in tempi
diversi, hanno affermato di esser disposti a scendere in campo,
sì leggete bene a scendere in campo, esattamente come
Berlusconi. Tutti sappiamo benissimo che quando ci si propone di
scendere in campo sostanzialmente si vuol dire che ci si
considera superiori e migliori; scende chi si trova in alto e
visto che in basso nessuno sa combinare un gran che, giunge ad
affermare adesso arrivo io. Ma che ne è della politica
come servizio, della militanza come sacrificio in nome e per
conto della propria Nazione. E come è possibile che il
richiamo dello Stato sia sempre così forte in Sardegna,
come in Valle d'Aosta e altrove, da poter esercitare un fascino
tale per cui sardi e valdostani, e altri nazionalitari, son morti
per una patria che non era la loro, sono morti da eroi, ma non
sono capaci neppure solo di pensare che sia possibile fare
altrettanto per la propria.
Beninteso è chiaro che non è necessario davvero
morire, ma basterebbe vivere da sardi per la Sardegna e da
valdostani per la Valle d'Aosta. Come è possibile che
tanti sardi e tanti valdostani, friulani, ecc. si siano ritrovati
a partecipare al governo di uno Stato che era lo Stato di quelli
che negavano la loro identità, mettendo la loro
intelligenza e le loro capacità al servizio di un popolo
che non era il loro, esercitando - poi - potere e capacità
di influenza economica acquisiti in quella dimensione, contro gli
interessi del proprio popolo. Non me lo spiego e vado a rileggere
la situazione sarda di oggi ritrovando uomini della partitocrazia
italiana a rivendicare il proprio impegno sardista e
nazionalitario con sigle nuove, parole nuove, ma contatti,
amicizie e presumibilmente intenti che non sono diversi da quelli
che in passato spiegarono la loro militanza in partiti
stato-nazionali.
Così in Valle d'Aosta per dirla chiara, dopo che la crisi
dei partiti ha spazzato via la DC, il PCI, il PSI, il PSDI, il
PRI, il PLI, il MSI e altri, gli uomini che militavano in questi
partiti si sono accorti che l'elettorato valdostano premiava
sempre di più gli autonomisti storici così si sono
improvvisati autonomisti anche loro. Il meglio che si riesce a
fare quando si fanno queste operazioni è confondere
l'autonomismo con ciò che loro già conoscevano come
elemento di cultura politica nello loro vecchia militanza: la
rivendicazione di forme più o meno ampie di decentramento
di potere che, comunque, restano sempre e comunque al centro...
tutte cose che non sono certo l'autonomismo. Molte di queste
persone in Valle d'Aosta hanno fatto un percorso di umiltà
politica, scegliendo non una copia dell'autonomismo, ma lo stesso
autonomismo, scegliendo di militare nell'UV, emigrando con il
proprio bagaglio di esperienze e di idee in un movimento che li
accolti in un processo di reciproco arricchimento. Ma per quanti
da oltre dieci anni ormai, continuano a riciclarsi in sempre
nuove sigle politiche pseudo-autonomiste, litigando poi facendo
pace, cambiando nome, poi trovandone un altro ancora, non
c'è possibilità di ... come si dice...rifarsi una
verginità. A credere nella sincerità del loro
autonomismo ci possono essere solo quelli che ignorano la storia
del passato.
Il problema non è rivolto, ovviamente, agli elettori i
quali credono in qualcuno o in una sigla ed è il principio
stesso della democrazia a permettere - anzi a richiedere loro -
di cambiare liberamente idea, opinione e voto; il problema
è rivolto ai politici, a quelli che assumono
responsabilità e visibilità. A costoro quando
mutano idea è da richiedere non una autocritica - mica
siamo in un regime! - ma un ripensamento, un documentato processo
di sviluppo del pensiero e della idealità; non mi
accontento in Sardegna di un documento politico o elettorale
dell'ultimo minuto nel quale ci si schiera dalla parte del
sardismo senza avere alcuna radice nella cultura del sardismo,
perchè qualche radice bisogna pur averla per andare da
qualche parte e in politica questo è ancor più
valido se non altro per impedire a qualcuno di farsi troppa
strada grazie al trasformismo. In Valle d'Aosta negli anni 80 una
forza politica che aveva radici non tanto in una ideologia, ma
nel consenso che le veniva attribuito automaticamente
dall'immigrazione meridionale, coniò l'idea di dar vita ad
una nuova etnia, frutto del mescolamento quasi genetico tra
valdostani ed immigrati; riuscì, in questo modo a rendere
gli immigrati orgogliosi della loro identità, ritardando -
però - un positivo e benefico processo di integrazione che
doveva essere e lo fu in seguito - questo si - il risultato di un
naturale mescolamento di idee e provenienze, attuato attraverso
una osmosi di natura culturale e sociale.
L'integrazione fu il lavoro culturale cui si applicarono energie
ed operatori che la sostennero non come strumento di successo
elettorale e politico di una parte, ma come crescita dell'intera
comunità; un processo che continua e che ha riguardato
tutte le immigrazioni prodottesi in Valle d'Aosta, quella veneta,
quella meridionale e oggi quella extracomunitaria. In Sardegna il
problema non è l'immigrazione di masse di persone
provenienti da altri paesi, ma l'immigrazione di interessi
politici esterni al cui radicamento in Sardegna hanno contribuito
troppi sardi, ancora convinti che le ragioni da far prevalere e
la cultura da affermare non fossero quelle sarde, ma quelle ...
italiane.
Non ho nulla contro l'Italia e contro la cultura italiana, anzi
uso la lingua italiana più di quanto usi il francese della
Valle d'Aosta. Non ho neppure paura della lingua inglese che,
anzi, esattamente come avvenne per il latino, si sta già
creolizzando e ci sono nel mondo tante diverse lingue inglesi
che, nell'arco di 20 o 30 anni, daranno vita ad altrettante nuove
lingue neo-inglesi, come tutte le nostre lingue sono definite
neo-latine... la storia si ripete. Non ho paura di nulla.
