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Settembre 1945 - Settembre 2005

Per una storia dell'Union Valdotaine

di Claudio Magnabosco

Quando l'U.V. era un movimento ...

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L'U.V. nasce 60 anni or sono (13 settembre 1945) come movimento per la difesa degli interessi, dei diritti e dell'identità del popolo valdostano ed in essa confluiscono personaggi che militano nei diversi partiti...italiani: dal Partito Socialista, al Partito Comunista, dalla Democrazia Cristiana, al Partito d'Azione. Nacque, quindi, per unire i valdostani sui valori comuni, non per dividerli sulla base di ideologie che allora avevano sì grande peso e rilevanza. Nel momento in cui l'U.V si costituisce, la Valle d'Aosta esce, come l'Europa intera, dalla seconda guerra mondiale e l'atavica dignitosa povertà della popolazione valdostana non deve negare ai valdostani un futuro migliore.

Affinché quel futuro fosse davvero migliore, molti valdostani si erano interrogati, prima della fondazione dell'U.V., su quale potesse essere l'assetto istituzionale della Valle più adatto a renderlo possibile: qualcuno pensava ad annettere la Valle d'Aosta alla Francia, sorella per lingua e cultura; altri immaginavano di fare della Valle d'Aosta un Cantone svizzero, visto che in Svizzera il federalismo era una realtà; altri ancora non disdegnavano di portare avanti l'utopia di fare della Valle d'Aosta un Principato da consegnare ai Savoia che - sembrava inevitabile - avrebbero presto perso il trono d'Italia; altri ancora preconizzano di assicurare alla Valle d'Aosta un'autonomia in seno allo Stato italiano...

Furono anni difficili, anni nei quali i democratici italiani, per riparare i torti commessi dal fascismo contro i valdostani e per evitare che prendesse davvero piede in Valle d'Aosta il progetto separatista che dimostrava di avere un grande appoggio popolare, assicurarono che la Valle d'Aosta, eretta in Regione, avrebbe avuto uno Statuto di Autonomia, uno Statuto speciale. Così, mentre fervevano le discussioni e si infiammavano le piazze, l'idea della Autonomia prendeva corpo e sopravanzava, se non altro per concretezza, tutte le altre. In attesa che un testo autonomistico venisse scritto, alla Valle d'Aosta vennero applicati i Decreti Luogotenenziali, prima forma di autonomia. Il contenuto dei Decreti, tuttavia, non era soddisfacente: anche parlando soltanto di autonomia, i valdostani si aspettavano più diritti, più competenze, più libertà di quelli che i Decreti rendevano possibili.

Ci voleva, quindi, un forte movimento popolare che sostenesse le ragioni di una rivendicazione più ampia e, al tempo stesso, raccogliesse il meglio di tutto quel variegato mondo di "ribelli" e "sognatori" che, sostanzialmente, in nome dell'autodeterminazione, ipotizzavano perfino la creazione di una Repubblica, di uno Stato Valdostano e consideravano qualsiasi altra conquista o concessione, come incompleta. Del resto ad Emile Chanoux è attribuito lo slogan che spiegherebbe la complessità della situazione e delle rivendicazioni valdostane: "action autonomiste ouverte, action séparatiste cachée".

L'autodeterminazione è rivendicazione apparentemente radicale e rivoluzionaria, ma nella sostanza, non è troppo diversa da quel federalismo che nella vicina Svizzera faceva dei Cantoni vere e proprie Repubbliche, quindi degli Stati, federati tra loro. Poiché del federalismo esistevano e si proponevano in Italia almeno due anime (la prima tesa a ricostruire lo Stato stesso, creando una federazione di popoli e regioni, la seconda protesa verso la costruzione di un'Europa che federasse i suoi Stati, senza modificarne l'assetto interno), il federalismo non parve essere ai centralisti una minaccia reale. L'U.V. nacque in un momento molto delicato, basti pensare che dovette ottenere un'autorizzazione ad esistere direttamente dal Comando Alleato, dagli ...americani, attenti e preoccupati per quel avveniva in Valle, soprattutto dopo che De Gaulle aveva invaso parte della Valle ed era stato costretto a ritirare le proprie avanguardie per evitare uno scontro armato tra alleati, ma mentre un gran numero di valdostani chiedeva il plebiscito annessionista/separatista; un'ipotesi, questa, tanto credibile che quando i leader mondiali si ritrovarono a Yalta, pare avessero data per scontata l'annessione della Valle d'Aosta alla Francia.

L'U.V. nacque stando nei limiti della democrazia possibile a quei tempi ed in quel contesto, l'Italia, e, pur preconizzando la conquista - nel futuro - delle più ampie libertà, sposò la proposta autonomista, facendo del progetto federalista un mito ed un'ideologia. Gli uomini dell'U.V. erano convinti che la ricostruzione socio-economica della Valle d'Aosta fosse possibile solo se i valdostani potevano iniziare immediatamente ad autogovernarsi: per questo accettarono le pur ridotte forme di autonomia previste dai Decreti e, poi, dalla Statuto. Non si può dimenticare che il movimento dell'U.V. nacque facendo propri tutti i principi espressi nella dichiarazione di Chivasso nel 1943 che preconizzava la trasformazione dello Stato italiano in Stato federale.

Strano che nessuno si sia avveduto del contenuto davvero rivoluzionario del federalismo, molto più estremo dello stesso separatismo e della rivendicazione della creazione di uno Stato valdostano, poiché il vero federalismo preconizza il superamento degli Stati nella loro stessa forma istituzionale, creando una successione concatenata di Stati (lo Stato comunale, lo Stato regionale, lo Stato italiano, lo Stato europeo), giungendo a proporre la creazione di un governo mondiale, ma segnando di fatto la morte dello Stato nazionale, con i suoi confini artificiali e con la sua sovranità. Il progetto federalista, per Emile Chanoux, martire della Resistenza valdostana, era la ricetta per evitare che si riproponessero i conflitti causati dai confini e dalle lotte tra Stati e per consentire il superamento della condizione di dipendenza cui, in questo scenario, erano costretti i piccoli popoli.

Più che il separatismo, quindi, gli stato-centralisti avrebbero dovuto temere il federalismo che, invece, parve loro più facilmente annacquabile: iniziò, infatti, il perverso percorso della trasformazioni dei principi federalisti in pura e semplice affermazione di diritti residuali a comunità periferiche alle quali applicare alcune forme di decentramento di poteri, sempre saldamente in mano allo Stato. Parve, cioè, che l'autonomia rappresentasse una sorta di applicazione del federalismo, mentre - in realtà - si trattò di un mero strumento di decentramento amministrativo. Come tale venne contestata dai voldostani che ne definirono i contenuti "endroumia". L'U.V. nasce, quindi, per una scelta concreta: difendere realisticamente gli interessi dei valdostani, stando nel quadro della situazione istituzionale che si stava disegnando, trovando alleati negli uomini di tutte le forze politiche democratiche presenti in Valle, unendo invece che dividendo i valdostani.

Il giorno in cui la Valle d'Aosta fosse stata avvero libera, i valdostani avrebbero potuto tranquillamente esprimere orientamenti politici ed ideologici che non avrebbero più danneggiato la costruzione di un futuro veramente libero per la Valle d'Aosta: infatti, Roma sembrava e si era dimostrata lontana e ostile e se i partiti ne fossero stati una succursale, riproponendo in Valle il confronto e le litigiosità esistenti in Italia, la Valle d'Aosta non avrebbe avuto nessuna opportunità per crescere. Ma se i valdostani si fossero divisi prima, e se lo avessero fatto in ossequio ad interessi non valdostani, ciò non avrebbe fatto altro che completare il processo di disidentificazione e di denazionalizzazione posto in atto fin dal momento della nascita dello Stato italiano e protrattosi fino al fascismo.

Al momento in cui l'U.V. si costituisce, assume una responsabilità: essere un movimento democratico attivo nel gioco democratico delle istituzioni della Repubblica italiana. Una responsabilità non da poco, per un movimento nato - in realtà - per reagire contro i contenuti troppo annacquati di Decreti Luogotenenziali che anticiparono i contenuti dello Statuto, facendo intendere quanto anche questi sarebbero stati, tuttavia, lontani dalle aspettative dei valdostani. Una responsabilità non da poco, poiché a fronte di un intendimento esplicito di ridimesionamento dei contenuti dell'Autonomia pur promessa ai valdostani, era assolutamente indispensabile contrapporre la voce di un interlocutore autorevole ed unico, evitando che la Valle d'Aosta finisse col non avere voce in capitolo solo perché ne aveva troppe, disperse e velleitarie.

In questo modo l'U.V. divenne la voce democratica di un popolo che poté minacciare l'impossibilità di controllare la reazione popolare qualora lo Stato italiano non avesse mantenuto fede alle promesse. Sostanzialmente, gli unionisti credono che poiché l'Italia si sta riorganizzando democraticamente, è con questa democrazia che bisogna fare i conti, ritenendo sia comunque cosa più positiva che doverli far con una monarchia (che tradì le proprie origini nazionali) e con un fascismo (che tradì la patria che dichiarava di voler servire). L'U.V. afferma che la Valle d'Aosta possiede caratteristiche storiche, culturali, geografiche, etniche e che queste devono trovare riconoscimento, valorizzazione e sviluppo in uno Statuto di Autonomia all'interno di uno Stato democratico. Per gli unionisti lo Statuto di Autonomia doveva possedere tutte le caratteristiche di un patto sottoscritto tra la Comunità Valdostana e lo Stato italiano; doveva caratterizzare una forte autonomia che, nello spirito se non nella sostanza federalista, attribuisse tutte le competenze alla Regione e lasciasse allo Stato solo le competenze in quelle materie, come la moneta e la difesa, che non avrebbero potuto trovare adeguata gestione nel solo livello regionale.

Pensavano, quindi, che quella che venne chiamata da allora "Regione Autonoma", in realtà fosse una Nazione. Si batterono, infatti, i valdostani del tempo, affinché fosse riconosciuto loro uno specifico status identitario, quello di minoranze etnica. Si è fatto un gran parlare di cosa volesse dire "minoranza etnica", definizione che rischiava di esprimere un qualche aspetto razzistico e che, invece, ebbe da sempre una valenza culturale: poiché lo Stato si definisce nazionale, tutti coloro che hanno storia, identità, lingua, cultura diverse da quelle della maggioranza della popolazione costituente lo Stato, sono una minoranza... nazionale. Ora definire una minoranza "nazionale", avrebbe significato riconoscerle il diritto a chiamarsi fuori dal territorio e dal governo di quello Stato dominante, mentre esserne considerata, semplicemente una minoranza etnica, definisce il possesso solo di alcune caratteristiche specifiche che lo Stato, essendo democratico, tutela.

E che questa sia l'ottica, lo dimostra anche il testo della Costituzione repubblicana che all'articolo 6 assicura che "lo stato tutela le minoranze linguistiche", trovando un'ulteriore definizione per evitare di indicare una diversità nazionale. Minoranze etniche, minoranze linguistiche, minoranze etno-linguistiche, sembrano - cioè - possedere alcune caratteristiche oggetto di tutela, ma di non possedere tutti quegli elementi che, rendendole nazionali, avrebbero fatto venir meno l'unità dello stato nazionale, la costruzione dell'identità nazionale italiana ed il centralismo politico dello Stato, esercitato attraverso i suoi partiti. I partiti, ecco quale fu il ruolo dei partiti: giocare il gioco di una democrazia centralista che mal sopportava le spinte e le rivendicazioni autonomiste, tanto che poche "regioni" ottennero subito uno Statuto speciale: la Valle d'Aosta, la Sicilia, la Provincia di Bolzano, la Sardegna, ma del grande movimento che scosse l'Italia nel dopoguerra, ipotizzando che altre "regioni" ottenessero il riconoscimento di una specialità, non resta nulla.

I partiti divennero lo strumento per l'esercizio di una democrazia centralista e, poco a poco, parve chiaro che gli unionisti non avrebbero potuto restare davvero uniti se non si fosse prodotto un qualche chiarimento interno. Alla possibilità iniziale di aderire all'U.V., conservando anche la tessera di un vero partito politico (e l'U.V., ricordiamolo, era inizialmente solo un movimento!), si sovrappose, automaticamente, l'impossibilità della cosiddetta doppia tessera. L'U.V. continuò a definirsi un movimento, ma sostanzialmente ben presto si trasformò in un partito, partecipò alle elezioni, elaborò tesi politiche, cercò alleanze con alcuni partiti, si scontrò con altri.

Perché? Perché in una buona parte dei suoi stessi fondatori prevalse la scelta di stare in un partito piuttosto che seguire unicamente il movimento ed i partiti, tutti, erano... stato-nazionali, cioè seguivano indicazioni centralistiche. Questo spiega, almeno in parte, come sia stata possibile la lunga collaborazione che l'U.V. poté tessere con le sinistre e con il P.C.I., addirittura governando la Regione con le sinistre e contro una D.C: le cui origini cattoliche a tutta prima potevano sembrare consone alle caratteristiche del popolo valdostano, moderato, conservatore, cattolico. Governò a lungo, invece, e positivamente, con le sinistre, addirittura quando a Roma i comunisti erano considerati nemici della democrazia. E questa esperienza venne meno solo quando in una parte della sinistra, i socialisti, prevalse la scelta di dar corpo anche in Valle d'Aosta, al cosiddetto centro-sinistra che si poneva al governo dello Stato.

La nascita dell'U.V.: va letta, tuttavia, anche come una reazione ai contenuti dei Decreti Luogotenenziali, che non erano considerati, in alcun modo soddisfacenti. Che questa sia la verità lo dimostra anche il testo del progetto di Statuto di Autonomia elaborato dal Consiglio Valle nel '47, quando l'U.V. era appena nata e in essa, lo ripetiamo, stavano uomini di diverso orientamento; quel testo invertiva la prospettiva ed affermava che un'autonomia per essere speciale non deve contenere delle limitazioni di competenze, ma deve comprenderle tutte, indicando invece materie residuali di competenza dello Stato. La popolazione valdostana non percepì la complessità della stessa natura del movimento autonomista, ma - semplicemente - lesse la nascita del movimento come un passo d'attuazione verso quel "maitres chez-nous" che era diffusa volontà di tutti.

