di Claudio Magnabosco
Una giusta battaglia, la loro, ma ... Lascio
agli specialisti il compito di analizzare approfonditamente i
contenuti della riforma Moratti, non senza esprimere viva
preoccupazione per almeno due questioni aperte: ho l'impressione
che in Italia stiamo americanizzando tutto, scuola compresa; ho
la sensazione che la riforma obbliga alcune realtà, e
metto fra queste le Regioni a Statuto Speciale, a fare dei passi
indietro.
Raccolgo le preoccupazioni del mondo sindacale che contesta un
abbassamento qualitativo della formazione scolastica, quasi che
la ricetta "più inglese-più computer", formulata da
Berlusconi, bastasse da sola ad assicurare alla scuola in Italia
un salto qualitativo che, invece, è un salto nel buio.
Rischiamo situazioni sempre più drammatiche, come
l'analfabetismo di ritorno, rischiamo che la natura umanistica
della tradizione europea, sia soppiantata da livelli superficiali
di informazione e di formazione, quasi che, al posto dei
cervelli, sia sufficiente utilizzare i microcip.
Ma che a questo regresso corrisponda la proposta o, quanto meno, la possibilità di dedicare ai dialetti locali uno spazio importante nella scuola, proprio non me lo spiego. Non che io sia contrario a questa ipotesi, ma sono decisamente contrario a quel che significa proporla ed attuarla in uno Stato che rispetto alla propria identità culturale e linguistica, non vuol fare chiarezza. Non esiste in Italia una sola identità nazionale, non esiste una sola lingua nazionale; esiste, invece, una certa unità politica, esiste una sempre più diffusa uniformizzazione culturale, esistono una prevalenza ed un dominio linguistici, ma...
Per esprimere appieno il mio pensiero, devo fare un passaggio teorico attraverso l'utopia: l'Italia è uno Stato plurinazionale che, accanto ad una lingua maggioritaria, ha, per tradizione storica e culturale radicata, tutta una serie di lingue che sono anch'esse nazionali; a definirle tali non è solo il fatto che, come il francese e come il tedesco, sono lingue nazionali in altri Stati, ma la complessità e la completezza delle loro strutture linguistiche: penso al sardo, al friulano (mi spingo fino a formulare l'unità della lingua ladina), ecc. Non vado oltre per non riproporre un dibattito che, in tal senso, è già ampiamente affrontato in vari studi e pubblicazioni.
Di fronte ad una situazione plurinazionale, la ragione vorrebbe che non esistessero graduatorie di importanza o, peggio, graduatorie basate sulla misura numerica, individuando, come purtroppo - invece - succede, l'esistenza di maggioranze e minoranze e costruendo un diritto basato su questa situazione. Identità nazionali e lingue nazionali dovrebbero esser sullo stesso livello e partecipare, insieme - se la storia lo rende necessario - alla costruzione di aggregazioni statuali delle quali esse siano il fondamento. Il diritto dovrebbe adeguarsi a questa realtà ed armonizzarla. Lo Stato si arroga, invece, il diritto di garantire una presunta unità nazionale e, quindi, anche di poter decidere come/quando e quanto le altre identità nazionali e le altre lingue possano affermarsi ed aver diritti. E' quanto è avvenuto in Italia con l'articolo 6 della Costituzione il cui dettato, lo Stato tutela le minoranze linguistiche, è parso dapprima irrisorio, poi vessatorio.
Irrisorio, poiché definire minoranze linguistiche le comunità parlanti lingue nazionali diverse dalla lingua italiana, ha dato di queste lingue un'interpretazione diminutiva, le ha private - cioè - dell'identità politica, per attribuire loro solo quella culturale, posta in subordine alla cultura stato-nazionale. Se lo Stato, più correttamente, avesse riconosciuto l'esistenza di minoranze nazionali, ad esse avrebbe dovuto attribuire veri e completi diritti politici. Vessatorio, poiché nel riconoscerle, comunque, in qualche modo, ha promesso una tutela che poi non ha mai assicurato, ritardando di oltre 50 anni l'approvazione delle leggi e delle norme che quella tutela avrebbero dovuto applicare. Dopo 50 anni e con regole incomplete e inadatte al proprio compito, la tutela si è tradotta in una mera formalità.