Ma so che un fatto sono gli eventi della storia e la loro
incidenza su tutto il mondo nella dimensione macro ed in quella
micro, un altro fatto è la scelta di cavalcare i fenomeni
negativi che si ripercuotono sul nostro popolo, neppure tentando
di affermarne la dignità, anzi sostenendo - quasi
vergognandosene - la condizione minoritaria in tutti i sensi,
compreso quello del suo valore, decidendo di stare dalla parte
dei più, delle maggioranze. Chi ha fatto questi errori e
questi percorso, deve mostrarsi capace di una rilettura della
propria esperienza quando e se vuol fare passi indietro. Gli
autonomismi, i federalisti, gli indipendentisti dell'ultima ora
non possono certo insegnare qualcosa a quanti hanno sempre
combattuto per quelle idee, dovendo scendere a compromessi e
subendo sconfitte dolorose proprio da quelli che oggi vogliono
appropriarsi, dopo di averlo fatto con il passato, anche del
futuro. Vorrei dire ai sardi e ai sardisti di avere fiducia nelle
vecchie coerenti bandiere del sardismo, di pretendere che le
nuove bandiere si dimostrino umili e non vogliano vantare
primogeniture o diritti, e che è assolutamente necessario
comporre tensioni e motivazioni di divisione interna legate ad
interessi e a antipatie.
Visto da fuori il sardismo non può tollerare diatribe e
litigi, non può esser diviso in una isola al cui interno
oggi tutti, come in Valle d'Aosta, tutti si dicono autonomisti.
Se così fosse perchè così poca autonomia,
perchè così tanti problemi, perchè
così tanto Stato? Non esistono modelli in politica e nella
storia; neppure quello valdostano è un modello; ma
è una verità quella che oggi in Valle d'Aosta
perfino i DS si chiamano Gauche Valdôtaine, gli ex
DC-PSI-PRI-PLI-PSDI si chiamano Stella Alpina, gli ambientalisti
si definiscono Arcobaleno ed hanno al proprio interno una
componente nazionalitaria e a rappresentare lo Stato è
rimasta Forza Italia, non a caso impegnata ad immaginare che
grandi opere siano realizzate in quella che già chiama la
Regione Piemonte-Valle d'Aosta, non a caso d'accordo con i
progetti della Fondazione Agnelli e, in strano parallelo da
Bossi, di creare una macroregione che comprenda Piemonte,
Lombardia, Liguria e Valle d'Aosta, non a caso impegnata a
cercare di definire tutto ciò come ... scelta
autonomistica!
L'isola: difficile fare discorsi di questo genere rispetto ad una
isola. E' sufficiente lasciarla a se stessa ...isolata, tagliata
fuori, ancora condizionata da progetti di sviluppo esterni, ma
attuati sul territorio e con le risorse dell'isola stessa, a
beneficio di altri. Già, ma perchè dire queste cose
ai sardi? Semplicemente perchè le vedo, le vedono tutti e
tutti dicono, "ma i sardi perchè non si fanno sentire,
perchè si lasciano fare tutto?". Già.
Perchè?
LA LINGUA COME DNA DEI POPOLI
Appunti per una conferenza in terra slava
Nelle Valli del Natisone della Regione Friuli-Venezia Giulia,
vive una popolazione slava la cui identità è
talmente particolare e specifica da non poter esser considerata
semplicisticamente "slovena"; anzi, come spesso avviene in
situazioni analoghe, il presumere che una lingua culturale forte,
di riferimento apparentemente naturale per una lingua/parlata
locale, possa rafforzare quest'ultima, può rivelarsi
errato.
Realtà inquietante questa, poiché mentre la
standardizzazione appare come un processo inevitabile ed
auspicabile per dare ad ogni lingua, la dignità e lo
status - appunto - di lingua, nel rapporto tra lingua e parlata
può anche avvenire che la prima soffochi l'altra e sia
addirittura percepita come lingua imposta o estranea. Nella
situazione del rapporto tra francoprovenzale e francese in Valle
d'Aosta; nel rapporto tra parlate germaniche (walser, mochene,
cimbre) e lingua tedesca; nel raffronto tra parlate slave e
lingua slovena nel Natisone, questa situazione si produce
concretamente.
Perchè è così difficile tutelare le
parlate/lingue? Semplicemente perchè il quadro politico,
culturale e giuridico nel quale questi problemi si pongono, non
sono affatto rispondenti ai bisogni delle comunità locali
e perchè le stesse normative di tutela sono riferite a
situazioni per certi versi analoghe a quella dello Stato: senza
ammetterlo apertamente si presume - cioè - che meritino
tutela le lingue parlate da comunità nazionalmente diverse
da quella italiana e si pretende che queste abbiano tutte le
caratteristiche di essere una lingua nazionale, uniformata,
standardizzata.
Se il rapporto fosse invertito, le lingue, ma anche le
istituzioni, nascerebbero dal basso e si armonizzerebbe una
situazione di unità nella diversità che, invece,
viene negata, poiché tutto discende da un centro che,
quando non è lontano come lo è lo Stato, è
comunque legato ai limiti posti dallo stesso. Sarebbe opportuno,
quindi, far riferimento al vero quadro linguistico-culturale ed
individuare per gli slavi, per i valdostani, per i germanici,
specificità che non possono essere tutelate affermando la
loro parentela linguista con lo sloveno, con il francese, con il
tedesco che - tuttavia - rappresentano lingue tanto forti da
esser spesso utili alle suddette comunità per contrapporsi
allo strapotere della cultura e della lingua italiana.
Per indagare e meglio conoscere questa realtà, un Forum
per la Slavia ha realizzato a Cividale del Friuli, il 10 novembre
scorso, un seminario al quale ho partecipato tentando di portare
elementi nuovi di dialogo, confronto e proposta. Il testo che
segue è la trascrizione dell'intervento, appena ritoccata
per dare continuità linguistica al fluire di parole,
perfettamente comprensibili all'uditore che ne ha percepito i
toni e le sottolineature, ma non al lettore che si trovasse di
fronte ad un testo appiattito da una forma scritta per la quale
non era stato concepito.
Qualche tempo fa sono incappato nella lettura di due articoli
di cui ho smarrito, purtroppo, la copia; il primo era la
dissertazione di un esperto del settimanale "Famiglia Cristiana"
riguardo a quale fosse la lingua di Gesù; detto
dell'importanza a quei tempi del latino come lingua dell'impero
romano, e del greco come lingua di cultura e come lingua franca
("un po' come l'inglese dei giorni nostri", commentava il
redattore), la conclusione portava a rispondere che la lingua di
Gesù era l'aramaico, nella versione di quei tempi e di
quella zona, una lingua di cui oggi non consociamo praticamente
nulla.