L'U.V. non nacque come un movimento anti-italiano, ma piuttosto come un movimento valdostano, ...non italiano, in una Valle d'Aosta che era stata italianizzata a forza, giocando con il rapporto fiduciario (il rispetto di un patto storico, foedus, prefederalista) che i valdostani avevano con Casa Savoia e con la mancanza di una classe politica capace di portare la popolazione contro il fascismo fin dalle sue prime battute. L'U.V. doveva guidare i valdostani verso la conquista delle libertà, ma non ottenne i risultati sperati e si accontentò di cercare di amministrare al meglio le poche libertà ottenute. Ci furono pesanti contestazioni dei contenuti dello Statuto e ce ne erano state contro i Decreti Luogotenenziali, ma c'era anche la coscienza che nessuna libertà valdostana sarebbe stata rispettata davvero senza quelle garanzie internazionali la cui ragione posava sull'identità dei valdostani, non-italiani e, quindi bisognosi di una tutela esterna al dominio dello Stato italiano le cui mire uniformatrici si proponevano in soluzione di continuità con il passato monarchico-liberale e fascista.

La pagina della mancata conquista delle garanzie internazionali, tuttavia, è ancora da scrivere e, a quanto è dato sapere, fu Severino Caveri ad assumersi la responsabilità di non consegnare il dossier che la Nuova Zelanda era disposta a sostenere a favore dellaValle d'Aosta. C'era bisogno di pace ed era indispensabile iniziare l'opera di ricostruzione; ogni conflittualità avrebbe reso più difficili questi processi e fu, probabilmente scelta adottata con grande senso di responsabilità storica tirar la corda con discernimento. L'U.V: dimostrò di possedere questo senso di responsabilità.


Caro Robert, caro Augusto: Lettere aperte a Robert Louvin e ad Augusto Rollandin

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Premessa

Che succede in Valle d'Aosta? Alle elezioni regionali del 2003, l'U.V. ha conquistato la maggioranza assoluta dei seggi nel Consiglio regionale, 18 su 35, ma questo risultato, invece di consolidare il movimento storico dell'autonomismo valdostano alla guida della Regione, ne ha fatto scoppiare le gravi contraddizioni interne. Alcuni personaggi politici sono in conflitto. Se si trattasse di una questione di ambizioni il conflitto sarebbe risolto facilmente, poiché nella sua posizione di strapotere l'U.V. può soddisfare le ambizioni di tutti.

Se si trattasse di una questione ideologica, saremmo di fronte a qualcosa di più complicato, visto che per ragioni ideali (meglio dirle tali che ideologiche), molti esponenti dell'U.V. se ne sono andati via dall'U.V. nell'arco degli ultimi 15 anni. Non saremmo, cioè, di fronte ad un problema del momento, ma all'esplodere di un conflitto di lunga data. Ma neppure soltanto di questo si tratta, visto che ultimi fuoriusciti hanno costituito nel 2005 un nuovo movimento politico, chiamato "Aosta Viva", che ha partecipato alle elezioni comunali del capoluogo regionale in opposizione all'U.V., cercando uno spazio e rivolgendosi ad un elettorato in parte diversi da quelli dell'U.V., giungendo a formulare l'ipotesi che l'U.V. ed i suoi principi, siano superati. Questo proprio nell'anno del 60° anniversario del movimento.

Si tratta, allora, di uno scontro fra leader per la gestione del potere politico. Ho ritenuto opportuno rivolgermi, per questo, al leader carismatico dell'U.V., Augusto Rollandin ed al leader della ultima fronda di fuoriusciti, Robert Louvin, per fare con loro il punto della situazione. Si rilegga, tuttavia, a compendio di queste osservazioni, la ricostruzione storica del disagio interno all'U.V., analizzato nel saggio "Per una storia della Valle d'Aosta". E si legga il breve testo "L'etica del silenzio" che inviato per la pubblicazione nelle pagine regionali de "La Stampa", sintetizza la situazione.

L'ETICA DEL SILENZIO
Emile Chanoux junior pose la questione etica, molti anni or sono, sostenendo che nessun amministratore dell'U.V. doveva restare in carica se nei suoi confronti esistevano sospetti o procedure giudiziarie. Quando alcuni sospetti lo toccarono, considerò la cosa insopportabile e fece una scelta drammatica. Louvin pone la questione morale con 15 anni di ritardo, nel corso dei quali, mentre lui diventava Assessore e Presidente, altri veri unionisti lasciavano l'U.V.

A nulla vale prendersela con il Presidente dell'U.V.: il Presidente dell'U.V. raramente ha avuto un ruolo determinante; lo si chieda a Tamone che neppure fu rieletto in Consiglio regionale quando guidava l'U.V. che portò i Louvin e i Rollandin in Consiglio regionale. Quello fu uno scandalo: che le cordate contrapposte, tagliassero il passo proprio al leader politico. Chi è stato nella stanza dei bottoni, però, non può non dirsi responsabile di ciò che è stato fatto da "colleghi" dello stesso partito, della stessa legislatura, della stessa maggioranza, della stessa Giunta; possibile che non abbia visto, capito, denunciato le negatività ed i reati che altri commettevano, se di reati si tratta? E se non ha visto, capito, denunciato come può pretendere di esser considerato capace di gestire la cosa pubblica in modo nuovo? Chi è stato dentro all'U.V., ha taciuto per 15 anni e se ne esce sconfitto nella battaglia interna, come può pretendere di esser considerato vincente fuori e contro di essa?

Una parte dei problemi dell'U.V. è nata con la regola suicida del limite dei mandati che ha moltiplicato gli appetiti; infatti, poiché ad avere carisma e capacità sono in pochi, inevitabilmente per entrare in Consiglio regionale ci vuole l'aiuto dei veri leader: ecco dove nascono i clientelismi, le cordate interne e tutto il resto. I guai che Rollandin ha avuto con la giustizia sono stati considerati da alcuni unionisti come una persecuzione della magistratura, da altri come l'effetto dei tempi (l'intera classe politica italiana è stata messa sotto accusa!), da altri ancora come il risultato di un metodo sbagliato di far politica. Ma gli avversari dell'U.V. e, fra questi, in primo piano, gli attuali alleati di Louvin, li hanno sempre letti, invece, come il segno di una corruttela la cui radice era da ricercare non negli uomini, ma nelle stesse ragioni ideali dell'U.V., in nome delle quali la Valle d'Aosta otteneva... "privilegi" ingiustificati.

Per questo all'interno dell'U.V., si è sempre ritenuto che chi lanciava accuse o proclamava verità, non si avvedeva che questo andava a tutto vantaggio dei nemici più che dell'U.V., dell'Autonomia. Spesso, così, una sorta di "ragion di Stato" ha giustificato errori e comportamenti non proprio lineari da parte di esponenti dell'U.V. Questa è una verità scomoda, ma è la verità.

I valori? Chi li ha traditi, i politici pragmatisti o gli intellettuali che non li hanno difesi e non hanno prodotto studi, pubblicazioni, impegni internazionali, progetti di vero federalismo, tesi congressuali coerenti? L'encefalogramma piatto della cultura genera i mostri del pragmatismo e se non si dimostra il primato della cultura, lasciando che, ad esempio, passino scelte come la monetizzazione linguistica (la famosa indennità di bilinguismo), perché mai stupirsi, poi, che l'intero sistema identitario sia considerato una macchina per gestire privilegi? Se trasformiamo i valori in buoni di consumo, i politici gestiranno la distribuzione dei buoni. Per rispetto della storia, infine, non si paragoni la defenestrazione di Perrin con il ribaltone che, nel '90, vide tutti i partiti alleati contro l'U.V., perché se si propone un così grossolano errore interpretativo, si induce a credere che sia sbagliato anche tutto il resto dell'analisi.

Lettera aperta a Robert Louvin

Sono stato tra i tuoi estimatori, di più, se possibile... tra quelli che hanno creduto nelle tue qualità fin da quando frequentavamo gli stessi ambienti internazionali e tu eri poco più che un ragazzino. Forse ricorderai che Aurelio ti prendeva in giro con affetto, dicendo che "Robert studia da Presidente". Ho fatto parte del gruppo dei "n'en gagnà" (abbiamo vinto!), quelli che fecero campagna elettorale al tuo fianco e festeggiarono la tua elezione in Consiglio regionale, carichi di entusiasmo e di speranza.

Abbiamo poi atteso con pazienza che tu desti prova del tuo valore, sempre fiduciosi, sicuri che quando - ad esempio - proponevi la tua candidatura ad un posto di prestigio e poi la ritiravi "nell'interesse del Movimento", questa fosse la prova della tua maturità politica. Prima o poi sarebbe venuto il tuo momento. Poi venne quel momento: diventasti Assessore regionale e tutti capimmo che eri un politico, non un amministratore e fummo quindi indulgenti nel valutare i tuoi risultati onesti, ma non particolarmente esaltanti, pronti a salutarti nelle nuove vesti di Presidente del Consiglio. Un buon Presidente che regalò alla Valle d'Aosta più di una bella figura in Italia ed in Europa.

Tutti abbiamo creduto non sia stato facile per te avere un ruolo politico in tempi tanto difficili come quelli che la Valle d'Aosta ha attraversato; diventasti anche Presidente della Giunta (o della Regione, come si dice oggi), assicurando un'equilibrata amministrazione e diventando l'unico Presidente a non essere inquisito dalla Magistratura. Qualità e meriti che dovrebbero essere del tutto normali, ma che negli ultimi anni non lo sono stati e che, comunque, ti accomunano ad un altro personaggio, in carica fino a pochi giorni or sono, il rollandiniano Perrin, sulla cui onestà metto e credo mettiamo tutti, la mano sul fuoco. Da molto tempo nell'U.V. ci sono gravi problemi interni, eppure tutti quelli che lo hanno evidenziato non hanno mai avuto la tua esplicita solidarietà.

Qualcuno ha fatto passi avventati, dando corpo al disagio con scelte "alla Salvadori" (rompere e poi ricostruire!), ma non si trattava di personaggi di primo piano e la rottura è risultata inefficace. Altri sono semplicemente usciti dall'U.V. o non hanno rinnovato la loro adesione; 15 anni di scelte anche dolorose e difficili, come quella della segretaria che lasciò l'U.V. di cui era una vera pasionaria, perché si sentiva incompatibile con Rollandin; o come quella del Segretario del Movimento che se andò dopo aver subito una batosta elettorale, nell'anno del tuo stesso ingresso in Consiglio regionale. Lui, Léonard Tamone, si mostrò ingenuo, ma coerente, nell'aspettarsi di essere votato "soltanto" perché lo meritava e lavorava non per se stesso, ma per il movimento (come quello che era stato il suo leader di riferimento, Mario Andrione); tu fosti in gamba a cercare e a trovare voti, creando una tua lobby, mentre Rollandin costruiva - si dice - la sua clientela.

Tutti noi segnammo, allora e da allora, uno strano confine morale: chi cerca voti valdostani è onesto e coerente, chi cerca nuovi voti è incoerente e disonesto. La prova? Uno stretto collaboratore di Rollandin venne pescato con le mani nel sacco a barattare voti, denaro e favori, avendo "la sfortuna" di concludere questi "affari" con dei meridionali, per natura mafiosi, borbonici, levantini e quant'altro... (mi si legga, prego, con ironia). Ecco riaffiorare in questa valutazione l'anima della vecchia U.V., orgogliosamente valdostana, etnica, rurale, fedele alla chiesa ed ai notabili, contrapposta alla nuova U.V., "senz'anima", che lascia la radice rurale e montana (benché Rollandin non sia parte del notabilato borghese aostano, ma provenga dalla periferia rurale e montana!) e si butta nella politica businnes, dove contano solo i risultati e del tutto diverse sono le regole e la morale (mi si continui a leggere, prego, con la stessa lucida ironia).

I fatti non stanno proprio così, ovviamente, e ne sto esasperando la narrazione per spiegare come abbia potuto radicarsi in Valle d'Aosta e nell'U.V. un certo automatismo nel ritenere che l'attinenza alla tradizione sia sempre positiva, mentre le innovazioni siano demoniache, a prescindere dal fatto che le persone che cavalcano la tradizione o il rinnovamento siano oneste oppure no. Se questo è vero, vuol dire che nell'U.V. si è infranta quella naturale compresenza di "tradition et renouveau" che doveva caratterizzarne la coerenza. Se questo è vero bisogna chiedersi come sia possibile che i politici fortemente caratterizzati in quanto appartenenti al notabilato, si facciano portavoce della base rurale, mentre gli uomini della base rurale che acquisisce spazio, vogliano andare oltre ed occupare gli spazi dei notabili.

Se questo è vero bisogna chiedersi se una politica che favorisce, comunque, in modo esplicito il mondo rurale, sia per sua natura onesta (poiché onesti pregiudizialmente ne sono i componenti), mentre una politica volta ad altre componenti sociali (immigrati compresi), sia per natura disonesta (poiché tali ne sarebbero i componenti). La realtà ci dice che lo scandalo del risanamento del bestiame non ha riguardato persone legate a capibastone mafiosi, ma il mondo rurale, ecc. Abbiamo introdotto nella politica, in questo modo, alcune valutazioni aprioristiche, che si sono tradotte, successivamente, nell'avvalorare agli occhi dell'opinione pubblica la tesi che esser disonesti, ma valdostani, è meno grave che esserlo senza essere valdostani. Se il problema è l'onestà, allora dovremmo parlar chiaro. Chi contesta Rollandin ne contesta i metodi o l'onestà?

Ci si basa su pregiudizi, perché le irregolarità non possono esser giudicate ammissibili se favoriscono gli agricoltori valdostani, inammissibili se favoriscono altri. E non ci sono irregolarità oneste e irregolarità disoneste, per cui anche all'interno dell'U.V., tra i tanti che hanno avuto problemi con la giustizia alcuni sono considerati sicuramente innocenti, mentre altri sono sicuramente colpevoli anche di quel che non è stato imputato loro. Qualcosa stride nella scala dei valori. Fu Chanoux jr a porre all'attenzione dell'U.V. la questione morale. Senza sostituirsi alla magistratura, riteneva che nessun leader del movimento potesse aver problemi con la giustizia, conservare una leadership e posti di rilievo, senza aver chiarito tutte le pendenze. Riteneva, cioè, che l'uomo pubblico dovesse essere al di sopra di ogni sospetto.

