di Claudio Magnabosco
L'U.V. nasce 60 anni or sono (13 settembre 1945) come
movimento per la difesa degli interessi, dei diritti e
dell'identità del popolo valdostano ed in essa
confluiscono personaggi che militano nei diversi
partiti...italiani: dal Partito Socialista, al Partito Comunista,
dalla Democrazia Cristiana, al Partito d'Azione. Nacque, quindi,
per unire i valdostani sui valori comuni, non per dividerli sulla
base di ideologie che allora avevano sì grande peso e
rilevanza. Nel momento in cui l'U.V si costituisce, la Valle
d'Aosta esce, come l'Europa intera, dalla seconda guerra mondiale
e l'atavica dignitosa povertà della popolazione valdostana
non deve negare ai valdostani un futuro migliore.
Affinché quel futuro fosse davvero migliore, molti
valdostani si erano interrogati, prima della fondazione
dell'U.V., su quale potesse essere l'assetto istituzionale della
Valle più adatto a renderlo possibile: qualcuno pensava ad
annettere la Valle d'Aosta alla Francia, sorella per lingua e
cultura; altri immaginavano di fare della Valle d'Aosta un
Cantone svizzero, visto che in Svizzera il federalismo era una
realtà; altri ancora non disdegnavano di portare avanti
l'utopia di fare della Valle d'Aosta un Principato da consegnare
ai Savoia che - sembrava inevitabile - avrebbero presto perso il
trono d'Italia; altri ancora preconizzano di assicurare alla
Valle d'Aosta un'autonomia in seno allo Stato italiano...
Furono anni difficili, anni nei quali i democratici italiani,
per riparare i torti commessi dal fascismo contro i valdostani e
per evitare che prendesse davvero piede in Valle d'Aosta il
progetto separatista che dimostrava di avere un grande appoggio
popolare, assicurarono che la Valle d'Aosta, eretta in Regione,
avrebbe avuto uno Statuto di Autonomia, uno Statuto speciale.
Così, mentre fervevano le discussioni e si infiammavano le
piazze, l'idea della Autonomia prendeva corpo e sopravanzava, se
non altro per concretezza, tutte le altre. In attesa che un testo
autonomistico venisse scritto, alla Valle d'Aosta vennero
applicati i Decreti Luogotenenziali, prima forma di autonomia. Il
contenuto dei Decreti, tuttavia, non era soddisfacente: anche
parlando soltanto di autonomia, i valdostani si aspettavano
più diritti, più competenze, più
libertà di quelli che i Decreti rendevano possibili.
Ci voleva, quindi, un forte movimento popolare che sostenesse le
ragioni di una rivendicazione più ampia e, al tempo
stesso, raccogliesse il meglio di tutto quel variegato mondo di
"ribelli" e "sognatori" che, sostanzialmente, in nome
dell'autodeterminazione, ipotizzavano perfino la creazione di una
Repubblica, di uno Stato Valdostano e consideravano qualsiasi
altra conquista o concessione, come incompleta. Del resto ad
Emile Chanoux è attribuito lo slogan che spiegherebbe la
complessità della situazione e delle rivendicazioni
valdostane: "action autonomiste ouverte, action
séparatiste cachée".
L'autodeterminazione è rivendicazione apparentemente
radicale e rivoluzionaria, ma nella sostanza, non è troppo
diversa da quel federalismo che nella vicina Svizzera faceva dei
Cantoni vere e proprie Repubbliche, quindi degli Stati, federati
tra loro. Poiché del federalismo esistevano e si
proponevano in Italia almeno due anime (la prima tesa a
ricostruire lo Stato stesso, creando una federazione di popoli e
regioni, la seconda protesa verso la costruzione di un'Europa che
federasse i suoi Stati, senza modificarne l'assetto interno), il
federalismo non parve essere ai centralisti una minaccia reale.
L'U.V. nacque in un momento molto delicato, basti pensare che
dovette ottenere un'autorizzazione ad esistere direttamente dal
Comando Alleato, dagli ...americani, attenti e preoccupati per
quel avveniva in Valle, soprattutto dopo che De Gaulle aveva
invaso parte della Valle ed era stato costretto a ritirare le
proprie avanguardie per evitare uno scontro armato tra alleati,
ma mentre un gran numero di valdostani chiedeva il plebiscito
annessionista/separatista; un'ipotesi, questa, tanto credibile
che quando i leader mondiali si ritrovarono a Yalta, pare
avessero data per scontata l'annessione della Valle d'Aosta alla
Francia.
L'U.V. nacque stando nei limiti della democrazia possibile a
quei tempi ed in quel contesto, l'Italia, e, pur preconizzando la
conquista - nel futuro - delle più ampie libertà,
sposò la proposta autonomista, facendo del progetto
federalista un mito ed un'ideologia. Gli uomini dell'U.V. erano
convinti che la ricostruzione socio-economica della Valle d'Aosta
fosse possibile solo se i valdostani potevano iniziare
immediatamente ad autogovernarsi: per questo accettarono le pur
ridotte forme di autonomia previste dai Decreti e, poi, dalla
Statuto. Non si può dimenticare che il movimento dell'U.V.
nacque facendo propri tutti i principi espressi nella
dichiarazione di Chivasso nel 1943 che preconizzava la
trasformazione dello Stato italiano in Stato federale.
Strano che nessuno si sia avveduto del contenuto davvero
rivoluzionario del federalismo, molto più estremo dello
stesso separatismo e della rivendicazione della creazione di uno
Stato valdostano, poiché il vero federalismo preconizza il
superamento degli Stati nella loro stessa forma istituzionale,
creando una successione concatenata di Stati (lo Stato comunale,
lo Stato regionale, lo Stato italiano, lo Stato europeo),
giungendo a proporre la creazione di un governo mondiale, ma
segnando di fatto la morte dello Stato nazionale, con i suoi
confini artificiali e con la sua sovranità. Il progetto
federalista, per Emile Chanoux, martire della Resistenza
valdostana, era la ricetta per evitare che si riproponessero i
conflitti causati dai confini e dalle lotte tra Stati e per
consentire il superamento della condizione di dipendenza cui, in
questo scenario, erano costretti i piccoli popoli.
Più che il separatismo, quindi, gli stato-centralisti
avrebbero dovuto temere il federalismo che, invece, parve loro
più facilmente annacquabile: iniziò, infatti, il
perverso percorso della trasformazioni dei principi federalisti
in pura e semplice affermazione di diritti residuali a
comunità periferiche alle quali applicare alcune forme di
decentramento di poteri, sempre saldamente in mano allo Stato.
Parve, cioè, che l'autonomia rappresentasse una sorta di
applicazione del federalismo, mentre - in realtà - si
trattò di un mero strumento di decentramento
amministrativo. Come tale venne contestata dai voldostani che ne
definirono i contenuti "endroumia". L'U.V. nasce, quindi, per una
scelta concreta: difendere realisticamente gli interessi dei
valdostani, stando nel quadro della situazione istituzionale che
si stava disegnando, trovando alleati negli uomini di tutte le
forze politiche democratiche presenti in Valle, unendo invece che
dividendo i valdostani.
Il giorno in cui la Valle d'Aosta fosse stata avvero libera, i
valdostani avrebbero potuto tranquillamente esprimere
orientamenti politici ed ideologici che non avrebbero più
danneggiato la costruzione di un futuro veramente libero per la
Valle d'Aosta: infatti, Roma sembrava e si era dimostrata lontana
e ostile e se i partiti ne fossero stati una succursale,
riproponendo in Valle il confronto e le litigiosità
esistenti in Italia, la Valle d'Aosta non avrebbe avuto nessuna
opportunità per crescere. Ma se i valdostani si fossero
divisi prima, e se lo avessero fatto in ossequio ad interessi non
valdostani, ciò non avrebbe fatto altro che completare il
processo di disidentificazione e di denazionalizzazione posto in
atto fin dal momento della nascita dello Stato italiano e
protrattosi fino al fascismo.
Al momento in cui l'U.V. si costituisce, assume una
responsabilità: essere un movimento democratico attivo nel
gioco democratico delle istituzioni della Repubblica italiana.
Una responsabilità non da poco, per un movimento nato - in
realtà - per reagire contro i contenuti troppo annacquati
di Decreti Luogotenenziali che anticiparono i contenuti dello
Statuto, facendo intendere quanto anche questi sarebbero stati,
tuttavia, lontani dalle aspettative dei valdostani. Una
responsabilità non da poco, poiché a fronte di un
intendimento esplicito di ridimesionamento dei contenuti
dell'Autonomia pur promessa ai valdostani, era assolutamente
indispensabile contrapporre la voce di un interlocutore
autorevole ed unico, evitando che la Valle d'Aosta finisse col
non avere voce in capitolo solo perché ne aveva troppe,
disperse e velleitarie.
In questo modo l'U.V. divenne la voce democratica di un popolo
che poté minacciare l'impossibilità di controllare
la reazione popolare qualora lo Stato italiano non avesse
mantenuto fede alle promesse. Sostanzialmente, gli unionisti
credono che poiché l'Italia si sta riorganizzando
democraticamente, è con questa democrazia che bisogna fare
i conti, ritenendo sia comunque cosa più positiva che
doverli far con una monarchia (che tradì le proprie
origini nazionali) e con un fascismo (che tradì la patria
che dichiarava di voler servire). L'U.V. afferma che la Valle
d'Aosta possiede caratteristiche storiche, culturali,
geografiche, etniche e che queste devono trovare riconoscimento,
valorizzazione e sviluppo in uno Statuto di Autonomia all'interno
di uno Stato democratico. Per gli unionisti lo Statuto di
Autonomia doveva possedere tutte le caratteristiche di un patto
sottoscritto tra la Comunità Valdostana e lo Stato
italiano; doveva caratterizzare una forte autonomia che, nello
spirito se non nella sostanza federalista, attribuisse tutte le
competenze alla Regione e lasciasse allo Stato solo le competenze
in quelle materie, come la moneta e la difesa, che non avrebbero
potuto trovare adeguata gestione nel solo livello
regionale.
Pensavano, quindi, che quella che venne chiamata da allora
"Regione Autonoma", in realtà fosse una Nazione. Si
batterono, infatti, i valdostani del tempo, affinché fosse
riconosciuto loro uno specifico status identitario, quello di
minoranze etnica. Si è fatto un gran parlare di cosa
volesse dire "minoranza etnica", definizione che rischiava di
esprimere un qualche aspetto razzistico e che, invece, ebbe da
sempre una valenza culturale: poiché lo Stato si definisce
nazionale, tutti coloro che hanno storia, identità,
lingua, cultura diverse da quelle della maggioranza della
popolazione costituente lo Stato, sono una minoranza...
nazionale. Ora definire una minoranza "nazionale", avrebbe
significato riconoscerle il diritto a chiamarsi fuori dal
territorio e dal governo di quello Stato dominante, mentre
esserne considerata, semplicemente una minoranza etnica,
definisce il possesso solo di alcune caratteristiche specifiche
che lo Stato, essendo democratico, tutela.
E che questa sia l'ottica, lo dimostra anche il testo della
Costituzione repubblicana che all'articolo 6 assicura che "lo
stato tutela le minoranze linguistiche", trovando un'ulteriore
definizione per evitare di indicare una diversità
nazionale. Minoranze etniche, minoranze linguistiche, minoranze
etno-linguistiche, sembrano - cioè - possedere alcune
caratteristiche oggetto di tutela, ma di non possedere tutti
quegli elementi che, rendendole nazionali, avrebbero fatto venir
meno l'unità dello stato nazionale, la costruzione
dell'identità nazionale italiana ed il centralismo
politico dello Stato, esercitato attraverso i suoi partiti. I
partiti, ecco quale fu il ruolo dei partiti: giocare il gioco di
una democrazia centralista che mal sopportava le spinte e le
rivendicazioni autonomiste, tanto che poche "regioni" ottennero
subito uno Statuto speciale: la Valle d'Aosta, la Sicilia, la
Provincia di Bolzano, la Sardegna, ma del grande movimento che
scosse l'Italia nel dopoguerra, ipotizzando che altre "regioni"
ottenessero il riconoscimento di una specialità, non resta
nulla.
I partiti divennero lo strumento per l'esercizio di una
democrazia centralista e, poco a poco, parve chiaro che gli
unionisti non avrebbero potuto restare davvero uniti se non si
fosse prodotto un qualche chiarimento interno. Alla
possibilità iniziale di aderire all'U.V., conservando
anche la tessera di un vero partito politico (e l'U.V.,
ricordiamolo, era inizialmente solo un movimento!), si
sovrappose, automaticamente, l'impossibilità della
cosiddetta doppia tessera. L'U.V. continuò a definirsi un
movimento, ma sostanzialmente ben presto si trasformò in
un partito, partecipò alle elezioni, elaborò tesi
politiche, cercò alleanze con alcuni partiti, si
scontrò con altri.
Perché? Perché in una buona parte dei suoi stessi
fondatori prevalse la scelta di stare in un partito piuttosto che
seguire unicamente il movimento ed i partiti, tutti, erano...
stato-nazionali, cioè seguivano indicazioni
centralistiche. Questo spiega, almeno in parte, come sia stata
possibile la lunga collaborazione che l'U.V. poté tessere
con le sinistre e con il P.C.I., addirittura governando la
Regione con le sinistre e contro una D.C: le cui origini
cattoliche a tutta prima potevano sembrare consone alle
caratteristiche del popolo valdostano, moderato, conservatore,
cattolico. Governò a lungo, invece, e positivamente, con
le sinistre, addirittura quando a Roma i comunisti erano
considerati nemici della democrazia. E questa esperienza venne
meno solo quando in una parte della sinistra, i socialisti,
prevalse la scelta di dar corpo anche in Valle d'Aosta, al
cosiddetto centro-sinistra che si poneva al governo dello
Stato.
La nascita dell'U.V.: va letta, tuttavia, anche come una
reazione ai contenuti dei Decreti Luogotenenziali, che non erano
considerati, in alcun modo soddisfacenti. Che questa sia la
verità lo dimostra anche il testo del progetto di Statuto
di Autonomia elaborato dal Consiglio Valle nel '47, quando l'U.V.
era appena nata e in essa, lo ripetiamo, stavano uomini di
diverso orientamento; quel testo invertiva la prospettiva ed
affermava che un'autonomia per essere speciale non deve contenere
delle limitazioni di competenze, ma deve comprenderle tutte,
indicando invece materie residuali di competenza dello Stato. La
popolazione valdostana non percepì la complessità
della stessa natura del movimento autonomista, ma - semplicemente
- lesse la nascita del movimento come un passo d'attuazione verso
quel "maitres chez-nous" che era diffusa volontà di
tutti.
L'U.V. non nacque come un movimento anti-italiano, ma piuttosto
come un movimento valdostano, ...non italiano, in una Valle
d'Aosta che era stata italianizzata a forza, giocando con il
rapporto fiduciario (il rispetto di un patto storico, foedus,
prefederalista) che i valdostani avevano con Casa Savoia e con la
mancanza di una classe politica capace di portare la popolazione
contro il fascismo fin dalle sue prime battute. L'U.V. doveva
guidare i valdostani verso la conquista delle libertà, ma
non ottenne i risultati sperati e si accontentò di cercare
di amministrare al meglio le poche libertà ottenute. Ci
furono pesanti contestazioni dei contenuti dello Statuto e ce ne
erano state contro i Decreti Luogotenenziali, ma c'era anche la
coscienza che nessuna libertà valdostana sarebbe stata
rispettata davvero senza quelle garanzie internazionali la cui
ragione posava sull'identità dei valdostani, non-italiani
e, quindi bisognosi di una tutela esterna al dominio dello Stato
italiano le cui mire uniformatrici si proponevano in soluzione di
continuità con il passato monarchico-liberale e
fascista.
La pagina della mancata conquista delle garanzie internazionali,
tuttavia, è ancora da scrivere e, a quanto è dato
sapere, fu Severino Caveri ad assumersi la responsabilità
di non consegnare il dossier che la Nuova Zelanda era disposta a
sostenere a favore dellaValle d'Aosta. C'era bisogno di pace ed
era indispensabile iniziare l'opera di ricostruzione; ogni
conflittualità avrebbe reso più difficili questi
processi e fu, probabilmente scelta adottata con grande senso di
responsabilità storica tirar la corda con discernimento.
L'U.V: dimostrò di possedere questo senso di
responsabilità.
Premessa
Che succede in Valle d'Aosta? Alle elezioni regionali del 2003,
l'U.V. ha conquistato la maggioranza assoluta dei seggi nel
Consiglio regionale, 18 su 35, ma questo risultato, invece di
consolidare il movimento storico dell'autonomismo valdostano alla
guida della Regione, ne ha fatto scoppiare le gravi
contraddizioni interne. Alcuni personaggi politici sono in
conflitto. Se si trattasse di una questione di ambizioni il
conflitto sarebbe risolto facilmente, poiché nella sua
posizione di strapotere l'U.V. può soddisfare le ambizioni
di tutti.
Se si trattasse di una questione ideologica, saremmo di fronte a
qualcosa di più complicato, visto che per ragioni ideali
(meglio dirle tali che ideologiche), molti esponenti dell'U.V. se
ne sono andati via dall'U.V. nell'arco degli ultimi 15 anni. Non
saremmo, cioè, di fronte ad un problema del momento, ma
all'esplodere di un conflitto di lunga data. Ma neppure soltanto
di questo si tratta, visto che ultimi fuoriusciti hanno
costituito nel 2005 un nuovo movimento politico, chiamato "Aosta
Viva", che ha partecipato alle elezioni comunali del capoluogo
regionale in opposizione all'U.V., cercando uno spazio e
rivolgendosi ad un elettorato in parte diversi da quelli
dell'U.V., giungendo a formulare l'ipotesi che l'U.V. ed i suoi
principi, siano superati. Questo proprio nell'anno del 60°
anniversario del movimento.
Si tratta, allora, di uno scontro fra leader per la gestione del
potere politico. Ho ritenuto opportuno rivolgermi, per questo, al
leader carismatico dell'U.V., Augusto Rollandin ed al leader
della ultima fronda di fuoriusciti, Robert Louvin, per fare con
loro il punto della situazione. Si rilegga, tuttavia, a compendio
di queste osservazioni, la ricostruzione storica del disagio
interno all'U.V., analizzato nel saggio "Per una storia della
Valle d'Aosta". E si legga il breve testo "L'etica del silenzio"
che inviato per la pubblicazione nelle pagine regionali de "La
Stampa", sintetizza la situazione.
L'ETICA DEL SILENZIO
Emile Chanoux junior pose la questione etica, molti anni or sono,
sostenendo che nessun amministratore dell'U.V. doveva restare in
carica se nei suoi confronti esistevano sospetti o procedure
giudiziarie. Quando alcuni sospetti lo toccarono,
considerò la cosa insopportabile e fece una scelta
drammatica. Louvin pone la questione morale con 15 anni di
ritardo, nel corso dei quali, mentre lui diventava Assessore e
Presidente, altri veri unionisti lasciavano l'U.V.
A nulla vale prendersela con il Presidente dell'U.V.: il
Presidente dell'U.V. raramente ha avuto un ruolo determinante; lo
si chieda a Tamone che neppure fu rieletto in Consiglio regionale
quando guidava l'U.V. che portò i Louvin e i Rollandin in
Consiglio regionale. Quello fu uno scandalo: che le cordate
contrapposte, tagliassero il passo proprio al leader politico.
Chi è stato nella stanza dei bottoni, però, non
può non dirsi responsabile di ciò che è
stato fatto da "colleghi" dello stesso partito, della stessa
legislatura, della stessa maggioranza, della stessa Giunta;
possibile che non abbia visto, capito, denunciato le
negatività ed i reati che altri commettevano, se di reati
si tratta? E se non ha visto, capito, denunciato come può
pretendere di esser considerato capace di gestire la cosa
pubblica in modo nuovo? Chi è stato dentro all'U.V., ha
taciuto per 15 anni e se ne esce sconfitto nella battaglia
interna, come può pretendere di esser considerato vincente
fuori e contro di essa?