Il secondo articolo dietro ad intenti scientifici, mi parve
nascondere qualcosa di fantascientifico: il redattore osservava
che la parola, come qualsiasi suono, è un insieme di onde
sonore che si diffondono...nell'infinito; già, ma dove
vanno a finire le onde sonore, le parole, i suoni dell'uomo? Per
assurdo l'articolo ipotizzava la possibilità di recuperare
i suoni dispersi, ma non scomparsi, e - magari - di poter
riascoltare la voce di Gesù, ecc. ecc.
Vi ho proposto due "curiosità", come introduzione di
questo nostro incontro, legate ad una figura importante per la
nostra cultura, giusto per poter dire che anche la lingua di
Gesù è morta. Quindi il destino delle lingue non
è necessariamente quello di vivere, neppure quando sono
così grandi ed importanti da essere portatrici di qualcosa
che non ha uguali nella storia dell'umanità, come
l'insegnamento di Gesù. Oggi sono molto preoccupato per il
futuro della lingua inglese... si sta affermando in tutto il
mondo a rimorchio di un imperialismo economico ed a traino di una
globalizzazione culturale, ma già presenta segni di una
mortale creolizzazione. Insieme ad un sociologo e ad un linguista
di prestigio, De La Pierre e Canciani, constato che fra poco
esisteranno nel mondo molte lingue inglesi o neo-inglesi, come un
tempo esistettero le lingue indeoeuropee e neo-indoeuropeee, poi
le lingue latine e neo-latine.
Si innescherà, ben presto, un fenomeno inarrestabile di
evoluzione linguistica: la diversificazione di queste lingue
neo-inglesi, al punto che per capirsi, le popolazioni parlanti
queste lingue avranno bisogno dell'interprete ... come succede
oggi con le nostre lingue neo-latine. Ovviamente esagero, ma ...
Certo è che mentre muoiono lingue come quella degli Inuit,
che aveva molti termini per definire la neve, si afferma una
lingua che ne ha una sola, si afferma una lingua che è
più povera delle altre perchè non ha né una
storia, né una tradizione, né un territorio da
rappresentare. E' la lingua dei nuovi dominatori, barbari in
doppio petto, integralisti travestiti da difensori dei diritti
dell'uomo, assassini con una stella da sceriffo che li esalta
come difensori della giustizia, ecc. ecc. suicidi della cultura
poiché la lingua inglese originaria ha tutt'altra
dignità e tutt'altro spessore di quelli che essi
rappresentano.
Questo è, comunque, più o meno a lungo termine, il
destino della lingua inglese...e poiché i fenomeni di ogni
tipo si producono ai tempi nostri con una eccezionale
accelerazione rispetto al passato, non dovremo aspettare dei
secoli perchè questa accelerazione abbia effetto. Torniamo
a noi, alla nostra lingua, alle nostre parlate.
Io sono tra quanti ritengono che l'origine dell'umanità
sia una sola, tra quanti prendono atto di ciò che la
scienza - più che la religione - ci dice in tal senso e,
cioè, che l'umanità, con i primi esseri umani
coscienti, appare in Africa da dove prende avvio una
inarrestabile migrazione che ha reso possibile il popolamento del
mondo intero. Oggi questa migrazione ancora si produce, ma ha
assunto una dimensione ed una accelerazione che sembrano
inarrestabili.
Credo, di conseguenza, ci sia stata anche una lingua prima, o ci
siano state alcune lingue originarie, molto più importanti
di quanto sia oggi il mio fp o il vostro dialetto, molto
più importante di quanto sia - oggi - la stessa lingua
inglese. Non c'è traccia di tutto ciò nelle lingue
conosciute e nelle lingue parlate, ma c'è una traccia
indelebile - di natura psicologica - in quanti, partendo da
questo assunto, affermano i diritti delle cosiddette minoranze,
dei popoli, delle nazioni senza stato, con una prospettiva
disincantata, ancora coltivando utopie e sogni, pur restando con
i piedi per terra.
Noi non abbiamo perso di vista la relatività della
importanza di ciò che ci sta a cuore: nel mondo fame,
guerre, malattie sono la prova di un disastro umanitario di
fronte al quale la morte del patois del mio villaggio valdostano,
dove vivono d'estate 100 persone e d'inverno 22, è poca ed
irrilevante cosa. Per questa ragione le nostre ragioni sono
inserite in una contesto diverso, devono essere inserite in un
contesto diverso da quello della semplice rivendicazione
culturale. Sviluppando le mie argomentazioni, vi dirò
anche qualcosa a proposito del federalismo, per evidenziare come
dinamiche linguistiche possano/debbano trasformarsi in dinamiche
politiche; come la forma dello Stato sia da superare,
stravolgendo l'organizzazione del mondo, i suoi falsi equilibri e
le sue logiche di dominio e di potere.
Il valore che noi diamo alle nostre lingue è il valore che
diamo all'uomo ed alla comunità nella quale egli si
realizza. Solo su questi principi si costruisce un mondo di pace
e di solidarietà, di equilibrio e di rispetto degli altri.
Il contrario di quanto è avvenuto nella storia ed ancora
avviene, facendo delle identità differenziate, alibi per
conflittualità linguistiche, culturali, nazionali,
etniche, religiose, economiche, ecc. sempre innescate per poter
sfruttare le risorse del territorio nel quale queste
diversità sono insediate, mai perchè le
diversità producessero automaticamente conflitti. Quando
noi affermiamo i diritti della nostra lingua, non lo facciamo
perchè la consideriamo migliore delle altre, ma solo
perchè è la nostra, non ne possediamo altre,
è diversa dalle altre, come ogni uomo è diverso
dagli altri. Dobbiamo difendere questa nostra diversità
perchè in essa sopravvivono segni antichi del passato,
sono la prova di una continuità, nel bene e nel
male.
In VdA il francoprovenzale, lingua che sta tra la lingua d'oc e
la lingua d'oil, porta segni dell'antica parlata celto-ligure e -
addirittura - delle precedenti parlate della valle. La nostra
lingua è una sorta di DNA del nostro popolo, l'unico DNA
che abbia un senso sussista e sia ricercato, poiché quello
genetico ci porterebbe inevitabilmente a concludere che tutti i
nostri popoli sono il risultato di qualche migrazione. Per alcuni
le tracce genetiche possono essere più lontane e la
chiusura ambientale può aver preservato una certa
unità etnica: si dice che i baschi siano identificabili
proprio in virtù di una loro unità genetica, ma la
loro battaglia politica e la difesa della loro lingua e dei loro
diritti, fanno giustamente riferimento a tutt'altro, lasciando
che l'aspetto genetico sia soltanto un segno atavico di tempi nei
quali il mondo era assolutamente diverso da quello nel quale oggi
tutti viviamo.
