(Da un confronto interno tra amici del CIEMEN in Italia)
di Claudio Magnabosco
Aosta, 3 ottobre 2005
Le migrazioni non sono altro che il perenne viaggio affrontato
dall'uomo alla ricerca di un posto dove insediarsi trovandovi di
che vivere. L'uomo emigrava, un tempo, per cercar fortuna e
lavoro, spesso lasciando patrie nelle quali perfino la
sopravvivenza era negata. Si emigrava in massa alla ricerca di
ciò che la patria e lo Stato di appartenenza non erano
capaci di dare. Si emigrava e chi restava a casa andava in guerra
a difendere i diritti di quello Stato: un vero e proprio
etnocidio. Tutti i nostri popoli hanno conosciuto l'emigrazione e
non a caso in giro per il mondo si possono ritrovare grandi
comunità di emigrati che si sono organizzati per
conservare un legame ed un rapporto con la loro terra di
origine.
Il mondo degli emigrati chiede spesso voce, ma quando lo Stato
si accorge che gli emigrati non si limitano a definirsi
'italiani', poiché provengono dallo Stato italiano, ma si
organizzano in quanto friulani, sardi, valdostani, ecc. vuol dire
che permane, anche nell'emigrazione, la traccia concreta di
un'ingiustizia profonda: il mancato sviluppo economico del popolo
friulano, sardo, valdostano, ecc. che ha provocato tanta
emigrazione ed è stata uno strumento di
snazionalizzazione. Le terre da cui provengono i nostri emigrati
sono/sarebbero ricche, ma questa ricchezza potenziale non basta,
poiché è frenata o sfruttata contro e senza i
legittimi detentori almeno del diritto a goderne i frutti.
Quando, poi, all'emigrazione in massa corrisponde un'immigrazione
sostitutiva, allora è davvero chiaro che il processo di
muovere e gestire le migrazioni è davvero uno strumento
politico. Le Nazioni senza Stato presenti in Italia, hanno
conosciuto grandi fenomeni di emigrazione e, fatta eccezione per
la Sardegna, la cui insularità è rimasta a lungo un
elemento di marginalità geografica ed economica, hanno
subito successive e grandi immigrazioni. Come conservare
un'identità già minorizzata ed oppressa e negata,
quando la composizione sociale è strumentalmente stravolta
ed ogni affermazione di diritti interni sembra costituire un
momento di negazione dei diritti fondamentali degli
immigrati?
Come imporre una lingua, una cultura, tradizioni, usi,
mentalità a persone che hanno lasciato tutto e cercano
solo lavoro e nuove prospettive di vita? Come far conoscere le
ragioni e la storia delle nostre identità a popoli che
hanno lasciato le loro? Cancellando l'identità di tutti in
questo modo si è resa possibile la condivisione di
un'identità che non era l'identità di nessuno e
che, in sostanza è una non identità: ovunque in
Italia, il rimescolamento etnico che ha visto, ad esempio,
friulani e sardi insediarsi in Valle d'Aosta, meridionali (ma
erano soprattutto albanesi, grecanici, croati e, comunque, erano
fortemente identitari e ben poco 'italiani') insediarsi in tutto
il nord, ecc. è stato strumentale alla costruzione di
un'identità italiana ed alla negazione di tutte le altre.
C'è stata una resistenza, ovviamente, e spesso è
parso che da parte dei popoli minorizzati, fossero espresse
posizioni di rifiuto dello straniero e del diverso, collegandosi
anche alla definizione di queste nostre identità
"minoranze etniche" che parrebbe esplicitare di per se un
razzismo che le immigrazioni slatentizzano.
E' successo, tuttavia, che queste nostre piccole identità
hanno sicuramente subito dei contraccolpi, ma resistendo sono
riuscite a mettere in luce il fatto di essere detentrici di
valori assoluti e non è raro il caso in cui, soprattutto
nella seconda e nella terza generazione degli immigrati, questi
hanno finito col sentirsi appieno parte della patria ospitale e
ne hanno sposato l'identità. Ecco perché, allora,
da parte dello Stato, le organizzazioni di emigrati 'italiani'
che si definiscono friulani, sardi, valdostani, sono visti con
diffidenza e sospetto. A ragione, poiché parte dell'azione
di rivalutazione della lingua sarda, ad esempio, ha preso impulso
proprio negli ambienti dell'emigrazione, mentre il friulano
è diventato lingua che gli emigrati ritrovano anche grazie
e attraverso Internet. A ragione, quindi, poiché le colpe
ed i guasti del centralismo sono evidenziati. Non possiamo
sicuramente ritenere che il quadro identitario interno alle
Nazioni senza Stato in Italia si sia ricomposto semplicemente
assorbendo ed arricchendosi dell'apporto degli immigrati.