Una parte dei problemi dell'U.V. è nata con la regola
suicida del limite dei mandati che ha moltiplicato gli appetiti;
infatti, poiché ad avere carisma e capacità sono in
pochi, inevitabilmente per entrare in Consiglio regionale ci
vuole l'aiuto dei veri leader: ecco dove nascono i clientelismi,
le cordate interne e tutto il resto. I guai che Rollandin ha
avuto con la giustizia sono stati considerati da alcuni unionisti
come una persecuzione della magistratura, da altri come l'effetto
dei tempi (l'intera classe politica italiana è stata messa
sotto accusa!), da altri ancora come il risultato di un metodo
sbagliato di far politica. Ma gli avversari dell'U.V. e, fra
questi, in primo piano, gli attuali alleati di Louvin, li hanno
sempre letti, invece, come il segno di una corruttela la cui
radice era da ricercare non negli uomini, ma nelle stesse ragioni
ideali dell'U.V., in nome delle quali la Valle d'Aosta
otteneva... "privilegi" ingiustificati.
Per questo all'interno dell'U.V., si è sempre ritenuto
che chi lanciava accuse o proclamava verità, non si
avvedeva che questo andava a tutto vantaggio dei nemici
più che dell'U.V., dell'Autonomia. Spesso, così,
una sorta di "ragion di Stato" ha giustificato errori e
comportamenti non proprio lineari da parte di esponenti dell'U.V.
Questa è una verità scomoda, ma è la
verità.
I valori? Chi li ha traditi, i politici pragmatisti o gli
intellettuali che non li hanno difesi e non hanno prodotto studi,
pubblicazioni, impegni internazionali, progetti di vero
federalismo, tesi congressuali coerenti? L'encefalogramma piatto
della cultura genera i mostri del pragmatismo e se non si
dimostra il primato della cultura, lasciando che, ad esempio,
passino scelte come la monetizzazione linguistica (la famosa
indennità di bilinguismo), perché mai stupirsi,
poi, che l'intero sistema identitario sia considerato una
macchina per gestire privilegi? Se trasformiamo i valori in buoni
di consumo, i politici gestiranno la distribuzione dei buoni. Per
rispetto della storia, infine, non si paragoni la defenestrazione
di Perrin con il ribaltone che, nel '90, vide tutti i partiti
alleati contro l'U.V., perché se si propone un così
grossolano errore interpretativo, si induce a credere che sia
sbagliato anche tutto il resto dell'analisi.
Sono stato tra i tuoi estimatori, di più, se
possibile... tra quelli che hanno creduto nelle tue
qualità fin da quando frequentavamo gli stessi ambienti
internazionali e tu eri poco più che un ragazzino. Forse
ricorderai che Aurelio ti prendeva in giro con affetto, dicendo
che "Robert studia da Presidente". Ho fatto parte del gruppo dei
"n'en gagnà" (abbiamo vinto!), quelli che fecero campagna
elettorale al tuo fianco e festeggiarono la tua elezione in
Consiglio regionale, carichi di entusiasmo e di speranza.
Abbiamo poi atteso con pazienza che tu desti prova del tuo
valore, sempre fiduciosi, sicuri che quando - ad esempio -
proponevi la tua candidatura ad un posto di prestigio e poi la
ritiravi "nell'interesse del Movimento", questa fosse la prova
della tua maturità politica. Prima o poi sarebbe venuto il
tuo momento. Poi venne quel momento: diventasti Assessore
regionale e tutti capimmo che eri un politico, non un
amministratore e fummo quindi indulgenti nel valutare i tuoi
risultati onesti, ma non particolarmente esaltanti, pronti a
salutarti nelle nuove vesti di Presidente del Consiglio. Un buon
Presidente che regalò alla Valle d'Aosta più di una
bella figura in Italia ed in Europa.
Tutti abbiamo creduto non sia stato facile per te avere un ruolo
politico in tempi tanto difficili come quelli che la Valle
d'Aosta ha attraversato; diventasti anche Presidente della Giunta
(o della Regione, come si dice oggi), assicurando un'equilibrata
amministrazione e diventando l'unico Presidente a non essere
inquisito dalla Magistratura. Qualità e meriti che
dovrebbero essere del tutto normali, ma che negli ultimi anni non
lo sono stati e che, comunque, ti accomunano ad un altro
personaggio, in carica fino a pochi giorni or sono, il
rollandiniano Perrin, sulla cui onestà metto e credo
mettiamo tutti, la mano sul fuoco. Da molto tempo nell'U.V. ci
sono gravi problemi interni, eppure tutti quelli che lo hanno
evidenziato non hanno mai avuto la tua esplicita
solidarietà.
Qualcuno ha fatto passi avventati, dando corpo al disagio con
scelte "alla Salvadori" (rompere e poi ricostruire!), ma non si
trattava di personaggi di primo piano e la rottura è
risultata inefficace. Altri sono semplicemente usciti dall'U.V. o
non hanno rinnovato la loro adesione; 15 anni di scelte anche
dolorose e difficili, come quella della segretaria che
lasciò l'U.V. di cui era una vera pasionaria,
perché si sentiva incompatibile con Rollandin; o come
quella del Segretario del Movimento che se andò dopo aver
subito una batosta elettorale, nell'anno del tuo stesso ingresso
in Consiglio regionale. Lui, Léonard Tamone, si
mostrò ingenuo, ma coerente, nell'aspettarsi di essere
votato "soltanto" perché lo meritava e lavorava non per se
stesso, ma per il movimento (come quello che era stato il suo
leader di riferimento, Mario Andrione); tu fosti in gamba a
cercare e a trovare voti, creando una tua lobby, mentre Rollandin
costruiva - si dice - la sua clientela.
Tutti noi segnammo, allora e da allora, uno strano confine
morale: chi cerca voti valdostani è onesto e coerente, chi
cerca nuovi voti è incoerente e disonesto. La prova? Uno
stretto collaboratore di Rollandin venne pescato con le mani nel
sacco a barattare voti, denaro e favori, avendo "la sfortuna" di
concludere questi "affari" con dei meridionali, per natura
mafiosi, borbonici, levantini e quant'altro... (mi si legga,
prego, con ironia). Ecco riaffiorare in questa valutazione
l'anima della vecchia U.V., orgogliosamente valdostana, etnica,
rurale, fedele alla chiesa ed ai notabili, contrapposta alla
nuova U.V., "senz'anima", che lascia la radice rurale e montana
(benché Rollandin non sia parte del notabilato borghese
aostano, ma provenga dalla periferia rurale e montana!) e si
butta nella politica businnes, dove contano solo i risultati e
del tutto diverse sono le regole e la morale (mi si continui a
leggere, prego, con la stessa lucida ironia).
I fatti non stanno proprio così, ovviamente, e ne sto
esasperando la narrazione per spiegare come abbia potuto
radicarsi in Valle d'Aosta e nell'U.V. un certo automatismo nel
ritenere che l'attinenza alla tradizione sia sempre positiva,
mentre le innovazioni siano demoniache, a prescindere dal fatto
che le persone che cavalcano la tradizione o il rinnovamento
siano oneste oppure no. Se questo è vero, vuol dire che
nell'U.V. si è infranta quella naturale compresenza di
"tradition et renouveau" che doveva caratterizzarne la coerenza.
Se questo è vero bisogna chiedersi come sia possibile che
i politici fortemente caratterizzati in quanto appartenenti al
notabilato, si facciano portavoce della base rurale, mentre gli
uomini della base rurale che acquisisce spazio, vogliano andare
oltre ed occupare gli spazi dei notabili.
Se questo è vero bisogna chiedersi se una politica che
favorisce, comunque, in modo esplicito il mondo rurale, sia per
sua natura onesta (poiché onesti pregiudizialmente ne sono
i componenti), mentre una politica volta ad altre componenti
sociali (immigrati compresi), sia per natura disonesta
(poiché tali ne sarebbero i componenti). La realtà
ci dice che lo scandalo del risanamento del bestiame non ha
riguardato persone legate a capibastone mafiosi, ma il mondo
rurale, ecc. Abbiamo introdotto nella politica, in questo modo,
alcune valutazioni aprioristiche, che si sono tradotte,
successivamente, nell'avvalorare agli occhi dell'opinione
pubblica la tesi che esser disonesti, ma valdostani, è
meno grave che esserlo senza essere valdostani. Se il problema
è l'onestà, allora dovremmo parlar chiaro. Chi
contesta Rollandin ne contesta i metodi o l'onestà?
Ci si basa su pregiudizi, perché le irregolarità
non possono esser giudicate ammissibili se favoriscono gli
agricoltori valdostani, inammissibili se favoriscono altri. E non
ci sono irregolarità oneste e irregolarità
disoneste, per cui anche all'interno dell'U.V., tra i tanti che
hanno avuto problemi con la giustizia alcuni sono considerati
sicuramente innocenti, mentre altri sono sicuramente colpevoli
anche di quel che non è stato imputato loro. Qualcosa
stride nella scala dei valori. Fu Chanoux jr a porre
all'attenzione dell'U.V. la questione morale. Senza sostituirsi
alla magistratura, riteneva che nessun leader del movimento
potesse aver problemi con la giustizia, conservare una leadership
e posti di rilievo, senza aver chiarito tutte le pendenze.
Riteneva, cioè, che l'uomo pubblico dovesse essere al di
sopra di ogni sospetto.
Quando alcuni sospetti iniziarono a circolare sulla sua persona,
non li sopportò e si uccise, forse stravolto dal peso di
esser portatore di una questione morale "contro" il movimento
politico nato dal ricordo e dal pensiero di suo padre, e di aver
deciso di fare un gesto politico eclatante: lui che aveva
partecipato all'esperienza della spaccatura dell'U.V. contro lo
strapotere caveriano e poi alla ricomposizione dell'U.V., era
diventato il leader di un nuovo soggetto politico (che, a causa
della sua morte, non vide mai davvero la luce). E' dal momento
del discorso che Chanoux fece al Congrès dell'U.V. del '90
che le cose avrebbero dovuto prendere una piega diversa. Nessun
indagato avrebbe dovuto avere cariche pubbliche, fino al
chiarimento delle sue pendenze.
Rollandin ebbe dei problemi con la giustizia e l'U.V. si divise
tra chi lo difendeva, come un personaggio caduto ingiustamente
nelle rete di una giustizia persecutoria e chi - senza il
coraggio di dirlo apertamente - cominciò a credere che
quello fosse il solo modo per liberarsi di lui, di un leader
scomodo. Incapaci di sconfiggerlo politicamente, si compiacquero
che a metterlo fuori gioco fosse la giustizia. Pessima
aspettativa e implicita dichiarazione di debolezza. E allora
ripeto la domanda: chi contesta Rollandin ne contesta i metodi o
l'onestà?
Rollandin superò, poi, il periodo critico e tornò
pienamente in auge, tanto che oggi ha in mano l'U.V. e controlla
buona parte dei Consiglieri regionali. Probabilmente controlla e
gestisce anche alcune correnti di altri movimenti che... non
muovono foglia che Rollandin non voglia. Ha degli oppositori e
degli avversari interni; mai troppo dichiarati, un po'
perché è un personaggio temuto, un po'
perché, almeno fino a poco tempo fa, la squadra dell'U.V.
è stata così forte da occupare tutti gli spazi di
potere e in questi spazi, molti hanno trovato soddisfacenti
collocazioni indipendente dalla corrente di appartenenza. E' solo
a partire dal momento in cui non li hanno più trovati, o
non hanno trovato quelli che desideravano, o hanno capito che
l'U.V.R. (Union Valdotaine Rollandiniana) stava fagocitando tutto
e, quindi, quegli spazi non ci sarebbero più stati in
futuro, che la polemica si è fatta rovente.
Non trovo nelle cronache nessun segno di un aperto scontro tra
te, caro Louvin, e Rollandin; esser solo diversi, avere amici
diversi, appartenere a correnti (dichiarate oppure no) diverse
non corrisponde ad una contrapposizione, ma ad una
diversità del tutto normale in un movimento tanto grande
quanto l'U.V., anzi utile e positiva proprio perché
attraverso le diversificazioni cresce e si diversifica anche il
consenso. Quello scontro non ci sarà mai, poiché mi
pare di capire che stai pensando alla creazione di un nuovo
soggetto politico e non alla sottolineatura delle contraddizioni
interne all'U.V., interpretando le quali tu avresti potuto
chiamare a raccolta i veri unionisti, spaccare l'U.V. e poi
ricomporla, rinnovandola e rimettendo in discussione linee e
leadership.
E allora ripeto nuovamente la domanda: chi contesta Rollandin ne
contesta i metodi o l'onestà? Non auspico si ricorra ad
esplicite accuse e offese, ma credo che se davvero Rollandin
è il demone che i suoi oppositori dicono sia (e lo dicono
nella politica dei bar, là dove si costruisce il
pericoloso "sentito dire"), bisognerebbe denunciarne
pubblicamente le malefatte: non è possibile, infatti, che
esponenti politici che si vogliono porre alla guida della Valle
d'Aosta al posto di Rollandin e dei suoi, non siano in grado di
mettere insieme le prove provate delle irregolarità che
gli sono addebitate, del malgoverno, dell'immoralità e di
quant'altro...
Delle due una: o questi politici sono incapaci di documentare le
irregolarità, e allora mi chiedo che cosa siano capaci di
vedere nella pubblica amministrazione e quindi con quale
autorevolezza vogliano porsene al comando, oppure ciò che
contestano è, sostanzialmente, un metodo di far politica e
di trovare consenso che segue regole e morale diverse da quelle
che vorremo ispirassero l'azione dei politici. Allora non
dobbiamo seminare sospetti su un avversario politico, solo
perché siamo incapaci di affrontarlo politicamente e
sconfiggerlo politicamente. Allora, Louvin, quali sono i reati
che Rollandin sta commettendo?
Tuo fratello Paolo, con una lettera a La Stampa, ne ha
sottolineati parecchi, ma la lettera di un lettore ha un valore
politico relativo; proprio in quanto lettera di un lettore
dovrebbe essere libera e non strumentale a questa o a quella
linea politica. Se i partiti vecchi e nuovi invadono i pochi
spazi rimasti ai cittadini che potrebbero - se non altro - farsi
sentire con lettere ai giornali, allora vuol dire che tutti
stanno giocando i loro giochi sulla testa dei cittadini. Quella
lettera è esplicita. Ma non è la lettera di Robert
Louvin, forse perché hai ritenuto inopportuno firmarla tu,
perché non si sa mai come vadano le cose della politica.
Ma se Rollandin non commette reati e neppure tu lo affronti e lo
sconfiggi sul piano politico, allora mi chiedo quale
credibilità possa mai avere un nuovo soggetto politico che
nasce da una sconfitta e che, evidentemente, ha una leadership
politica che non è in grado di contrapporsi a quella di
chi porta avanti un diverso progetto.
Si dice, ma chi mai scriverà davvero la storia?, che - ad
un certo punto - Rollandin pose un out out all'U.V. che non
voleva soddisfare il suo protagonismo e la sua ricerca di
visibilità e potere, minacciando, più o meno
chiaramente, di lasciare l'U.V. per ... creare una U.V.
contrapposta o un nuovo soggetto politico, ecc. ecc. E si dice
anche che, in tempi non troppo lontani, anche tu avresti potuto
affiancare Rollandin in una elezione politica della quale sareste
stati i due candidati unionisti per la Camera e per il Senato, e
si dice anche che non sia stato tu a rifiutare sdegnosamente
(come si potrebbe pensare), ma lui ad aggirarti.
Ah, ma allora è una malattia! Andarsene o minacciare di
andarsene è un ricatto che è utile solo se chi lo
pone è abbastanza forte da far valere le proprie ragioni e
da rappresentare una minaccia. Non sono abbastanza dentro alle
questioni per capire se e come la tua posizione interna all'U.V.
sia giunta ad esplicitare la possibilità che tu te ne
andassi e se questo è stato percepito come un pericolo
dall'U.V. stessa. Neppure capisco se ora tu costituisci una
minaccia per l'U.V. Mi chiedo, però, se in nuova e diversa
collocazione tu possa essere una risorsa. Continuo a credere che
tu lo sia solo se stai nell'U.V. Tu e Vallet, tu e Andrione, tu e
Tamone, tu e Bétemps, ecc. ecc. So per certo che nella
storia dell'U.V. ci sono almeno 15 anni di dissenso e di
malessere, di personaggi grandi e piccoli che ne sono usciti o
hanno preso la via del volontario esilio; cosa rappresenti per
costoro? L'uomo che, se pur tardivamente, scuote l'U.V. e,
attraverso una conta dolorosa, ne ripropone i valori abbandonati
da una concezione utilitaristica della politica, oppure il
prossimo candidato al posto di Deputato in Valle d'Aosta?
Nessuno può negare che saresti un ottimo deputato. E chi
sognava di vederti in binomio con Caveri, oggi si avvede che non
c'è posto per due unionisti a Roma: uno c'è
già, Rollandin, e forse più che Rollandin stesso il
problema è questo; per l'altro posto il nome di Caveri non
è più spendibile da quando ha assunto la carica di
Presidente della Regione. Mi chiedo, per assurdo, se un risultato
che alle elezioni politiche ti vedesse, ad esempio, eletto alla
Camera in una nuova lista, mentre al Senato resterebbe Rollandin,
sarebbe di una qualche utilità; credo di no, perché
a Roma i parlamentari devono lavorare in sintonia, per la Valle
d'Aosta. Penso a questa opportunità perché ben
conosco le qualità manageriali del tuo staff, familiari
compresi, e so che è in grado di programmare e progettare
scientificamente i percorsi programmatici, pubblicitari e
politici da fare per raggiungere un determinato risultato.
E allora penso anche ad altra diversa ipotesi, questa sì
dirompente: se davvero il problema è Rollandin, sia tu a
proporti come candidato al Senato in alternativa a lui. L'U.V. ed
i suoi valori traditi o affermati, centrano qualcosa in tutto
questo? I miei dubbi non nascono tanto dal fatto che hai fatto la
tua scelta interpretando con troppo ritardo il disagio interno
all'U.V., ma dal fatto che ti sei scelto alleati che non
appartengono alla tua cultura ed alla tua storia.
Ad avvicinarsi per primi al mondo dei "No global" che sono stati
i tuoi alleati alle elezioni comunali di Aosta, è stata
quella parte di unionisti idealisti che, nella sfascio degli
ideali e dei valori dei quali l'U.V. sembra voler fare a meno, ha
trovato nuove "amicizie": altri sognatori capaci di radicalizzare
l'impegno politico, scoprendo, se pur in ritardo, l'importanza
delle dimensione locale in contrapposizione a quella globale.
Alla testa dei No Global che si sono confrontati a Barcelona nel
Forum per il Mediterraneo, ci sono, si, esponenti delle
nazionalità che evidenziano come la globalizzazione
liberista abbia schiacciato tutto e tutti, i lavoratori, le
classi più deboli, i migranti, i popoli e le nazioni senza
stato, le minoranze negate ed oppresse, ma io non ti ha mai visto
impegnato in questa dimensione ed in questa dinamica e non ti ho
mai sentito partecipe dei momenti di aggregazione che esprimono
questa visione per affermare, ad esempio, che se "un mondo
diverso è possibile", certo è possibile anche "una
Valle d'Aosta diversa".
Senza questi passaggi politici, mi chiedo come tu abbia potuto
proporti insieme a partiti e personaggi che sono stati
storicamente nemici dell'U.V. e dei suoi valori. Non ti ha mai
sentito fare discorsi sulle contraddizioni della politica
linguistica portata avanti dall'U.V. e dalla Regione che si
riduce ad attribuire a tutto il pubblico impiego
un'indennità di bilinguismo che non significa affatto un
maggiore e miglior uso della lingua francese negli uffici; non ti
ho mai sentito riconoscere esplicitamente al franco-provenzale la
dignità di lingua (eppure l'Europa e le sue politiche
culturali, giungono a riconoscerla tale e ad investire risorse
economiche per valorizzarla). Senza una posizione in merito, la
semplice difesa dell'inserimento della lingua francese all'esame
di maturità, proposta dalla Regione e dall'U.V., è
risultata inefficace. Ma tu eri schierato a difesa di
quell'inserimento e delle ragioni dell'U.V. e della Regione,
contro le quali i tuoi alleati di oggi, mossero la piazza e
giunsero a realizzare un referendum.