Il francese che dovrebbe essere la lingua standardizzata dei
valdostani, non porta nessuno di quei segni riconoscibili nel
francoprovenzale. Noi valdostani ci troviamo nella situazione
singolare di considerare come nostra una lingua, il f., che non
è realmente nostra in quanto è una lingua che si
è affermata e diffusa per la mancanza di una
standardizzazione della vera parlata valdostana, il cui carattere
montano ed agricolo le ha impedito di superare un gap culturale e
letterario di cui ha sempre sofferto. E' come se i sardi
parlassero spagnolo o considerassero lo spagnolo come la loro
lingua; avrebbe potuto esserlo, più dell'italiano. Il
fatto è che in Sardegna c'è il sardo e in Valle
d'Aosta c'è il francoprovenzale nella cui caratteristiche
è insita la traccia di tutta la storia, anche delle
dominazioni subite, ovviamente.
Certo il francoprovenzale è più latino di quanto
fosse celtico un tempo e questo succede perchè
fallì il tentativo dei Salassi (valdostani celtici) di
resistere ai romani. Oggi può fallire la resistenza
all'italiano, può fallire la resistenza all'inglese, ma se
non si resiste si corre il rischio di perdere una battaglia non
ancora del tutto perduta e si perde la possibilità di
lasciare un segno, una eredità linguistica, una
continuità della lingua. Continuità possibile se
crediamo che perfino la lingua inglese non ha futuro. A che serve
la lingua? Io credo che se consideriamo la lingua qualcosa di
riferito solo a noi stessi ed alla nostra comunità,
compiacendoci di preservarla quanto più possibile uguale a
se stessa, noi stessi la condanniamo a morire.
Mi viene in mente uno studio sulla lingua francese, una lingua
forte che resiste addirittura all'imperialismo della lingua
inglese: su un totale di 4200 voci di uso corrente (tralasciando,
quindi, le parole troppo arcaiche, troppo regionali o troppo
specialistiche), 1054 sono anglicismi (25%), 707 italianismi
(13%), mentre alta è la percentuale dell'influenza di
altre lingue: arabismi (5,1%), germanismi (4%) ispanismi
(3,7%)... e - lo ripeto - stiamo parlando di una lingua di Stato,
diffusa in tutto il mondo. Le lingue devono essere dinamiche:
Marco Polo fece del veneto una lingua importante per i commerci
perfino con la Cina. E durante la seconda guerra mondiale i
tedeschi non riuscirono a decriptare i messaggi segreti degli
alleati solo quando questi si decisero ad utilizzare le lingue
dei nativi pellerossa. Vi propongo - ovviamente- solo esempi di
un certo effetto immediato per dire le immense ed inattese
possibilità di uso delle lingue.
Quando la lingua è solo dialetto? Divisione sottile e per
certi versi inutile. Basta avere uno Stato che lo scelga
ufficialmente e un dialetto diventa lingua? O basta una
rivendicazione politica ed un dialetto diventa lingua minoritaria
alla quale applicare le pur riduttive tutele possibili attraverso
gli strumenti della democrazia? O bastano una forte letteratura e
un dialetto diventa lingua, come è avvenuto per il toscano
in Italia? Vedremo, poco a poco, che nulla di tutto ciò
è vero. Fermiamoci ad una definizione di carattere
generale: la lingua ha determinate caratteristiche e determinate
normative, il dialetto, mentre in parte ha contribuito alla
costituzione di quella lingua, ne resta espressione correlata e -
in qualche modo secondaria - per effetto di una sua mancata
standardizzazione e, quindi, della assenza di strumenti ufficiali
per utilizzarla ed insegnarla, lasciandola, quindi all'uso orale,
espressione di una tradizione e del passato, priva di una
dinamica o - meglio - espressione di una dinamica che si è
fermata nel tempo ad un dato periodo.
In Valle d'Aosta basterebbe una standardizzazione del
francoprovenzale a farne una lingua? La complessità del
problema valdostano evidenzia che la risposta non è
semplice. In Valle d'Aosta il f diventa lingua ufficiale nel
1536, addirittura prima che in Francia, soppiantando il latino,
perchè il f. era "la lingua più comune e diffusa,
tra quelle in uso". Il f. di allora non era certo quello
letterario dei secoli seguenti, era più vicino alle
parlate in uso tra la popolazione, era davvero una lingua che
collegava le diverse parlate di una Valle d'Aosta geograficamente
aspra, nella quale da vallata a vallata poteva essere difficile
comprendersi.
Il f. si è poi evoluto come lingua atta a rappresentare
problemi ed identità diversi da quelli valdostani e mentre
il f. si evolveva, la parlata francoprovenzale restava ferma o
faceva passi indietro ...così le due lingue si
allontanarono. I linguisti dell'800 ritrovarono diversità
sostanziali e strutturali nelle due lingue, classificandole come
lingue diverse, neo-latine e gallo-romanze, ma diverse. La lingua
francoprovenzale era presente, con le sue parlate, nell'area
storica francoprovenzale, burgunda e savoiarda, fino a quando,
con la scomparsa della Savoia e la nascita dell'Italia, questa
unità venne meno e per i valdostani iniziò il
processo di italianizzazione. La peste del 600 era stata meno
devastante ... la popolazione fu decimata, ma nuove ondate
immigratorie si integrarono anche dal punto di vista linguistico;
l'Italia, invece, forzò i processi di disidentificazione,
negando che qualsiasi altra lingua, oltre all'italiano, avesse
diritto di vivere in VdA.
Impedì, così, si producesse quella dinamica storica
e culturale che sarebbe stata la presa di coscienza di un
problema di classe: in VdA borghesi, notabili, nobili e clero -
francofoni - dominarono una popolazione di montanari, allevatori
e agricoltori - francoprovenzali. La loro sudditanza poggiava su
quella culturale; non c'era analfabetismo, ma scuola ed
istruzione erano impartite in f., mentre la lingua popolare
veniva definita patois, lingua delle pattes, lingua dei piedi.