Quando alcuni sospetti iniziarono a circolare sulla sua persona, non li sopportò e si uccise, forse stravolto dal peso di esser portatore di una questione morale "contro" il movimento politico nato dal ricordo e dal pensiero di suo padre, e di aver deciso di fare un gesto politico eclatante: lui che aveva partecipato all'esperienza della spaccatura dell'U.V. contro lo strapotere caveriano e poi alla ricomposizione dell'U.V., era diventato il leader di un nuovo soggetto politico (che, a causa della sua morte, non vide mai davvero la luce). E' dal momento del discorso che Chanoux fece al Congrès dell'U.V. del '90 che le cose avrebbero dovuto prendere una piega diversa. Nessun indagato avrebbe dovuto avere cariche pubbliche, fino al chiarimento delle sue pendenze.

Rollandin ebbe dei problemi con la giustizia e l'U.V. si divise tra chi lo difendeva, come un personaggio caduto ingiustamente nelle rete di una giustizia persecutoria e chi - senza il coraggio di dirlo apertamente - cominciò a credere che quello fosse il solo modo per liberarsi di lui, di un leader scomodo. Incapaci di sconfiggerlo politicamente, si compiacquero che a metterlo fuori gioco fosse la giustizia. Pessima aspettativa e implicita dichiarazione di debolezza. E allora ripeto la domanda: chi contesta Rollandin ne contesta i metodi o l'onestà?

Rollandin superò, poi, il periodo critico e tornò pienamente in auge, tanto che oggi ha in mano l'U.V. e controlla buona parte dei Consiglieri regionali. Probabilmente controlla e gestisce anche alcune correnti di altri movimenti che... non muovono foglia che Rollandin non voglia. Ha degli oppositori e degli avversari interni; mai troppo dichiarati, un po' perché è un personaggio temuto, un po' perché, almeno fino a poco tempo fa, la squadra dell'U.V. è stata così forte da occupare tutti gli spazi di potere e in questi spazi, molti hanno trovato soddisfacenti collocazioni indipendente dalla corrente di appartenenza. E' solo a partire dal momento in cui non li hanno più trovati, o non hanno trovato quelli che desideravano, o hanno capito che l'U.V.R. (Union Valdotaine Rollandiniana) stava fagocitando tutto e, quindi, quegli spazi non ci sarebbero più stati in futuro, che la polemica si è fatta rovente.

Non trovo nelle cronache nessun segno di un aperto scontro tra te, caro Louvin, e Rollandin; esser solo diversi, avere amici diversi, appartenere a correnti (dichiarate oppure no) diverse non corrisponde ad una contrapposizione, ma ad una diversità del tutto normale in un movimento tanto grande quanto l'U.V., anzi utile e positiva proprio perché attraverso le diversificazioni cresce e si diversifica anche il consenso. Quello scontro non ci sarà mai, poiché mi pare di capire che stai pensando alla creazione di un nuovo soggetto politico e non alla sottolineatura delle contraddizioni interne all'U.V., interpretando le quali tu avresti potuto chiamare a raccolta i veri unionisti, spaccare l'U.V. e poi ricomporla, rinnovandola e rimettendo in discussione linee e leadership.

E allora ripeto nuovamente la domanda: chi contesta Rollandin ne contesta i metodi o l'onestà? Non auspico si ricorra ad esplicite accuse e offese, ma credo che se davvero Rollandin è il demone che i suoi oppositori dicono sia (e lo dicono nella politica dei bar, là dove si costruisce il pericoloso "sentito dire"), bisognerebbe denunciarne pubblicamente le malefatte: non è possibile, infatti, che esponenti politici che si vogliono porre alla guida della Valle d'Aosta al posto di Rollandin e dei suoi, non siano in grado di mettere insieme le prove provate delle irregolarità che gli sono addebitate, del malgoverno, dell'immoralità e di quant'altro...

Delle due una: o questi politici sono incapaci di documentare le irregolarità, e allora mi chiedo che cosa siano capaci di vedere nella pubblica amministrazione e quindi con quale autorevolezza vogliano porsene al comando, oppure ciò che contestano è, sostanzialmente, un metodo di far politica e di trovare consenso che segue regole e morale diverse da quelle che vorremo ispirassero l'azione dei politici. Allora non dobbiamo seminare sospetti su un avversario politico, solo perché siamo incapaci di affrontarlo politicamente e sconfiggerlo politicamente. Allora, Louvin, quali sono i reati che Rollandin sta commettendo?

Tuo fratello Paolo, con una lettera a La Stampa, ne ha sottolineati parecchi, ma la lettera di un lettore ha un valore politico relativo; proprio in quanto lettera di un lettore dovrebbe essere libera e non strumentale a questa o a quella linea politica. Se i partiti vecchi e nuovi invadono i pochi spazi rimasti ai cittadini che potrebbero - se non altro - farsi sentire con lettere ai giornali, allora vuol dire che tutti stanno giocando i loro giochi sulla testa dei cittadini. Quella lettera è esplicita. Ma non è la lettera di Robert Louvin, forse perché hai ritenuto inopportuno firmarla tu, perché non si sa mai come vadano le cose della politica. Ma se Rollandin non commette reati e neppure tu lo affronti e lo sconfiggi sul piano politico, allora mi chiedo quale credibilità possa mai avere un nuovo soggetto politico che nasce da una sconfitta e che, evidentemente, ha una leadership politica che non è in grado di contrapporsi a quella di chi porta avanti un diverso progetto.

Si dice, ma chi mai scriverà davvero la storia?, che - ad un certo punto - Rollandin pose un out out all'U.V. che non voleva soddisfare il suo protagonismo e la sua ricerca di visibilità e potere, minacciando, più o meno chiaramente, di lasciare l'U.V. per ... creare una U.V. contrapposta o un nuovo soggetto politico, ecc. ecc. E si dice anche che, in tempi non troppo lontani, anche tu avresti potuto affiancare Rollandin in una elezione politica della quale sareste stati i due candidati unionisti per la Camera e per il Senato, e si dice anche che non sia stato tu a rifiutare sdegnosamente (come si potrebbe pensare), ma lui ad aggirarti.

Ah, ma allora è una malattia! Andarsene o minacciare di andarsene è un ricatto che è utile solo se chi lo pone è abbastanza forte da far valere le proprie ragioni e da rappresentare una minaccia. Non sono abbastanza dentro alle questioni per capire se e come la tua posizione interna all'U.V. sia giunta ad esplicitare la possibilità che tu te ne andassi e se questo è stato percepito come un pericolo dall'U.V. stessa. Neppure capisco se ora tu costituisci una minaccia per l'U.V. Mi chiedo, però, se in nuova e diversa collocazione tu possa essere una risorsa. Continuo a credere che tu lo sia solo se stai nell'U.V. Tu e Vallet, tu e Andrione, tu e Tamone, tu e Bétemps, ecc. ecc. So per certo che nella storia dell'U.V. ci sono almeno 15 anni di dissenso e di malessere, di personaggi grandi e piccoli che ne sono usciti o hanno preso la via del volontario esilio; cosa rappresenti per costoro? L'uomo che, se pur tardivamente, scuote l'U.V. e, attraverso una conta dolorosa, ne ripropone i valori abbandonati da una concezione utilitaristica della politica, oppure il prossimo candidato al posto di Deputato in Valle d'Aosta?

Nessuno può negare che saresti un ottimo deputato. E chi sognava di vederti in binomio con Caveri, oggi si avvede che non c'è posto per due unionisti a Roma: uno c'è già, Rollandin, e forse più che Rollandin stesso il problema è questo; per l'altro posto il nome di Caveri non è più spendibile da quando ha assunto la carica di Presidente della Regione. Mi chiedo, per assurdo, se un risultato che alle elezioni politiche ti vedesse, ad esempio, eletto alla Camera in una nuova lista, mentre al Senato resterebbe Rollandin, sarebbe di una qualche utilità; credo di no, perché a Roma i parlamentari devono lavorare in sintonia, per la Valle d'Aosta. Penso a questa opportunità perché ben conosco le qualità manageriali del tuo staff, familiari compresi, e so che è in grado di programmare e progettare scientificamente i percorsi programmatici, pubblicitari e politici da fare per raggiungere un determinato risultato.

E allora penso anche ad altra diversa ipotesi, questa sì dirompente: se davvero il problema è Rollandin, sia tu a proporti come candidato al Senato in alternativa a lui. L'U.V. ed i suoi valori traditi o affermati, centrano qualcosa in tutto questo? I miei dubbi non nascono tanto dal fatto che hai fatto la tua scelta interpretando con troppo ritardo il disagio interno all'U.V., ma dal fatto che ti sei scelto alleati che non appartengono alla tua cultura ed alla tua storia.

Ad avvicinarsi per primi al mondo dei "No global" che sono stati i tuoi alleati alle elezioni comunali di Aosta, è stata quella parte di unionisti idealisti che, nella sfascio degli ideali e dei valori dei quali l'U.V. sembra voler fare a meno, ha trovato nuove "amicizie": altri sognatori capaci di radicalizzare l'impegno politico, scoprendo, se pur in ritardo, l'importanza delle dimensione locale in contrapposizione a quella globale. Alla testa dei No Global che si sono confrontati a Barcelona nel Forum per il Mediterraneo, ci sono, si, esponenti delle nazionalità che evidenziano come la globalizzazione liberista abbia schiacciato tutto e tutti, i lavoratori, le classi più deboli, i migranti, i popoli e le nazioni senza stato, le minoranze negate ed oppresse, ma io non ti ha mai visto impegnato in questa dimensione ed in questa dinamica e non ti ho mai sentito partecipe dei momenti di aggregazione che esprimono questa visione per affermare, ad esempio, che se "un mondo diverso è possibile", certo è possibile anche "una Valle d'Aosta diversa".

Senza questi passaggi politici, mi chiedo come tu abbia potuto proporti insieme a partiti e personaggi che sono stati storicamente nemici dell'U.V. e dei suoi valori. Non ti ha mai sentito fare discorsi sulle contraddizioni della politica linguistica portata avanti dall'U.V. e dalla Regione che si riduce ad attribuire a tutto il pubblico impiego un'indennità di bilinguismo che non significa affatto un maggiore e miglior uso della lingua francese negli uffici; non ti ho mai sentito riconoscere esplicitamente al franco-provenzale la dignità di lingua (eppure l'Europa e le sue politiche culturali, giungono a riconoscerla tale e ad investire risorse economiche per valorizzarla). Senza una posizione in merito, la semplice difesa dell'inserimento della lingua francese all'esame di maturità, proposta dalla Regione e dall'U.V., è risultata inefficace. Ma tu eri schierato a difesa di quell'inserimento e delle ragioni dell'U.V. e della Regione, contro le quali i tuoi alleati di oggi, mossero la piazza e giunsero a realizzare un referendum.

Se Rollandin oggi è da considerare un nemico, nemico della vera U.V., i tuoi alleati di oggi lo sono e lo sono stati molto di più, da sempre. Mi viene da pensare che "contro Rollandin" qualcuno pensi ancora si possa ricorrere a qualunque arma ed a qualunque alleanza, come quella che lo fece cadere nel '90, quando era Presidente della Giunta, portando tutti i partiti. tutti. destra e sinistra, ad allearsi in modo innaturale. Quando il ribaltone fu sconfitto e si ricompose una nuova Giunta, guidata dall'U.V., Rollandin escluse alcune componenti che, molto spontaneamente, avevano sostenuto che l'alleanza trasversale di tutti pregiudizialmente contro l'U.V. e contro Rollandin era inaccettabile. Nacque una Giunta che aveva al proprio interno... i Verdi di Riccarand e tu fosti d'accordo o, se non lo eri, non si è saputo e non si è capito. Probabilmente fosti d'accordo, altrimenti come potresti oggi correre con Riccarand?

Allora ti chiedo un passo indietro. Forse è tardi, forse qualcuno ti ha spinto ad andare oltre, forse hai ritenuto opportuno spostare la tua collocazione decidendo che, visto che non riuscivi a vincere il campionato di calcio, era meglio metterti a praticare l'atletica leggera, ma credo faticherai molto a creare non un nuovo soggetto politico, ma un soggetto chiaro, capace di fare chiarezza nella politica valdostana. Ti chiedo un passo indietro che vuol dire non allontanarti dall'U.V., non andare oltre l'U.V., non creare neppure un movimento che sia alternativo all'U.V.; fai un gesto clamoroso, convoca tutti gli unionisti scontenti, sconfitti e delusi, chiedi che rientrino tutti insieme, subito, nell'U.V., che prendano il coraggio di non stare più zitti, di non accettare diktat.

Chiedi a Bétemps di tornare a produrre idee e lavoro politico-culturale, a Tamone di ritessere legami con il mondo del lavoro, a Perrin (Joseph-César) di mettere la sua esperienza di storico e di amministratore ancora al servizio della comunità, ad Andrione, (Mario ed Etienne) di non essere fuori dall'U.V. proprio nell'anno del 60° anniversario, a Pia Morise di versare ancora qualche lacrima per il Mouvement, ecc. ecc. Chiedi al S.A.V.T. di non tacere più sugli errori che stiamo facendo appiattendo la burocrazia amministrativa fino a renderla complice della crisi imprenditoriale, solo perché complica (burocratizza) perfino i pur positivi interventi predisposti dal potere politico. Chiedi a Rollandin di prendere atto che lui ed i suoi uomini non sono tutta l'U.V. e che, certamente, troppi unionisti sono fuori dall'U.V. e troppi non-unionisti sono dentro. Chi contesta Rollandin ne contesta i metodi o l'onestà?

Questa sta diventando una guerra senza frontiere e mi aspetto che la politica degli anni futuri sia aspra e crudele, non ci risparmierà nulla, sarà fatta di colpi bassi, anche a livello personale per delegittimare l'avversario. Ti chiedo un passo indietro, di riprendere il tuo ruolo nell'U.V. E visto che ti contesto di non averlo voluto o saputo prendere in modo abbastanza determinato in passato, mentre sei stato determinato nel creare "Aosta Viva", ti chiedo di rientrare nell'U.V. con la stessa determinazione che solo adesso mostri di possedere e che ti rimprovero di non aver avuto quando eri dentro. 25 anni or sono moriva prematuramente Bruno Salvadori. Ricordi sicuramente che la celebrazione della sua azione fu tra i messaggi che portammo avanti insieme, quando ti presentasti, per la prima volta, candidato alle elezioni regionali: realizzammo un dossier con una scelta dei suoi articoli, andammo dai walser a ricordare il loro ruolo e a proporci di valorizzarli come Salvadori aveva fatto; sottolineammo che Salvadori seppe essere sempre a fianco dei giovani e dei lavoratori, con una concezione "progressista". Non c'è bisogno di un nuovo soggetto politico, c'è bisogno di una vera U.V.