Se Rollandin oggi è da considerare un nemico, nemico
della vera U.V., i tuoi alleati di oggi lo sono e lo sono stati
molto di più, da sempre. Mi viene da pensare che "contro
Rollandin" qualcuno pensi ancora si possa ricorrere a qualunque
arma ed a qualunque alleanza, come quella che lo fece cadere nel
'90, quando era Presidente della Giunta, portando tutti i
partiti. tutti. destra e sinistra, ad allearsi in modo
innaturale. Quando il ribaltone fu sconfitto e si ricompose una
nuova Giunta, guidata dall'U.V., Rollandin escluse alcune
componenti che, molto spontaneamente, avevano sostenuto che
l'alleanza trasversale di tutti pregiudizialmente contro l'U.V. e
contro Rollandin era inaccettabile. Nacque una Giunta che aveva
al proprio interno... i Verdi di Riccarand e tu fosti d'accordo
o, se non lo eri, non si è saputo e non si è
capito. Probabilmente fosti d'accordo, altrimenti come potresti
oggi correre con Riccarand?
Allora ti chiedo un passo indietro. Forse è tardi, forse
qualcuno ti ha spinto ad andare oltre, forse hai ritenuto
opportuno spostare la tua collocazione decidendo che, visto che
non riuscivi a vincere il campionato di calcio, era meglio
metterti a praticare l'atletica leggera, ma credo faticherai
molto a creare non un nuovo soggetto politico, ma un soggetto
chiaro, capace di fare chiarezza nella politica valdostana. Ti
chiedo un passo indietro che vuol dire non allontanarti
dall'U.V., non andare oltre l'U.V., non creare neppure un
movimento che sia alternativo all'U.V.; fai un gesto clamoroso,
convoca tutti gli unionisti scontenti, sconfitti e delusi, chiedi
che rientrino tutti insieme, subito, nell'U.V., che prendano il
coraggio di non stare più zitti, di non accettare
diktat.
Chiedi a Bétemps di tornare a produrre idee e lavoro
politico-culturale, a Tamone di ritessere legami con il mondo del
lavoro, a Perrin (Joseph-César) di mettere la sua
esperienza di storico e di amministratore ancora al servizio
della comunità, ad Andrione, (Mario ed Etienne) di non
essere fuori dall'U.V. proprio nell'anno del 60°
anniversario, a Pia Morise di versare ancora qualche lacrima per
il Mouvement, ecc. ecc. Chiedi al S.A.V.T. di non tacere
più sugli errori che stiamo facendo appiattendo la
burocrazia amministrativa fino a renderla complice della crisi
imprenditoriale, solo perché complica (burocratizza)
perfino i pur positivi interventi predisposti dal potere
politico. Chiedi a Rollandin di prendere atto che lui ed i suoi
uomini non sono tutta l'U.V. e che, certamente, troppi unionisti
sono fuori dall'U.V. e troppi non-unionisti sono dentro. Chi
contesta Rollandin ne contesta i metodi o l'onestà?
Questa sta diventando una guerra senza frontiere e mi aspetto
che la politica degli anni futuri sia aspra e crudele, non ci
risparmierà nulla, sarà fatta di colpi bassi, anche
a livello personale per delegittimare l'avversario. Ti chiedo un
passo indietro, di riprendere il tuo ruolo nell'U.V. E visto che
ti contesto di non averlo voluto o saputo prendere in modo
abbastanza determinato in passato, mentre sei stato determinato
nel creare "Aosta Viva", ti chiedo di rientrare nell'U.V. con la
stessa determinazione che solo adesso mostri di possedere e che
ti rimprovero di non aver avuto quando eri dentro. 25 anni or
sono moriva prematuramente Bruno Salvadori. Ricordi sicuramente
che la celebrazione della sua azione fu tra i messaggi che
portammo avanti insieme, quando ti presentasti, per la prima
volta, candidato alle elezioni regionali: realizzammo un dossier
con una scelta dei suoi articoli, andammo dai walser a ricordare
il loro ruolo e a proporci di valorizzarli come Salvadori aveva
fatto; sottolineammo che Salvadori seppe essere sempre a fianco
dei giovani e dei lavoratori, con una concezione "progressista".
Non c'è bisogno di un nuovo soggetto politico, c'è
bisogno di una vera U.V.
L'ultima volta che ho scritto una lettera aperta, mi rivolsi
ad "oncle Proment". Assunsi con lui un tono confidenziale, legato
ad un nostro indiretto legame familiare che rafforzava in me il
rispetto umano e culturale, oltre che politico, che nutrivo nei
suoi confronti. Gli chiesi di essere indulgente nei confronti dei
giovani che scendevano in piazza "contro" la prova di francese
all'esame di maturità e per i quali ritenevo opportuno
evitare che la lingua francese diventasse un'imposizione o
venisse anche soltanto percepita come tale. Gli dicevo che se
anche, in realtà, ai ragazzi non veniva imposto nulla, il
fatto che di imposizione essi potessero parlare perché
come tale percepivano la politica linguistica della Regione,
questo bastava a concludere che la causa era mal gestita.
A te, Augusto Rollandin scrivo una lettera che dal punto di vista
psicologico, ha le stesse difficoltà di quelle che
incontrai con Proment: come rimproverarti di essere autoritario e
decisionista se è proprio questo a caratterizzare il tuo
successo ed a rafforzare il tuo carisma? Come accusarti di aver
cambiato l'U.V. se è proprio questa U.V. cambiata ad aver
riscosso successi che un tempo erano solo sognati, ma risultavano
irraggiungibili? Come accusarti di aver schiacciato, con il tuo
pragmatismo, un sistema di riferimento a valori tradizionali ed
atavici, se è proprio la tua modernità a
rappresentare ciò che ad alcuni sembra necessario alla
Valle d'Aosta ed alla fin fine se anche questo aumenta il tuo
prestigio...? So che tu rappresenti una di quelle figure nei
confronti delle quali non ci sono mezze misure: chi ti ama ti
segue come si segue non un leader, ma un capo supremo, un
dittatore; chi non ti ama ti è contro, anche quando non
riesce a trovare spiegazioni a questo..." sentimento".
Ho scritto di te in un saggio, definendoti il primo politico
valdostano che non è uscito dalla ristretta ed
autoreferziale cerchia dei borghesi e dei notabili che hanno
guidato la Valle d'Aosta a lungo, e quando i tuoi avversari ti
definiscono rozzo, in fondo in fondo ti fanno un complimento,
perché la raffinatezza altrui non è che abbia
regalato chissà quali risultati alla Valle d'Aosta. Ti
scrivo per chiederti di aiutarmi a demolire "il mito" di Augusto
Rollandin, per costruire, se c'è, la storia di un leader
politico amato per il suo fascino e per la sua correttezza, oltre
che per i suoi risultati contraddittori. La gente ama molto i
risultati immediati, anche se non pensa al prezzo che va pagato
per raggiungerli ed alle conseguenze negative che ne derivano in
seguito. Tu devi porti il problema, perché non sei "la
gente", ma il personaggio di riferimento per molti.
L'U.V. nel 1945 si è data degli obiettivi che doveva
assolutamente raggiungere, primo fra tutti
l'épanouissement de la culture valdotaine e, purtroppo,
siamo molto lontani dal conseguimento di questo risultato; mirava
alla costruzione dell'Europa dei Popoli e dire che siamo lontani
è un eufemismo, ché - anzi - oggi gli uomini
dell'U.V. stanno addirittura difendendo l'Europa dei mercanti e
degli Stati, dimentica dei diritti dei Popoli e delle lingue
almeno quanto lo sono stati - appunto - gli ... Stati. L'U.V. del
primo Congrès National definiva la Valle d'Aosta una
Nation, proclamava di voler raggiungere la riconquista della
souveraineté e la ricomposizione della nationalité
savoyarde. Che ne è di tutto ciò? Idee
superate?
Credo che il problema tuo e della tua U.V. non sia quello di
considerare superate le idee ed i principi, ma quello di
ragionare concretamente sul fatto che, per una
molteplicità di ragioni, quei principi non riescono ad
aggregare la gente che abita in Valle d'Aosta. Sono i principi ad
esser sbagliati e non più attuali (nel qual caso ha
ragione Louvin che vuol creare un nuovo soggetto politico per
rappresentare i nuovi principi di riferimento) o sbaglia chi
proclama di difenderli e non lo fa davvero, o chi li ha resi poco
credibili tradendoli e, tuttavia, costruendosi non l'immagine del
traditore, ma quella del loro strenuo difensore? In tutta
sincerità ce l'ho anche con i tuoi avversari che ti
rimproverano una scarsa aderenza ai principi, ma alla prova dei
fatti, si sono allontanati anch'essi - e non di poco - da quelli,
per il semplice fatto che anche loro non li considerano
più vincenti e, anzi, si rassegnano a cercarsi uno spazio
al quale tu sia estraneo, piuttosto che affrontarti sul terreno
comune, quello degli ideali unionisti.
Oggi una gran massa di valdostani, vota U.V., semplicemente
perché l'U.V., attraverso la stabilità politica,
assicura la continuità politico-amministrativa e gestisce.
Ci troviamo, però, di fronte ad una crisi di proporzioni
preoccupanti: dobbiamo forse gioire perché l'autonomia e
la capacità gestionale dei nostri politici, tu per primo,
la rende meno dura, oppure dobbiamo pensare che - in
realtà - cadiamo anche noi in crisi, perché non
abbiamo saputo costruire un sistema culturale, sociale, economico
ed politico che non solo prevedesse la crisi, ma addirittura la
evitasse. Chi se ne frega dei discorsi sulla mondializzazione,
ecc. ecc. ! Per una realtà piccola come la Valle d'Aosta,
già solo il rapporto con l'Italia è stato
disarmonico, a partire dal dato numerico, 100 mila contro 50
milioni... a tal punto che se i milioni, invece di 50 diventano
500 o 5 mila, poco cambia: non potremmo, infatti, esser negati
più di tanto nei nostri diritti culturali e nel nostro
diritto allo sviluppo.
Il problema è la nostra capacità di non
rassegnarci e di non adattarci a ciò che viene da fuori,
come invece stiamo facendo, ma di saper filtrare mode, tendenze,
sistemi, istituzioni, sempre attuando un nostro progetto,
assolutamente e pienamente realizzabile perché siamo
pochi. Io credo ti si possa rimproverare proprio questa carenza
di progettualità non a breve, ma a lungo termine. E te lo
rimprovero, perché Emile Chanoux c'insegnò quanto
fosse importante possedere e portare avanti coerentemente, un
progetto da realizzare a lungo termine. Se vogliamo un certo tipo
di Europa ed un certo tipo di Italia per poterci rapportare con
realtà capaci di capirci e di render possibile una
sintonia, è assolutamente falso e fuorviante inseguire
logiche, dinamiche e - addirittura - scuole di pensiero che non
evidenzino questo stridore; la Valle d'Aosta, invece, è
stata zitta rispetto ad una Costituzione Europea che non
riconosce le autonomie speciali, che dimentica le lingue, che
nega i Popoli; questo è inaccettabile, perché vuol
dire consegnare di fatto la Valle d'Aosta alle logiche
stato-nazionali o euro-statali.
Non rispondermi banalmente che è Caveri ad occuparsi dei
problemi europei, perché lo scarica barile non funziona.
Sarebbe troppo bello, tuttavia, muoverti accuse solo
perché non hai mostrato abbastanza attenzione ai rischi
che la Valle d'Aosta corre nella costruzione dell'Europa e nella
partecipazione ai suoi meccanismi ed alle sue dinamiche. E' certo
che rispetto alla politica europea ed al confronto con lo Stato,
i risultati dell'U.V. non sono stati buoni, anzi sono pessimi. E
questo inizia a sfatare il mito del tuo efficientismo. Non basta
votare contro il Governo centrale su questo o quel provvedimento,
si tratta piuttosto, o meglio si tratterebbe, di essere portatori
di un concreto progetto politico contro perché diverso e
autentico.
Le critiche che ti muovo, quindi, sono più gravi.
Poiché io non sono altro che un cittadino, neppure
più iscritto all'U.V. da parecchio tempo, puoi
tranquillamente far finta che neppure ti abbia scritto. Per
questo la mia è una "lettera aperta". Troppi unionisti
stanno fuori dall'U.V.. e tu non puoi fare finta di nulla e
limitarti ad agire politicamente affinché di questi
scollamenti non resti segno nella forza dell'U.V. e nei suoi
risultati elettorali. Ma anche questo è un falso
obiettivo. L'U.V. nacque come movimento di persone che
appartenevano a partiti diversi, ma si proponevano, prima di
tutto, la difesa dei valori, dei diritti e degli interessi della
Valle d'Aosta, per applicarsi, in seguito, affinché
politica ed amministrazione venissero gestite in coerenza con
orientamenti ed ideologie diverse.
La tua U.V. sembra essere, ormai, un partito regionale, un
partito di raccolta, nel quale possono convivere non persone che
portano in essa la scelta di anteporre gli interessi della Valle
d'Aosta a tutto, un partito di piccolo cabotaggio, preoccupato -
alla fin fine - di non rappresentare in Italia, né una
profonda diversità, né un progetto istituzionale
diverso da quello dominante. Quando fu chiaro che la doppia
tessera non era funzionale all'effettiva difesa dei valori di cui
l'U.V. era portatrice, poco a poco l'U.V., dopo essersi spaccata
a destra, a sinistra, al centro, si riunificò dandosi un
progetto di grande respiro. Oserei dire che quello del 1er
Congrès National de l'U.V. era il Progetto di Emile
Chanoux, tradotto ed applicato ai tempi mutati rispetto ai
suoi.
Nella tua U.V. è successa una cosa che non doveva
succedere: non è successo che uomini di diverso
orientamento politico scegliessero di diventare unionisti per
meglio rappresentare gli interessi dei valdostani, rendendosi
conto che le intenzioni dei partiti andavano contro questi stessi
interessi, ma è successo, invece, che unionisti che non
avevano mai espresso un orientamento più o meno vicino
alle posizioni ideologiche dei diversi partiti stato-nazionali,
facessero l'operazione inversa e dall'U.V. si buttassero in bocca
a questi. E' successo che un esponente dell'U.V. è finito
in Forza Italia, è successo che la lista orangista siede
nel Consiglio comunale di Aosta grazie a voti suoi (di puro
dissenso nei tuoi confronti) e dei No Global, senza che nessuno
abbia mai maturato la certezza che Forza Italia da una parte o i
No Global dall'altra, potessero davvero contribuire a costruire
ciò che era nei progetti dell'U.V.
Colpa tua, caro Augusto, perché sei talmente forte da non
permettere che qualcuno ti scalzi dalla gestione dell'U.V., della
Regione e della politica valdostana, al punto da affermare non
solo che tu stia facendo il male dell'U.V. (che sarebbe una pura
questione di opinioni), ma che i principi e i valori dell'U.V.
siano da buttare. Se Louvin deve stare con la sinistra e un
Viérin con i Berlusconiani, non credo stiano pensando di
portare avanti meglio, in questo modo, i principi dell'U.V. che,
di contro, tu non difendi più. Ti scarico addosso colpe
che non sono davvero soltanto tue, è chiaro, ma mi chiedo
se tu possa davvero compiacerti del fatto che la debolezza dei
tuoi oppositori, li porti a scelte tanto contraddittorie da
generare nella popolazione l'idea che la questione è
dicotomica: Rollandin o non Rollandin.
Più coerente, allora, la scelta di coloro che non ti
amano, ma ancora si sforzano di contrastarti dentro all'U.V.
Contro l'U.V. di Rollandin tutti i partiti, dalla destra alla
sinistra, andarono ad una guerra che perdettero nel 1990; contro
l'U.V. di Rollandin adesso vanno, in ordine sparso, schieramenti
di centro-sinistra e di centro-destra, senz'altra connotazione
che quella degli esorcisti. Caro Diavolo di un Rollandin, con
questa lettera aperta desidero provocarti. In altri tempi ti
sfiderei a duello, visto che - in definitiva - nessuno ti sfida
davvero nel duello... politico. Chi dentro all'U.V. ti è
contro non lo è mai in modo determinato: forse è
preoccupato dell'unità dell'U.V., forse è sicuro di
non aver futuro fuori dall'U.V., ma crede di averlo - invece -
dentro (magari proprio perché ti avversa, aggrega il
dissenso e si crea una nicchia) e di poter partecipare, comunque,
ai successi di questa U.V.
Non appartengo al partito che ha gioito dei tuoi guai giudiziari
e che te ne augura altri, anche per una ragione semplicissima:
credo che sul piano puramente umano ci siano esperienze che non
vanno augurate e nessuno, neppure a chi sbaglia davvero e credo,
spero, si costruisca una società sempre e comunque
disposta e capace di perdonare. Ma ti chiedo di riflettere sul
tuo stesso carisma: se vuoi essere il padre-padrone che fu
Severino Caveri e contro il quale l'U.V. dovette insorgere,
spaccarsi e poi ricomporsi faticosamente, oppure se sei capace di
essere un leader davvero moderno. Esserlo vorrebbe dire portare
avanti una Valle d'Aosta all'interno della quale non esistano
leadership rigide ed univoche, ma una leadership diffusa, capace
- cioè - di coinvolgere tutte le proprie risorse umane,
attribuendo a ciascuno uno spazio adeguato alle sue
capacità e ponendole tutte, al servizio della Valle
d'Aosta.
Scrivendoti mi sono chiesto se, in realtà, non fosse
meglio scrivere ai tuoi oppositori. Il vero, problema,
però sei tu, poiché - ripeto - il discorso è
diventato "Rollandin o non Rollandin", non c'è altra via,
altra proposta, altra leadership. Per questo scrivo anche a
Roberto Louvin, unico personaggio di grande visibilità a
te contrapposto; scrivo ad entrambi, anche se con toni e su temi
diversi. Anche gli orangisti di Louvin danno l'impressione di
voler cambiare il tavolo del confronto politico e di pensare
più alla costituzione di un nuovo soggetto politico che
alla necessità di creare una U.V. con un aggettivo
provvisorio che la qualifichi come "vera", più vera della
tua U.V.
Credo fermamente che l'U.V. avrebbe dovuto affrontare molto
seriamente, parecchi anni or sono, la questione morale posta da
Emile Chanoux jr. Credo che si sarebbero dovute chiarire o
tacitare tutte le voci che correvano quando, con Mario Andrione
in volontario esilio, si diceva che non solo lo sostituivi, ma...
gli facevi le scarpe. Credo che molti avrebbero dovuto fare in
modo che gli Ethnistes non fossero soli ed estremi. Credo che
molti avrebbero dovuto fare della esperienza elettorale
indipendentista, l'occasione per rilanciare gli ideali contro la
burocrazia. Credo che non avremmo mai dovuto mescolarci con la
partitocrazia italiana in occasione delle elezioni europee. Credo
che alle ultime elezioni regionali - di nuovo, come alle
precedenti - la presenza di una lista di disturbo fortemente
identitaria, avrebbe dovuto evitare che l'U.V. conquistasse 18
consiglieri e si sentisse forte da sola, capace - ormai - di
interpretare il ruolo della maggioranza e quello
dell'opposizione.
A volte mi sento in imbarazzo con me stesso, perché
ascolto le voci che ti parlano contro, poi leggo interviste e
dichiarazioni da parte degli stessi tuoi oppositori che gettano
acqua sul fuoco delle polemiche interne, al punto che mi chiedo
se "sento le voci", nel senso che sono disturbato psichicamente e
- in realtà - quelle voci vorrei sentirle, ma non ci sono.
E allora non mi resta davvero altro che confidare in te,
chiedendoti di essere tu stesso a risolvere questa negativa
dicotomia che ti riguarda, tu stesso a far qualcosa... "contro"
Rollandin. Forse mi sbaglio, ma credo che tu non sia o non sia
stato sempre attorniato da persone in grado di sostenere una
coerente politica ed una efficace amministrazione, ma solo di
approfittare della situazione. Senza offesa per nessuno, del
resto anche questo fa parte del gioco.
Ma sono in troppi, credo, a starti vicino senza apprezzarti
davvero, e sono molti anche quelli che vorrebbero vederti leader
si, ma leader di una diversa e più coerente U.V., alla
quale tu potresti dare molto. Mi immagino che cosa riusciresti a
fare, magari mobilitando i valdostani contro lo Stato e contro
l'Europa che ci stanno cancellando come popolo, poco a poco. Ti
scrivo in un'occasione particolare: l'anniversario della morte di
Bruno Salvadori, insieme al quale, se non vado errato, militasti
anche tu nell'U.V.P. e l'anniversario della costituzione
dell'U.V. Bruno appartenne a quell'Union Valdotaine che,
attraverso il superamento delle lotte intestine, si
riunificò per costruire l'Europa dei Popoli, nella quale
la Nation Valdotaine avrebbe potuto riconoscersi "savoyarde" e
raggiungere il 51% dei consensi, indispensabili a realizzare in
Valle d'Aosta un vero autogoverno.