Possiamo osservare, però, che qualcosa di positivo
è stato pur stato possibile. Ma abbiamo una classe
politica italiana, cresciuta a sostegno della cosiddetta
identità nazionale che mentre era, in realtà, la
sovrapposizione di una componente identitaria su tutte le altre,
ha creato in molti emigrati una destabilizzazione psicologica e
politica: tanti, troppi leader politici, pur provenendo da
realtà minorizzate, hanno completamente dimenticato le
ragioni, i diritti e l'identità della loro terra di
origine. Se, ad esempio, i sardi avessero saputo mettere davvero
al servizio della Sardegna le intelligenze politiche che pure
hanno espresso, l'Italia avrebbe avuto qualche Presidente meno
discusso, ma la Sardegna avrebbe avuto più diritti. Il
fenomeno delle migrazioni interne dalle varie realtà
dell'Italia, sono, comunque analizzate e metabolizzate. Sia
all'estero che all'interno dell'Italia, la conservazione della
propria identità originaria è diventata lo
strumento per capire e rispettare i diritti e l'identità
dei popoli ospitanti. Se c'era un progetto di denazionalizzazione
delle Nazioni senza Stato, da realizzare attraverso le
migrazioni, questo è in parte fallito.
Da quanto, poi, in Valle d'Aosta, Bruno Salvadori, leader
dell'U.V. affermò che 'essere valdostani non è una
questione di razza', fu chiaro che il termine 'minoranza etnica'
era privo di significato razzistico e, non a caso, non era
un'autodefinizione, ma un'imposizione. Lo Stato per non
riconoscere alle Nazioni senza Stato i diritti che spettano alle
minoranze nazionali, le ha definite 'minoranze etniche e
linguistiche', riducendo quello che doveva essere uno specifico
identitario ad una mera desistenza culturale, alla quale non
applicare diritti, ma solo tutela: cioè il paternalismo al
posto della libertà. Da anni, però, un nuovo
fenomeno migratori si va affermando nell'intera Europa e, in
particolare, nel territorio dello Stato italiano. Giungono da
ogni parte del mondo e sono diversi dagli 'italiani' che
migrarono il secolo scorso ed hanno continuato a migrare
all'interno dell'Italia almeno fino agli anni 60 del secolo
scorso.
Cercano fortuna e lavoro, ma sfuggono anche terribili drammi: la
guerra, la fame. E spesso sono sfruttati, gli uomini come
lavoratori sottopagati, le donne come carne fresca per alimentare
i mercati della prostituzione. Di più, spesso sono
concretamente schiavi. Il fenomeno della nuova schiavitù
è ben tristemente noto. Arrivano in una terra che non
conoscono e l'ultimo dei loro problemi è conoscere lo
specifico identitario della terra che infine raggiungono:
arrivano in Valle d'Aosta? bene sanno di essere in Italia;
arrivano in Friuli? Bene sanno di essere in Italia. E' un dato?
sono effettivamente in Italia, ma i problemi che si pongono per
render possibile la loro integrazione sociale sono, di nuovo, gli
stessi di un tempo: diventare italiani in una terra che lo
è solo per appartenenza istituzionale o non è
facile o li rende involontariamente complici di una nuova
snazionalizzazione.
Le nostre identità di Nazioni senza Stato sono poste in
grave pericolo per effetto di queste migrazioni che hanno una
dimensione prima sconosciuta. Alcuni anni or sono Félix
Guattari, intervendo ad un Convegno nei Paesi Baschi,
anticipò con lungimiranza gli effetti che queste
migrazioni avrebbero prodotto e, parlando di polverizzazione
delle identità e di moltiplicazione delle cosiddette
'minoranze' , ne propose l'alleanza in funzione anticapitalista e
antiglobale. Ebbi con lui un confronto serrato ed uno scontro,
poiché risultò molto difficile, in quel Congresso,
rispondere ad un interrogativo sulle forme della democrazia: si
deve dare il voto agli immigrati? In proposito c'erano posizioni
diverse ed anche se nessuna mirava ad escludere gli immigrarti
dai diritti che spettano a tutti, il problema era evidenziato in
tutta la sua gravità dal fatto che non si trattava
più di piccole ondate migratorie, ma di fenomeni di
massa.