Abbiamo fatto lo sciopero delle adesioni, è tempo di rientrare.
Lettera aperta ad Augusto Rollandin

L'ultima volta che ho scritto una lettera aperta, mi rivolsi ad "oncle Proment". Assunsi con lui un tono confidenziale, legato ad un nostro indiretto legame familiare che rafforzava in me il rispetto umano e culturale, oltre che politico, che nutrivo nei suoi confronti. Gli chiesi di essere indulgente nei confronti dei giovani che scendevano in piazza "contro" la prova di francese all'esame di maturità e per i quali ritenevo opportuno evitare che la lingua francese diventasse un'imposizione o venisse anche soltanto percepita come tale. Gli dicevo che se anche, in realtà, ai ragazzi non veniva imposto nulla, il fatto che di imposizione essi potessero parlare perché come tale percepivano la politica linguistica della Regione, questo bastava a concludere che la causa era mal gestita.

A te, Augusto Rollandin scrivo una lettera che dal punto di vista psicologico, ha le stesse difficoltà di quelle che incontrai con Proment: come rimproverarti di essere autoritario e decisionista se è proprio questo a caratterizzare il tuo successo ed a rafforzare il tuo carisma? Come accusarti di aver cambiato l'U.V. se è proprio questa U.V. cambiata ad aver riscosso successi che un tempo erano solo sognati, ma risultavano irraggiungibili? Come accusarti di aver schiacciato, con il tuo pragmatismo, un sistema di riferimento a valori tradizionali ed atavici, se è proprio la tua modernità a rappresentare ciò che ad alcuni sembra necessario alla Valle d'Aosta ed alla fin fine se anche questo aumenta il tuo prestigio...? So che tu rappresenti una di quelle figure nei confronti delle quali non ci sono mezze misure: chi ti ama ti segue come si segue non un leader, ma un capo supremo, un dittatore; chi non ti ama ti è contro, anche quando non riesce a trovare spiegazioni a questo..." sentimento".

Ho scritto di te in un saggio, definendoti il primo politico valdostano che non è uscito dalla ristretta ed autoreferziale cerchia dei borghesi e dei notabili che hanno guidato la Valle d'Aosta a lungo, e quando i tuoi avversari ti definiscono rozzo, in fondo in fondo ti fanno un complimento, perché la raffinatezza altrui non è che abbia regalato chissà quali risultati alla Valle d'Aosta. Ti scrivo per chiederti di aiutarmi a demolire "il mito" di Augusto Rollandin, per costruire, se c'è, la storia di un leader politico amato per il suo fascino e per la sua correttezza, oltre che per i suoi risultati contraddittori. La gente ama molto i risultati immediati, anche se non pensa al prezzo che va pagato per raggiungerli ed alle conseguenze negative che ne derivano in seguito. Tu devi porti il problema, perché non sei "la gente", ma il personaggio di riferimento per molti.

L'U.V. nel 1945 si è data degli obiettivi che doveva assolutamente raggiungere, primo fra tutti l'épanouissement de la culture valdotaine e, purtroppo, siamo molto lontani dal conseguimento di questo risultato; mirava alla costruzione dell'Europa dei Popoli e dire che siamo lontani è un eufemismo, ché - anzi - oggi gli uomini dell'U.V. stanno addirittura difendendo l'Europa dei mercanti e degli Stati, dimentica dei diritti dei Popoli e delle lingue almeno quanto lo sono stati - appunto - gli ... Stati. L'U.V. del primo Congrès National definiva la Valle d'Aosta una Nation, proclamava di voler raggiungere la riconquista della souveraineté e la ricomposizione della nationalité savoyarde. Che ne è di tutto ciò? Idee superate?

Credo che il problema tuo e della tua U.V. non sia quello di considerare superate le idee ed i principi, ma quello di ragionare concretamente sul fatto che, per una molteplicità di ragioni, quei principi non riescono ad aggregare la gente che abita in Valle d'Aosta. Sono i principi ad esser sbagliati e non più attuali (nel qual caso ha ragione Louvin che vuol creare un nuovo soggetto politico per rappresentare i nuovi principi di riferimento) o sbaglia chi proclama di difenderli e non lo fa davvero, o chi li ha resi poco credibili tradendoli e, tuttavia, costruendosi non l'immagine del traditore, ma quella del loro strenuo difensore? In tutta sincerità ce l'ho anche con i tuoi avversari che ti rimproverano una scarsa aderenza ai principi, ma alla prova dei fatti, si sono allontanati anch'essi - e non di poco - da quelli, per il semplice fatto che anche loro non li considerano più vincenti e, anzi, si rassegnano a cercarsi uno spazio al quale tu sia estraneo, piuttosto che affrontarti sul terreno comune, quello degli ideali unionisti.

Oggi una gran massa di valdostani, vota U.V., semplicemente perché l'U.V., attraverso la stabilità politica, assicura la continuità politico-amministrativa e gestisce. Ci troviamo, però, di fronte ad una crisi di proporzioni preoccupanti: dobbiamo forse gioire perché l'autonomia e la capacità gestionale dei nostri politici, tu per primo, la rende meno dura, oppure dobbiamo pensare che - in realtà - cadiamo anche noi in crisi, perché non abbiamo saputo costruire un sistema culturale, sociale, economico ed politico che non solo prevedesse la crisi, ma addirittura la evitasse. Chi se ne frega dei discorsi sulla mondializzazione, ecc. ecc. ! Per una realtà piccola come la Valle d'Aosta, già solo il rapporto con l'Italia è stato disarmonico, a partire dal dato numerico, 100 mila contro 50 milioni... a tal punto che se i milioni, invece di 50 diventano 500 o 5 mila, poco cambia: non potremmo, infatti, esser negati più di tanto nei nostri diritti culturali e nel nostro diritto allo sviluppo.

Il problema è la nostra capacità di non rassegnarci e di non adattarci a ciò che viene da fuori, come invece stiamo facendo, ma di saper filtrare mode, tendenze, sistemi, istituzioni, sempre attuando un nostro progetto, assolutamente e pienamente realizzabile perché siamo pochi. Io credo ti si possa rimproverare proprio questa carenza di progettualità non a breve, ma a lungo termine. E te lo rimprovero, perché Emile Chanoux c'insegnò quanto fosse importante possedere e portare avanti coerentemente, un progetto da realizzare a lungo termine. Se vogliamo un certo tipo di Europa ed un certo tipo di Italia per poterci rapportare con realtà capaci di capirci e di render possibile una sintonia, è assolutamente falso e fuorviante inseguire logiche, dinamiche e - addirittura - scuole di pensiero che non evidenzino questo stridore; la Valle d'Aosta, invece, è stata zitta rispetto ad una Costituzione Europea che non riconosce le autonomie speciali, che dimentica le lingue, che nega i Popoli; questo è inaccettabile, perché vuol dire consegnare di fatto la Valle d'Aosta alle logiche stato-nazionali o euro-statali.

Non rispondermi banalmente che è Caveri ad occuparsi dei problemi europei, perché lo scarica barile non funziona. Sarebbe troppo bello, tuttavia, muoverti accuse solo perché non hai mostrato abbastanza attenzione ai rischi che la Valle d'Aosta corre nella costruzione dell'Europa e nella partecipazione ai suoi meccanismi ed alle sue dinamiche. E' certo che rispetto alla politica europea ed al confronto con lo Stato, i risultati dell'U.V. non sono stati buoni, anzi sono pessimi. E questo inizia a sfatare il mito del tuo efficientismo. Non basta votare contro il Governo centrale su questo o quel provvedimento, si tratta piuttosto, o meglio si tratterebbe, di essere portatori di un concreto progetto politico contro perché diverso e autentico.

Le critiche che ti muovo, quindi, sono più gravi. Poiché io non sono altro che un cittadino, neppure più iscritto all'U.V. da parecchio tempo, puoi tranquillamente far finta che neppure ti abbia scritto. Per questo la mia è una "lettera aperta". Troppi unionisti stanno fuori dall'U.V.. e tu non puoi fare finta di nulla e limitarti ad agire politicamente affinché di questi scollamenti non resti segno nella forza dell'U.V. e nei suoi risultati elettorali. Ma anche questo è un falso obiettivo. L'U.V. nacque come movimento di persone che appartenevano a partiti diversi, ma si proponevano, prima di tutto, la difesa dei valori, dei diritti e degli interessi della Valle d'Aosta, per applicarsi, in seguito, affinché politica ed amministrazione venissero gestite in coerenza con orientamenti ed ideologie diverse.

La tua U.V. sembra essere, ormai, un partito regionale, un partito di raccolta, nel quale possono convivere non persone che portano in essa la scelta di anteporre gli interessi della Valle d'Aosta a tutto, un partito di piccolo cabotaggio, preoccupato - alla fin fine - di non rappresentare in Italia, né una profonda diversità, né un progetto istituzionale diverso da quello dominante. Quando fu chiaro che la doppia tessera non era funzionale all'effettiva difesa dei valori di cui l'U.V. era portatrice, poco a poco l'U.V., dopo essersi spaccata a destra, a sinistra, al centro, si riunificò dandosi un progetto di grande respiro. Oserei dire che quello del 1er Congrès National de l'U.V. era il Progetto di Emile Chanoux, tradotto ed applicato ai tempi mutati rispetto ai suoi.

Nella tua U.V. è successa una cosa che non doveva succedere: non è successo che uomini di diverso orientamento politico scegliessero di diventare unionisti per meglio rappresentare gli interessi dei valdostani, rendendosi conto che le intenzioni dei partiti andavano contro questi stessi interessi, ma è successo, invece, che unionisti che non avevano mai espresso un orientamento più o meno vicino alle posizioni ideologiche dei diversi partiti stato-nazionali, facessero l'operazione inversa e dall'U.V. si buttassero in bocca a questi. E' successo che un esponente dell'U.V. è finito in Forza Italia, è successo che la lista orangista siede nel Consiglio comunale di Aosta grazie a voti suoi (di puro dissenso nei tuoi confronti) e dei No Global, senza che nessuno abbia mai maturato la certezza che Forza Italia da una parte o i No Global dall'altra, potessero davvero contribuire a costruire ciò che era nei progetti dell'U.V.

Colpa tua, caro Augusto, perché sei talmente forte da non permettere che qualcuno ti scalzi dalla gestione dell'U.V., della Regione e della politica valdostana, al punto da affermare non solo che tu stia facendo il male dell'U.V. (che sarebbe una pura questione di opinioni), ma che i principi e i valori dell'U.V. siano da buttare. Se Louvin deve stare con la sinistra e un Viérin con i Berlusconiani, non credo stiano pensando di portare avanti meglio, in questo modo, i principi dell'U.V. che, di contro, tu non difendi più. Ti scarico addosso colpe che non sono davvero soltanto tue, è chiaro, ma mi chiedo se tu possa davvero compiacerti del fatto che la debolezza dei tuoi oppositori, li porti a scelte tanto contraddittorie da generare nella popolazione l'idea che la questione è dicotomica: Rollandin o non Rollandin.

Più coerente, allora, la scelta di coloro che non ti amano, ma ancora si sforzano di contrastarti dentro all'U.V. Contro l'U.V. di Rollandin tutti i partiti, dalla destra alla sinistra, andarono ad una guerra che perdettero nel 1990; contro l'U.V. di Rollandin adesso vanno, in ordine sparso, schieramenti di centro-sinistra e di centro-destra, senz'altra connotazione che quella degli esorcisti. Caro Diavolo di un Rollandin, con questa lettera aperta desidero provocarti. In altri tempi ti sfiderei a duello, visto che - in definitiva - nessuno ti sfida davvero nel duello... politico. Chi dentro all'U.V. ti è contro non lo è mai in modo determinato: forse è preoccupato dell'unità dell'U.V., forse è sicuro di non aver futuro fuori dall'U.V., ma crede di averlo - invece - dentro (magari proprio perché ti avversa, aggrega il dissenso e si crea una nicchia) e di poter partecipare, comunque, ai successi di questa U.V.

Non appartengo al partito che ha gioito dei tuoi guai giudiziari e che te ne augura altri, anche per una ragione semplicissima: credo che sul piano puramente umano ci siano esperienze che non vanno augurate e nessuno, neppure a chi sbaglia davvero e credo, spero, si costruisca una società sempre e comunque disposta e capace di perdonare. Ma ti chiedo di riflettere sul tuo stesso carisma: se vuoi essere il padre-padrone che fu Severino Caveri e contro il quale l'U.V. dovette insorgere, spaccarsi e poi ricomporsi faticosamente, oppure se sei capace di essere un leader davvero moderno. Esserlo vorrebbe dire portare avanti una Valle d'Aosta all'interno della quale non esistano leadership rigide ed univoche, ma una leadership diffusa, capace - cioè - di coinvolgere tutte le proprie risorse umane, attribuendo a ciascuno uno spazio adeguato alle sue capacità e ponendole tutte, al servizio della Valle d'Aosta.

Scrivendoti mi sono chiesto se, in realtà, non fosse meglio scrivere ai tuoi oppositori. Il vero, problema, però sei tu, poiché - ripeto - il discorso è diventato "Rollandin o non Rollandin", non c'è altra via, altra proposta, altra leadership. Per questo scrivo anche a Roberto Louvin, unico personaggio di grande visibilità a te contrapposto; scrivo ad entrambi, anche se con toni e su temi diversi. Anche gli orangisti di Louvin danno l'impressione di voler cambiare il tavolo del confronto politico e di pensare più alla costituzione di un nuovo soggetto politico che alla necessità di creare una U.V. con un aggettivo provvisorio che la qualifichi come "vera", più vera della tua U.V.

Credo fermamente che l'U.V. avrebbe dovuto affrontare molto seriamente, parecchi anni or sono, la questione morale posta da Emile Chanoux jr. Credo che si sarebbero dovute chiarire o tacitare tutte le voci che correvano quando, con Mario Andrione in volontario esilio, si diceva che non solo lo sostituivi, ma... gli facevi le scarpe. Credo che molti avrebbero dovuto fare in modo che gli Ethnistes non fossero soli ed estremi. Credo che molti avrebbero dovuto fare della esperienza elettorale indipendentista, l'occasione per rilanciare gli ideali contro la burocrazia. Credo che non avremmo mai dovuto mescolarci con la partitocrazia italiana in occasione delle elezioni europee. Credo che alle ultime elezioni regionali - di nuovo, come alle precedenti - la presenza di una lista di disturbo fortemente identitaria, avrebbe dovuto evitare che l'U.V. conquistasse 18 consiglieri e si sentisse forte da sola, capace - ormai - di interpretare il ruolo della maggioranza e quello dell'opposizione.