Una U.V., la sua, che avrebbe dovuto aggregare tutte le energie
autenticamente autonomiste della Valle d'Aosta, nella dinamica
politica, in quella sindacale, in quella culturale, in quella
sociale. Se hai la pazienza di leggermi nel mio "Per una storia
della Valle d'Aosta dal 1945 ai giorni nostri", troverai una
bozza di questa aggregazione unionista, oltre a commenti su di te
e sugli altri leader valdostani. La sua umanità rese Bruno
Salvadori capace di avere l'amicizia di molti che, in Italia e in
Europa, non lo hanno mai dimenticato. Più difficile
ricordarlo in Valle d'Aosta dove perfino il suo ricordo è
accompagnato, talora, da un senso inspiegabile di fastidio: fu
troppo dinamico e troppo capace, anche troppo arrivista e talora,
troppo contraddittorio. Fu sostanzialmente troppo uomo per una
Valle che ancora preferisce il notabilato ed il caporalato.
Non mi faccio scudo del suo ricordo per attaccarti. Voglio solo
ricordare a tutti i valdostani e a tutti gli unionisti che ti
contestano, quanto sarebbe facile darti battaglia a viso aperto,
uscendo dall'U.V. non per costruire nuovi soggetti politici, ma
per metterti di fronte e contro... l'U.V., obbligandoti a
confrontarti anche con la storia dell'U.V., rileggendone i
principi. Ma bisognerebbe avere il coraggio di contrastarti
davvero e, magari, di perdere lo scontro (quante furono le
sconfitte dell'indomabile Bruno?) e con questo, tutte le
occasioni e le opportunità di avere, comunque, una qualche
collocazione politica di prestigio in questa tua U.V.
rollandiniana; in realtà sembra che alcuni protestino solo
quando e se non trovano spazi e gratificazioni. Oppure c'è
un'altra possibilità: che tu sia capace di pronunciare al
posto di un augusto vaae victis, un umano parcere victis e sia tu
a tendere la mano ai tuoi oppositori, magari facendoti da parte,
per il bene dell'U.V.
Credo, infatti, che nell'U.V. di oggi debba prevalere, il senso
di riconciliazione. Soprattutto adesso che con la scusa dei
risultati delle comunali, non sempre positivi per le liste
ufficiali dell'U.V., i tuoi giannizzeri vogliono cercare chi ha
tradito favorendo altre liste, dimenticando che le
contrapposizioni unioniste in occasione delle "comunali" sono una
costante e che neppure tu puoi pretendere unità e
coerenza, soprattutto in questa fase di lotte interne. Devi
decidere se vuoi esasperarle o trovare una quadra diversa. Se sei
così indispensabile, saranno loro stessi a richiamarti.
Non ti chiedo di fare il generale romano, che a guerra finita
tornò ai campi... e, ci mancherebbe, neppure ti chiedo di
fare come il filosofo che bevve la cicuta. Ti chiedo di uscire
dalla stanza dei bottoni e di essere l'uomo che lavora per
realizzare i progetti di tutta l'U.V. e di tutta la Valle
d'Aosta. Al servizio e non alla guida. Ti chiedo di fare il
senatore.
Te lo propongo, affinché il tuo nome sia associato nella
storia ad un momento di unificazione e non di divisione. Oggi
troppi unionisti sono fuori dall'U.V. e troppi non unionisti sono
dentro; non puoi far finta di non avvedertene. Ti chiedo di fare
un passo indietro, di porti - in modo autocritico - il problema
del perché sussista un disagio interno all'U.V. Ti chiedo
di prendere atto che all'interno dell'U.V. ci sono grandi risorse
umane e ti chiedo di valorizzarle, dando loro spazio e mettendo
da parte i giannizzeri incapaci. Ci sono personaggi come
Viérin, come Vicquéry, come Caveri, le cui
capacità sono indiscutibili; ci sono tuoi avversari
dichiarati, come Stévenin che, ormai fuori dall'agone, non
mancano di interpretare il disagio dei veri unionisti, quelli che
restano sempre e comunque nell'U.V. e dei quali devi tener conto
perché essi sono il cuore dell'U.V. Ce ne sono molti altri
e c'è lo stesso Louvin, che ha capacità e
potenzialità inespresse.
Fai come Andrione che intuì le tue capacità e ti
volle valorizzare. Dai spazio ai tuoi avversari, confrontati con
loro alla pari e se nell'U.V. si è creata una situazione
di maggioranza e minoranza interna, fai una scelta coraggiosa,
stai sempre attento e vicino alla minoranza, perché la
Valle d'Aosta è e sempre sarà una minoranza e, al
di là delle proporzioni e dei contesti, non è
democratico schiacciare, negare le minoranze. Un passo indietro.
Fai del Congresso che l'U.V. terrà in questo anno del
60° anniversario, l'occasione per favorire il rientro
nell'U.V. di chi ne uscito in polemica con te.
Nel 25° anniversario della sua scomparsa, tracciamo un ricordo del leader valdostano che nel 1979 guidò il riscatto europeista di tutte le minoranze linguistiche, degli autonomisti e dei federalisti in Italia
"Essere valdostani non è una questione di razza"
è una sua affermazione che può essere utilmente
applicata ancora oggi a tutte le Nazioni senza Stato.
"Sciopero linguistico" l'idea che egli propose per rispondere al
centralismo dello Stato, incapace di attuare una seria politica
linguistica.
"Trasformazione dello Stato in senso federale" il progetto che
negli anni '60 e '70 lo propose come leader di quel vasto
movimento che contestò la partitocrazia ed il centralismo
dello Stato.
"Un movimento autonomista in ogni Regione" la sua proposta, "al
di là ed al di sopra della destra e della sinistra",
pensando ad una federazione di partiti e movimenti guidata dagli
autonomisti storici (valdostani, sudtirolesi, sardi, friulani,
ecc.).
Il 9 maggio di 25 anni fa un incidente stradale si portava via la
giovane vita di Bruno Salvadori, uno dei leader dell'U.V. Fuori
dalla Valle d'Aosta, Bruno Salvadori è ricordato
soprattutto per aver guidato nel 1979 la lista che l'U.V.
presentò in tutta Italia in occasione della prima elezione
dirette del Parlamento Europeo: una coalizione della quale fecero
parte un gran numero di movimenti e partiti autonomisti,
federalisti e regionalisti. In quel progetto elettorale egli
coinvolse gli occitanisti ed i provenzali, i friulani e gli
sloveni, i cimbri ed i ladini, ecc. ecc., aggregando anche i
piemontesi ed i veneti, i siciliani ed alcuni sardisti, i
trentino-tirolesi e gli istriani, alcuni sud-tirolesi e gli
albanesi, ecc.
Non riuscì a portare in lista i Sud Tirolesi della S.V.P.
che scelsero di allearsi con la D.C., utilizzando il meccanismo
dell'apparentamento per ottenere un posto nel Parlamento Europeo,
ed i Sardi del P.S.D'Az. che attraversavano in quel periodo un
momento di particolare crisi, ma trovò comunque modo di
farsi conoscere ed apprezzare anche negli ambienti politici
sudtirolesi e sardi. Il nome di Bruno Salvadori è per
molti versi legato, però, a quello di Umberto Bossi. Come
ricorda in modo compiuto François Stévenin, nel suo
recente libro "Bruno Salvadori, un valdostano, un autonomista, un
federalista per l'Europa dei Popoli," muovendosi in giro per
l'Italia, per la sua campagna elettorale europea, Salvadori
incontrò casualmente un Umberto Bossi, curioso ma non
impegnato politicamente, anzi si intralciarono il passo di fronte
ai cartelloni elettorali, passando dalle scuse al caffè,
dalla prima discussione al primo coinvolgimento.
Sempre come ben ricorda Stévenin nel suo libro, Umberto
Bossi diede un piccolo aiuto a Bruno Salvadori in occasione di
quelle elezioni, diffondendo alcuni materiali pubblicitari che il
valdostano gli aveva affidato. Folgorato dall'entusiasmo e dalla
incisività della proposta politica di Bruno Salvadori,
Umberto Bossi iniziò a concepire l'idea di impegnarsi
politicamente creando un soggetto politico che assicurasse ai
lombardi gli stessi vantaggi di cui godevano i valdostani e, da
lì, ampliando via via i propri orizzonti. Salvadori lo
influenzò indubbiamente molto, anche per quanto concerne
l'idea di creare un soggetto politico capace di operare in tutta
Italia; ma mentre Bruno Salvadori pensava di aggregare partiti e
movimenti "regionali", fortemente radicati nel proprio territorio
e portatori di un'identità, Umberto Bossi, non avendo alle
spalle né un movimento, né una cultura, né
un'esperienza ancorate ad un autonomismo storico, finì -
come si dice - coll'andare oltre il seminato.
Restò, tuttavia, legato a Bruno Salvadori al punto che
volle intitolare a lui, la sala parlamentare della Lega a Roma,
quando questa divenne una forza politica di primaria importanza.
Ho voluto citare questo singolare fatto per poter collocare Bruno
Salvadori in un contesto nel quale il suo segno sia riconoscibile
anche da parte di coloro che non lo hanno conosciuto o non hanno
mai sentito parlare di lui. Bruno Salvadori, del resto, fu
soprattutto un uomo politico valdostano e morì a soli 38
anni. Gli fui amico e collaboratore. Il ricordo che traccio in
queste pagine è carico di affetto e lo propongo
poiché ritengo indispensabile farlo conoscere, ben
sperando che qualcuno voglia interessarsi al libro che l'ex
Presidente del Consiglio regionale della Valle d'Aosta,
François Stévenin, ha scritto in occasione del
25° anniversario della sua morte.
Devo il mio avvicinamento all'U.V. alle insistenze di Bruno
Salvadori, il quale riteneva che la nostra collaborazione
culturale e politica si sarebbe rinsaldata se avessi deciso di
non esser solo un libero pensatore ed un attivista culturale.
Alla sua morte mi iscrissi all'U.V., senza trovarvi, in anni
successivi, abbastanza motivazioni e la necessaria coerenza per
restarci... Questa la storia del nostro legame. All'età di
sedici anni avevo messo in piedi con compagni di liceo,
un'associazione culturale che, dopo alcuni anni di vita come
gruppo giovanile spontaneo (1967-1973), prese il nome E.A.C.
Equipe d'Action Culturelle (1973). Lo scarto d'età fra i
ragazzi del gruppo e Bruno Salvadori (aveva circa 10 anni
più di noi), non ci permise di condividere direttamente la
sua esperienza nel C.U.V., il Comitato degli studenti
universitari, favorevoli ad istituire in Valle d'Aosta quella
università che mancava, ma noi che sognavamo la nascita di
un'Università valdostana, venimmo a conoscenza del suo
lavoro e cercammo subito di stabilire i primi contatti con
lui.
Tra le attività del nostro gruppo ci fu, per un lungo
periodo (1970-1973), la collaborazione con una pubblicazione
autonomista, "Montagnes Valdôtaines", organo del Mouvement
Autonomiste Valdôtain (M.A.V.). Nessuno di noi aveva scelto
quella collocazione condividendo le ragioni politiche che avevano
portato alla costituzione del M.A.V., uno dei movimenti nati
dalle spaccature dell'U.V. che in quegli anni, si era frantumata
a destra, a sinistra ed al proprio centro, dando vita a diversi
gruppi e movimenti. Operammo, tuttavia, come gruppo giovanile del
M.A.V., poiché questo si mostrò aperto e
disponibile a sostenere il nostro progetto: sollecitare le
organizzazioni giovanili dei vari movimenti usciti dall'U.V., a
ricreare l'unità perduta, ingenuamente, forse, ritenendo
che uno solo fosse o dovesse essere il "movimento valdostano" e
che di esso fossero parte i partiti, il sindacato S.A.V.T., le
organizzazioni culturali, i movimenti "clandestini" (si parlava
in quegli anni di A.L.P.A. e, poi, di Arpitani).
Fu questo nostro intento a favorire l'avvicinamento a Bruno
Salvadori, protagonista di una di queste spaccature prodottesi in
seno all'U.V., quella che portò alla nascita dell'Union
Valdotaine Progressiste. Inoltre, eravamo il solo gruppo
culturale allora attivo che potesse essere considerato di "area
unionista", in un momento storico nel quale molto forte era
l'effetto prodotto dal movimento spontaneo dei Centres Culturels
(centri culturali spontanei sorti in tutti i Comuni della Valle
d'Aosta), in gran parte ispirato - però - dalle nuove idee
portate dai D.P., i Democratici Popolari, sorti da una spaccatura
interna alla D.C, neo autonomisti di estrazione social-cattolica
e democristiana. Noi considerammo che anche il movimento D.P.
dovesse far parte di quell'unico "movimento valdostano" alla cui
nascita era nostra ambizione poter contribuire. Quando invitammo
i giovani dell'U.V. e dell'U.V.P. ad un incontro, per l'U.V.P. si
presentò Bruno Salvadori, ma l'imminenza di una scadenza
elettorale inquinò l'autenticità di quel contatto e
si risolse nella richiesta strumentale che egli ci
formulò: sostenere la candidatura al Parlamento italiano
di due esponenti dell'U.V.P., contro i candidati dell'U.V.
Bruno cercò, quindi, di convincerci ad assumere un
impegno politico elettorale ed avemmo con lui lunghi colloqui:
eravamo già in quasi perfetta sintonia, ma a noi mancava,
tuttavia, la condivisione di tutto il pregresso storico dei
problemi interni all'U.V., spesso dovuti a personalismi, che
avevano portato alle spaccature e non avevamo ragione di
schierarci con tanta urgenza. Fu allora che, andando oltre il
fatto contingente, egli mostrò di apprezzare i nostri
discorsi ed i nostri articoli sull'università, sulle
attività culturali e sul proposito di muovere per una
riunificazione dei movimenti autonomisti valdostani e fu allora
che ci parve di trovare in lui un sicuro punto di riferimento per
dare concretezza al nostro lavoro. Fu importante nel rafforzare
la nostra sintonia, il fatto di scoprire che era sinceramente
convinto che noi costituissimo una risorsa utile soprattutto per
la nostra sensibilità alle problematiche europee.
Ci eravamo, infatti, incontrati più volte per discutere
tematiche europee e per cominciare a preparare le prime elezioni
del Parlamento Europeo di cui in quegli anni già si
parlava. Tra il 1970 ed il 1975, in particolare, operammo
influenzati dal dinamismo di un personaggio di grande
lungimiranza, un sacerdote, il gesuita Egidio Guidubaldi, giunto
in Valle d'Aosta per gestire iniziative culturali promosse dal
Comune di Aosta, il cui Assessore ai problemi giovanili (prima
D.C. poi tra i leader dei D.P.), diede risposta alle
sollecitazioni della nostra e di altre associazioni, proprio
ricorrendo a Guidubaldi.
Egidio Guidubaldi spese il suo impegno per l'affermazione dei
diritti delle "minoranze", attivando confronti e convegni in giro
per l'Italia. Entrò, di forza nel discorso
dell'istituzione di un'Università, muovendo passi
affinché fosse creata in Valle d'Aosta ed avesse due
atenei partner, uno in Sardegna (in particolare con l'appoggio
del compianto grande intellettuale sardista Antonello Satta) ed
un altro in Friuli/Slovenia. Fu Guidubaldi a dar spazio e voce ai
libri di Sergio Salvi ed al dinamismo del C.I.E.M.E.N. (Centro
Internazionale Escarré per le Minoranze Etniche e per le
Nazionalità), anticipandoli con la creazione di un
Movimento Europeo Minoranze (M.E.M., sigla quasi sconosciuta,
eppur molto importante nella creazione di una rete di contatti).
Fu sempre Guidubaldi a dar respiro al concetto di Padania,
espresso per la prima volta da un Parlamentare democristiano, il
quale per Padania intendeva l'area economico-geografica della
pianura padana, alla quale Guidubaldi attribuì una valenza
politico-economica, riconoscendo l'importanza delle aree
geografiche: più che di Stati e di Regioni egli parlava,
infatti, di aree o regioni alpina, padana, mediterranea... ma
questa è una storia che dovrà essere raccontata in
altra occasione, anche ai leghisti padani di oggi.
Con Bruno Salvadori, così, fu facile intendersi ed
approfondire, poco a poco, i rapporti ed i contatti: quando, poi,
ci chiamò per avere il nostro aiuto in occasione delle
elezioni europee del 1979, la nostra collaborazione era ormai
consolidata. Dal "nostro" C.I.E.M.E.N. che si era ufficialmente
costituito a Milano nel 1975, egli trasse elementi culturali in
più per i suoi articoli in occasione della riunificazione
dell'U.V. (1976) e, poi, della convocazione del Premier
Congrès National dell'U.V. (1979), seguendo un percorso
legato al riconoscimento dell'identità valdostana (tema
profondamente suo), finalmente considerata come una nazione
(formulazione ideale cui pervennero, ma per vie diverse dalle
nostre, i più qualificati intellettuali dell'U.V., Alexis
Bétemps e Joseph-César Perrin, fra tutti). E dal
C.I.E.M.E.N., Bruno Salvadori trasse anche concreto riferimento
per attuare iniziative culturali che egli appoggiò nella
veste di Capo Ufficio Stampa della Giunta regionale: due edizioni
di una Rassegna Internazionale di Cinema delle Minoranze Etniche
e Nazionali, le pubblicazioni della rivista specializzata
"Minoranze", l'avvio della collana editoriale "Ethnos" che nel
'78 ospitò una rilettura dell'autonomia valdostana,
nell'anno del trentesimo anniversario, ecc. ecc.
Tra il gruppo dell'E.A.C. e Bruno Salvadori si rafforzarono
rapporti di collaborazione sempre più stretta e anche
l'amicizia personale; a molti amici del gruppo egli poté
far riferimento quando, in occasione della campagna elettorale
europea, egli non trovò l'U.V. pronta a mobilitarsi
appieno, tanto che poté risolvere alcune emergenze
organizzative, proprio grazie ad amici che sul piano personale
non avevano neppure una convinta motivazione politica. Tanto
profonda divenne la mia amicizia con lui che alla sua morte feci
la sola cosa che egli mi avesse mai chiesto di fare: iscrivermi
all'U.V., il che mi diede subito l'opportunità di
continuarne - o di tentare di farlo - il lavoro di raccordo con
le organizzazioni politiche delle minoranze e delle
nazionalità, di portarne avanti l'opera di divulgazione
storico-politica (con la pubblicazione di un libro sulla storia
dell'U.V.), di proseguirne il lavoro culturale e giornalistico
(che mi portò all'Ufficio Stampa della Giunta
Regionale).
Conservai un breve inedito di Bruno Salvadori che egli aveva
scritto per la rivista "Minoranze" e che non venne pubblicato
perché la rivista cessò le pubblicazioni; lo resi
pubblico, quando uno dei personaggi che Bruno Salvadori aveva
conosciuto, creando la rete di raccordo delle "minoranze", il
piemontesista Roberto Gremmo, pubblicò il libro "Contro
Roma", nel quale raccontò la vicenda europeista di Bruno
Salvadori e propose un suo critico commento al "dopo"
Salvadori.
A Gremmo sembrò che il mio apporto alla politica di
raccordo tra l'U.V. ed i partiti autonomisti e federalisti in
Italia, tradisse tutto lo sforzo profuso da Salvadori: infatti io
operai per interrompere gli accordi di collaborazione dell'U.V.
con il leghismo nascente, portando avanti la "linea
nazionalitaria" di Joseph-César Perrin e del C.I.E.M.E.N.
Con il testo inedito di Bruno Salvadori, potei ristabilire una
verità storica e culturale: l'U.V., fortemente ispirata
agli approfondimenti identitari di Bétemps e Perrin, dopo
aver dato corpo con Salvadori al rilancio di una coscienza
"nazionale" dei valdostani e dell'U.V., si trovò a fare i
conti con un leghismo nascente su posizioni di razzismo
infraregionale che privavano la proposta di trasformazione dello
Stato in senso federale e di costruzione di una vera Europa dei
Popoli, dell'indispensabile riferimento alla solidarietà.