Il problema era e resta, a monte di tutto, la natura stessa dello Stato: lo Stato italiano è nato monarchico, è diventato fascista, si è ricostruito su basi proto-democratiche, avendo sempre alla propria base due principi: l'italianità e il centralismo. Se lo Stato italiano fosse nato come uno Stato federale, saremmo qui a scrivere una storia totalmente diversa, non solo sul piano dell'assetto istituzionale, ma anche su quello linguistico. Oggi, di contro, si vuol fingere che sia in atto una trasformazione in senso federale e federalista, trasformazione che, nella sostanza, sta al vero federalismo come la tutela paternalista delle lingue sta al loro reale diritto a vivere in quanto lingue nazionali.
Se esistesse un vero federalismo, questo dovrebbe partire dal basso, le competenze non dovrebbe essere decentrate, ma il contrario: tutte le competenze dovrebbero spettare alle realtà locali, le quali dovrebbero delegare a realtà ed ambiti sempre più ampi, solo quelle competenze che non potrebbero in alcun modo attuare da sole. Se immaginiamo che queste "realtà" si costituiscano e si riconoscano da se, invece di nascere per effetto di dispositivi centralisti, scopriremmo, anzitutto, che i confini degli Stati sono assurdi; lo sono ancor più nella realtà europea, non perché questa cancelli i confini, come in parte fa, ma perché solo apparentemente ricompone l'unità di popoli che erano stati divisi dai confini e che oggi restano realtà periferiche, comunità, regioni, senza reali diritti, senza la possibilità di gestire davvero la loro politica, la loro economia, la loro cultura.
Per far finta che l'Italia sia davvero naturalmente legittimata a gestire politicamente il proprio territorio, all'interno dell'Italia una reale trasformazione dello Stato in senso federale dovrebbe portare al riconoscimento delle diversità nazionali e linguistiche e di innumerevoli varianti culturali e linguistiche. Per quanto sia assurdo applicarsi a definire cosa sia una lingua e cosa sia, invece, un dialetto, restando su un piano schematico possiamo riconfermare la validità del nostro discorso iniziale sulle lingue nazionali: in Italia sono da considerare tali quelle lingue che la legge di attuazione dell'articolo 6 della Costituzione dice di tutelare in quanto lingue di minoranza.
Realtà schematica, ma comunque realtà. E le altre? Le altre quali? I dialetti? Ecco il modo per spiegare la situazione: quelle che non sono lingue di minoranze sono lingue altre, dialetti se vogliamo; in Italia sono ancora molteplici, molto vivi, non più vitali come 50 anni or sono, ma pur sempre presenti. Costituiscono un patrimonio culturale irrinunciabile, devono essere valorizzati, non devono morire. E allora, perché tante discussioni, perché cercare dei distinguo culturali per definire che cosa è e che cosa non è una lingua, se - in fondo - ogni espressione linguistica dell'uomo e della sua comunità sono importanti? La questione non è risibile e per chiarirla valgono le stesse considerazioni che possono portarci a spiegare quale comunità può definirsi popolo e, in tal senso, rivendicare i diritti che spettano ai popoli - secondo il diritto internazionale - ivi compreso il diritto all'autodeterminazione.
Quando si è arrivati a formulare il concetto di Padania, o quando qualcuno ha pensato di inventarsi la rinascita della Nazione Etrusca, è stato chiaro che era necessario andare oltre queste provocazioni culturali basate su assiomi geografici o storici. E, in particolare, si è rivelato necessario affermare chiaramente che, mentre l'appartenenza ad un popolo non può in alcun modo essere una questione di razza (e, quindi l'etnia va concepita come una dinamica umana di rapporti all'interni ad un territorio storico nel quale vive una comunità), è necessario applicare i diritti dei popoli a quei popoli che hanno storicamente una coscienza nazionale ed una specificità culturale: per capirsi se un basco può esser considerato spagnolo solo perché appartiene allo Stato spagnolo, ma possiede caratteristiche storico/culturali/linguistiche/politiche proprie, considerare un ... emiliano appartenente ad una Nazione diversa da quella italiana può essere divertente, ma è risibile.
L'interpretazione estensiva a tutti e a chiunque dei diritti che i popoli e le lingue hanno faticosamente conquistato, lede la sostanza di quei diritti e li rende vuoti. Se, infatti, ai valdostani sono stati necessari secoli di autonomia per affermare i loro diritti e ai lombardi può bastare, invece, la voce grossa della Lega per fare altrettanto con la Padania, allora vuol dire che qualcosa non va e che, ancora, non vale mai il diritto, ma solo la sopraffazione.