A volte mi sento in imbarazzo con me stesso, perché ascolto le voci che ti parlano contro, poi leggo interviste e dichiarazioni da parte degli stessi tuoi oppositori che gettano acqua sul fuoco delle polemiche interne, al punto che mi chiedo se "sento le voci", nel senso che sono disturbato psichicamente e - in realtà - quelle voci vorrei sentirle, ma non ci sono. E allora non mi resta davvero altro che confidare in te, chiedendoti di essere tu stesso a risolvere questa negativa dicotomia che ti riguarda, tu stesso a far qualcosa... "contro" Rollandin. Forse mi sbaglio, ma credo che tu non sia o non sia stato sempre attorniato da persone in grado di sostenere una coerente politica ed una efficace amministrazione, ma solo di approfittare della situazione. Senza offesa per nessuno, del resto anche questo fa parte del gioco.

Ma sono in troppi, credo, a starti vicino senza apprezzarti davvero, e sono molti anche quelli che vorrebbero vederti leader si, ma leader di una diversa e più coerente U.V., alla quale tu potresti dare molto. Mi immagino che cosa riusciresti a fare, magari mobilitando i valdostani contro lo Stato e contro l'Europa che ci stanno cancellando come popolo, poco a poco. Ti scrivo in un'occasione particolare: l'anniversario della morte di Bruno Salvadori, insieme al quale, se non vado errato, militasti anche tu nell'U.V.P. e l'anniversario della costituzione dell'U.V. Bruno appartenne a quell'Union Valdotaine che, attraverso il superamento delle lotte intestine, si riunificò per costruire l'Europa dei Popoli, nella quale la Nation Valdotaine avrebbe potuto riconoscersi "savoyarde" e raggiungere il 51% dei consensi, indispensabili a realizzare in Valle d'Aosta un vero autogoverno.

Una U.V., la sua, che avrebbe dovuto aggregare tutte le energie autenticamente autonomiste della Valle d'Aosta, nella dinamica politica, in quella sindacale, in quella culturale, in quella sociale. Se hai la pazienza di leggermi nel mio "Per una storia della Valle d'Aosta dal 1945 ai giorni nostri", troverai una bozza di questa aggregazione unionista, oltre a commenti su di te e sugli altri leader valdostani. La sua umanità rese Bruno Salvadori capace di avere l'amicizia di molti che, in Italia e in Europa, non lo hanno mai dimenticato. Più difficile ricordarlo in Valle d'Aosta dove perfino il suo ricordo è accompagnato, talora, da un senso inspiegabile di fastidio: fu troppo dinamico e troppo capace, anche troppo arrivista e talora, troppo contraddittorio. Fu sostanzialmente troppo uomo per una Valle che ancora preferisce il notabilato ed il caporalato.

Non mi faccio scudo del suo ricordo per attaccarti. Voglio solo ricordare a tutti i valdostani e a tutti gli unionisti che ti contestano, quanto sarebbe facile darti battaglia a viso aperto, uscendo dall'U.V. non per costruire nuovi soggetti politici, ma per metterti di fronte e contro... l'U.V., obbligandoti a confrontarti anche con la storia dell'U.V., rileggendone i principi. Ma bisognerebbe avere il coraggio di contrastarti davvero e, magari, di perdere lo scontro (quante furono le sconfitte dell'indomabile Bruno?) e con questo, tutte le occasioni e le opportunità di avere, comunque, una qualche collocazione politica di prestigio in questa tua U.V. rollandiniana; in realtà sembra che alcuni protestino solo quando e se non trovano spazi e gratificazioni. Oppure c'è un'altra possibilità: che tu sia capace di pronunciare al posto di un augusto vaae victis, un umano parcere victis e sia tu a tendere la mano ai tuoi oppositori, magari facendoti da parte, per il bene dell'U.V.

Credo, infatti, che nell'U.V. di oggi debba prevalere, il senso di riconciliazione. Soprattutto adesso che con la scusa dei risultati delle comunali, non sempre positivi per le liste ufficiali dell'U.V., i tuoi giannizzeri vogliono cercare chi ha tradito favorendo altre liste, dimenticando che le contrapposizioni unioniste in occasione delle "comunali" sono una costante e che neppure tu puoi pretendere unità e coerenza, soprattutto in questa fase di lotte interne. Devi decidere se vuoi esasperarle o trovare una quadra diversa. Se sei così indispensabile, saranno loro stessi a richiamarti. Non ti chiedo di fare il generale romano, che a guerra finita tornò ai campi... e, ci mancherebbe, neppure ti chiedo di fare come il filosofo che bevve la cicuta. Ti chiedo di uscire dalla stanza dei bottoni e di essere l'uomo che lavora per realizzare i progetti di tutta l'U.V. e di tutta la Valle d'Aosta. Al servizio e non alla guida. Ti chiedo di fare il senatore.

Te lo propongo, affinché il tuo nome sia associato nella storia ad un momento di unificazione e non di divisione. Oggi troppi unionisti sono fuori dall'U.V. e troppi non unionisti sono dentro; non puoi far finta di non avvedertene. Ti chiedo di fare un passo indietro, di porti - in modo autocritico - il problema del perché sussista un disagio interno all'U.V. Ti chiedo di prendere atto che all'interno dell'U.V. ci sono grandi risorse umane e ti chiedo di valorizzarle, dando loro spazio e mettendo da parte i giannizzeri incapaci. Ci sono personaggi come Viérin, come Vicquéry, come Caveri, le cui capacità sono indiscutibili; ci sono tuoi avversari dichiarati, come Stévenin che, ormai fuori dall'agone, non mancano di interpretare il disagio dei veri unionisti, quelli che restano sempre e comunque nell'U.V. e dei quali devi tener conto perché essi sono il cuore dell'U.V. Ce ne sono molti altri e c'è lo stesso Louvin, che ha capacità e potenzialità inespresse.

Fai come Andrione che intuì le tue capacità e ti volle valorizzare. Dai spazio ai tuoi avversari, confrontati con loro alla pari e se nell'U.V. si è creata una situazione di maggioranza e minoranza interna, fai una scelta coraggiosa, stai sempre attento e vicino alla minoranza, perché la Valle d'Aosta è e sempre sarà una minoranza e, al di là delle proporzioni e dei contesti, non è democratico schiacciare, negare le minoranze. Un passo indietro. Fai del Congresso che l'U.V. terrà in questo anno del 60° anniversario, l'occasione per favorire il rientro nell'U.V. di chi ne uscito in polemica con te.


BRUNO SALVADORI, FEDERALISTA, LEGHISTA ANTE LITTERAM O DIFENSORE DELLE NAZIONI SENZA STATO?

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Nel 25° anniversario della sua scomparsa, tracciamo un ricordo del leader valdostano che nel 1979 guidò il riscatto europeista di tutte le minoranze linguistiche, degli autonomisti e dei federalisti in Italia

"Essere valdostani non è una questione di razza" è una sua affermazione che può essere utilmente applicata ancora oggi a tutte le Nazioni senza Stato.
"Sciopero linguistico" l'idea che egli propose per rispondere al centralismo dello Stato, incapace di attuare una seria politica linguistica.
"Trasformazione dello Stato in senso federale" il progetto che negli anni '60 e '70 lo propose come leader di quel vasto movimento che contestò la partitocrazia ed il centralismo dello Stato.
"Un movimento autonomista in ogni Regione" la sua proposta, "al di là ed al di sopra della destra e della sinistra", pensando ad una federazione di partiti e movimenti guidata dagli autonomisti storici (valdostani, sudtirolesi, sardi, friulani, ecc.).

Il 9 maggio di 25 anni fa un incidente stradale si portava via la giovane vita di Bruno Salvadori, uno dei leader dell'U.V. Fuori dalla Valle d'Aosta, Bruno Salvadori è ricordato soprattutto per aver guidato nel 1979 la lista che l'U.V. presentò in tutta Italia in occasione della prima elezione dirette del Parlamento Europeo: una coalizione della quale fecero parte un gran numero di movimenti e partiti autonomisti, federalisti e regionalisti. In quel progetto elettorale egli coinvolse gli occitanisti ed i provenzali, i friulani e gli sloveni, i cimbri ed i ladini, ecc. ecc., aggregando anche i piemontesi ed i veneti, i siciliani ed alcuni sardisti, i trentino-tirolesi e gli istriani, alcuni sud-tirolesi e gli albanesi, ecc.

Non riuscì a portare in lista i Sud Tirolesi della S.V.P. che scelsero di allearsi con la D.C., utilizzando il meccanismo dell'apparentamento per ottenere un posto nel Parlamento Europeo, ed i Sardi del P.S.D'Az. che attraversavano in quel periodo un momento di particolare crisi, ma trovò comunque modo di farsi conoscere ed apprezzare anche negli ambienti politici sudtirolesi e sardi. Il nome di Bruno Salvadori è per molti versi legato, però, a quello di Umberto Bossi. Come ricorda in modo compiuto François Stévenin, nel suo recente libro "Bruno Salvadori, un valdostano, un autonomista, un federalista per l'Europa dei Popoli," muovendosi in giro per l'Italia, per la sua campagna elettorale europea, Salvadori incontrò casualmente un Umberto Bossi, curioso ma non impegnato politicamente, anzi si intralciarono il passo di fronte ai cartelloni elettorali, passando dalle scuse al caffè, dalla prima discussione al primo coinvolgimento.

Sempre come ben ricorda Stévenin nel suo libro, Umberto Bossi diede un piccolo aiuto a Bruno Salvadori in occasione di quelle elezioni, diffondendo alcuni materiali pubblicitari che il valdostano gli aveva affidato. Folgorato dall'entusiasmo e dalla incisività della proposta politica di Bruno Salvadori, Umberto Bossi iniziò a concepire l'idea di impegnarsi politicamente creando un soggetto politico che assicurasse ai lombardi gli stessi vantaggi di cui godevano i valdostani e, da lì, ampliando via via i propri orizzonti. Salvadori lo influenzò indubbiamente molto, anche per quanto concerne l'idea di creare un soggetto politico capace di operare in tutta Italia; ma mentre Bruno Salvadori pensava di aggregare partiti e movimenti "regionali", fortemente radicati nel proprio territorio e portatori di un'identità, Umberto Bossi, non avendo alle spalle né un movimento, né una cultura, né un'esperienza ancorate ad un autonomismo storico, finì - come si dice - coll'andare oltre il seminato.

Restò, tuttavia, legato a Bruno Salvadori al punto che volle intitolare a lui, la sala parlamentare della Lega a Roma, quando questa divenne una forza politica di primaria importanza. Ho voluto citare questo singolare fatto per poter collocare Bruno Salvadori in un contesto nel quale il suo segno sia riconoscibile anche da parte di coloro che non lo hanno conosciuto o non hanno mai sentito parlare di lui. Bruno Salvadori, del resto, fu soprattutto un uomo politico valdostano e morì a soli 38 anni. Gli fui amico e collaboratore. Il ricordo che traccio in queste pagine è carico di affetto e lo propongo poiché ritengo indispensabile farlo conoscere, ben sperando che qualcuno voglia interessarsi al libro che l'ex Presidente del Consiglio regionale della Valle d'Aosta, François Stévenin, ha scritto in occasione del 25° anniversario della sua morte.

Devo il mio avvicinamento all'U.V. alle insistenze di Bruno Salvadori, il quale riteneva che la nostra collaborazione culturale e politica si sarebbe rinsaldata se avessi deciso di non esser solo un libero pensatore ed un attivista culturale. Alla sua morte mi iscrissi all'U.V., senza trovarvi, in anni successivi, abbastanza motivazioni e la necessaria coerenza per restarci... Questa la storia del nostro legame. All'età di sedici anni avevo messo in piedi con compagni di liceo, un'associazione culturale che, dopo alcuni anni di vita come gruppo giovanile spontaneo (1967-1973), prese il nome E.A.C. Equipe d'Action Culturelle (1973). Lo scarto d'età fra i ragazzi del gruppo e Bruno Salvadori (aveva circa 10 anni più di noi), non ci permise di condividere direttamente la sua esperienza nel C.U.V., il Comitato degli studenti universitari, favorevoli ad istituire in Valle d'Aosta quella università che mancava, ma noi che sognavamo la nascita di un'Università valdostana, venimmo a conoscenza del suo lavoro e cercammo subito di stabilire i primi contatti con lui.

Tra le attività del nostro gruppo ci fu, per un lungo periodo (1970-1973), la collaborazione con una pubblicazione autonomista, "Montagnes Valdôtaines", organo del Mouvement Autonomiste Valdôtain (M.A.V.). Nessuno di noi aveva scelto quella collocazione condividendo le ragioni politiche che avevano portato alla costituzione del M.A.V., uno dei movimenti nati dalle spaccature dell'U.V. che in quegli anni, si era frantumata a destra, a sinistra ed al proprio centro, dando vita a diversi gruppi e movimenti. Operammo, tuttavia, come gruppo giovanile del M.A.V., poiché questo si mostrò aperto e disponibile a sostenere il nostro progetto: sollecitare le organizzazioni giovanili dei vari movimenti usciti dall'U.V., a ricreare l'unità perduta, ingenuamente, forse, ritenendo che uno solo fosse o dovesse essere il "movimento valdostano" e che di esso fossero parte i partiti, il sindacato S.A.V.T., le organizzazioni culturali, i movimenti "clandestini" (si parlava in quegli anni di A.L.P.A. e, poi, di Arpitani).

Fu questo nostro intento a favorire l'avvicinamento a Bruno Salvadori, protagonista di una di queste spaccature prodottesi in seno all'U.V., quella che portò alla nascita dell'Union Valdotaine Progressiste. Inoltre, eravamo il solo gruppo culturale allora attivo che potesse essere considerato di "area unionista", in un momento storico nel quale molto forte era l'effetto prodotto dal movimento spontaneo dei Centres Culturels (centri culturali spontanei sorti in tutti i Comuni della Valle d'Aosta), in gran parte ispirato - però - dalle nuove idee portate dai D.P., i Democratici Popolari, sorti da una spaccatura interna alla D.C, neo autonomisti di estrazione social-cattolica e democristiana. Noi considerammo che anche il movimento D.P. dovesse far parte di quell'unico "movimento valdostano" alla cui nascita era nostra ambizione poter contribuire. Quando invitammo i giovani dell'U.V. e dell'U.V.P. ad un incontro, per l'U.V.P. si presentò Bruno Salvadori, ma l'imminenza di una scadenza elettorale inquinò l'autenticità di quel contatto e si risolse nella richiesta strumentale che egli ci formulò: sostenere la candidatura al Parlamento italiano di due esponenti dell'U.V.P., contro i candidati dell'U.V.