Questa presunta inferiorità, accentuata dalla politica
italiana che insinuò l'esistenza tra i valdostani di
problemi sociali e sanitari legati alla consanguineità (il
cretinismo) o alla scarsa alimentazione (il gozzo) fu così
palese che mentre i valdostani cominciarono a vergognarsi della
loro identità e della loro lingua francoprovenzale, il
fascismo si preoccupò di negare i diritti della lingua f.,
ma si disinteresso del francoprovenzale.
Il popolo valdostano (o, meglio l'élite culturale ed
economica che lo guidava) accettò o subì senza
opporvisi subito, il fascismo e quando si oppose,
contrapponendosi complessivamente all'Italia, fece della lingua
f. il segno forte della propria diversità, trovando la
Francia di De Gaulle, una Francia da sempre ostile ed estranea
alla Valle d'Aosta, pronta ad annettere la VdA. Il
francoprovenzale fu considerato un dialetto francese, quindi
tutti in Valle d'Aosta erano da considerare francofoni. In tempi
a noi vicini, la VdA vive il suo 68, rilegge la propria storia e
scopre che i detentori del potere locale e statale, hanno tenuto
sottoposto un piccolo popolo ricco di acqua e di ferro, posto in
situazione geografica strategica per gli interessi dei tempi. In
questo 68 i valdostani smettono di vergognarsi del loro
francoprovenzale. e scoprono tutto ciò che del
francoprovenzale è stato negato nel passato, compresa una
qualche letteratura. Il f. in Valle d'Aosta non si è
evoluto grazie al francoprovenzale e viceversa, entrambe si sono
snaturate: il francese scomparendo pian piano, pur essendo lingua
ufficiale di pari diritto dell'italiano in una regione autonoma
nata dalla Resistenza al fascismo; il francoprovenzale.
italianizzandosi.
Alla forza della lingua italiana sarebbe stato impossibile
contrapporre il francoprovenzale., mentre il f., lingua con un
ruolo storico, lingua ufficiale e di cultura, sembrò
essere il giusto contraltare. Del resto se anche il f. non
è la vera lingua della Valle d'Aosta, non è certo
una lingua straniera come l'italiano. F. e francoprovenzale:,
inoltre, sono e restano lingue sorelle. Tutto ciò ha reso
possibile quel che è successo in Valle d'Aosta dove, oggi,
solo l'1% della popolazione ha come prima lingua il francese
(meno della percentuale degli arabofoni), il 60% ha come prima
lingua una variante francoprovenzale, tutti hanno una discreta
conoscenza del francese come lingua scolastica, ma tutti
conoscono e parlano italiano, anche gli africani immigrati da
paesi cosiddetti francofoni. In Valle d'Aosta, 120 mila abitanti
in tutto, ci sono mille problemi linguistici; sono italianizzati
perfino i circa mille europei (francesi, albanesi, inglesi,
rumeni, ecc.) che vi si sono installati ed i mille abitanti di
una zona dove anticamente si parlavano dialetti germanici. E in
VdA abbiamo anche 4 o 5 mila persone che usano abitualmente il
piemontese. Ultimo dato, una inchiesta poco nota dimostra che la
lingua inglese è più diffusa del f. come prima e
seconda lingua di comunicazione.
Il f. vive soprattutto di vita ufficiale ed istituzionale, visto
che tutta l'attività amministrativa della Regione è
in doppia lingua, italiano e francese, e per accedere al pubblico
impiego bisogna superare prove di conoscenza della lingua
francese. I dati che vi ho fornito dimostrano che il
francoprovenzale. ancora vive ed ancora vive l'implicita
ricchezza di una sua diversificazione da zona a zona. Negli
ultimi dieci anni, tuttavia, ha innegabilmente perso forza e
questo è un pessimo segnale. Quando ci si pone il problema
se standardizzare oppure no una lingua e si afferma che non
è necessario se la lingua continua a sopravvivere
oralmente, bisogna ricordare che senza standardizzazione la
lingua non può essere usata in tutte quelle sedi che la
rendono davvero viva: il culto, la giustizia, la scuola,
l'organizzazione sociale, i media, senza i quali,
inevitabilmente, si affermano lingue ufficiali e standardizzate,
oltre che più diffuse.
Non facciamoci illusioni quando la nostra lingua, nella variante
che ci sta a cuore, trova qualche spazio in chiesa, nei giornali,
a scuola ... è tutto illusorio ed estremamente
occasionale: anche io nelle scuole elementari ho svolto una lunga
ricerca sui pellerossa, ma questo non ha contribuito neppure un
po' a renderli più liberi. Non ci inganni, allora, lo
spazio e l'attenzione che le parlate sembrano talora ottenere: ci
si preoccupa dei panda perchè scompaiono e ci si occupa
delle lingue che stanno scomparendo, quasi solo se riescono ad
avere un interesse folkloristico (ancora non in funzione di se
stesse, ma in funzione di fruitori esterni, interessati allo
spettacolo della cultura, alla rappresentazione della tradizione,
ecc.) e quasi solo quando si è certi che infine moriranno
davvero.
Indiscutibilmente i valdostani sono più forti
politicamente in quanto francesi e in quanto minoranza, ma questo
significa accettare categorie e logiche che dovrebbero esserci
estranei: dobbiamo vivere per ciò che siamo e non nasciamo
minoranza, "diventiamo" minoranza perchè nascono Stati ed
organizzazioni statali che ci rendono numericamente tali. Ma se
ci fermiamo a rivendicare spazi e diritti in quanto tali,
significa che accettiamo questa logica e ciò che, in
qualche modo, può darci come compenso per la mancata
applicazione di altri diritti, o come privilegio che otteniamo
per togliere lo Stato dall'imbarazzo di dover temere qualche
revanscismo separatista. Reazione legittima questa, e anche
realistica, ma culturalmente mortale, psicologicamente mortale,
perchè cancella in noi la stessa coscienza di appartenere
ad un popolo e di esser portatori di un progetto culturale,
sociale e politico che non è quello altrui. Se non abbiamo
la coscienza di essere un popolo e che tutti i popoli hanno gli
stessi diritti, allora è giusto che nelle dinamiche della
politica, nelle logiche degli Stati, negli interessi dell'Europa
e nella dimensione della globalizzazione, noi si scompaia. Se da
soli ci infiliamo nella trappola di essere una minoranza e di
rivendicare qualche diritto come tali, vuol dire che siamo
compartecipi della nostra morte in quanto popolo.