L'U.V. scelse, quindi, in vista delle elezioni europee dell'84,
di lasciare il carroccio leghista ed i suoi addentellati, per
dare seguito all'esperienza di collaborazione con i soli partiti
e movimenti federalisti/autonomisti e nazionalitari storici.
Toccò a me illustrare questa scelta, a Udine, nel 1981, in
occasione di un incontro proposto per rilanciare il dopo
Salvadori, e sostenerla in successivi incontri e scontri.
In perfetta linea con il pensiero e con le aspettative di Bruno
Salvadori! Anche se per me che non avevo le ambizioni elettorali
che avevano motivato fortemente Bruno Salvadori, fu sicuramente
più facile assumere posizioni categoriche rispetto alle
quali egli era stato morbido ed accomodante, preso come era
dall'idea di favorire la nascita di partiti a base regionale in
tutta Italia e di aggregare tutto il dissenso antipartitico. Un
retropensiero, tutto mio. A Bruno Salvadori era stata data carta
bianca, da parte dell'U.V. per la gestione dei contatti, dei
rapporti e degli accordi con le varie forze politiche
"federaliste"; alla morte improvvisa di lui che era stato
indiscutibilmente punto di riferimento e leader riconosciuto da
tutti gli alleati, si creò un vuoto che leghisti come
Bossi, Rocchetta e Gremmo credettero di poter coprire
direttamente, non riconoscendo nei nuovi interlocutori designati
dall'U.V., lo stesso carisma di Bruno Salvadori e sentendosi,
comunque, respinti dall'U.V. e dagli altri movimenti
nazionalitari.
Alla Lega riuscì, in parte, di assorbire il Movimento
Friuli e di marginalizzare altri movimenti autonomisti,
schiacciati della mobilitazione leghista attorno all'idea della
Padania e dai successi che questa ottenne; ma fu proprio l'idea
leghista della Padania ed il fatto che la Lega si presentò
alle elezioni in tutto il nord, anche contro i partiti ed i
movimenti autonomisti storici, a dimostrare che l'U.V. aveva
avuto ragione nel distinguere i diritti e le ragioni storiche
delle nazionalità da quelli dei neo-autonomisti nascenti
attorno alla Lega. La Padania, infatti, era ed è
sicuramente un'area geografica, ma non una Nazione e nel suo
territorio non si ritrova il popolo padano, ma un insieme di
popoli, minoranze e Nazioni senza Stato ai quali la Lega propose,
sostanzialmente soltanto di cambiare capitale, Mantova con Roma,
ricreando pari pari i meccanismi del centralismo romano in chiave
padana.
La Lega, inoltre, frenò, per anni, l'applicazione
dell'articolo 6 della Costituzione che prometteva la tutela delle
minoranze linguisitiche. Per affermare che anche il toscano, il
ligure, il lombardo e l'emiliano sono lingue cui spetta la stessa
tutela del sardo, del friulano, del francoprovenzale, e delle
altre lingue delle minoranze etniche, la Lega aggiunse ai ritardi
di applicazione voluti da una destra post-fascista che non
riconosceva altri diritti linguistici che quelli legati alla
lingua italiana, le contraddizioni legate alla confusione
ingenerata dalle sue posizioni. Totale, altri dieci anni di
ritardo di una legge attuata solo quando alcune di queste lingue
erano quasi compromesse o morte, cioè, sostanzialmente, 50
anni dopo che il principio della tutela era stato formulato nella
Costituzione.
Bruno Salvadori applicava alla sua azione politica, un costante
riferimento ai principi del federalismo e delle autonomie di
Emile Chanoux; forte di questa coerenza e della vocazione storica
dell'U.V. nella difesa dei diritti dei popoli, egli sarebbe stato
il leader ideale per quella che concepiva come un federazione di
partiti e movimenti a base "regionale". Una simile federazione,
guidata da un personaggio carismatico come lui, rappresentante di
un movimento legato a tutti i movimenti e partiti storici del
federalismo e delle autonomie, avrebbe potuto essere davvero
credibile e forte. La velleità di poterlo sostituire con
leader di diversa storia, cultura ed estrazione politica, ha
portato la Lega a diventare il partito alleato di Berlusconi e
Fini, cioè, degli esponenti di una cultura e di una
politica ostili ai diritti dei popoli e delle nazioni senza
Stato. Ed ora che Berlusconi lancia l'idea strumentale di
favorire la nascita di movimenti e partiti autonomisti in ogni
Regione, il progetto culturalmente onesto e politicamente
rivoluzionario di favorire l'autonomismo regionale si sbriciola:
Berlusconi vuol rafforzare in tal modo il centralismo, Salvadori
mirava a distruggerlo.
Bruno Salvadori aveva imparato, anche dalle divisioni interne
all'U.V. di cui egli stesso era stato protagonista, che un
movimento come l'U.V. e come pensava dovessero essere i movimenti
alleati, non potesse e non dovesse far altro che collocarsi al di
là ed al di sopra della destra e della sinistra. Mi sta a
cuore ricordare questi aspetti della vita politica di Bruno
Salvadori, poiché di lui sembra restare come unico segno
storico, quello di aver determinato la nascita del leghismo: non
è vero, anche se è vero, invece, che egli seppe
dare all'insieme dei movimenti e dei partiti che potremmo
genericamente definire "anticentralisti", importanti occasioni di
azione comune. Li avrebbe guidati, ma avrebbe potuto farlo lui
solo, a diventare una grande forza. Il suo operato fu molto
importante per la Valle d'Aosta; fu un giornalista e un politico,
mai un ideologo, quindi sarebbe sbagliato considerarlo un maestro
in questo senso. E fu anche carico di ambizioni e voglia di
arrivare, quindi parve talora proporsi come un tuttologo.
Ma dal suo impegno per le "minoranze" deriva il ruolo che ebbe
nella valorizzazione della piccola comunità walser della
Valle d'Aosta ed il suo proposito di aprire la Valle d'Aosta al
nuovo, per renderla una comunità moderna, capace di
assimilare e gestire le idee nuove e di non esserne fagogitato.
Si ricorda di lui lo slogan "Essere valdostano non è una
questione d razza" che cancellò, come un rapido colpo di
spugna, anni di equivoci (e di tentazioni) sul significato
dell'esser minoranze etnica, confondendo razza ed etnia e
moltiplicando le errate interpretazioni già rilevanti ad
esempio nel definirsi "Nazione" e, quindi, esser nazionalisti,
termine di così negativo significato nella lingua italiana
da render necessario ridefinire le "minoranze" come
"nazionalità", prima di poter serenamente arrivare a
chiamarle Nazioni senza Stato. Fu difensore delle lingue e delle
culture. Dell'importanza delle lingua francese in Valle d'Aosta
egli parlò senza mezzi termini, giungendo a proporre uno
sciopero linguistico, il rifiuto - cioè - di esprimersi in
lingua italiana se da parte del governo e dei partiti
Stato-nazionali non fossero cessati i tentativi di sopraffazione
culturale e linguistica.
"Partiti Stato-nazionali", ecco un'altra delle parole che
ricorreva spesso nei suoi articoli e nei suoi discorsi: egli
considerò la partitocrazia come coresponsabile del
centralismo dello Stato e la contrastò, cercando alleati
per dare quella spallata finale alla partitocrazia che fu
possibile dare solo grazie agli scandali di tangentopoli ed ai
successi del leghismo. Credo gli piacerebbe il mio dichiararmi,
oggi, unionista, pur stando fuori dall'U.V. e certo lo
divertirebbe il mio affermare, oggi, tra il serio ed il faceto,
che non sono io ad esser fuori dall'U.V., ma - in realtà -
sono io ad aver espulso tutti gli altri. Era maestro della
provocazione e della polemica e ricorreva a queste in modo
determinato e raffinato, mai con motivazioni fine a se stesse, ma
per colpire e raggiungere un obiettivo.
Sentiva di possedere una forza ed una progettualità
superiori a quelle di molti; questa fortissima autostima (che
taluni considerarono esagerata, giungendo ad accusarlo di essere
un arrivista), lo sostenne sempre, anche nei momenti più
difficili, e lo fece soffrire, poiché non sempre gli altri
si avvidero appieno delle sue capacità e, spesso, quando
se ne avvidero, ne restarono spaventati, ne furono gelosi e lo
contrastarono, pur traendo vantaggio dal suo lavoro. Che piaccia
o non piaccia ammetterlo, Bruno Salvadori non aveva un nome
valdostano; in Valle d'Aosta si dice ironicamente che non
possedeva un nome con la Z finale e questo è stato un
ostacolo in più alla sua carriera. Fu in parte, non del
tutto gradito agli intellettuali valdostani: aveva la
straordinaria capacità di "succhiare" idee e proposte
elaborate da altri, trasformandole in dinamiche delle quali egli
finiva coll'esser considerato autore unico. Agli altri erano
costate applicazione e studio, a lui, intuitivo ed immediato,
bastava sempre poco per farle proprie, usando con grande
efficacia gli strumenti della comunicazione e del
giornalismo.
Non fu un ideologo e non vanno ricercati in lui, approfondimenti
e studi; altri fecero questa parte di lavoro ed egli ebbe
l'intelligenza di tenerli al suo fianco, di ascoltarli di trarre
dal loro lavoro quel succo che egli riusciva a sintetizzare
rendendo concreta l'opera di divulgazione. Oggi, a 25 anni di
distanza dalla sua morte, qualcuno lo commemora, altri ritengono
esagerato dare alla sua esperienza politica una valenza troppo
rilevante. Io, molto semplicemente, scrivo di lui per ricordarlo
e per contribuire a farlo conoscere.
Claudio Magnabosco
Da un'intervista a François
Stévenin
In occasione del 25° anniversario della morte di Bruno
Salvadori ho voluto scrivere un libro nel quale sono tracciati,
insieme, il ricordo di un amico e la documentazione su un
personaggio politico di grande rilevanza. Nella sua breve vita
Bruno è stato protagonista di così tante battaglie
politiche ed ha scritto così tanti articoli, saggi e libri
da far pensare, a torto, che il suo ricordo sia, ormai,
preservato. E, invece, non è affatto così: non lo
conoscono affatto i giovani, eppure se c'è un personaggio
politico che sia partito dall'esperienza nella Jeunesse
Valdotaine per poi tener sempre presente, nell'età matura,
sempre e comunque il ruolo e l'importanza dei giovani fu proprio
Bruno Salvadori. Non lo conoscono affatto i lavoratori del
S.A.V.T., eppure egli diede al S.A.V.T. un poco della sua
propulsione, prima di lasciarmi il posto per 17 intensi anni di
lavoro.
Fu l'uomo che condusse la prima difficile battaglia per portare
un valdostano nel Parlamento Europeo, eppure anche questo
comincia ad essere dimenticato. Eppure sono passati solo 25 anni
da quando Bruno Salvadori, con uno spirito polemico che gli era
unico, proponeva, contro l'insensibilità dello Stato,
assolutamente incapace di portare vanti una seria politica
linguistica, uno sciopero linguistico. Solo 25 anni da quando
egli propose, chiaramente, che tutti gli autonomisti si
raggruppassero nell'U.V., tutti, quelli che provenivano da
scissioni interne all'U.V. e tutti quelli che, invece, avevano
condiviso la scissione della DC, dando corpo ad un raggruppamento
autonomista di cui oggi resta traccia in alcuni gruppi politici
autonomisti. Solo 25 anni da quando, presentando una lista
dell'U.V. e di tutti gli altri autonomismi storici alle elezioni
europee, sostanzialmente affermò due cose: che le
minoranze, meglio definite Nazioni senza Stato, dovevano trovar
spazio nel Parlamento Europeo, e che in Italia era possibile
creare una federazione di movimenti e partiti politici a base
regionale che avrebbero potuto affiancare i movimenti autonomisti
storici.
Solo 25 anni dall'ultima volta in cui Bruno Salvadori scrisse
che il federalismo era la sola strada che una piccola
comunità come la Valle d'Aosta poteva percorrere per
affermarsi. Per questo ho scritto un libro su Bruno Salvadori che
non mancherà, credo e spero, di interessare tutti i
valdostani, sia quelli che lo hanno conosciuto, sia quelli ai
quali credo il libro potrà, per lo meno raccontare chi sia
stato. Nel libro i commenti e il racconto dei diversi momenti del
suo impegno politico, sono intercalati con una scelta di articoli
che egli scrisse nel periodo tra il 1965, quando iniziò a
collaborare con il Peuple Valdotaine, ed il 1980, quando
morì, all'età di 38 anni, in un tragico incidente
stradale. Per collocare meglio la sua storia, nel libro racconto
le vicende della Valle d'Aosta dal 1965 al 1980 con la voce
stessa di Bruno Salvadori: tra i libri che scrisse, infatti,
c'è quel "Pourquoi être autonomiste" (pubblicato in
due diverse edizioni) in un capitolo dei quali egli racconta,
anno per anno, i fatti salienti della vita politica.
Questa collocazione consente di rendere comprensibili i diversi
momenti raccontati nel libro: gli esordi con la difesa dei
diritti degli studenti universitari e la proposta di creare
un'Università valdostana; i primi anni di lotta, con gli
scritti sul bollettino "Le Drapeau Rouge et Noir" nel quale egli
espresse tutta la sua giovanile verve polemica. E c'è il
racconto del Bruno Salvadori che partecipò ad una delle
scissioni dell'U.V., quella che portò alla costituzione
dell'Union Valdotaine Progressiste, raccontando la cui vicenda mi
sono permesso di ricordare come anche una fronda interna
all'U.V., il Gruppo di Saint-Christophe, abbia agito per favorire
il passaggio da una U.V. legata al padre padrone Severino Caveri,
ad una U.V. che si riunificava e si rafforzava, gestendo la
ricostruzione di un'unità interna insieme all'elaborazione
culturale di una proposta alquanto radicale, quelle che
portò l'U.V. a definire la Valle d'Aosta una Nazione. Nel
libro ci sono anche i capitoli che raccontano la sua
attività di consigliere regionale e di giornalista ed il
capitolo nel quale l'esaltante esperienza della lista unionista
presentata in tutta Italia per le elezioni europee del 1979, fu
il primo momento di aggregazione su tutto il territorio dello
Stato, di movimenti-partiti ed organizzazioni
anticentralisti.
E ci sono, nel libro, anche le pagine legate alla Lega e ad
Umberto Bossi. Bruno Salvadori è ricordato, oggi,
più per questo che per altro ed in parte è
considerato il padre della Lega Nord. Cerco nel libro di
raccontare la verità e di proporre una corretta
interpretazione dei fatti. Ben posso evidenziare, infatti, che se
alla morte di Bruno, la Lega poté prendere strade
contraddittorie (come quelle che la portarono a presentarsi alle
elezioni regionali in Valle d'Aosta, contro l'U.V., o come quelle
che la videro partecipare ad un Governo guidati da Berlusconi e
da Fini, i leader - cioè - del centralismo e del post
fascismo, o - ancora - come quelle che la vedono protagonista di
progetti di riforme costituzionale nelle quali le autonomie
storiche sono cancellate) allora vuol dire che o Bruno Salvadori
è stato un pessimo maestro o Umberto Bossi è stato
un pessimo allievo.
O, forse, che le strade dei due protagonisti e delle
rivendicazioni politiche dei quali sono stati protagonisti, non
sono parallele. Nel libro c'è anche il dato biografico: il
breve racconto della sua vita quotidiana e delle sue
difficoltà, l'amore per il figlio e per la moglie, le sue
intuizioni culturali che lo portarono, ad esempio, ad affermare
che "essere valdostani non è una questione di razza",
scardinando così l'errata visione di una U.V. formata da
montanari e contadini autoctoni, chiusi ed inospitali. Un libro
che non mi è costato solo fatica, ma anche emozioni,
perché nel raccontare sono riaffiorati, capitolo per
capitolo, vivi e ben presenti, i ricordi dei diversi momenti che
Bruno Salvadori ed io abbiamo vissuto insieme, talora
scontrandoci, talora ritrovandoci. Ho sempre avuto grande
ammirazione per Bruno Salvadori e credo questo traspaia nel mio
libro che non può essere un libro davvero storico,
poiché non ho le doti dello storico, e forse per questo ho
cercato di scrivere nello stesso modo con cui si sviluppava la
nostra amicizia: un dialogo a due.
Racconto e ricordo, quindi, rinviando sempre agli scritti di
Bruno Salvadori, limitandomi, in questo, ad osservare che non
sono riuscito a trovare un argomento di cui Bruno Salvadori non
abbia scritto, sì che oggi affermare che si occupò
di molte cose, tracciandone un lista, significa inevitabilmente
dimenticarne molte altre. Poiché so che in occasione di
questo 25° anniversario, molti valdostani scriveranno di lui,
per rendere tangibile testimonianza di un'amicizia, evito nel
libro di citare le parole di cordoglio che le autorità
valdostane, gli esponenti di primo piano dell'U.V. e i più
semplici amici, pronunciarono o scrissero alla sua morte. Do,
invece spazio, alla voce di alcuni amici che in Italia e
all'estero, ebbero l'occasione di conoscerlo e di collaborare con
lui: amici ed alleati delle elezioni europee del 1979
soprattutto.
Ho scritto questo libro perché credo che Bruno Salvadori
sia stato un personaggio di grande importanza per la Valle
d'Aosta e non solo. Tra i torti che subì ed i risultati
che non raggiunse, anche perché morì troppo
giovane, non voglio ci sia anche il fatto che dalla sua morte in
poi, la polemica politica, il rilancio culturale, il dinamismo
sociale e la progettualità istituzionale che
caratterizzarono la sua azione, sono diventati rugginosi reperti
del passato. Tra le tante ambizioni che credo lo abbiano
fortemente motivato e che fecero ritenere ad alcuni che, talora,
Bruno Salvadori fosse eccessivamente arrivista, c'è
sicuramente quella di non voler essere dimenticato. Spero che,
anche grazie al mio libro, Bruno Salvadori non sia
dimenticato.
François Stévenin
Nel linguaggio di Bruno Salvadori compaiono spesso termini
come "regionalismo" e "federalismo"; del primo è chiaro
negli scritti di Bruno Salvadori il significato "rivoluzionario":
il regionalismo si contrappone al centralismo, non è una
semplice forma di adattamento amministrativo di un centro che,
per funzionare meglio, delega lo svolgimento di alcune funzioni
alla periferia. Nel linguaggio di Salvadori e dei suoi tempi, il
regionalismo è l'affermazione del diritto dei piccoli
popoli a non esser considerati soltanto "minoranze" alle quali
applicare diritti residuali o tutele paternalistiche, calate
dall'alto; è, altresì, l'affermazione - in senso
federalista - della prima forma di istituzione di base cui
corrisponde un nuovo diritto basato sulla/sulle
identità.
E' bene ed opportuno, quindi, dare alle parole di Bruno
Salvadori, il giusto significato. Anche per renderne attuale il
ricordo. E', questa, una precisazione indispensabile a
comprendere la sua politica nei confronti di movimenti, partiti e
forze culturali nati non dalla rivendicazione di
un'identità storica consolidata, ma dall'affermazione di
diritti democratici di tipo autonomistico, là dove,
finalmente, l'autonomia è un principio da applicare a 360
gradi Parlare di autonomia oggi è diventata una cosa
banale; in Valle d'Aosta lo fanno tutti, soprattutto in campagna
elettorale, e questo è diventato ormai uno sport che tutti
giocano considerandosi esperti almeno quanto avviene con la
nazionale di calcio e gli italiani: tutti se ne sentono
allenatori.