Bruno cercò, quindi, di convincerci ad assumere un impegno politico elettorale ed avemmo con lui lunghi colloqui: eravamo già in quasi perfetta sintonia, ma a noi mancava, tuttavia, la condivisione di tutto il pregresso storico dei problemi interni all'U.V., spesso dovuti a personalismi, che avevano portato alle spaccature e non avevamo ragione di schierarci con tanta urgenza. Fu allora che, andando oltre il fatto contingente, egli mostrò di apprezzare i nostri discorsi ed i nostri articoli sull'università, sulle attività culturali e sul proposito di muovere per una riunificazione dei movimenti autonomisti valdostani e fu allora che ci parve di trovare in lui un sicuro punto di riferimento per dare concretezza al nostro lavoro. Fu importante nel rafforzare la nostra sintonia, il fatto di scoprire che era sinceramente convinto che noi costituissimo una risorsa utile soprattutto per la nostra sensibilità alle problematiche europee.

Ci eravamo, infatti, incontrati più volte per discutere tematiche europee e per cominciare a preparare le prime elezioni del Parlamento Europeo di cui in quegli anni già si parlava. Tra il 1970 ed il 1975, in particolare, operammo influenzati dal dinamismo di un personaggio di grande lungimiranza, un sacerdote, il gesuita Egidio Guidubaldi, giunto in Valle d'Aosta per gestire iniziative culturali promosse dal Comune di Aosta, il cui Assessore ai problemi giovanili (prima D.C. poi tra i leader dei D.P.), diede risposta alle sollecitazioni della nostra e di altre associazioni, proprio ricorrendo a Guidubaldi.

Egidio Guidubaldi spese il suo impegno per l'affermazione dei diritti delle "minoranze", attivando confronti e convegni in giro per l'Italia. Entrò, di forza nel discorso dell'istituzione di un'Università, muovendo passi affinché fosse creata in Valle d'Aosta ed avesse due atenei partner, uno in Sardegna (in particolare con l'appoggio del compianto grande intellettuale sardista Antonello Satta) ed un altro in Friuli/Slovenia. Fu Guidubaldi a dar spazio e voce ai libri di Sergio Salvi ed al dinamismo del C.I.E.M.E.N. (Centro Internazionale Escarré per le Minoranze Etniche e per le Nazionalità), anticipandoli con la creazione di un Movimento Europeo Minoranze (M.E.M., sigla quasi sconosciuta, eppur molto importante nella creazione di una rete di contatti). Fu sempre Guidubaldi a dar respiro al concetto di Padania, espresso per la prima volta da un Parlamentare democristiano, il quale per Padania intendeva l'area economico-geografica della pianura padana, alla quale Guidubaldi attribuì una valenza politico-economica, riconoscendo l'importanza delle aree geografiche: più che di Stati e di Regioni egli parlava, infatti, di aree o regioni alpina, padana, mediterranea... ma questa è una storia che dovrà essere raccontata in altra occasione, anche ai leghisti padani di oggi.

Con Bruno Salvadori, così, fu facile intendersi ed approfondire, poco a poco, i rapporti ed i contatti: quando, poi, ci chiamò per avere il nostro aiuto in occasione delle elezioni europee del 1979, la nostra collaborazione era ormai consolidata. Dal "nostro" C.I.E.M.E.N. che si era ufficialmente costituito a Milano nel 1975, egli trasse elementi culturali in più per i suoi articoli in occasione della riunificazione dell'U.V. (1976) e, poi, della convocazione del Premier Congrès National dell'U.V. (1979), seguendo un percorso legato al riconoscimento dell'identità valdostana (tema profondamente suo), finalmente considerata come una nazione (formulazione ideale cui pervennero, ma per vie diverse dalle nostre, i più qualificati intellettuali dell'U.V., Alexis Bétemps e Joseph-César Perrin, fra tutti). E dal C.I.E.M.E.N., Bruno Salvadori trasse anche concreto riferimento per attuare iniziative culturali che egli appoggiò nella veste di Capo Ufficio Stampa della Giunta regionale: due edizioni di una Rassegna Internazionale di Cinema delle Minoranze Etniche e Nazionali, le pubblicazioni della rivista specializzata "Minoranze", l'avvio della collana editoriale "Ethnos" che nel '78 ospitò una rilettura dell'autonomia valdostana, nell'anno del trentesimo anniversario, ecc. ecc.

Tra il gruppo dell'E.A.C. e Bruno Salvadori si rafforzarono rapporti di collaborazione sempre più stretta e anche l'amicizia personale; a molti amici del gruppo egli poté far riferimento quando, in occasione della campagna elettorale europea, egli non trovò l'U.V. pronta a mobilitarsi appieno, tanto che poté risolvere alcune emergenze organizzative, proprio grazie ad amici che sul piano personale non avevano neppure una convinta motivazione politica. Tanto profonda divenne la mia amicizia con lui che alla sua morte feci la sola cosa che egli mi avesse mai chiesto di fare: iscrivermi all'U.V., il che mi diede subito l'opportunità di continuarne - o di tentare di farlo - il lavoro di raccordo con le organizzazioni politiche delle minoranze e delle nazionalità, di portarne avanti l'opera di divulgazione storico-politica (con la pubblicazione di un libro sulla storia dell'U.V.), di proseguirne il lavoro culturale e giornalistico (che mi portò all'Ufficio Stampa della Giunta Regionale).

Conservai un breve inedito di Bruno Salvadori che egli aveva scritto per la rivista "Minoranze" e che non venne pubblicato perché la rivista cessò le pubblicazioni; lo resi pubblico, quando uno dei personaggi che Bruno Salvadori aveva conosciuto, creando la rete di raccordo delle "minoranze", il piemontesista Roberto Gremmo, pubblicò il libro "Contro Roma", nel quale raccontò la vicenda europeista di Bruno Salvadori e propose un suo critico commento al "dopo" Salvadori.

A Gremmo sembrò che il mio apporto alla politica di raccordo tra l'U.V. ed i partiti autonomisti e federalisti in Italia, tradisse tutto lo sforzo profuso da Salvadori: infatti io operai per interrompere gli accordi di collaborazione dell'U.V. con il leghismo nascente, portando avanti la "linea nazionalitaria" di Joseph-César Perrin e del C.I.E.M.E.N. Con il testo inedito di Bruno Salvadori, potei ristabilire una verità storica e culturale: l'U.V., fortemente ispirata agli approfondimenti identitari di Bétemps e Perrin, dopo aver dato corpo con Salvadori al rilancio di una coscienza "nazionale" dei valdostani e dell'U.V., si trovò a fare i conti con un leghismo nascente su posizioni di razzismo infraregionale che privavano la proposta di trasformazione dello Stato in senso federale e di costruzione di una vera Europa dei Popoli, dell'indispensabile riferimento alla solidarietà. L'U.V. scelse, quindi, in vista delle elezioni europee dell'84, di lasciare il carroccio leghista ed i suoi addentellati, per dare seguito all'esperienza di collaborazione con i soli partiti e movimenti federalisti/autonomisti e nazionalitari storici. Toccò a me illustrare questa scelta, a Udine, nel 1981, in occasione di un incontro proposto per rilanciare il dopo Salvadori, e sostenerla in successivi incontri e scontri.

In perfetta linea con il pensiero e con le aspettative di Bruno Salvadori! Anche se per me che non avevo le ambizioni elettorali che avevano motivato fortemente Bruno Salvadori, fu sicuramente più facile assumere posizioni categoriche rispetto alle quali egli era stato morbido ed accomodante, preso come era dall'idea di favorire la nascita di partiti a base regionale in tutta Italia e di aggregare tutto il dissenso antipartitico. Un retropensiero, tutto mio. A Bruno Salvadori era stata data carta bianca, da parte dell'U.V. per la gestione dei contatti, dei rapporti e degli accordi con le varie forze politiche "federaliste"; alla morte improvvisa di lui che era stato indiscutibilmente punto di riferimento e leader riconosciuto da tutti gli alleati, si creò un vuoto che leghisti come Bossi, Rocchetta e Gremmo credettero di poter coprire direttamente, non riconoscendo nei nuovi interlocutori designati dall'U.V., lo stesso carisma di Bruno Salvadori e sentendosi, comunque, respinti dall'U.V. e dagli altri movimenti nazionalitari.

Alla Lega riuscì, in parte, di assorbire il Movimento Friuli e di marginalizzare altri movimenti autonomisti, schiacciati della mobilitazione leghista attorno all'idea della Padania e dai successi che questa ottenne; ma fu proprio l'idea leghista della Padania ed il fatto che la Lega si presentò alle elezioni in tutto il nord, anche contro i partiti ed i movimenti autonomisti storici, a dimostrare che l'U.V. aveva avuto ragione nel distinguere i diritti e le ragioni storiche delle nazionalità da quelli dei neo-autonomisti nascenti attorno alla Lega. La Padania, infatti, era ed è sicuramente un'area geografica, ma non una Nazione e nel suo territorio non si ritrova il popolo padano, ma un insieme di popoli, minoranze e Nazioni senza Stato ai quali la Lega propose, sostanzialmente soltanto di cambiare capitale, Mantova con Roma, ricreando pari pari i meccanismi del centralismo romano in chiave padana.

La Lega, inoltre, frenò, per anni, l'applicazione dell'articolo 6 della Costituzione che prometteva la tutela delle minoranze linguisitiche. Per affermare che anche il toscano, il ligure, il lombardo e l'emiliano sono lingue cui spetta la stessa tutela del sardo, del friulano, del francoprovenzale, e delle altre lingue delle minoranze etniche, la Lega aggiunse ai ritardi di applicazione voluti da una destra post-fascista che non riconosceva altri diritti linguistici che quelli legati alla lingua italiana, le contraddizioni legate alla confusione ingenerata dalle sue posizioni. Totale, altri dieci anni di ritardo di una legge attuata solo quando alcune di queste lingue erano quasi compromesse o morte, cioè, sostanzialmente, 50 anni dopo che il principio della tutela era stato formulato nella Costituzione.

Bruno Salvadori applicava alla sua azione politica, un costante riferimento ai principi del federalismo e delle autonomie di Emile Chanoux; forte di questa coerenza e della vocazione storica dell'U.V. nella difesa dei diritti dei popoli, egli sarebbe stato il leader ideale per quella che concepiva come un federazione di partiti e movimenti a base "regionale". Una simile federazione, guidata da un personaggio carismatico come lui, rappresentante di un movimento legato a tutti i movimenti e partiti storici del federalismo e delle autonomie, avrebbe potuto essere davvero credibile e forte. La velleità di poterlo sostituire con leader di diversa storia, cultura ed estrazione politica, ha portato la Lega a diventare il partito alleato di Berlusconi e Fini, cioè, degli esponenti di una cultura e di una politica ostili ai diritti dei popoli e delle nazioni senza Stato. Ed ora che Berlusconi lancia l'idea strumentale di favorire la nascita di movimenti e partiti autonomisti in ogni Regione, il progetto culturalmente onesto e politicamente rivoluzionario di favorire l'autonomismo regionale si sbriciola: Berlusconi vuol rafforzare in tal modo il centralismo, Salvadori mirava a distruggerlo.

Bruno Salvadori aveva imparato, anche dalle divisioni interne all'U.V. di cui egli stesso era stato protagonista, che un movimento come l'U.V. e come pensava dovessero essere i movimenti alleati, non potesse e non dovesse far altro che collocarsi al di là ed al di sopra della destra e della sinistra. Mi sta a cuore ricordare questi aspetti della vita politica di Bruno Salvadori, poiché di lui sembra restare come unico segno storico, quello di aver determinato la nascita del leghismo: non è vero, anche se è vero, invece, che egli seppe dare all'insieme dei movimenti e dei partiti che potremmo genericamente definire "anticentralisti", importanti occasioni di azione comune. Li avrebbe guidati, ma avrebbe potuto farlo lui solo, a diventare una grande forza. Il suo operato fu molto importante per la Valle d'Aosta; fu un giornalista e un politico, mai un ideologo, quindi sarebbe sbagliato considerarlo un maestro in questo senso. E fu anche carico di ambizioni e voglia di arrivare, quindi parve talora proporsi come un tuttologo.

Ma dal suo impegno per le "minoranze" deriva il ruolo che ebbe nella valorizzazione della piccola comunità walser della Valle d'Aosta ed il suo proposito di aprire la Valle d'Aosta al nuovo, per renderla una comunità moderna, capace di assimilare e gestire le idee nuove e di non esserne fagogitato. Si ricorda di lui lo slogan "Essere valdostano non è una questione d razza" che cancellò, come un rapido colpo di spugna, anni di equivoci (e di tentazioni) sul significato dell'esser minoranze etnica, confondendo razza ed etnia e moltiplicando le errate interpretazioni già rilevanti ad esempio nel definirsi "Nazione" e, quindi, esser nazionalisti, termine di così negativo significato nella lingua italiana da render necessario ridefinire le "minoranze" come "nazionalità", prima di poter serenamente arrivare a chiamarle Nazioni senza Stato. Fu difensore delle lingue e delle culture. Dell'importanza delle lingua francese in Valle d'Aosta egli parlò senza mezzi termini, giungendo a proporre uno sciopero linguistico, il rifiuto - cioè - di esprimersi in lingua italiana se da parte del governo e dei partiti Stato-nazionali non fossero cessati i tentativi di sopraffazione culturale e linguistica.

"Partiti Stato-nazionali", ecco un'altra delle parole che ricorreva spesso nei suoi articoli e nei suoi discorsi: egli considerò la partitocrazia come coresponsabile del centralismo dello Stato e la contrastò, cercando alleati per dare quella spallata finale alla partitocrazia che fu possibile dare solo grazie agli scandali di tangentopoli ed ai successi del leghismo. Credo gli piacerebbe il mio dichiararmi, oggi, unionista, pur stando fuori dall'U.V. e certo lo divertirebbe il mio affermare, oggi, tra il serio ed il faceto, che non sono io ad esser fuori dall'U.V., ma - in realtà - sono io ad aver espulso tutti gli altri. Era maestro della provocazione e della polemica e ricorreva a queste in modo determinato e raffinato, mai con motivazioni fine a se stesse, ma per colpire e raggiungere un obiettivo.