Torniamo al tema. Personalmente ritengo che una corretta
standardizzazione di una parlata colga gli elementi sostanziali
di unità linguistica trasfondendoli in norme e regole che
la rendano utilizzabile, trasmissibile, insegnabile ed
apprendibile oltre le possibilità dell'uso orale. A torto
si crede che la standardizzazione incida sulle diversità e
le uccida. E' di immediata comprensione il fatto che le parlate
di due comuni vicini possono essere diverse, ma sostanzialmente
lo sono sempre meno di quanto possano esserle parlate lontane;
allora se nella standardizzazione può sembrare prevalgano
le caratteristiche di una variante rispetto ad altre - facendo
credere che la standardizzazione ne punisca qualcuna - questo
è valido solo quando le diversità sono
sostanzialmente troppo considerevoli dal punto di vista
linguistico anche in ragione di una discontinuità
territoriale e di una lontananza geografica tra le varianti. Un
esempio: il toscano ed il napoletano sono molto diversi, eppure
il loro codice linguistico è italiano; la diversità
è forte, tanto da far pensare a due lingue diverse. E
allora? E allora forse possiamo ammettere che toscano, napoletano
e italiano sono tre lingue diverse, perchè no, ma allora
non mi spiego perchè f. e francoprovenzale debbano essere
considerati la stessa lingua.
Succede che l'unità nella diversità deve ancora
essere un valore di imprescindibile riferimento; a me interessa
molto poco sapere quali problemi si pongano della difesa delle
diversità dell'italiano e dei suoi dialetti, delle sue
parlate, delle sue lingue che dir si voglia; e mi interessa ancor
meno fare io le battaglie politiche necessarie ad affermare che
quella parlate identificano popoli diversi. So che solo la storia
dice che cosa è una lingua e cosa è un dialetto e
che questa affermazione non ha mai un valore assoluto,
corrisponde solo alle contingenze del momento e della storia
stessa. So che in Italia per alcune parlate o lingue la vita
è difficile: friulani, valdostani fp, occitani, sardi,
hanno parlate che nella loro diversità non hanno nessun
riferimento né con la lingua italiana, né con una
lingua esistente oltre i confini dello Stato italiano.
Per questo mi dispiace constatare che sloveni, valdostani f.
(giusto o sbagliato che sia considerarsi tali) e altri, che pur
avrebbero una lingua forte di riferimento, italianizzano la loro
lingua invece di esaltare le loro varianti in un progetto
linguisticamente comunque unitario e non italiano. Credo nella
standardizzazione per chi non ha ancora una lingua standard di
riferimento. Non credo sia possibile standardizzare lo sloveno
parlato nella valli, in Italia, ma credo si possa e si debba
mantenere il riferimento allo sloveno ufficiale; ciò che
perderemo in questo è comunque meno di quando perdiamo
quotidianamente trasformando la nostra parlata in un dialetto
sempre più italianizzato, sempre più italiano. Per
chi, invece, ancora deve procedere alla standardizzazione si
presenta la difficoltà di tener presenti le
complessità delle varianti: non si può
standardizzare una lingua in una zona soltanto del suo
territorio, altrimenti la lasceremo sempre in balia del confronto
con la lingua dominante (per noi l'Italiano) e spezzeremo
l'unità culturale e linguistica del nostro popolo.
Il fatto è che le lingue oggi hanno bisogno di essere
utilizzabili un'area più vasta del proprio territorio,
talora ridottissimo, per poter vivere. Standardizzare il
francoprovenzale per la sola VdA significherebbe creare una
lingua creola che non corrisponde ad altro che alla parlate della
Valle d'Aosta, mentre l'area francoprovenzale è molto
più vasta. Se, tuttavia, in quest'area il francoprovenzale
è morto, allora meglio salvare il salvabile, ma questa
lingua non deve essere salvata per metterla in un museo e se a
parlarla, a fruirne, continueranno ad essere solo i valdostani,
allora stiamo solo ritardando la morte di questa lingua, con la
scusa - da me stesso addotta inizialmente - di voler almeno
salvare qualcosa per dare una continuità, qualunque cosa
avvenga. Noi dobbiamo far vivere le nostre lingue per porle in
positivo confronto con le altre. Sono cosciente dei problemi,
certo.
Penso, ad esempio, all'isola linguistica walser della VdA, mille
persone, con pochissime persone ancora parlanti, eppure con la
voglia diffusa di far morire quel patrimonio. Oggi si insegna il
tedesco e questo pare dare una botta finale alla vecchia parlata.
E questo è successo perchè i walser sono in un cul
de sac, non hanno più un retroterra, non hanno quasi
più parlanti; l'evoluzione demografica ha fatto sì
che vi si insediasse una grande maggioranza di non nativi ai
quali è sembrato opportuno salvaguardare la tradizione in
senso moderno, insegnando - appunto - il tedesco, insegnarlo a
partire dall'italiano, perchè neppure era più
possibile fare almeno lo sforzo di insegnarlo valorizzando al
tempo stesso la parlata locale. E allora per fortuna sono stati
fatti due dizionari per raccogliere le peculiarità di due
diverse parlate, così almeno sarà sempre possibile
recuperare, se non la parlata, almeno una qualche
caratterizzazione del tedesco locale. L'alternativa? Insegnare
solo l'italiano, o il francese. Mi stanno bene i sardi che
litigano su come scrivere la loro lingua, purché
continuino a scriverlo come hanno fatto fino ad ora e la mancanza
di una standardizzazione non impedisca di renderlo fruibile ad
altri che non hanno potuto apprenderlo oralmente. Noi dobbiamo
salvare le nostre lingue con tutte le loro particolarità
perché
1- non lo farà nessun altro
2- la tendenza del nostro mondo è lasciar morire le
lingue.