Le lingue delle Nazioni non italiane che stanno in Italia hanno ottenuto parziale riconoscimento e diritti solo dopo 50 anni di battaglie; estendere quegli stessi diritti a qualunque altra espressione linguistica presente in Italia, significa render vuoto il diritto linguistico stesso. Se il sardo, il friulano, il tedesco, ecc. devono essere insegnati a scuola e devono diventare anche lingua di insegnamento, ma lo stesso diritto vale anche per l'umbro, l'emiliano o il marchigiano, allora vuol dire che stiamo distruggendo il sistema stesso dei diritti.
Non affermo, in alcun modo, che i dialetti abbiano valore inferiore alle lingue delle cosiddette minoranze, affermo semplicemente che sono diversi; gli uni e gli altri per esser tutelati hanno bisogno di strumenti sostanzialmente diversi, non analoghi e non omologhi. In questa situazione, purtroppo, l'unica lingua ad avvantaggiarsi è l'italiano, lingua che in Italia non era - fino a 150 anni or sono - la lingua di nessuno, se non di una élite culturale, ed è diventata, poco a poco, grazie all'esercito piemontese, al saccheggio del sud, alla riduzione in minoranza degli alloglotti, al fascismo, alla guerra, ai ritardi della democrazia, agli equivoci del neonazionalismo italiano ed alla televisione, la lingua di tutti. L'intenzione del Ministro Moratti di favorire l'uso dei dialetti nelle scuole, non è quindi un gesto di apertura culturale, ma una scelta di confusione, atta a rendere vuoto ed inutile qualsiasi discorso sul valore delle lingue e dei dialetti.
Per quanto i tempi di oggi non sembrino particolarmente favorevoli a dare alle parole e ai fatti una coerenza, a me piace semplificare e rendermi comprensibile, a rischio di apparire separatista: in Italia ci sono molte Nazioni senza Stato, la cui identità e la cui storia sono addirittura più ampie e durature della stessa storia dello Stato italiano; se vale il diritto per un popolo che abbia coscienza della propria identità a veder riconosciuta la propria autodeterminazione, è inevitabile che la decisione di questi popoli di far parte dello Stato italiano, non può esser altro che il risultato di un patto con lo Stato. Questo è un passaggio indiscutibilmente federalista, l'esatto contrario della situazione di oggi, che vede lo Stato a volte decentrarsi, a volte proporsi con il volto buono di chi riconosce diritti, ecc. ecc.. La verità elementare è che lo Stato non è detentore di quei diritti, quindi li deve restituire; non è lo Stato a poter dire a questi popoli se e come possono difendere la loro lingua; al più può esser necessario che lo Stato assicuri in tutto il suo territorio uno standard minimo di servizi (scuole, sanità, lavoro) che rappresentino l'unità del suo stato di diritto; ma non può arrogarsi nessun altro diritto; altro che il paternalista articolo 6 della Costituzione! Ora se la situazione è diversa e se vogliamo evitare che si riproducano tensioni separatiste e rivendicazioni irredentiste, dobbiamo prendere atto di questa verità: lo Stato ha usurpato i diritti delle Nazioni senza Stato che stanno nel territorio, quindi deve restituire il maltolto.
Solo questa può essere l'ottica nella quale si tutela la diversità linguistica: non è un affare dello Stato! E i dialetti? Sempre nell'ottica federalista, non si vede come e perché lo Stato debba intervenire: il vero federalismo significa conservare la gestione del potere e le leve della amministrazione della cosa pubblica, il più possibile vicine al cittadino: ciò vuol dire che dal singolo cittadino alla prima comunità nella quale egli si realizza, il Comune, tutte le competenze devono essere esercitate al livello più basso e che, via via che i problemi si fanno più complessi, il Comune prima, la Comunità Montana poi, la Regione in seguito e così via, dovranno affidare la soluzione di parte dei loro problemi al livello immediatamente superiore.