Sentiva di possedere una forza ed una progettualità superiori a quelle di molti; questa fortissima autostima (che taluni considerarono esagerata, giungendo ad accusarlo di essere un arrivista), lo sostenne sempre, anche nei momenti più difficili, e lo fece soffrire, poiché non sempre gli altri si avvidero appieno delle sue capacità e, spesso, quando se ne avvidero, ne restarono spaventati, ne furono gelosi e lo contrastarono, pur traendo vantaggio dal suo lavoro. Che piaccia o non piaccia ammetterlo, Bruno Salvadori non aveva un nome valdostano; in Valle d'Aosta si dice ironicamente che non possedeva un nome con la Z finale e questo è stato un ostacolo in più alla sua carriera. Fu in parte, non del tutto gradito agli intellettuali valdostani: aveva la straordinaria capacità di "succhiare" idee e proposte elaborate da altri, trasformandole in dinamiche delle quali egli finiva coll'esser considerato autore unico. Agli altri erano costate applicazione e studio, a lui, intuitivo ed immediato, bastava sempre poco per farle proprie, usando con grande efficacia gli strumenti della comunicazione e del giornalismo.

Non fu un ideologo e non vanno ricercati in lui, approfondimenti e studi; altri fecero questa parte di lavoro ed egli ebbe l'intelligenza di tenerli al suo fianco, di ascoltarli di trarre dal loro lavoro quel succo che egli riusciva a sintetizzare rendendo concreta l'opera di divulgazione. Oggi, a 25 anni di distanza dalla sua morte, qualcuno lo commemora, altri ritengono esagerato dare alla sua esperienza politica una valenza troppo rilevante. Io, molto semplicemente, scrivo di lui per ricordarlo e per contribuire a farlo conoscere.

Claudio Magnabosco


IL LIBRO DI FRANCOIS STEVENIN

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Da un'intervista a François Stévenin

In occasione del 25° anniversario della morte di Bruno Salvadori ho voluto scrivere un libro nel quale sono tracciati, insieme, il ricordo di un amico e la documentazione su un personaggio politico di grande rilevanza. Nella sua breve vita Bruno è stato protagonista di così tante battaglie politiche ed ha scritto così tanti articoli, saggi e libri da far pensare, a torto, che il suo ricordo sia, ormai, preservato. E, invece, non è affatto così: non lo conoscono affatto i giovani, eppure se c'è un personaggio politico che sia partito dall'esperienza nella Jeunesse Valdotaine per poi tener sempre presente, nell'età matura, sempre e comunque il ruolo e l'importanza dei giovani fu proprio Bruno Salvadori. Non lo conoscono affatto i lavoratori del S.A.V.T., eppure egli diede al S.A.V.T. un poco della sua propulsione, prima di lasciarmi il posto per 17 intensi anni di lavoro.

Fu l'uomo che condusse la prima difficile battaglia per portare un valdostano nel Parlamento Europeo, eppure anche questo comincia ad essere dimenticato. Eppure sono passati solo 25 anni da quando Bruno Salvadori, con uno spirito polemico che gli era unico, proponeva, contro l'insensibilità dello Stato, assolutamente incapace di portare vanti una seria politica linguistica, uno sciopero linguistico. Solo 25 anni da quando egli propose, chiaramente, che tutti gli autonomisti si raggruppassero nell'U.V., tutti, quelli che provenivano da scissioni interne all'U.V. e tutti quelli che, invece, avevano condiviso la scissione della DC, dando corpo ad un raggruppamento autonomista di cui oggi resta traccia in alcuni gruppi politici autonomisti. Solo 25 anni da quando, presentando una lista dell'U.V. e di tutti gli altri autonomismi storici alle elezioni europee, sostanzialmente affermò due cose: che le minoranze, meglio definite Nazioni senza Stato, dovevano trovar spazio nel Parlamento Europeo, e che in Italia era possibile creare una federazione di movimenti e partiti politici a base regionale che avrebbero potuto affiancare i movimenti autonomisti storici.

Solo 25 anni dall'ultima volta in cui Bruno Salvadori scrisse che il federalismo era la sola strada che una piccola comunità come la Valle d'Aosta poteva percorrere per affermarsi. Per questo ho scritto un libro su Bruno Salvadori che non mancherà, credo e spero, di interessare tutti i valdostani, sia quelli che lo hanno conosciuto, sia quelli ai quali credo il libro potrà, per lo meno raccontare chi sia stato. Nel libro i commenti e il racconto dei diversi momenti del suo impegno politico, sono intercalati con una scelta di articoli che egli scrisse nel periodo tra il 1965, quando iniziò a collaborare con il Peuple Valdotaine, ed il 1980, quando morì, all'età di 38 anni, in un tragico incidente stradale. Per collocare meglio la sua storia, nel libro racconto le vicende della Valle d'Aosta dal 1965 al 1980 con la voce stessa di Bruno Salvadori: tra i libri che scrisse, infatti, c'è quel "Pourquoi être autonomiste" (pubblicato in due diverse edizioni) in un capitolo dei quali egli racconta, anno per anno, i fatti salienti della vita politica.

Questa collocazione consente di rendere comprensibili i diversi momenti raccontati nel libro: gli esordi con la difesa dei diritti degli studenti universitari e la proposta di creare un'Università valdostana; i primi anni di lotta, con gli scritti sul bollettino "Le Drapeau Rouge et Noir" nel quale egli espresse tutta la sua giovanile verve polemica. E c'è il racconto del Bruno Salvadori che partecipò ad una delle scissioni dell'U.V., quella che portò alla costituzione dell'Union Valdotaine Progressiste, raccontando la cui vicenda mi sono permesso di ricordare come anche una fronda interna all'U.V., il Gruppo di Saint-Christophe, abbia agito per favorire il passaggio da una U.V. legata al padre padrone Severino Caveri, ad una U.V. che si riunificava e si rafforzava, gestendo la ricostruzione di un'unità interna insieme all'elaborazione culturale di una proposta alquanto radicale, quelle che portò l'U.V. a definire la Valle d'Aosta una Nazione. Nel libro ci sono anche i capitoli che raccontano la sua attività di consigliere regionale e di giornalista ed il capitolo nel quale l'esaltante esperienza della lista unionista presentata in tutta Italia per le elezioni europee del 1979, fu il primo momento di aggregazione su tutto il territorio dello Stato, di movimenti-partiti ed organizzazioni anticentralisti.

E ci sono, nel libro, anche le pagine legate alla Lega e ad Umberto Bossi. Bruno Salvadori è ricordato, oggi, più per questo che per altro ed in parte è considerato il padre della Lega Nord. Cerco nel libro di raccontare la verità e di proporre una corretta interpretazione dei fatti. Ben posso evidenziare, infatti, che se alla morte di Bruno, la Lega poté prendere strade contraddittorie (come quelle che la portarono a presentarsi alle elezioni regionali in Valle d'Aosta, contro l'U.V., o come quelle che la videro partecipare ad un Governo guidati da Berlusconi e da Fini, i leader - cioè - del centralismo e del post fascismo, o - ancora - come quelle che la vedono protagonista di progetti di riforme costituzionale nelle quali le autonomie storiche sono cancellate) allora vuol dire che o Bruno Salvadori è stato un pessimo maestro o Umberto Bossi è stato un pessimo allievo.

O, forse, che le strade dei due protagonisti e delle rivendicazioni politiche dei quali sono stati protagonisti, non sono parallele. Nel libro c'è anche il dato biografico: il breve racconto della sua vita quotidiana e delle sue difficoltà, l'amore per il figlio e per la moglie, le sue intuizioni culturali che lo portarono, ad esempio, ad affermare che "essere valdostani non è una questione di razza", scardinando così l'errata visione di una U.V. formata da montanari e contadini autoctoni, chiusi ed inospitali. Un libro che non mi è costato solo fatica, ma anche emozioni, perché nel raccontare sono riaffiorati, capitolo per capitolo, vivi e ben presenti, i ricordi dei diversi momenti che Bruno Salvadori ed io abbiamo vissuto insieme, talora scontrandoci, talora ritrovandoci. Ho sempre avuto grande ammirazione per Bruno Salvadori e credo questo traspaia nel mio libro che non può essere un libro davvero storico, poiché non ho le doti dello storico, e forse per questo ho cercato di scrivere nello stesso modo con cui si sviluppava la nostra amicizia: un dialogo a due.

Racconto e ricordo, quindi, rinviando sempre agli scritti di Bruno Salvadori, limitandomi, in questo, ad osservare che non sono riuscito a trovare un argomento di cui Bruno Salvadori non abbia scritto, sì che oggi affermare che si occupò di molte cose, tracciandone un lista, significa inevitabilmente dimenticarne molte altre. Poiché so che in occasione di questo 25° anniversario, molti valdostani scriveranno di lui, per rendere tangibile testimonianza di un'amicizia, evito nel libro di citare le parole di cordoglio che le autorità valdostane, gli esponenti di primo piano dell'U.V. e i più semplici amici, pronunciarono o scrissero alla sua morte. Do, invece spazio, alla voce di alcuni amici che in Italia e all'estero, ebbero l'occasione di conoscerlo e di collaborare con lui: amici ed alleati delle elezioni europee del 1979 soprattutto.

Ho scritto questo libro perché credo che Bruno Salvadori sia stato un personaggio di grande importanza per la Valle d'Aosta e non solo. Tra i torti che subì ed i risultati che non raggiunse, anche perché morì troppo giovane, non voglio ci sia anche il fatto che dalla sua morte in poi, la polemica politica, il rilancio culturale, il dinamismo sociale e la progettualità istituzionale che caratterizzarono la sua azione, sono diventati rugginosi reperti del passato. Tra le tante ambizioni che credo lo abbiano fortemente motivato e che fecero ritenere ad alcuni che, talora, Bruno Salvadori fosse eccessivamente arrivista, c'è sicuramente quella di non voler essere dimenticato. Spero che, anche grazie al mio libro, Bruno Salvadori non sia dimenticato.

François Stévenin


L'ATTUALITA' DEL PENSIERO DI BRUNO SALVADORI

Libere riduzioni di materiali e dialoghi con François Stévenin

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Nel linguaggio di Bruno Salvadori compaiono spesso termini come "regionalismo" e "federalismo"; del primo è chiaro negli scritti di Bruno Salvadori il significato "rivoluzionario": il regionalismo si contrappone al centralismo, non è una semplice forma di adattamento amministrativo di un centro che, per funzionare meglio, delega lo svolgimento di alcune funzioni alla periferia. Nel linguaggio di Salvadori e dei suoi tempi, il regionalismo è l'affermazione del diritto dei piccoli popoli a non esser considerati soltanto "minoranze" alle quali applicare diritti residuali o tutele paternalistiche, calate dall'alto; è, altresì, l'affermazione - in senso federalista - della prima forma di istituzione di base cui corrisponde un nuovo diritto basato sulla/sulle identità.

E' bene ed opportuno, quindi, dare alle parole di Bruno Salvadori, il giusto significato. Anche per renderne attuale il ricordo. E', questa, una precisazione indispensabile a comprendere la sua politica nei confronti di movimenti, partiti e forze culturali nati non dalla rivendicazione di un'identità storica consolidata, ma dall'affermazione di diritti democratici di tipo autonomistico, là dove, finalmente, l'autonomia è un principio da applicare a 360 gradi Parlare di autonomia oggi è diventata una cosa banale; in Valle d'Aosta lo fanno tutti, soprattutto in campagna elettorale, e questo è diventato ormai uno sport che tutti giocano considerandosi esperti almeno quanto avviene con la nazionale di calcio e gli italiani: tutti se ne sentono allenatori.

Chiariamo, allora, da cosa nasce realmente l'autonomia: l'autonomia nasce da ragioni storiche, culturali, geografiche ed etniche, come spiega bene Bruno Salvadori nel suo "Pourquoi être autonomiste", la sua opera chiave. Qualunque forma istituzionale nasca da ragioni diverse può essere ragionevole e proponibile, ma non è l'autonomia o, meglio, non è la nostra autonomia. Un'autonomia che non si proponga di rappresentare e perpetuare quelle ragioni, inevitabilmente non è un'autonomia. Non abbiamo, purtroppo, l'abitudine di soffermarci sul vero significato delle parole e, quindi, prestiamo il fianco agli equivoci; definiamo così autonomia quello che, in realtà, è soltanto un piccolo decentramento regionalista; e, peggio, definiamo federalismo la semplice concessione da parte dello Stato di poteri residuali alle Regioni e agli enti locali, mentre il federalismo è, in realtà, l'esatto inverso e, cioè, la costruzione di un sistema istituzionale che delega ad un potere centrale, solo quelle competenze che non possono essere positivamente esercitate a livello locale. Anche questo concetto è ben chiarito da Bruno Salvadori in quel suo libro.

Facciamo anche di peggio perché definiamo "democrazia" un'organizzazione della vita istituzionale ed il sistema per rappresentare la voce dei cittadini, quando non ci mostriamo capaci di capire quale è il momento discriminante tra la rappresentazione dell'individuo e quella della comunità nella quale egli si realizza: se, ad esempio, si riconosce all'uomo il diritto di non essere discriminato per ragioni linguistiche, ma non si riconosce alla comunità cui egli appartiene il diritto di usare ed insegnare quella lingua, sostanzialmente quel diritto risulterà negato, poiché nessun uomo potrà mai parlare e salvare da solo la propria lingua. Dicevamo delle ragioni dell'autonomia, ragioni storiche, culturali, geografiche ed etniche, le stesse che legittimano l'esistenza degli Stati che si dicono nazionali, proprio perché costituiti per dare una forma istituzionale alla vita di persone che dovrebbero avere la stessa storia, la stessa cultura, lo stesso stanziamento geografico, la stessa appartenenza etnica.