E' sciocco pretendere che lo Stato (articolo 6 della
Costituzione) o l'Europa (la Costituzione) si facciano carico dei
nostri problemi, non possiamo delegare ad altri la tutela della
nostra identità. Nasceranno - l'ho affermato - le lingue
neo-inglesi e la diversità linguistica avrà sempre
spazio, ma noi siamo chiamati a far crescere la nostra
identità in un processo sempre più ampio e
dinamico. E' chiaro che dobbiamo rifiutare l'oppressione
linguistica, che dobbiamo pretendere che la nostra lingua viva
nella scuola, nei media, ecc. ma gli strumenti per fare tutto
ciò dobbiamo averli noi, non può averli lo Stato,
non può darli l'Europa, perchè altrimenti avremo
solo l'applicazione di un generico diritto alla scuola per tutti
che significa scuola in italiano per tutti. Una cosa sono le
politiche di italianizzazione poste in atto dalla Stato,
purtroppo largamente vincenti, un'altra è scoprirci privi
degli strumenti anche quando ci viene lasciata la
possibilità di utilizzarli.
Lo Stato ha fatto di tutto per farci morire, oggi ci lascia
morire... se comprendiamo questo passaggio allora capiremo anche
quanto sia importante avere un progetto politico veramente
federalista che tenterò di chiarirvi proprio attraverso il
problema della lingua. Parlare una lingua a livello individuale
non ha nessun senso, per questo il diritto linguistico non
è un diritto individuale, ma un diritto collettivo. E'
stupido rivendicare il rispetto dei diritti dell'uomo nella
dimensione dell'uomo in quando individuo. Quale lingua, quale
religione, quale sessualità, ecc, possono essere espresse
individualmente? Quando ci parlano, quindi, di diritti umani ci
fregano, ci fregano perchè non è chiaro come questi
siano effettivamente applicabili a livello comunitario se le
comunità non sono quelle liberamente costituite dalla
libera aggregazione di individui, ma sono gli Stati e gli imperi
nati da guerre e dalla spartizione di uomini e territori o dalla
aggregazione di uomini e territori (come è il caso
dell'Europa) voluta da Stati e mercanti, escludendo da ogni
decisione i popoli.
La nostra prima comunità è il villaggio, o il
Comune; se nel villaggio non riusciamo ad organizzarci per avere
la scuola, lo faremo nella dimensione del Comune e poi, via via,
in dimensioni sempre più grandi alle quali si acceda come
somma di aggregazioni e di diversità. Se, allora, il mio
problema è preservare una cultura, una lingua, una
tradizione, una storia, sarà del tutto normale che io mi
aggreghi con realtà simili alla mia: è in questo
che le diversità trovano una loro composizione: l'insieme
della varianti linguistiche, ad esempio, troverà sbocco
naturale in una lingua che possa fornire a tutte gli strumenti di
sopravvivenza e, insieme, rappresenti gli elementi di
unità strutturale. Saranno poi l'uso, la letteratura, la
scuola a determinare l'evoluzione di questa lingua. Se io sono
valdostano e la scuola che frequento è italiana o
francese, quella scuola mi sarà sempre imposta; forse mi
darà un diploma, forse farò carriera, ma la mia
identità verrà meno, io stesso porterò a
compimento il mio processo di disidentificazione
linguistica.
Il problema è individuare nella costruzione degli stati e
delle identità nazionali, la totale assenza di un processo
di siffatta progressiva integrazione: l'Italia comprende
tedeschi, sloveni, sardi, francesi/francoprovenzali, ecc. ed
è quindi uno stato plurinazionale al cui interno una
nazione prevale e detta le regole .... Mi pare chiaro che il
problema dei diritti linguistici passa inevitabilmente attraverso
il rispetto dei diritti collettivi. Qual è la nostra
collettività? La logica degli stati oggi vede la nostra
collettività spezzata in due o tre parti appartenenti a
stati diversi. I baschi sono divisi istituzionalmente in due
all'interno dello Stato spagnolo e in altra parte con un gruppo
interno allo Stato francese. I livelli di diffusione e di
sopravvivenza della lingua sono diversi, per effetto di questo
disarmonico sviluppo; e succede che quando risulti inevitabile
assicurare una qualche tutela, si voglia strumentalmente
contrapporre le parlate tra loro, rendendo indecifrabile
l'esistente di una dimensione collettiva più ampia. Nei
Paesi Catalani alcuni difendono il valenziano giungendo a
sostenere che valenziano e catalano sono due lingue diverse;
nelle valli provenzali o occitane del Piemonte italiano, la
battaglia è addirittura interna, basata sulla
diversità politica di chi difende il provenzale rispetto a
chi difende l'occitano, lingua e parlata entrambe in via di
disfacimento.
Se continuiamo a non poter costruire la nostra
collettività, subiremo sempre le politiche di
disidentificazione dello Stato e ne saremo complici. La
dimensione del confronto non è più soltanto
linguistica, ma è politica. Il nostro nemico non è
lo stato che ci opprime, e neppure lo Stato che ci può
essere amico e ci attribuisce autonomia e libertà
culturale, è lo Stato in se. Ecco perché non credo
che il futuro delle nostre collettività che chiamo nazioni
senza stato, sia necessariamente quello di darsi uno stato. Noi
viviamo spesso in piccole dimensioni nelle quali ci sentiamo
dimenticati dallo Stato. Magari fosse, non sappiamo quanto
saremmo fortunati ... niente Berlusconi e Fini, niente Grande
Fratello, niente veglie per il calcio e per la Formula 1. E tutto
il resto...
Se il nostro obiettivo è darci uno Stato affinché
la nostra identità sia rappresentata nel consesso degli
Stati stiamo costruendo un mondo nel quale Mussolini invece che
essere italiano possa essere sloveno, stiamo prendendo il peggio
di ciò che il diritto internazionale offre, alimentando
gli egoismi nella costruzione di collettività che se ne
alimentano. Si perché le nostre collettività hanno
alla propria base quel piccolo principio di base che è la
solidarietà, mentre gli Stati non hanno questo obiettivo
primario, anche se lo enunciano. Guardiamo a cosa ne è del
Sud Italia, un tempo collettività florida economicamente e
culturalmente, poi impoverito irrimediabilmente. Se sogniamo uno
Stato vuol dire che abbiamo accettato la cultura politica basata
sul fatto che qualcuno domina e gli altri sono minoranza e che
non ci interessa costruire un mondo diverso, ma solo passare
dall'altra parte. E' chiaro che non succederà mai che
tutte le nazioni senza stato possano diventare uno Stato allo
stesso momento, quindi, il meccanismo perverso della negazione
delle collettività continuerà a prodursi da qualche
parte.