E allora se la scuola deve dare all'intera popolazione uno standard di formazione atta a preparare i cittadini a stare nella realtà del lavoro e a partecipare in modo cosciente a tutte le dinamiche del nostro mondo globalizzato, non vedo come allo Stato spetti il diritto di decidere come e se ciò possa avvenire attraverso/con la compartecipazione o con il semplice minimo utilizzo di lingue storiche e locali. Credo che alle comunità locali spetti il diritto ed il compito di reperire le risorse necessarie a valorizzare la propria cultura e che, quindi, nessuna ingerenza debba essere esercitata rispetto all'inserimento nelle scuole di momenti, spazi o altro riguardanti i dialetti, da considerare spazio assolutamente libero di esercizio di diritti locali.
Credo anche, di contro, che rispetto alle lingue delle Nazioni senza Stato, invece, debbano sussistere regole diverse e più profonde: tutto ciò che lo Stato ritiene di dover fare a sostegno della cosiddetta propria cultura nazionale (comunicazione, editoria, spettacolo e mille altre realtà), non può farlo prestando attenzione alla sola lingua ed alla sola cultura italiana, ma deve parimenti porlo in essere per tutte le lingue delle Nazioni senza Stato che hanno un patto con lo Stato stesso: agli esami e agli esami di maturità, nelle università, nei giornali, nelle televisioni, nell'editoria, ecc. le lingue delle Nazioni senza Stato, devono avere parità di status con la lingua italiana.
Non è una questione di poco conto, poiché comporta il riconoscimento da parte dello Stato di non essere una realtà mononazionale, ma plurinazionale. Se lo Stato tiene alla propria unità, deve considerare la diversità come un proprio patrimonio, quindi le comunità alloglotte avranno possibilità e diritto ad attuare il necessario ed il possibile a sostegno della loro lingua, ma dovranno sussistere altri momenti, altre occasioni, altre risorse per rendere ciò che si vuole conformare al principio "unità nella diversità". Il discorso potrebbe apparire inutile se si pensa che lo Stato si comporta in modo centralista e, quindi, per molte comunità - vista la loro debolezza - è opportuno e obbligatorio accontentarsi di ciò che esso riconosce loro.
Ma questo discorso è molto pericoloso: possono le Nazioni senza Stato rinunciare alla loro identità ed ai loro diritti solo perché lo Stato si arroga la competenza di rappresentarle unilateralmente? E se tutto viene amalgamato, quale differenza potrà mai sussistere tra una manifestazione folkloristica ed un evento culturale? In Valle d'Aosta ci sono momenti di grande aggregazione popolare, ricchissimi di contenuti folkloristici che gratificano i turisti, ma in questi stessi momenti ed in altri, l'identità si esprime per quello che è realmente e totalmente, senza folklore: in Valle d'Aosta la dimensione comunitaria è ancora condivisa da una larga parte di popolazione che impegnata in settori economici tradizionali, ancora crede che il canto corale, il teatro popolare, l'artigianato tradizionale con le sue Fiere, gli sport agro-pastorali, le occasioni popolari come le battaglie delle mucche, ecc. costituiscono non solo momenti di partecipazione, ma di continua costruzione dell'identità; insieme a questi c'è il Parlamento autonomo, ideale quantunque imperfetta rappresentazione della autonomia secolare delle istituzioni Valle d'Aosta.
Questa dimensione dell'identità è un fatto incontestabile. Eppure, così come avviene per le lingue sollevando un polverone su cosa siano e su quali diritti abbiano, soprattutto oggi che tutti usiamo l'inglese (ma chi...io no!), stiamo assistendo alla messa in discussione delle motivazioni storiche delle autonomie speciali e, quindi delle lingue. Un recente articolo apparso sul Corriere della Sera, a firma del prestigioso giornalista Romano, afferma sostanzialmente che le ragioni storiche delle autonomia speciali sono venute meno. E sapete quali sarebbero queste ragioni storiche? Le tensioni del dopo guerra, le richieste di annessione e di separazione, quasi che quelle rivendicazioni non fossero altro che la rappresentazione di una lunga storia e di una solida identità.
Ridurre l'identità ad un fatto contingente corrisponde all'intento di amalgamare le identità; oggi il separatismo non c'è più, bene e allora perché ci deve essere l'autonomia? Questo fu il ragionamento del Governo Craxi, a suo tempo e pace all'anima sua, questo il ragionamento del Governo Berlusconi, all'animaccia sua.
Questo il testo della mia replica al
giornalista Romano.