Chiariamo, allora, da cosa nasce realmente l'autonomia:
l'autonomia nasce da ragioni storiche, culturali, geografiche ed
etniche, come spiega bene Bruno Salvadori nel suo "Pourquoi
être autonomiste", la sua opera chiave. Qualunque forma
istituzionale nasca da ragioni diverse può essere
ragionevole e proponibile, ma non è l'autonomia o, meglio,
non è la nostra autonomia. Un'autonomia che non si
proponga di rappresentare e perpetuare quelle ragioni,
inevitabilmente non è un'autonomia. Non abbiamo,
purtroppo, l'abitudine di soffermarci sul vero significato delle
parole e, quindi, prestiamo il fianco agli equivoci; definiamo
così autonomia quello che, in realtà, è
soltanto un piccolo decentramento regionalista; e, peggio,
definiamo federalismo la semplice concessione da parte dello
Stato di poteri residuali alle Regioni e agli enti locali, mentre
il federalismo è, in realtà, l'esatto inverso e,
cioè, la costruzione di un sistema istituzionale che
delega ad un potere centrale, solo quelle competenze che non
possono essere positivamente esercitate a livello locale. Anche
questo concetto è ben chiarito da Bruno Salvadori in quel
suo libro.
Facciamo anche di peggio perché definiamo "democrazia"
un'organizzazione della vita istituzionale ed il sistema per
rappresentare la voce dei cittadini, quando non ci mostriamo
capaci di capire quale è il momento discriminante tra la
rappresentazione dell'individuo e quella della comunità
nella quale egli si realizza: se, ad esempio, si riconosce
all'uomo il diritto di non essere discriminato per ragioni
linguistiche, ma non si riconosce alla comunità cui egli
appartiene il diritto di usare ed insegnare quella lingua,
sostanzialmente quel diritto risulterà negato,
poiché nessun uomo potrà mai parlare e salvare da
solo la propria lingua. Dicevamo delle ragioni dell'autonomia,
ragioni storiche, culturali, geografiche ed etniche, le stesse
che legittimano l'esistenza degli Stati che si dicono nazionali,
proprio perché costituiti per dare una forma istituzionale
alla vita di persone che dovrebbero avere la stessa storia, la
stessa cultura, lo stesso stanziamento geografico, la stessa
appartenenza etnica.
Se quelle ragioni possono legittimare l'esistenza di uno Stato
di diritto, qualora in quello stesso Stato ci siano
comunità con caratteristiche diverse, queste hanno
parimenti diritto a scegliere la forma istituzionale che deve
organizzarli e rappresentarli. Si dice, infatti, che queste
caratteristiche connotano l'esistenza di una nazione, per questo
gli Stati si definiscono nazionali. E se di Nazione e di Stato
nazionale parliamo, o - almeno - abbiamo parlato fino a pochi
decenni or sono, allora dovrebbero valere le regole del diritto
internazionale che consentono ad ogni nazione di
autodeterminarsi. A questa concettualizzazione Bruno Salvadori
giunse, attraverso il percorso di studi e di ricerca politica.
Nel linguaggio del federalismo, del resto, il termine autonomia
non è altro che un passaggio che sta a mezzo tra
l'autodefinizione e l'autodeterminazione. A questo concetto di
Stato nazionale se ne contrappongono altri, in particolare quelli
ispirati da un corretto riferimento ai valori del federalismo: si
costruisce - cioè - uno Stato degli Stati, nel senso che
la vita dei singoli e delle comunità parte dall'uomo,
arriva allo stato comunale, allo stato regionale, allo stato
continentale, allo stato mondiale, senza prevaricazione alcuna
sulla possibilità che ciò che può esser
deciso ed attuato a livello locale lo sia, poi,
effettivamente.
Quindi, sostanzialmente, il federalismo giunge a negare il
valore stesso dello Stato nazionale. E il nostro Bruno Salvadori
giunse correttamente anche a questa conclusione. E che Bruno
Salvadori guardasse ad un governo mondiale, reso possibile grazie
al federalismo, è prospettiva sulla quale è
ingiusto non soffermarsi affatto, se non altro perché ci
rende più chiaro quanto egli guardasse lontano e quanto il
suo sistema di valori di riferimento sia ancora attuale. Se
teniamo presenti queste considerazioni, allora potremo concludere
che la nostra autonomia non è soltanto un meccanismo
istituzionale fatto di diritti, ma un modo di rapportare la
nostra potenzialità di autogoverno ad un sistema politico
più ampio, nel quale solo ciò che non possiamo
affrontare e risolvere da soli, lo diventi in quella dimensione
superiore. Esiste la possibilità che gli Stati siano
plurinazionali, che facciano - cioè - delle
diversità storiche, culturali, geografiche ed etniche di
chi lo compone, una ricchezza che deve crescere armoniosamente
nel rispetto di tutti e di ciascuno, riproponendo in questa
dimensione le stesse problematiche che si pongono
nell'armonizzare - in dimensione macro - la possibilità di
organizzare un unico governo del mondo.
L'autonomia, la nostra autonomia, quindi, non può essere
vissuta come una concessione che i valdostani sono riusciti a
strappare allo Stato nazionale, perché se così
fosse, si dovrebbe confermare che esistono un conflitto ed una
conflittualità tra Valle d'Aosta e Italia che, invece, non
avrebbero ragion d'essere. Non hanno ragion d'essere
perché i valdostani, consci delle peculiarità
storiche, geografiche, culturali ed etniche della Valle d'Aosta,
hanno maturato la coscienza che in una dimensione più
ampia dell'organizzazione istituzionale della vita dei cittadini
europei, l'Europa appunto, non avrebbe senso che tutti i popoli -
come il popolo valdostano - pur fortemente caratterizzati in
senso nazionale - facessero ricorso al diritto
all'autodeterminazione costituendo una miriade di Stati, proprio
quando si afferma che la forma dello Stato, e dello Stato
nazionale in particolare, è superata.
Se, quindi, l'autonomia non è solo il decentramento di
poteri dello Stato, ed è nel contempo esercizio
responsabile, in senso federale, di poteri e competenze
esercitati "come se" si fosse uno Stato, ecco che ogni diversa
interpretazione diventa riduttiva e mette in crisi l'autonomia
stessa. Se, infatti, dimentichiamo le ragioni dell'autonomia e,
addirittura, neghiamo che esse abbiano un valore e le
contestiamo, ecco che allora viene meno la ragione stessa
dell'autonomia. Quando, ai giorni nostri, il governo italiano si
propone di attuare un piano di grandi opere in Italia e le
raffigura facendo del Piemonte e della Valle d'Aosta una sola
Regione; e quando questo o quel governo organizzano la
rappresentatività dei cittadini italiani nel Parlamento
Europeo, individuando le macroregioni e mettendo insieme
Piemonte, Lombardia, Liguria e Valle d'Aosta, quando ciò
avviene vuol dire che questo Stato non rispetta le
caratteristiche della Valle d'Aosta e le sue peculiarità,
quindi non rispetta l'autonomia.
Bruno Salvadori si contrappose fortemente a questa riduzione
dell'autonomia a forma burocratica di esercizio di un potere che
resta sempre in mano allo Stato. Ciò non è grave
politicamente, perché le forze politiche possono trovare
ispirazione in principi diversi da quelli dell'autonomia e del
federalismo, ma è grave istituzionalmente, perché
lo Stato italiano ha dato all'autonomia della Valle d'Aosta una
valenza costituzionale. Le peculiarità storiche,
culturali, geografiche ed etniche della Valle d'Aosta trovano
nella Costituzione dello Stato italiano un vero riconoscimento.
Ogni partito che vada contro questi principi, quindi, va contro
la Costituzione. E' per questa considerazione che Bruno Salvadori
portò avanti una battaglia contro la partitocrazia:
perché, sostanzialmente, riteneva che i partiti fossero al
servizio del centralismo, anche quando si contrappongono tra
loro. Difendere l'autonomia della Valle d'Aosta, quindi, non
è per Bruno Salvadori un puro esercizio elettorale e non
può essere neppure e soltanto difendere l'autonomia
finanziaria da biechi attacchi come quelli portati di recente che
mettono in discussione il riparto fiscale tra Valle d'Aosta e
Stato cui dedicò una attenzione ed un impegno
particolari.
Difendere l'autonomia della Valle d'Aosta non è solo
premere sulla valorizzazione degli elementi culturali ed etnici,
come qualcuno ha ritenuto a torto venisse fatto dall'Union
Valdotaine che difende la lingua francese. Difendere l'autonomia
è difendere l'identità di una comunità e
dovrebbe essere un dovere dell'intera comunità valdostana
che, in quanto nazione, ha rinunciato a radicalizzare la
rivendicazione di un pur legittimo esercizio del diritto
all'autodeterminazione; la Valle d'Aosta nello spirito
federalista vorrebbe rispettare con lo Stato e con l'Europa un
patto di unità nella diversità e, in ottica
democratica, affermare che la democrazia non si fa solo con i
numeri (per cui 120 mila valdostani saranno sempre una
minoranza), ma si deve fare rappresentando i diritti collettivi e
le capacità di autogoverno. Non è possibile,
infatti, affrontare ovunque i problemi allo stesso modo, quindi
è bene che - pur con un sistema di coordinamento delle
diverse autonomie, in Italia e in Europa - nessun potere centrale
soffochi le autonomie, ma anzi ne crei di nuove e le
rispetti.
Bruno Salvadori riteneva che fosse molto pericoloso affermare
che le ragioni dell'autonomia sono diverse da quelle che hanno
reso possibile l'autonomia stessa; se le ragioni dell'autonomia
non sono quelle storiche, culturali, geografiche ed etniche, non
sarebbero neppure ragioni legate alla comunità, al popolo,
alla nazione valdostana, ma risulterebbero essere le ragioni di
una pratica di decentramento utile solo alla miglior
organizzazione dello Stato, organizzazione che muta in relazione
ai problemi ed alle esigenze e che - quindi - finisce sempre col
riconoscere ai poteri dello Stato e delle sue istituzioni un
diritto di prelazione su tutto. Bisogna diffidare, quindi, degli
autonomismi che si perdono nel tentativo di cercare nuove ragioni
o in quello di contestare alcune delle ragioni storiche
dell'autonomia. Contrastare la cultura e le caratteristiche
etnico-culturali della Valle d'Aosta non è, in alcun modo,
un semplice confronto sulle modalità attraverso le quali
valorizzare, ad esempio, la lingua francese, ma è negare
sostanzialmente che la lingua francese abbia una ragion
d'essere.
Questo significa negare ad un popolo il diritto ad esistere.
Forse vogliamo arrivare a dire che, ormai, nelle ragioni
dell'autonomia si riconosce soltanto una parte di valdostani e
che, di conseguenza, bisogna rappresentare organicamente e
strutturalmente, le presunte nuove caratteristiche. Questo
è falso: le nuove ragioni addotte sono talmente uguali a
quelle di qualunque altra area geografica o regionale d'Italia o
d'Europa, da non giustificare nessuna autonomia e, peggio, da non
giustificare neppure nessun decentramento, se non quello che
passi dalla costruzione a tavolino di nuove regioni. E il modo
con cui Bruno Salvadori volle essere valdostano, anche affermando
che essere valdostani non è una questione di razza, spiega
ulteriormente che in Valle d'Aosta non esistono valdostani di
origine e di adozione e italiani, ma valdostani tout court, visto
che essere valdostani non è una questione di razza.
La responsabilità dell'U.V. di fronte all'autonomia
è davvero grande; l'U.V. è riuscita a mediare,
anche se talora in modo apparentemente contraddittorio, rispetto
ai propri principi conclamati, potendosi alfine presentare come
il movimento/partito che più di altri sembra avere le
carte in regola per amministrare la Valle d'Aosta; e che, per
farlo, debba insistere sui valori dell'autonomia, anche a nome di
chi non li riconosce, ma ne vuol godere i frutti, è
l'esercizio illuminato di una real politik che ci fa correre un
solo rischio: finire col credere anche noi che quei valori non
esistono più, ma che bisogna fingere esistano ancora e -
quindi - li sventoliamo come una bandiera, senza neppure sapere
perché abbia proprio quei colori.
Dans le langage de Bruno Salvadori
reviennent souvent des termes comme "régionalisme" et
"fédéralisme". En ce qui concerne le premier, il
est clair dans les écrits de Salvadori le sens
"révolutionnaire": le régionalisme s'oppose au
centralisme, ce n'est pas une simple forme d'adaptation
administrative d'un centre qui, pour mieux fonctionner,
délègue l'exercice de certaines fonctions à
la périphérie. Dans son langage et dans celui de
son temps, le régionalisme est l'affirmation du droit des
petits peuples à ne pas être
considérés seulement comme des "minorités"
auxquelles appliquer des droits résiduels ou des
protections paternalistes, qu'on fait descendre d'en haut; c'est
également l'affirmation - dans un sens
fédéraliste - de la première forme
d'institution de base à laquelle correspond un nouveau
droit basé sur la / les identité/s.
Il est donc bon et opportun de donner aux paroles de Bruno
Salvadori leur juste sens pour en rendre également le
souvenir actuel. C'est là une précision
indispensable pour comprendre sa politique vis - à - vis
de mouvements, partis et forces culturelles nés, non de la
revendication d'une identité historique consolidée,
mais de l'affirmation de droits démocratiques de type
autonomistes, bref là où l'autonomie est un
principe à appliquer globalement. Parler d'autonomie
aujourd'hui est devenu quelque chose de banal; en Vallée
d'Aoste tout le monde le fait, surtout en campagne
électorale. C'est devenu désormais un sport auquel
tout un chacun joue et pense être expert, un peu comme les
Italiens qui se sentent tous entraîneurs lorsqu'il s'agit
de l'équipe "nationale" de football. Essayons alors de
voir plus clairement d'où vient réellement
l'autonomie. Elle naît de raisons géographiques,
historiques, culturelles, et enfin ethniques comme l'explique
bien Bruno Salvadori dans son "Pourquoi être autonomiste":
son ouvrage clé. Toute forme institutionnelle issue de
raisons différentes peut être raisonnable et
proposable, mais ce n'est pas l'autonomie, ou plutôt, ce
n'est pas notre autonomie. Une autonomie qui ne se propose pas de
représenter et perpétuer ces raisons, n'en est
inévitablement pas une.
Nous n'avons malheureusement pas l'habitude de nous pencher
longuement sur le vrai sens des mots et donc nous prêtons
le flanc aux équivoques. Nous définissons ainsi
autonomie ce qui, en réalité, est seulement une
petite décentralisation régionale; et pis encore,
nous appelons fédéralisme la simple concession de
la part de l'État de pouvoirs résiduels aux
régions et aux collectivités locales, tandis que le
fédéralisme est, en réalité,
exactement le contraire, à savoir la construction d'un
système institutionnel qui délègue à
un pouvoir central seulement les compétences qui ne
peuvent être exercées de manière positive au
niveau local. Ce concept est aussi bien éclairci par Bruno
Salvadori dans son livre.
Nous faisons même pire, parce que nous appelons "
démocratie " une organisation de la vie institutionnelle
et le système pour représenter la voix des
citoyens, quand nous ne nous montrons pas capables de comprendre
où est la ligne de séparation entre la
représentation de l'individu et celle de la
communauté dans laquelle il se réalise: si, par
exemple, on reconnaît à l'homme le droit de ne pas
être discriminé pour des raisons linguistiques, mais
on ne reconnaît pas à sa communauté
d'appartenance le droit d'utiliser et d'enseigner cette langue,
ce droit sera un droit nié, étant donné
qu'aucun homme ne peut à lui seul sauver sa propre
langue.
Nous parlions des raisons de l'autonomie, géographiques,
historiques, ethniques et enfin culturelles qui légitiment
l'existence des États qui se disent "nations" justement
parce que constitués pour donner une forme
institutionnelle à la vie de personnes qui ont la
même localisation géographique, histoire,
appartenance ethnique et enfin culture. Si ces mêmes
raisons peuvent légitimer l' existence d'un État de
droit, au cas au dans ce même État il y aurait des
communautés ayant des caractéristiques
différentes, ces dernières ont elles aussi le
même droit que n'importe quel autre de choisir la forme
institutionnelle qui doit les organiser et les
représenter. On dit en effet que ces
caractéristiques marquent l'existence d'une "nation",
c'est pourquoi les États se décrivent comme
nations. Et si c'est de nations et d'États - nation dont
nous parlons, ou - du moins - nous avons parlé
jusqu'à il y a quelques décennies, alors les
règles du droit international qui permettent à
chaque "nation" de s'autodéterminer devraient toujours
être valables. Bruno Salvadori arrive à cette
conceptualisation dans son parcours d'études et de
recherche politique.
D'ailleurs, dans le langage du fédéralisme, le
terme autonomie n'est autre qu'un passage qui reste à mi -
chemin entre l'auto définition et
l'autodétermination. D'autres concepts s'opposent à
celui d'État nation, en particulier ceux qui s'inspirent
d'une référence correcte aux valeurs du
fédéralisme: il se construit - en d'autres termes -
un État des États, dans le sens que la vie des
individus et des communautés part de l'homme, arrive au
stade municipal, régional, continental, mondial, sans
trahir la possibilité que ce qui peut être
décidé et réalisé au niveau local
soit effectivement réalisé ensuite. Par
conséquent le fédéralisme parvient à
nier la valeur même de l'état national. Bruno
Salvadori parvint correctement à cette conclusion aussi.
Au vu de ces considérations, nous pouvons alors conclure
que notre autonomie n'est pas seulement un mécanisme
institutionnel fait de droits, mais une façon de rapporter
notre potentialité d'auto gouvernement à un
système politique plus ample, dans lequel seul ce que nous
ne pouvons traiter et résoudre de nous-mêmes peut
être abordé et résolu dans cette dimension
supérieure.
Il existe la possibilité que les États soient
plurinationaux, c'est - à - dire des États pour
lesquels les différences géographiques,
historiques, ethniques et enfin culturelles, de ceux qui les
composent est une richesse. Cette dernière est à
accroître harmonieusement dans le respect de tous et de
chacun en proposant encore dans cette dimension les mêmes
questionnements qui se posent - dans une dimension macro - quand
il s'agit d'envisager un gouvernement unique du monde.
L'autonomie, notre autonomie, donc, ne peut être
vécue comme une concession que les Valdôtains ont
réussi à arracher à l'État italien,
parce que s'il en était ainsi, il faudrait confirmer qu'il
existe un conflit et une situation conflictuelle entre la
Vallée d'Aoste et l'Italie, qui au contraire n'auraient
pas lieu d'être.
En réalité les Valdôtains sont conscients
des particularités géographiques, historiques,
ethniques et enfin culturelles de la Vallée d'Aoste et ils
sont arrivés à la conviction suivante: Dans une
dimension plus ample de l'organisation institutionnelle de la vie
des citoyens européens, l'Europe, il ne serait pas logique
que les peuples - comme le peuple valdôtain - tout en
étant fortement caractérisés dans un sens
national, invoquent le droit à l'autodétermination.
Cela constituerait une myriade d'États dès lors que
la forme de l'État nation est dépassée. Si
l'autonomie ne veut donc pas dire seulement décentraliser
des pouvoirs de l'État, mais aussi exercer de façon
responsable, dans un sens fédéral, des pouvoirs et
des compétences exercés "comme si" il y avait un
État, toute interprétation différente
devient réductrice et met en crise l'autonomie elle
-même. Si en effet nous oublions les raisons qui sous -
tendent l'autonomie, si nous nions même qu'elles ont une
valeur et que nous les contestons, l'autonomie perd tout son
sens.
Aujourd'hui nous voyons le gouvernement italien se proposer de
réaliser un plan de grands travaux en Italie et les
présenter en faisant du Piémont et de la
Vallée d'Aoste une seule Région. Quand par ailleurs
tel ou tel gouvernement organise la
représentativité des citoyens italiens au Parlement
Européen en identifiant des macro régions et en
mettant ensemble le Piémont, la Lombardie, la Ligurie et
la Vallée d'Aoste, cela veut dire que cet État ne
respecte pas les caractéristiques de la Vallée
d'Aoste et ses particularités, donc qu'il ne respecte pas
l'autonomie. Bruno Salvadori s'opposa fortement à cette
façon de réduire l'autonomie à l'exercice
sous une forme bureaucratique d'un pouvoir qui reste toujours
dans les mains de l'État. Ceci n'est pas grave
politiquement, parce que les forces politiques peuvent trouver
l'inspiration dans des principes autres que ceux de l'autonomie
et du fédéralisme, mais c'est institutionnellement
grave, car l'État italien a donné à
l'autonomie de la Vallée d'Aoste une signification
constitutionnelle.
Les particularités géographiques, historiques,
ethniques et enfin culturelles de la Vallée d'Aoste sont
parfaitement reconnues dans la Constitution de l'État
italien. Tout parti qui va contre ces principes va contre la
Constitution. C'est en vertu de cela que Bruno Salvadori lutta
contre l'hégémonie des partis: il pensait en
substance que les partis étaient au service du
centralisme, même quand ils s'opposent les uns aux autres.