Quando in un colpo solo, la migrazione comporta la presenza in
un dato territorio, di quote consistenti di stranieri, finendo
col rappresentare il 4 - 5 % della popolazione, mentre è
indispensabile garantire loro tutti i diritti fondamentali,
sussiste la preoccupazione che nelle decisioni più
strettamente legate all'identità ed allo sviluppo delle
propria comunità, il voto degli immigrati potrebbe essere
una complicanza. Una Nazione minorizzata che si trovi, come
potrebbe avvenire in Valle d'Aosta, con il 5% delle propria
popolazione, ostile a scelte politiche riferite alla
valorizzazione della cultura, delle tradizioni e delle lingue, si
troverebbe nell'impasse democratica di dover rinunciare alle
proprie politiche per rispettare i diritti degli immigrati. E' un
problema molto delicato che non può non passare attraverso
un ripensamento di cosa sia davvero la democrazia e come le sue
interpretazioni possano trasfigurarne il senso: la legge dei
numeri sulla quale si basa una certa concezione della democrazia.
Contrapporre, ad esempio, i piccoli numeri di una Nazione senza
Stato all'intera popolazione di uno Stato (uno Stato, in
realtà, senza Nazione), basta a render sempre minoritarie
le posizioni e le idee della prima. All'interno delle Nazioni
senza Stato, quindi, dover fare i conti con una popolazione
immigrata che diventa numericamente significativa, significa
subire dei condizionamenti interni.
Il problema non è il diritto in se, ma il radicamento
delle persone, nel rispetto del quale le scelte che sono adottate
fanno continuamente i conti con la storia passata e con la
creazione del futuro: solo chi ha scelto di condividere tutti
questi momenti della storia può positivamente porsi in
rapporto con l'esercizio della democrazia E' indispensabile, a
questo punto, affermare che le Nazioni senza Stato devono
mostrarsi in grado di affermare il loro valore universale.
Favorire politiche d'integrazione e di inclusione corrisponde al
progetto di costruire Nazioni inclusive, nel senso e nei modi
indicati dal nostro documento di partecipazione ad una precedente
edizione della CONSEU. Ma ciò è possibile solo se
questi immigrati desiderano integrarsi: se non si considerano
altro che dei lavoratori stagionali che desiderano mettere
insieme un po' di soldi per poi tornare al paese, è chiaro
che alcune decisioni fondamentali legate al nostro paese, non
possono essere affidate loro.
Allora dovremo fare dei passi importanti per dimostrare con
quanta attenzione noi ci poniamo l'obiettivo di accoglierli e di
sostenere in tutti i modi possibili, la loro integrazione. A
partire da cosa? A Partire dal loro specifico identitario, dalla
loro cultura, dalla loro storia, dalla loro lingua. E' sciocco,
infatti, far riferimento ad esempio agli africani, come se
costoro costituissero un unicum. Non è così: le
differenze etniche e linguistiche in Africa sono enormi; i
confini tracciati artificiosamente dal colonialismo, hanno
spaccato le identità, spesso esasperando gli animi e
spingendoli a lotte tribali fratricide. Proprio in questi ultimi
tempi importanti esponenti della cultura e molti scrittori, hanno
deciso di scrivere libri nelle loro lingue e non in quelle
coloniali.
Ed intellettuali come Wole Soyinka, arrivano ad affermare che
realtà come la Nigeria non esistono e, probabilmente, o
esploderanno o imploderanno per effetto della realtà
identitaria e delle pressioni occidentali per succhiare risorse
ed energia, contrapponendo le religioni, le lingue, le
tribù. Ecco, noi dobbiamo far scuola, dobbiamo
rappresentare a queste persone alle quali dobbiamo accoglienza,
che i colpevoli del loro stato di indigenza e di mancanza di
diritti sono i potenti che gestiscono il mondo applicando
principi apparentemente democratici come i diritti umani,
trasformandosi, però, troppo presto e troppo male, di
considerarsi poi le forze armate incaricate di difendere quei
diritti. Che tutti si riduca, poi, a tutelare i diritti dei
potenti, contro i diritti di chi è debole è fin
troppo chiaro. Negare le Nazioni africane, allora, appare
chiaramente come una nuova occasione per non accogliere gli
africani e per far perdere loro l'identità che possiedono,
consegnando nelle loro mani un'identità italiana che non
esiste, almeno non nelle forme che la televisione e le visioni
politiche neo nazionalistiche e neo-fasciste rappresentano.