Le ragioni che indussero i costituenti a creare le Regioni a
Statuto Speciale non sono affatto venute meno; le Regioni a
Statuto Speciale, infatti, sono la forma minima di riconoscimento
istituzionalizzato di "particolarità" che sono - nel
contempo - storiche, culturali, linguistiche ed etniche e, in tal
senso, non sono riconducibile solo ad una contingenza storica
specifica. Se queste Regioni, infatti, fossero "speciali" solo
perché attraverso la concessione dell'autonomia vennero
bloccate le loro istanze separatiste e indipendentiste, faremmo
torto sia alla loro identità più vera, sia alla
democraticità dello Repubblica.
Molte Regioni a Statuto speciale, ma anche altre comunità
che non hanno ottenuto nessuna forma di autonomia in Italia,
possiedono una identità così specifica da
configurarsi come vere e proprie "Nazioni", Nazioni senza Stato
se hanno ottenuto una autonomia, Nazioni senza Regione nell'altro
caso. Se, davvero, valesse il principio secondo il quale ad ogni
Nazione corrisponde uno Stato, l'Italia, ma anche la Francia, la
Francia, il Belgio, la Gran Bretagna non esisterebbero
così come li conosciamo ed il panorama europeo avrebbe non
venti, ma cento bandiere.
Si è ritenuto necessario, invece, andare oltre il
nazionalismo, e questo dovrebbe voler dire andar oltre il
riconoscere ad uno Stato-nazionale, che Nazione non è non
può essere, diritti che nessuno gli ha affidato; se,
infatti, costruissimo davvero il federalismo, dovremmo ripartire
dalle comunità di base ed attribuire ad ambiti sempre
più ampi (a partire dal Comune fino allo Stato,
all'Europa) solo quelle competenze che non possono essere
adeguatamente esercitate in altro ambito. Torniamo alle autonomie
speciali: lo Stato italiano è una Nazione solo se cancella
le tante altre piccole e grandi identità nazionali
presenti nel suo territorio; oppure se le riconosce come parti
integranti delle propria identità, identità
plurinazionale.
Ecco, allora, che gli Statuti speciali sono superati solo se si
vogliono far salve le ragioni ed il diritto di una Nazione
dominante e se si riconoscono diritti alle altre solo quando non
se ne può fare a meno. Lo Statuto di Autonomia della Valle
d'Aosta è legge costituzionale; ritenerlo superato
significa ritenere superata la Costituzione e se bisogna
rileggere la Costituzione allora bisogna che, prima, ciascuno si
riprenda i propri diritti e discuta come armonizzarli con gli
altri: se vogliamo che le Regioni a Statuto speciale siano, a
pieno titolo, Regioni dell'Italia, allora bisogna attribuire loro
ancora maggiori competenze ed ancor maggiore autonomia e bisogna
riconoscere loro spazio nelle dinamiche europee.
A considerare superato lo Statuto di Autonomia della Valle
d'Aosta possono essere, quindi, solo i valdostani, poiché
i loro diritti e la loro identità sono erosi dalle
tentazioni centraliste pur sempre presenti e da un malinteso
europeismo, quasi che per essere europei, non si possa più
esser valdostani, friulani, ecc. ecc. In realtà i
valdostani, i friulani, i sud tirolesi, ecc. sono tali da secoli,
la loro appartenenza all'Italia ed all'Europa sono talmente
recenti da rappresentare un fatto storico recentissimo che non
può cancellare tutto il resto della loro storia. E se
l'ingegneria autonomistica non ha consentito a tutte le
specialità, e in particolare alla Sardegna, di decollare
economicamente, la responsabilità non va scaricata sui
sardi, ma sulla longa manus del centralismo che sempre ha
soffocato la vera autonomia e sulla incapacità di
coniugare autonomia istituzionale con autonomia
finanziaria.
Per qualcuno, oggi, le specialità non hanno più
senso, visto che le tensioni sono sopite. Questa è la
stessa idea che animò il Governo Craxi e contro il quale
le autonomie insorsero Ma se sono bastati 50 anni a sopire le
tensioni, 50 anni non bastano a cancellare identità
storiche secolari: le autonomie non hanno solo 50 anni di storia!
Di questo passo, prima o poi, contro chi vuol cancellare le
ragioni storiche di una autonomia, risorgeranno forze
contrapposte che - sulla base dei fatti - potranno dimostrare che
se l'autonomia non è gradita ai democratici italiani e non
è compresa dai presunti federalisti, allora bisogna
rimettere tutto in gioco e chiedere - tutte le Regioni speciali,
e tutte insieme e in tutta Europa - l'esercizio della
autodeterminazione.