Défendre l'autonomie de la Vallée d'Aoste, n'est
donc pas pour Bruno Salvadori un pur exercice électoral;
comme cela ne peut pas seulement signifier défendre
l'autonomie financière contre de féroces attaques
comme celles qui ont été portées
récemment en mettant en mettant discussion la
répartition fiscale entre la Vallée d'Aoste et
l'État, objet de toute son attention et son
engagement.
Défendre l'autonomie de la Vallée d'Aoste n'est
pas seulement insister sur la valorisation des
éléments culturels et ethniques, comme on a pu
penser à tort que c'était ce que faisait l'Union
Valdôtaine en défendant la langue française.
Défendre l'autonomie est un devoir de toute la
communauté. Certes cela devrait être une obligation
de toute la Communauté valdôtaine qui, en tant que
nation, a renoncé à radicaliser la revendication de
l'autodétermination, droit qu'il serait pourtant
légitime d'exercer. La Vallée d'Aoste, dans
l'esprit fédéraliste, veut respecter avec
l'État un pacte d'unité dans la diversité et
une optique démocratique, en affirmant
précisément que la démocratie ne se fait pas
seulement avec les nombres (120 mille Valdôtains seront
toujours une minorité), mais qu'elle doit se faire en
représentant les droits collectifs et les capacités
d'auto gouvernement.
Les problèmes ne peuvent pas être affrontés
partout de la même façon. Le système de
coordination des diverses autonomies en Italie et en Europe peut
être différent. Le pouvoir central ne devrait jamais
suffoquer les autonomies, mais plutôt il devrait en
créer de nouvelles et les respecter. Bruno Salvadori
pensait qu'il était très dangereux d'affirmer que
les germes de l'autonomie ne sont pas ce qui a rendu possible
l'autonomie elle-même. Si les principes de l'autonomie ne
sont pas géographiques, historiques, ethniques et enfin
culturels, ils ne seraient même pas liés à la
Communauté, au peuple, à la nation
valdôtaine; ce serait le fondement d'une pratique de
décentralisation servant seulement à une meilleure
organisation de l'État. Or, l'État en devant se
réorganiser par rapport aux problèmes et aux
besoins, ses pouvoirs et ses institutions priment toujours sur
tout.
Il faut donc se méfier des autonomismes qui se perdent
dans la tentative de chercher de nouvelles raisons pour
l'autonomie ou de contester certaines de ses raisons historiques.
Si nous entravons la culture et les caractéristiques
ethniques de la Vallée d'Aoste, ce n'est certes pas mettre
en cause simplement la langue française ni comment la
valoriser, mais c'est nier que la langue française a une
raison d'être. Ceci signifie nier à un peuple le
droit à l'existence. Peut-être voulons - nous
arriver à dire que seule une partie de Valdôtains se
reconnaît désormais dans l'autonomie et que, en
conséquence, ses nouvelles caractéristiques
présumées devraient être
représentées de manière organisée et
structurelle. Ceci est faux: les nouvelles motivations
avancées sont les mêmes partout en Italie ou en
Europe, à tel point qu'elles ne justifient même pas
une décentralisation, si ce n'est en passant par la
construction de nouvelles régions sur le papier.
C'est là la façon dont Bruno Salvadori veut
être Valdôtain: affirmer également
qu'être Valdôtain n'est pas une question de race; il
explique ultérieurement qu'en Vallée d'Aoste nous
ne pouvons pas parler de Valdôtains d'origine, de
Valdôtains d'adoption et d'Italiens, mais il existe des
Valdôtains tout court, vu que ce n'est pas une question de
race. (esprit de Genève) La responsabilité de
l'U.V. face à l'autonomie est vraiment grande. L'U.V. est
parvenue à modérer ses principes
déclarés, même si parfois de façon
apparemment contradictoire, et elle peut enfin se
présenter comme le mouvement / parti qui, plus que tout
autre, semble avoir les papiers en règle pour administrer
la Vallée d'Aoste. Pour le faire, le mouvement doit
insister sur les valeurs de l'autonomie, même au nom de
ceux qui bien que ne les reconnaissant pas veulent
bénéficier de ses fruits. C'est l'exercice
éclairé d'une real politik qui nous fait courir
uniquement un risque: finir par croire, nous aussi, que ces
valeurs n'existent plus mais qu'il faut faire semblant qu'elles
existent encore. C'est pourquoi nous les agitons comme un
drapeau, sans même savoir pourquoi il a ces couleurs -
là.
Come si concilia il fatto apparentemente contraddittorio di
considerare la Valle d'Aosta una "Regione", difendendone
strenuamente l'autonomia, e - al tempo stesso - di definirla una
"Nazione", auspicando conquisti la sua piena sovranità? In
realtà la contraddizione è meno sostanziale di
quanto appaia: una stessa terminologia in contesti e in epoche
diverse assume un diverso significato e, addirittura, può
assumere significati opposti. Un esempio: la parola
"nazionalismo" evoca i guasti e le nefandezze del fascismo e del
nazismo, ma nei Paesi Baschi e in Catalogna furono proprio il
nazionalismo basco e quello catalano a contrapporsi al fascismo e
al nazismo.
Nel dopoguerra, in Europa definirsi "regionalisti" significava
essere rivoluzionari, pronti a rovesciare la democrazia
costituita degli Stati. In seguito esser regionalisti ha assunto
il significato che ha ancora oggi: ritenere che lo Stato
centrale, per conservare ed esercitare meglio i propri poteri,
debba decentrarsi, attribuendo alcune competenze alle Regioni,
pure e semplici entità amministrative. Bruno Salvadori fu
regionalista quando il termine aveva un significato
rivoluzionario. Nel dopoguerra essere "autonomisti" equivaleva a
dare al proprio regionalismo una particolare prospettiva
istituzionale: la conquista di un'autonomia regionale che
prevedesse l'esercizio esclusivo, da parte della Regione, di
alcune competenze non soltanto amministrative, ma anche e
soprattutto normative. Bruno Salvadori fu autonomista difendendo
lo Statuto di Autonomia della Valle d'Aosta.
Nel dopoguerra essere "federalisti" significava pensare alla
costruzione dell'Europa; mentre, però, gli Stati miravano
ad aggregarsi, forte era la spinta tesa a creare non l'Europa
degli Stati, ma l'Europa dei Popoli. Bruno Salvadori fu
federalista quando il federalismo mirava a trasformare gli Stati
in senso federale, per render poi possibile l'edificazione
dell'Europa dei Popoli. L'azione di Bruno Salvadori fece i conti
anche con altre dinamiche: ad esempio quella legata al
riconoscimento della Valle d'Aosta come "minoranza etnica", o
come "minoranza linguistica", o come "minoranza
etno-linguistica"; nel dopoguerra la tutela di queste "minoranze"
fu la sola rivendicazione che gli Stati ammisero per evitare che
la loro sovranità fosse messa in discussione. Bruno
Salvadori difese strenuamente le peculiarità della Valle
d'Aosta come "minoranza".
Sostanzialmente una parte dell'azione politica di Bruno
Salvadori è portata, quindi, all'interno del quadro
istituzionale esistente, assumendone il linguaggio. Ma, dice
Bruno Salvadori, la Valle d'Aosta è una Nazione...
L'autonomia della Valle d'Aosta poggia su una serie di
caratteristiche (geografiche, storiche, linguistiche, etniche,
ecc.), le stesse che hanno permesso all'Italia di legittimarsi
come Nazione sovrana e di diventare uno Stato. Nella stessa
condizione della Valle d'Aosta si trovano molte altre Nazioni
comprese e compresse da Stati che si definiscono "nazionali" ed
alle quali può essere applicata questa analisi. Come
è possibile, allora, che stesse caratteristiche non
legittimino uno stesso diritto? I cosiddetti Stati nazionali,
costituiti a seguito di vicende belliche legate alla spartizione
del territorio per ragioni economiche e strategiche, si sono
arrogati il diritto di negare alle altre Nazioni diritti
più ampi di quelli attribuibili alle Regioni e alle
minoranze.
E' comprensibile, allora, come i movimenti separatista,
annessionista, indipendentista, autonomista che scossero la Valle
d'Aosta nell'immediato dopoguerra, possano esser considerati come
il complesso movimento di una Nazione senza Stato che rivendicava
il proprio legittimo diritto all'autodeterminazione. Bruno
Salvadori studiò a fondo questi passaggi chiave della
storia valdostana. Quando l'U.V. si costituì, fece una
scelta di realismo politico ed accettò un'autonomia che
parve dimezzata perfino a coloro che la consideravano come
l'opzione preferibile tra le tante possibili, grazie
all'esercizio dell'autodeterminazione; costoro attribuirono allo
Statuto la valenza di un patto sottoscritto con lo Stato, anche
se fu subito chiaro che lo Stato, invece, non lo considerava
affatto tale. Con il tempo l'autonomia rese possibile alla Valle
d'Aosta un positivo passo in avanti dal punto di vista sociale ed
economico e diventò un valore riconosciuto da tutti i
valdostani. Contro gli attacchi che lo Stato mosse all'autonomia,
Bruno Salvadori fu sempre attento e determinato.
Come, tuttavia, è possibile andare oltre l'autonomia?
Prendendo ispirazione dal federalismo di Emile Chanoux, Bruno
Salvadori concepì l'idea che questa svolta fosse possibile
grazie alle dinamiche di costruzione dell'Europa: volle, quindi,
che l'U.V. partecipasse alle prime elezioni dirette del
Parlamento Europeo (alle quali molte formazioni delle Nazioni
senza Stato in Europa presero parte) per portarvi la vera voce
delle Nazioni senza Stato, o come comunque altrimenti definite.
Gli Stati europei unendosi, tuttavia, si legittimarono l'un
l'altro anche contro le rivendicazioni anticentraliste e da
allora, chiunque in Europa osi parlare di autodeterminazione
è criminalizzato. Bruno Salvadori, tuttavia,
rilanciò ulteriormente la questione. Quando
teorizzò la conquista del 51% dei consensi in Valle
d'Aosta, questa non raffigurò solo il sogno di una U.V.
fortissima, capace di governare la Valle d'Aosta senza il
condizionamento di partiti che prendevano ordini da Roma, ma
anche definitivo passaggio della "question valdotaine" da
faccenda legata ad una minoranza a questione politica legata ad
un Popolo intero. Ecco perché Bruno Salvadori difende
l'identità valdostana e spiega che "essere valdostani non
è una questione di razza"; l'identità collettiva
è frutto di un percorso storico compiuto da un insieme di
persone, trovando comuni modi e stili di vita confacenti con il
territorio, lingue che servano per comunicare all'interno e -
prima di tutto - con i vicini, memoria e progettualità
storiche per condividere tradizioni e progetti di progresso. Il
che cancella ogni possibile equivoco terminologico legato al
significato negativizzato di parole come Etnia e Nazione. Che
cosa è, allora, il Popolo per Bruno Salvadori? E'
l'insieme delle persone che condividono un dato territorio e nel
quale vivono, eredi e continui costruttori di un'identità
collettiva. In barba a tutte le vicissitudini della storia, un
Popolo esiste in questa terra già da 4 mila anni prima di
Cristo, anche se dirsi "valdostani", sembra ricordare solo
l'esser stati "abitanti della Valle di Augusto", quindi evoca la
romanizazione. Invece passano i secoli, si susseguono le
dominazione e le epoche di libertà, ma resta il Popolo. Un
Popolo che prenda coscienza dei propri diritti, nel consesso di
una storia fatta da Stati nazionali, è una Nazione. Chi
può negare, allora, ad un Popolo che si scopre Nazione e
che raccoglie al proprio interno l'intero consenso dei cittadini
ad una proposta di autodeterminazione, il diritto di esercitarla?
Una minoranza dovrà pur sempre accontentarsi di forme
più o meno ampie di tutela, ma un Popolo no. Ecco come e
perché il progetto di Bruno Salvadori legato alla
conquista del 51% dei consensi non è solo un progetto
valdostano, ma una nuova apertura di credito rispetto
all'autodeterminazione. In una costruzione istituzionale ideale,
Bruno Salvadori si immagina il superamento degli Stati, ma se
nella realtà contingente sono gli Stati a detenere il
diritto, allora diventa inevitabile far riferimento a quella sola
forma istituzionale. Anche perché all'interno dell'Europa,
gli Stati hanno costruito per le Nazioni senza Stato forme di
rappresentatività puramente consultiva sia a livello
politico (con il Comitato delle Regioni), sia a livello culturale
(con il Bureau per le lingue meno diffuse... ecco un'altra
invenzione terminologica...), sia a livello economico (con i
progetti Interreg e con la Cooperazione transfrontaliera). E
allora va riletto, infine, un ulteriore contenuto rivoluzionario
nel disegno di Bruno Salvadori: dare alla Valle d'Aosta, Nazione
senza Stato, le prospettive di conquistare non una
sovranità interna, ma la riaggregazione della "Nation
Savoyarde", sparsa in tre Stati diversi. (Appunti di
François Stévenin e Claudio Magnabosco)
A Bruno Salvadori piaceva il fatto che, occupandoci di cultura
e di politica, noi - suoi collaboratori - avessimo nella nostra
sigla uno specifico riferimento all'AZIONE, eravamo, infatti,
l'Equipe d'Action Culturelle. Non fu un ideologo, ma rispetto a
tante problematiche seppe dare un impulso particolare,
infastidendo gli intellettuali che faticavano a far passare idee
che, manipolate da lui, diventavano immediatamente popolari, e
pestando i piedi ai politici che non capivano dove lui volesse
arrivare e non volevano arrivasse da nessuna parte.
A noi mancano le sue contraddizioni, la sua voglia di far
carriera, i suoi limiti ed i suoi difetti, tutte quelle cose che
fecero di lui un uomo vero e non un leader dal carisma rigido ed
inamovibile. Oggi vorremmo proclamare il suo sciopero
linguistico, andare in giro per l'Italia a costruire i suoi
partiti regionali, preparare per lui una nuova lista europea,
litigare con Bossi, spaccare l'U.V. e poi riunificarla... e molte
altre cose che fece o lasciò incompiute. Vicini alla sua
famiglia ed attenti alle vicende della sua U.V. e del suo
S.A.V.T., lo ricordiamo con affetto.
Equipe d'Action Culturelle
Molti contatti tra le forze politiche autonomiste in Italia
risalgono all'attività di padre Egidio Guidubaldi.
Piaccia, oppure no, ma è verità storica:
Guidubaldi arrivò ad Aosta, chiamato da Lanivi, allora
assessore comunale D.C./D.P., presentato a Cesare Dujany, capo
della Giunta regionale, da esponenti degli ambienti cattolici
progressisti di Milano, dove Guidubaldi insegnava
all'Università Cattolica, attuando manifestazioni presso
il prestigioso Centro San Fedele. Siamo a cavallo tra gli anni
'69/'70 e Guidubaldi si diede da fare per l'Università in
Valle d'Aosta, quella della quale parlavamo noi del Gruppo
Giovanile (poi diventato E.A.C.), quella di cui parlava Bruno
Salvadori del C.U.V. Si confrontò (e c'eravamo anche noi,
giovinetti) con il Groupe de recherche socio-linguistique, dove
stavano, insieme, gli intellettuali Alexis Bétemps e
Tullio Omezzoli, anche loro (ma più di tutti Omezzoli)
impegnati per l'istituzione di un'Università in Valle
d'Aosta. Guidubaldi gestiva i centri estivi di formazione per
insegnanti a Gressoney Sain-Jean, attivati con l'appoggio di
Clément Alliod, Sindaco del Comune stesso. Fece suoi i
problemi e l'identità dei walser. L'università
valdostana avrebbe potuto aver sede a Gressoney e già
c'erano le planimetrie di una struttura che l'avrebbe
ospitata.
Nel 1972 Guidubaldi svolse a Milano seminari e conferenze
sull'Europa, poi nel 1973 e nel 1974 promosse convegni sulle
minoranze creando il M.E.M. (Movimento Europeo Minoranze); in
seguito portò in Valle d'Aosta, a Milano, in Sardegna e in
altre regioni il Sergio Salvi che aveva pubblicato le Nazioni
Proibite. Salvi venne ad Aosta, dove all'incontro che rientrava
in un Progetto per la creazione di una università
valdostana, interveniva quello che sarebbe diventato il
più noto sociologo valdostano, Lorenzo Gillo, e anche a
Chatillon dove a gestire il dibattito c'era, ancora e di nuovo,
Tullio Omezzoli. Nel 1973 io partecipai ad un Convegno sui
problemi linguistici a Villasimius, insieme a molti grandi
intellettuali della Sardegna e del sardismo, in particolare
insieme ad Antonello Satta, lettore di Jaca Book ed amico di
Francesco Tassone (leader del Movimento Meridionale) ed Eliseo
Spiga (leader sardista).
Nel '74 Guidubaldi cominciò a parlarci di un Centro
Internazionale che stava nascendo a Milano e noi incontrammo a
Milano il giornalista Carlo Alberto Delfino il quale ci voleva
coinvolgere in una pubblicazione, "Minoranze", concepita da esuli
antifranchisti. L'ambiente era quello del Sindaco socialista di
Milano Aldo Aniasi e dell'estrema sinistra demoproletaria o
giù di lì, con appendici anarchiche e libertarie.
Ma a Milano, con noi c'era anche Padre Davide Maria Turoldo,
friulano e c'erano gli esponenti culturali del movimento
lombardo-veneto, con Agostinetti e De Carlo, che svolgevano un
lavoro culturale parallelo a quello dell'organizzazione
Civiltà Mitteleuropea, fatta soprattutto da friulani,
semplicisticamente definiti "nostalgici" di Francesco Giuseppe. A
Milano ci andammo più di una volta e più di una
volta c'erano, con noi, Cesare Dujany e Pierino Daudry, leader
del movimento arpitano; più volte io raggiunsi Milano con
mia moglie, con Bruno Salvadori e con sua moglie Gisella.
Veniva talvolta anche Gustavo Buratti, amico di Tassone,
esponente dell'A.I.D.L.C.M. Incontrai e conobbi in questo
periodo, Andrea Pamparana (oggi giornalista di Canale 5) con il
quale scrissi articoli su Critica Sociale, periodico culturale di
area P.S.I.., riguardanti l'U.V. e l'Europa; e Toni Capuozzo,
allora piccolo free lance che venne ad Aosta e mi fece
un'intervista. Nel 1975 padre Guidubaldi portò Aureli
Argemi ad Aosta e noi ci legammo subito al CIEMEN, iniziando fin
dall'estate 75 a partecipare alle giornate di Cuixà
(Catalogna Nord), alle quali parteciparono, in anni seguenti,
anche Tassone ed altri, meridionali e sardi, amici di Eliseo
Spiga. Stringemmo i rapporti con Salvadori. Guidubaldi era stato
inviato ad insegnare a Sassari e benché tentasse ancora,
anche da lì, operazioni di collegamento proponendo
l'Università sardo-sloveno-valdostana: (aveva, infatti,
agganciato anche gli sloveni e, tra questi, Andrej Bratuz), la
sua voce si affievolì.
A me non interessano i primati, però fatico ad accettare
che si neghi l'evidenza: Guidubaldi aveva fondato il M.E.M.
(Movimento Europeo Minoranze), con poca fortuna, forse, ma
certamente anticipando tutti e, sicuramente, suggestionando
persone che. come Bruno Salvadori, erano capaci di succhiare idee
e proposte ovunque. Oggi Sergio Salvi non ricorda Bruno Salvadori
e anche Eliseo Spiga non lo ricorda: forse è giusto
dimentichino, perché per loro Bruno Salvadori non
significò altro che un contatto, mentre per altri, per me
ad esempio, mantenere i rapporti è sempre stata una scelta
umana prima che politica, quindi da tutti i contatti che ebbi
nacquero delle amicizie. Un giorno ebbi un complimento da Emile
Proment, l'intellettuale valdostano scomparso da pochi anni e che
venne sempre considerato il simbolo della coerenza: mi disse che
aveva notato con quale trasporto ed affetto io accogliessi,
ricambiato, gli ospiti internazionali dell'U.V.