Perchè - allora - a tutti noi sembra tanto difficile
accettare quella che sembra essere una forzatura culturale - la
standardizzazione della lingua - ma siamo disposti ad accettare
tutto il resto attuato e voluto contro di noi, cercando solo di
trovare spazi minimi di sopravvivenza concessi dallo Stato, solo
perchè non può annientarci in quattro e quattro
otto? Dobbiamo capire che l'italiano ha avuto Dante e Manzoni, il
che vuol dire che una lingua deve essere in grado di comunicare,
di commerciare, ma anche di produrre un plusvalore, un valore
aggiunto culturale e intellettuale. Nel mondo di oggi è
necessario conoscere e praticare più lingue; la scuola
deve darci queste conoscenze linguistiche diffuse e questo non
è assolutamente in contrasto con la nostra lingua.
Torniamo al federalismo...a quello che costruisce le
collettività sempre allargando l'ambito naturale di
sviluppo e di affermazione delle collettività primarie.
Questo presume non accettare che per federalismo si intendano i
patti raggiunti tra Stati perchè questo è, in
realtà, il confederalismo; e non accettare che per
federalismo si intendano le competenze che lo stato attribuisce
alle regioni, alle proprie regioni, quelle che lui stesso ha
costruito dall'alto, perchè questo è, il
realtà, il regionalismo.
Ho una buona pratica dell'italiano e lo considero una lingua
importate, capace di esprimere un grande plus-valore linguistico,
a patto che ci sia corrispondenza tra termini e loro significato.
Le lingue, le nostre lingue sono concrete, non lasciano spazio ad
equivoci di significazione; una lingua deve sempre rispondere di
se ai suoi locutori; le lingue degli Stati sono lingue di false
comunità e, come dicevano i pellerossa parlando dei
bianchi, sono lingue biforcute. Alcune delle nostre lingue oggi
sembrano immobili, belle e orgogliose, ma questa sarà la
causa della loro morte. Senza dinamiche interne ed esterne,
moriranno. Per colpa nostra. Come sono difesi in VdA lingua a
dialetto (francoprovenzale detto anche patois)? Ad esempio:
Quali sono le posizioni politiche e culturali rispetto a lingua e dialetto?
Entriamo nella politica regionale per vedere quali conseguenze scaturiscono da queste posizioni. Da uomo dell'UV so che il francese è più forte del francoprovenzale contro l'Italia e l'italiano. Tuttavia il francoprovenzale è vivo anche senza il f, mentre il f è in crisi; il f è così debole che non alimenta il francoprovenzale che si italianizza, segno che l'influenza dell'italiano è più forte; il f è così debole che non si alimenta neppure della grande diffusione e forza della lingua francese nel mondo, malgrado molteplici occasioni di contatto con il mondo della francofonia. Il legame tra francese e francoprovenzale è debole o non c'è. Allora sarebbe auspicabile un legame o almeno un contatto con la realtà provenzale, ma:
Vi propongo tutte queste complicazioni non certo per farvi
schierare da una parte o dall'altra in VdA, ma per rendervi
partecipi di una complessità che - vista da fuori, non ha
senso, perchè il solo risultato che ha prodotto è
l'affermazione dell'italiano, la scarsa diffusione del f e la
vita sempre più difficile del francoprovenzale per il
quale si fa apparentemente molto, ma non quel che è
necessario per evitarne il crollo che i sarà.
Per questo credo dobbiamo avere:
Rispondiamo anche al quesito non so quanto significativo per,
ma certo importante per i valdostani, se i mutamenti demografici
ci dicano qualcosa: emigrazione, immigrazione, fuga dei cervelli,
ricchezza e povertà, villaggi dormitorio, villaggi ferie
ma vita altrove.... Io sono di origini cimbre, ma mi sarà
difficile imparare il cimbro perchè non vivo il territorio
e, del resto, non è quasi più parlato: nell'arco di
due/tre generazioni la mia famiglia paterna è diventata da
cimbra germanofona - veneta poi valdostana immigrata, quindi
valdostana....il destino dei migranti è quello di perdere
la propria identità nell'arco di qualche generazione, ma
quale nuova identità assumono? ha forse senso che uno
sloveno o un sardo che arrivano in Valle d'Aosta diventino solo
italiani, finendo col contrapporsi ai valdostani per rendere
italiani anche loro così che tutti avremo una
identità che non è quella di nessuno?
Che dirvi del cimbro ... forse che il governo danese sta cercando
prove scientifiche per verificare se tra la sua popolazione, gli
inuit, i pellerossa, i cimbri ed i celti c'è un legame che
taluni segni rimasti nella lingua e talune caratteristiche
genetiche parrebbero affermare. Vorrei dirvi qualcosa sul ruolo
degli emigrati, ma credo che allargheremmo troppo il campo:
tenete solo conto che hanno un ruolo e che è ingiusto
costruire un futuro nel quale essi ritornino al paese per
qualsiasi ragione, per visitarlo, per morirci, e non lo
riconoscano più, vi si sentano stranieri. Del cimbro
restano alcune parole che dicono un mondo, una vita, una economia
che non ci sono più; non potrei parlarvi in cimbro come
potrei farlo con il f, magari contando su di un interprete: fuori
da quel mondo chiuso il cimbro non ha mai avuto vita.
Certi dizionari linguistici, quindi, come quello cimbro e quello
walser, sono una pietra tombale; del resto, lo abbiamo visto,
è morto l'aramaico di Gesù, è morto il
latino, il greco lingua di grandissima influenza in tutto il
mondo è usato solo in Grecia; è morto il sanscrito
... perchè mai non dovrebbero morire le nostre parlate?
Noi abbiamo ancora gli strumenti per consegnare al futuro
qualcosa di esse, chi più chi meno. E sappiamo che se le
chiudiamo in un museo presto moriranno. Non sarà colpa
dello Stato o dell'Europa, ma colpa nostra perchè avremo
rinunciato spontaneamente a dotarci degli strumenti di cui tutte
le lingue vive si sono dotati. A Barcelona un tempo si parlava
occitano, oggi il catalano è molto forte, mentre
l'occitano, che pur ha dato al mondo una scrittore Premio Nobel,
Mistral, ancora si interroga su quale è la sua forma
scritta e, in Piemonte, litigano addirittura coloro che tra
concezione tradizionalista e concezione innovativa, litigano
mentre fanno il funerale della lingua.