Purtroppo, caro dr Romano, la pacatezza dei suoi toni non
nasconde le bordate e gli attacchi frontali che, sostanzialmente,
Lei muove all'esperienza delle autonomie speciali, là dove
Lei asserisce quasi che queste sarebbero mantenute dallo Stato:
la Valle d'Aosta trattiene nove decimi delle proprie tasse, ma
paga per intero e direttamente i costi del proprio apparato
burocratico amministrativo, della propria scuola, della propria
sanità, ecc. ecc. E qui il discorso si fa lungo e
complesso; può essere spiegato in un modo o nell'altro a
seconda che se ne voglia esaltare l'efficacia o contestare il
diritto a persistere.
Il problema è "dobbiamo confrontarci o scontrarci?"
Claudio Magnabosco
Torniamo a più miti consigli. Le autonomie speciali esistono perché esistono popoli con una lunga storia e con solida identità; ma in Italia ci sono anche Nazioni senza Stato alle quali non è stato riconosciuto un bel nulla, si pensi agli occitani che, come massimo riconoscimento hanno la citazione della loro esistenza come occitani, solo in una denominazione di comunità montane. E' tutto il discorso che va, quindi, rovesciato.
Se, davvero, in Italia volessimo attuare il federalismo, allora dovremmo dar corpo ad un progetto istituzionale che costruisse lo Stato sulla base di un patto fra Nazioni piccole e grandi, impegnate ad armonizzare i loro rapporti nell'interesse comune. Poiché il federalismo sarebbe il principio ispiratore di ogni procedura, la questione dei dialetti non dovrebbe neppure essere posta: spetterebbe, per competenza naturale, ai Comuni ed alle Regioni, senza equivoci e senza intellettualismi, farsene carico. Ecco, allora che se l'emiliano venisse definito la lingua dell'Emilia, anziché il dialetto emiliano, nessuno avrebbe nulla da dire.
Personalmente non ho comunque nulla da ridire, anche se questa distinzione politica mi portò e mi porta, da altre 30 anni, a non condividere appieno le battaglie dell'AIDLCM che sul presupposto che tutte le lingue sono lingue, si propone di difenderle tutte in modo uguale come patrimonio dell'umanità. D'accordo, fatte però le premesse che ho tentato di semplificare. E in barba alla Moratti che neppure sembra sapere quel che fa e quel che dice e per la quale atteggiarsi ad esponente politico che favorisce le lingue è un fatto folkloristico e populista; se si ponesse interrogativi più seri dovrebbe, quanto meno, conoscere le argomentazione che impongono una estrema chiarezza in materia di politiche linguistiche.
Il discorso, inoltre, è reso più delicato dalla preoccupazione con la quale i tradizionalisti si occupano delle lingue; all'interno di ogni lingua (lingua/dialetto o parlata che dir si voglia), costoro sono preoccupati di difendere non la lingua, ma il suo specifico locale, sì che la stessa lingua si trova frammentata e, quasi, considerata diversa da un comune all'altro, da una vallata all'altra. Anche questo è un argomento complesso: è bene salvare lo specifico locale di ogni lingua, ma chi si preoccupata di affermare e difendere l'insieme di questa lingua, le sue strutture, quelle che la rendono trasmissibile. Siamo all'assurdo che, in Spagna, per usare le differenze linguistiche contro le stesse rivendicazioni di difesa delle lingue, si afferma che il catalano e il valenziano sarebbero due lingue diverse; certamente a Barcelona e a Valencia il catalano ha caratterizzazioni e diversificazioni, ma questa è la ricchezza della lingua, non la sua negazione.
Per questa ragione sono sempre favorevole ai processi di standardizzazione linguistica applicati soprattutto alle lingue minori: mi rendo conto che questa può apparire una forzatura, ma mi avvedo anche che in assenza di uno standard la lingua muore, poco a poco, nell'orgoglio di chi invecchia portando la bandiere di ultimo testimone e ultimo parlante. La questione dei dialetti, quindi, è una falsa questione. Non ritengo serio affrontarla contestualmente alla questione delle lingue delle Nazioni senza Stato. Ripeto, a scanso di equivoci, non faccio graduatorie di importanza tra lingue e dialetti, ma mi permetto solo di considerarli due problemi diversi.