Il vero problema delle diverse "minoranze" è sempre stato
quello di non intrattenere mai veri rapporti, veri rapporti di
amicizia tra i protagonisti delle battaglie portate avanti per
difenderle. Quando, oggi, Ghizzi Ghidorzi (leader del Partito
Federalista in Italia) dice che Bruno gli propose di costituire
una federazione di movimenti autonomisti, mi vien da sorridere
perché quella idea era già realizzata nel
Parlamento Europeo (non ancora eletto direttamente) dove
Mauritius Coppieters, fiammingo, (lo avevo contattato
perché stavo studiando l'atteggiamento filonazista di
alcune minoranze europee in chiave antistatale), già aveva
creato l'A.L.E., coinvolgendo addirittura il vallone Paul Henri
Gendebien; era anche una proposta C.I.E.M.E.N. che pensava ad una
sorta di Parlamento ombra, dove gli esclusi dal P.E. e quelli in
clandestinità antifranchista, potessero confrontarsi; ed
era, inoltre, una proposta di Guidubaldi con il suo M.E.M.
Non sono fantasie, ci sono documenti, articoli, pubblicazioni...
Salvadori prese a piene mani un po' qui, un po' li, questo
è evidente e non mi importa più di tanto precisare
dove e da chi prese; anche con la F.U.E.V l'U.V. aveva contatti
storici e l'U..V riceveva pubblicazioni delle minoranze varie: le
idee circolano liberamente e tutti possono coglierle; è
certo che non sarebbe male studiare davvero la storia. Salvadori
attinse anche a queste. Ne verrebbe fuori che anche la F.U.E.V.
fu importante, ma lo divenne meno proprio a partire dalla
Presidenza Caveri, troppo preso dalle sue cose interne e troppo
ambiguamente (a mio avviso) preso a fare il contrario di quel
diceva Chanoux: se è vero che Chanoux proponeva di portare
avanti una action autonomiste ouverte ed una action
séparatiste cachée, Caveri fu autonomista, solo
minacciando e tuonando come un separatista.
Nei rapporti internazionali, inoltre, l'U.V. non riuscì
mai a sciogliere la contraddizione del suo appartenere alla
Ethnie Française o alla communauté francophone e,
al tempo stesso, battersi per le minoranze. Solo Salvadori (e poi
io, se mi è permesso prendermi dei meriti), fece un passo
per dire queste cose, quando una riunione di francofoni si tenne
in Corsica.... Michele Columbu, eletto al Parlamento Europeo nel
1984 in una lista di partiti rappresentanti le minoranze che
nacque proprio dall'esperienza di Bruno Salvadori, fu accusato di
non aver favorito la rotazione e l'acceso al soglio europeo di un
valdostano in sua sostituzione. Nessuno mi toglie dalla testa
quel che so: la prima cosa che Michele fece dopo aver partecipato
alla prima seduta del Parlamento Europeo, fu venire ad Aosta: fui
io a riceverlo e ad accompagnarlo; Lèonard Tamone,
Presidente dell'U.V. si preoccupò di riceverlo in sede e a
chiedergli bruscamente quando e come intendesse dimissionare per
far posto al valdostano; poi lo ospitò in un Hotel a quota
2000, gestito da Pierino Danna, un bel personaggio di valdostano
serio e coerente, anch'egli scomparso in giovane età.
Michele era già avanti con gli anni, non era al massimo
come salute ed era accompagnato dalla moglie che desiderava
visitare un po' la Valle d'Aosta; si ritrovò, invece,
relegato in alta montagna, in una località disabitata,
montagna vera, gente zero, negozi zero, comunicazioni zero... e
Michele viaggiava in treno.
Ho voluto bene a Pierino, ma Michele non fu entusiasta della
scelta di essere ospitato lassù ed anzi fu offeso e questo
contribuì a render meno positivi i rapporti che, per
quanto mi concerne, sono sempre stati amichevoli e cordiali,
pieni di stima e di rispetto, tanto che quando nacque Gabriele,
il mio terzogenito, la cui mamma è sarda, io volli
informare Michele. Ed è anche vero che quando al P.E. fu
eletto il sardista Mario Melis, la rotazione a favore dell'U.V.
non scattò di nuovo , ma l'UV prese dei soldi con i quali,
credo, pagò lo stipendio per un po' di tempo ad un
funzionario. Queste cose non si possono dire? Queste ed altre
cose non possono esser sottaciute. Come quella che racconto in
una pubblicazione e che riguarda Pierre Grosjacques, grande
intellettuale nazionalitario valdostano, il quale partì
per andare a Lovagno e partecipare ai lavori di un'internazionale
delle minoranze: peccato che molti partecipanti caddero nella
trappola di aderire, senza sapere che il movimento organizzatore,
il Were Di fiammingo, era filonazista.
Ritrovai la citazione di questo fatto, nel libro di un ex agente
segreto spagnolo, pubblicazione da me recensita per La Stampa,
nel quale si raccontava di alcune riunioni non
dell'internazionale nera, ma dell'internazionale nazi-maoista
(gli estremi insieme) che si tennero in giro per l'Europa ed
anche ad Aosta. François Stévenin mi prende in
giro, perché - dice - da giovanissimo ho fatto il
fascistello, ma ignora che non era un superficiale neanche
allora. Se mi prende in giro, allora deve prendere atto delle
biche dei cosiddetti padri della patria, Grosjacques per primo, e
altri... Come gli unionisti ai quali negli anni 90, sottoposi in
lettura alcune pagine del filosofo fascista Julius Evola, le cui
ceneri sono celate in un ghiacciaio delle montagne di Gressoney,
i quali ritennero che a scrivere quelle pagine fossero stati o
Emile Chanoux o Bruno Salvadori... E che dire del presunto capo
dell'E.T.A. Krutwig Sagredo che tutti in Euskadi conoscono, senza
però riconoscerlo come un capo dell'ETA e, al più,
ammettendo che fu un intellettuale un po' originale che
parlò della Vasconia (un Guidubaldi basco, insomma!).
Tanti in Valle d'Aosta lo ricordano, dichiarando con questo di
esser stati vicini all'ETA; ma Sagredo nei Paesi baschi viene
ricordato anche per una qualche ambiguità ed i valdostani
che lo ricordano non hanno conosciuto nessun altro vero leader
basco.
Gli equivoci sono sempre stati all'ordine del giorno nelle
dinamiche internazionali, fino all'episodio di Crevelle e di
Francité che, ad un certo punto, poté riunire un
centinaio di persone valdostane, disposte ad ascoltarlo, ...
perché non si sa mai. Crevelle tentò di innescare
una rivolta popolare in Valle d'Aosta, sulla base della sua
francofonia, ritenendo che la difesa dell'identità contro
gli attacchi presumibili, mossi da un governo di destra come il
primo Governo Berlusconi, avrebbe portato i valdostani in piazza.
Francité avrebbe messo insieme una force di frappe ed
avrebbe potuto scapparci qualche incidente abbastanza grave da
scatenare una nuova querelle internazionale, infiammare gli animi
e, magari, provocare una vera e propria ribellione e guerriglia.
Ed equivoche furono le scelte di certi indipendentisti (oggi
stanno nell'U.V.) che si avvicinarono ai post-leghisti che
avevano dato l'assalto al campanile di San Marco. Non
perché questi fossero indegni di attenzione, tutt'altro,
ma perché la battaglia nazionalitaria dovrebbe essere
diversa dagli scontri estemporanei..."campanilisti".
Ora sarebbe utile confrontare le esperienze internazionali di
altri, ma purtroppo credo che per alcuni si sia sempre trattato
di cose episodiche e senza continuità e che pochi abbiano
costruito rapporti veri, limitandosi a partecipare ad un
convegno, un congresso, un incontro, ecc. Diverso il discorso che
riguarda la F.U.E.V. Che ne è? Diverso il discorso che
riguarda la Conférence des Communautées de langue
française. Che ne è? Diverso il discorso che
riguarda il Jura. Che ne è? Ecco perché
C.I.E.M.E.N. ed A.P.M. sono importanti, perché sono
contesti nei quali la collaborazione, lo scambio, sono continui e
si fa davvero rete in modo continuativo. E' l'eterno problema che
divide politica e cultura, ideologia e filosofia e - cioè
-, l'uso strumentale del pensiero o il pensiero puro, la
strumentalizzazione o la creatività.
Mi vengono in mente altre cose: quando, in occasione delle
seconde elezioni del Parlamento Europeo, a Roma era discussa la
legge, l'U.V. fu invitata a partecipare ai lavori di una
Commissione parlamentare che aveva funzione deliberante e che
doveva decidere alcuni dettagli della legge elettorale europea.
La Commissione era diretta da un socialista di cui non ricordo il
nome e doveva discutere - tra l'altro - quanti voti sarebbe stato
necessario che un piccolo partito delle minoranze raccogliesse
per poter far scattare a proprio favore i meccanismi
dell'apparentamento con un partito maggiore. Non si dimentichi
che, in quegli anni, il socialista Arfé aveva portato il
P.E. ad approvare una Carta sulle lingue e sulle minoranze e che
si creava il Bureau Europeo per le Lingue meno diffuse, chiamato
a gestire i fondi europei per la tutela delle Lingue. I
socialisti crearono una struttura italiana per gestire quei
fondi, il CON.FE.MI.LI, diretta dal socialista Ardizzone.
L'U.V. inviò a Roma per la discussione di quella legge,
due persone, Ugo Voyat e me, senza precise indicazioni,
poiché sembrò forse che la nostra dovesse essere
una pura presenza di facciata; all'idea di portare la quota di
aggregazione a 30 mila, io che per rispetto tacevo per lasciare
fosse Ugo a parlare, mi limitai a precisare brevissimamente che i
valdostani ritenevano che la legge elettorale dovesse prevedere
un collegio valdostano, mentre l'apparentamento poteva essere
utile ad aggregare e coinvolgere solo quelle minoranze che,
essendo prive di una specifica territorialità o di uno
specifico riconoscimento istituzionale, potevano ugualmente
trovar voce solo attraverso altri dispositivi legislativi.
Affermai che, come par la Valle d'Aosta era indispensabile che
anche sardi, friulani e sudtirolesi potessero accedere al P.E.
direttamente.
Torno al CON.FE.MI.LI che convocò una riunione a Roma per
coinvolgere tutte le minoranze. I socialisti vi avevano
già collocato i propri portavoce sardi, friulani, occitani
(una donna, attrice del cinema, amante di Craxi). Mi presentai
con altri della rete del C.I.E.M.E.N. (c'erano Matteodo, Columbu,
Rossi, ...) e della LE.LI.NA.MI. (Ceschia, Corraine, Giordana,
...), per dire che il CON.FE.MI.LI. era stato costituito solo per
prendere fondi europei, mentre solo le altre erano organizzazioni
storiche. Per il CON.FE.MI.LI , però, c'era - oltre ad
Ardizzone - un valdostano, il professore Pezzoli, ex socialista,
che potè affermare di avere sostanzialmente un mandato
dell'U.V. (da parte di Tamone e di Andrione) a seguire quella
dinamica linguistica. Poiché Presidente del Bureau era
Aureli Argemi, segretario generale del C.I.E.M.E.N., riuscimmo a
far convocare una riunione di un Comité de créance,
che avrebbe dovuto armonizzare le tensioni createsi, ma non ebbi
alternativa: o scontarmi con Pezzoli o lasciar perdere. Presi una
posizione intermedia, ma avevo già verificato che l'U.V.
faceva affidamento su Pezzoli e tutte le organizzazioni storiche
della difesa delle lingue e delle minoranze vennero spazzate
via.
Perfino Columbu passò, infine, al CON.FE.MI.LI, e
Bétemps andò a Roma alla riunioni del CON.FE.MI.LI
senza neppure porsi il problema della sua
rappresentatività, e un leader sloveno che al Congresso di
Saint-Vincent aveva firmato l'appello a Bruxelles contro il
CON.FE.MI.LI, ne divenne Presidente... Questo perché
troppo spesso le cose sono fatte senza un Progetto. Poi se ne fa
la lettura storica e ciascuno, per opportunismo/per l'età
o per altro, ricorda ciò che vuole, me compreso -
ovviamente. Ma non sono paranoico e ciò che è
avvenuto è storia dentro alla quale io sono stato: la
ricordo, la racconto ed è la storia delle contraddizioni
anche dell'U.V. Contraddizioni gravi poiché, allora, la
voce dell'U.V. era importante tra le
minoranze/nazionalità/nazioni senza Stato, come lo era
quella del P.S.d.Az
Tutti abbiamo contraddizioni. Anche Spiga che con Melis al
governo ed al P.E: gestì un Congresso a Cagliari al quale
partecipò Miglio, lasciando intuire fossero in corso
grandi manovre per riavvicinare sardismo e Lega. Così non
era, ma Eliseo giocò il gioco che Melis voleva giocare.
Ora che cosa dovremmo scrivere nella storia, forse che Eliseo
Spiga era in contraddizione o che - strumentalmente - si
valutarono continuamente strade e controstrade? Anche io elaborai
per Grimod, Presidente dell'U.V., un progetto elettorale europeo
nel quale, poiché mi si diceva che erano in corso nuovi
inevitabili confronti con la Lega, proponevo non si raggiungesse
nessun accordo organico, ma alla peggio, si desse corpo ad un
apparentamento; non era certo un'idea mia, era solo una
scappatoia, una ricerca del meno peggio in ordine al quale
proposi che mediatore e simbolo principale fosse il Partito
Federalista Europeo, sostanzialmente cercando la meno
contraddittoria tra le soluzioni che l'U.V: stava cercando.
Propongo questo breve elenco di verità nascoste, come
omaggio a Bruno Salvadori, auspicando che l'anniversario della
sua morte non sia un pretesto celebrativo, ma l'occasione per un
confronto sereno e aperto sulle dinamiche internazionali. Quello
dei rapporti internazionali (tra Nazioni, tra Nazioni senza
stato) fu un suo pallino e fu una sua intuizione.
Caro Bettiza, su La Stampa ha scritto un commento ai risultati
del referendum svoltosi in Francia sulla Costituzione Europea.
Traggo spunto da questo per risponderle, se pur a grande distanza
di tempo e per parlarle di Bruno Salvadori. Se davvero, come Lei
ha affermato su "La Stampa", le ragioni del NO all'Europa sono
così complesse e diverse da rendere impossibile un'univoca
spiegazione dei risultati del referendum in Francia ed in Olanda,
pare assolutamente evidente che anche la ragioni di un SI
sarebbero state diverse e complesse. Il che vuol dire che
l'Unione non si sarebbe rafforzata neppure con un SI che avrebbe
consolidato soltanto le strategie politiche ed economiche che
hanno bisogno di un'Unione e di questa Unione.
Il testo della cosiddetta Costituzione Europea non riesce a
rappresentare le diversità della nostra Europa per il
semplice fatto che l'Unione Europea nasce come Europa dei
mercanti e degli Stati, troppo egoisti per creare qualcosa in cui
credere davvero e troppo pragmatici per consentire che alla
costruzione dell'Unione partecipino davvero tutte le
diversità. L'Europa nasce con un progetto economico
neoliberista: sappiamo bene che le politiche comunitarie
applicate, ad esempio, all'acciaio ed al latte, hanno prodotto
effetti devastanti in alcune aree, creando picchi di
disoccupazione e di crisi. Sappiamo anche bene che le
disuguaglianze economiche tra gli Stati membri sono considerevoli
e rendono inspiegabili le ragioni per le quali alcuni Stati
debbano rispettare parametri di sviluppo che comportano ed
impongono sacrifici inusitati alle classi lavoratrici e non sono
richiesti a tutti i nuovi membri.
Se i lavoratori devono pagare il prezzo della costruzione di
un'economia di mercato europea, riesce loro difficile
riconoscersi in una Costituzione che del lavoro e del welfare
dice così poco. La Costituzione, inoltre, parla di Popoli
ed usa questo termine per indicare solo gli Stati costituiti.
Equivoco da poco? Non direi, poiché i cittadini europei
che appartengono a veri popoli (non parlo di piccole minoranze),
vere Nazioni senza Stato, sono circa 80 milioni! Nella
Costituzione costoro non esistono poiché non solo la
Costituzione confonde popoli e stati, ma quando parla di cultura
e di lingue, fa - di nuovo e soltanto - riferimento alle culture
dominanti ed alle lingue di Stato. Gli europei che non sono
riconosciuti in questa Costituzione sono almeno 80 milioni.
Quindi da un lato ci sono cittadini europei che non si possono
riconoscere in una Europa che sembra nascere contro i loro
interessi e dall'altro ci sono cittadini europei che l'Europa non
riconosce costruendo istituzioni che vanno contro le loro
identità.
Credo che queste siano, sostanzialmente le ragioni per le quali
la costruzione dell'Europa sta incontrando tante
difficoltà: non sono certo le diversità rispetto al
modo di affrontare talune emergenze sociali (eutanasia, aborto,
liberalizzazione delle droghe, politiche di integrazione degli
immigrati, ecc.) a pesare come elemento ostativo. E non credo
neppure sia così rilevante il fatto che la Costituzione
riconosca formalmente, oppure no, le proprie origini cristiane
che valgono, al più nell'evidenziare che oggi l'Europa
è un crogiolo di fedi e di religioni che devono imparare a
vivere insieme ed a rispettarsi, evitando che la fede entri nella
sfera squisitamente politica delle decisioni politiche. Credo,
piuttosto, che ci siano molteplici tipologie di diversità
delle quali tener conto, ma che due siano quelle sostanziali:
quelle legate all'economia e quelle legate all'identità.
Non è possibile costruire un'Unione nella quale il numero
degli esclusi sia così rilevante, come quello della nostra
Unione Europea; i lavoratori e i popoli sono esclusi e non
potendo far valere il loro specifico identitario come strumento
di contrapposizione politica, lasciano che altre siano le
resistenze concretamente frapposte.
In Europa ci sono troppi esclusi e questo non è
sicuramente democratico e se questo alimenta gli egoismi degli
Stati e le paure degli esclusi, non vedo come se ne possa negare
l'evidenza e la legittimità. Che, poi, piaccia oppure no
c'è ed è di grande rilievo, la questione degli
immigrati: sono milioni e stiamo scrivendo una Costituzione nella
quale essi non esistono. Contribuiscono alla crescita economica,
si insediano in Europa, costruiscono le loro famiglie imprimendo
spinte considerevoli anche alla crescita demografica e noi
scriviamo una Costituzione che, tempo una generazione,
sarà completamente estranea a milioni di nuovi europei:
non più immigrati clandestini e no, ma persone nate in
Europa ed inserite in Europa con tutte le componenti di una loro
diversità che o sappiamo integrare o si
ghettizzerà. Non credo che il progetto di costruzione
dell'Europa fallirà perché in Olanda sono
facilmente permesse le unioni gay e la libera circolazione degli
spinelli e in Italia no. Credo piuttosto che quando gli esclusi
troveranno un denominatore comune, inevitabilmente giungeranno
alla conclusione che o nascerà una Europa diversa, oppure
l'Europa non nascerà affatto o - peggio - nascerà
in Europa la dittatura democratica del mercato e dei
mercanti.
Oggi tutto il bene e tutto il male sembrano legati all'Europa;
ogni governo accolla all'Europa le responsabilità dei
fallimenti e delle difficoltà. Mi sorprendo sempre di
trovare, soprattutto tra immigrati africani, il senso di
appartenenza all'Africa, che ha dato loro così poco che
hanno dovuto andarsene, eppure si sentono e si definisco tutti
profondamente africani. Eppure se c'è nel mondo un
crogiolo di profonde diversità questo è proprio
l'Africa. L'Europa non è sentita allo stesso modo dagli
europei. Probabilmente stiamo costruendo una falsa
identità europea, così come abbiamo costruito una
falsa identità stato-nazionale, negando le vere
identità, quelle dei popoli e delle nazioni senza Stato.
Se una soluzione va, quindi cercata, è quindi alla cultura
che bisogna guardare davvero come strumento di costruzione di una
vera unità nella diversità. Venticinque anni or
sono moriva in un incidente stradale un giovane leader valdostano
che si impegnò a fondo per costruire l'Europa dei Popoli.
Si chiamava Bruno Salvadori e sono certo che il nome non le sia
sconosciuto: se lo è valga questa lettera a indicarlo a
lei, così attento alle dinamiche europee.