Se quelle ragioni possono legittimare l'esistenza di uno Stato di diritto, qualora in quello stesso Stato ci siano comunità con caratteristiche diverse, queste hanno parimenti diritto a scegliere la forma istituzionale che deve organizzarli e rappresentarli. Si dice, infatti, che queste caratteristiche connotano l'esistenza di una nazione, per questo gli Stati si definiscono nazionali. E se di Nazione e di Stato nazionale parliamo, o - almeno - abbiamo parlato fino a pochi decenni or sono, allora dovrebbero valere le regole del diritto internazionale che consentono ad ogni nazione di autodeterminarsi. A questa concettualizzazione Bruno Salvadori giunse, attraverso il percorso di studi e di ricerca politica. Nel linguaggio del federalismo, del resto, il termine autonomia non è altro che un passaggio che sta a mezzo tra l'autodefinizione e l'autodeterminazione. A questo concetto di Stato nazionale se ne contrappongono altri, in particolare quelli ispirati da un corretto riferimento ai valori del federalismo: si costruisce - cioè - uno Stato degli Stati, nel senso che la vita dei singoli e delle comunità parte dall'uomo, arriva allo stato comunale, allo stato regionale, allo stato continentale, allo stato mondiale, senza prevaricazione alcuna sulla possibilità che ciò che può esser deciso ed attuato a livello locale lo sia, poi, effettivamente.

Quindi, sostanzialmente, il federalismo giunge a negare il valore stesso dello Stato nazionale. E il nostro Bruno Salvadori giunse correttamente anche a questa conclusione. E che Bruno Salvadori guardasse ad un governo mondiale, reso possibile grazie al federalismo, è prospettiva sulla quale è ingiusto non soffermarsi affatto, se non altro perché ci rende più chiaro quanto egli guardasse lontano e quanto il suo sistema di valori di riferimento sia ancora attuale. Se teniamo presenti queste considerazioni, allora potremo concludere che la nostra autonomia non è soltanto un meccanismo istituzionale fatto di diritti, ma un modo di rapportare la nostra potenzialità di autogoverno ad un sistema politico più ampio, nel quale solo ciò che non possiamo affrontare e risolvere da soli, lo diventi in quella dimensione superiore. Esiste la possibilità che gli Stati siano plurinazionali, che facciano - cioè - delle diversità storiche, culturali, geografiche ed etniche di chi lo compone, una ricchezza che deve crescere armoniosamente nel rispetto di tutti e di ciascuno, riproponendo in questa dimensione le stesse problematiche che si pongono nell'armonizzare - in dimensione macro - la possibilità di organizzare un unico governo del mondo.

L'autonomia, la nostra autonomia, quindi, non può essere vissuta come una concessione che i valdostani sono riusciti a strappare allo Stato nazionale, perché se così fosse, si dovrebbe confermare che esistono un conflitto ed una conflittualità tra Valle d'Aosta e Italia che, invece, non avrebbero ragion d'essere. Non hanno ragion d'essere perché i valdostani, consci delle peculiarità storiche, geografiche, culturali ed etniche della Valle d'Aosta, hanno maturato la coscienza che in una dimensione più ampia dell'organizzazione istituzionale della vita dei cittadini europei, l'Europa appunto, non avrebbe senso che tutti i popoli - come il popolo valdostano - pur fortemente caratterizzati in senso nazionale - facessero ricorso al diritto all'autodeterminazione costituendo una miriade di Stati, proprio quando si afferma che la forma dello Stato, e dello Stato nazionale in particolare, è superata.

Se, quindi, l'autonomia non è solo il decentramento di poteri dello Stato, ed è nel contempo esercizio responsabile, in senso federale, di poteri e competenze esercitati "come se" si fosse uno Stato, ecco che ogni diversa interpretazione diventa riduttiva e mette in crisi l'autonomia stessa. Se, infatti, dimentichiamo le ragioni dell'autonomia e, addirittura, neghiamo che esse abbiano un valore e le contestiamo, ecco che allora viene meno la ragione stessa dell'autonomia. Quando, ai giorni nostri, il governo italiano si propone di attuare un piano di grandi opere in Italia e le raffigura facendo del Piemonte e della Valle d'Aosta una sola Regione; e quando questo o quel governo organizzano la rappresentatività dei cittadini italiani nel Parlamento Europeo, individuando le macroregioni e mettendo insieme Piemonte, Lombardia, Liguria e Valle d'Aosta, quando ciò avviene vuol dire che questo Stato non rispetta le caratteristiche della Valle d'Aosta e le sue peculiarità, quindi non rispetta l'autonomia.

Bruno Salvadori si contrappose fortemente a questa riduzione dell'autonomia a forma burocratica di esercizio di un potere che resta sempre in mano allo Stato. Ciò non è grave politicamente, perché le forze politiche possono trovare ispirazione in principi diversi da quelli dell'autonomia e del federalismo, ma è grave istituzionalmente, perché lo Stato italiano ha dato all'autonomia della Valle d'Aosta una valenza costituzionale. Le peculiarità storiche, culturali, geografiche ed etniche della Valle d'Aosta trovano nella Costituzione dello Stato italiano un vero riconoscimento. Ogni partito che vada contro questi principi, quindi, va contro la Costituzione. E' per questa considerazione che Bruno Salvadori portò avanti una battaglia contro la partitocrazia: perché, sostanzialmente, riteneva che i partiti fossero al servizio del centralismo, anche quando si contrappongono tra loro. Difendere l'autonomia della Valle d'Aosta, quindi, non è per Bruno Salvadori un puro esercizio elettorale e non può essere neppure e soltanto difendere l'autonomia finanziaria da biechi attacchi come quelli portati di recente che mettono in discussione il riparto fiscale tra Valle d'Aosta e Stato cui dedicò una attenzione ed un impegno particolari.

Difendere l'autonomia della Valle d'Aosta non è solo premere sulla valorizzazione degli elementi culturali ed etnici, come qualcuno ha ritenuto a torto venisse fatto dall'Union Valdotaine che difende la lingua francese. Difendere l'autonomia è difendere l'identità di una comunità e dovrebbe essere un dovere dell'intera comunità valdostana che, in quanto nazione, ha rinunciato a radicalizzare la rivendicazione di un pur legittimo esercizio del diritto all'autodeterminazione; la Valle d'Aosta nello spirito federalista vorrebbe rispettare con lo Stato e con l'Europa un patto di unità nella diversità e, in ottica democratica, affermare che la democrazia non si fa solo con i numeri (per cui 120 mila valdostani saranno sempre una minoranza), ma si deve fare rappresentando i diritti collettivi e le capacità di autogoverno. Non è possibile, infatti, affrontare ovunque i problemi allo stesso modo, quindi è bene che - pur con un sistema di coordinamento delle diverse autonomie, in Italia e in Europa - nessun potere centrale soffochi le autonomie, ma anzi ne crei di nuove e le rispetti.

Bruno Salvadori riteneva che fosse molto pericoloso affermare che le ragioni dell'autonomia sono diverse da quelle che hanno reso possibile l'autonomia stessa; se le ragioni dell'autonomia non sono quelle storiche, culturali, geografiche ed etniche, non sarebbero neppure ragioni legate alla comunità, al popolo, alla nazione valdostana, ma risulterebbero essere le ragioni di una pratica di decentramento utile solo alla miglior organizzazione dello Stato, organizzazione che muta in relazione ai problemi ed alle esigenze e che - quindi - finisce sempre col riconoscere ai poteri dello Stato e delle sue istituzioni un diritto di prelazione su tutto. Bisogna diffidare, quindi, degli autonomismi che si perdono nel tentativo di cercare nuove ragioni o in quello di contestare alcune delle ragioni storiche dell'autonomia. Contrastare la cultura e le caratteristiche etnico-culturali della Valle d'Aosta non è, in alcun modo, un semplice confronto sulle modalità attraverso le quali valorizzare, ad esempio, la lingua francese, ma è negare sostanzialmente che la lingua francese abbia una ragion d'essere.

Questo significa negare ad un popolo il diritto ad esistere. Forse vogliamo arrivare a dire che, ormai, nelle ragioni dell'autonomia si riconosce soltanto una parte di valdostani e che, di conseguenza, bisogna rappresentare organicamente e strutturalmente, le presunte nuove caratteristiche. Questo è falso: le nuove ragioni addotte sono talmente uguali a quelle di qualunque altra area geografica o regionale d'Italia o d'Europa, da non giustificare nessuna autonomia e, peggio, da non giustificare neppure nessun decentramento, se non quello che passi dalla costruzione a tavolino di nuove regioni. E il modo con cui Bruno Salvadori volle essere valdostano, anche affermando che essere valdostani non è una questione di razza, spiega ulteriormente che in Valle d'Aosta non esistono valdostani di origine e di adozione e italiani, ma valdostani tout court, visto che essere valdostani non è una questione di razza.

La responsabilità dell'U.V. di fronte all'autonomia è davvero grande; l'U.V. è riuscita a mediare, anche se talora in modo apparentemente contraddittorio, rispetto ai propri principi conclamati, potendosi alfine presentare come il movimento/partito che più di altri sembra avere le carte in regola per amministrare la Valle d'Aosta; e che, per farlo, debba insistere sui valori dell'autonomia, anche a nome di chi non li riconosce, ma ne vuol godere i frutti, è l'esercizio illuminato di una real politik che ci fa correre un solo rischio: finire col credere anche noi che quei valori non esistono più, ma che bisogna fingere esistano ancora e - quindi - li sventoliamo come una bandiera, senza neppure sapere perché abbia proprio quei colori.

L'ACTUALITÉ DE LA PENSÉE DE BRUNO SALVADORI

Libere riduzioni di materiali e dialoghi con François Stévenin

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Dans le langage de Bruno Salvadori reviennent souvent des termes comme "régionalisme" et "fédéralisme". En ce qui concerne le premier, il est clair dans les écrits de Salvadori le sens "révolutionnaire": le régionalisme s'oppose au centralisme, ce n'est pas une simple forme d'adaptation administrative d'un centre qui, pour mieux fonctionner, délègue l'exercice de certaines fonctions à la périphérie. Dans son langage et dans celui de son temps, le régionalisme est l'affirmation du droit des petits peuples à ne pas être considérés seulement comme des "minorités" auxquelles appliquer des droits résiduels ou des protections paternalistes, qu'on fait descendre d'en haut; c'est également l'affirmation - dans un sens fédéraliste - de la première forme d'institution de base à laquelle correspond un nouveau droit basé sur la / les identité/s.

Il est donc bon et opportun de donner aux paroles de Bruno Salvadori leur juste sens pour en rendre également le souvenir actuel. C'est là une précision indispensable pour comprendre sa politique vis - à - vis de mouvements, partis et forces culturelles nés, non de la revendication d'une identité historique consolidée, mais de l'affirmation de droits démocratiques de type autonomistes, bref là où l'autonomie est un principe à appliquer globalement. Parler d'autonomie aujourd'hui est devenu quelque chose de banal; en Vallée d'Aoste tout le monde le fait, surtout en campagne électorale. C'est devenu désormais un sport auquel tout un chacun joue et pense être expert, un peu comme les Italiens qui se sentent tous entraîneurs lorsqu'il s'agit de l'équipe "nationale" de football. Essayons alors de voir plus clairement d'où vient réellement l'autonomie. Elle naît de raisons géographiques, historiques, culturelles, et enfin ethniques comme l'explique bien Bruno Salvadori dans son "Pourquoi être autonomiste": son ouvrage clé. Toute forme institutionnelle issue de raisons différentes peut être raisonnable et proposable, mais ce n'est pas l'autonomie, ou plutôt, ce n'est pas notre autonomie. Une autonomie qui ne se propose pas de représenter et perpétuer ces raisons, n'en est inévitablement pas une.

Nous n'avons malheureusement pas l'habitude de nous pencher longuement sur le vrai sens des mots et donc nous prêtons le flanc aux équivoques. Nous définissons ainsi autonomie ce qui, en réalité, est seulement une petite décentralisation régionale; et pis encore, nous appelons fédéralisme la simple concession de la part de l'État de pouvoirs résiduels aux régions et aux collectivités locales, tandis que le fédéralisme est, en réalité, exactement le contraire, à savoir la construction d'un système institutionnel qui délègue à un pouvoir central seulement les compétences qui ne peuvent être exercées de manière positive au niveau local. Ce concept est aussi bien éclairci par Bruno Salvadori dans son livre.

Nous faisons même pire, parce que nous appelons " démocratie " une organisation de la vie institutionnelle et le système pour représenter la voix des citoyens, quand nous ne nous montrons pas capables de comprendre où est la ligne de séparation entre la représentation de l'individu et celle de la communauté dans laquelle il se réalise: si, par exemple, on reconnaît à l'homme le droit de ne pas être discriminé pour des raisons linguistiques, mais on ne reconnaît pas à sa communauté d'appartenance le droit d'utiliser et d'enseigner cette langue, ce droit sera un droit nié, étant donné qu'aucun homme ne peut à lui seul sauver sa propre langue.

Nous parlions des raisons de l'autonomie, géographiques, historiques, ethniques et enfin culturelles qui légitiment l'existence des États qui se disent "nations" justement parce que constitués pour donner une forme institutionnelle à la vie de personnes qui ont la même localisation géographique, histoire, appartenance ethnique et enfin culture. Si ces mêmes raisons peuvent légitimer l' existence d'un État de droit, au cas au dans ce même État il y aurait des communautés ayant des caractéristiques différentes, ces dernières ont elles aussi le même droit que n'importe quel autre de choisir la forme institutionnelle qui doit les organiser et les représenter. On dit en effet que ces caractéristiques marquent l'existence d'une "nation", c'est pourquoi les États se décrivent comme nations. Et si c'est de nations et d'États - nation dont nous parlons, ou - du moins - nous avons parlé jusqu'à il y a quelques décennies, alors les règles du droit international qui permettent à chaque "nation" de s'autodéterminer devraient toujours être valables. Bruno Salvadori arrive à cette conceptualisation dans son parcours d'études et de recherche politique.

D'ailleurs, dans le langage du fédéralisme, le terme autonomie n'est autre qu'un passage qui reste à mi - chemin entre l'auto définition et l'autodétermination. D'autres concepts s'opposent à celui d'État nation, en particulier ceux qui s'inspirent d'une référence correcte aux valeurs du fédéralisme: il se construit - en d'autres termes - un État des États, dans le sens que la vie des individus et des communautés part de l'homme, arrive au stade municipal, régional, continental, mondial, sans trahir la possibilité que ce qui peut être décidé et réalisé au niveau local soit effectivement réalisé ensuite. Par conséquent le fédéralisme parvient à nier la valeur même de l'état national. Bruno Salvadori parvint correctement à cette conclusion aussi. Au vu de ces considérations, nous pouvons alors conclure que notre autonomie n'est pas seulement un mécanisme institutionnel fait de droits, mais une façon de rapporter notre potentialité d'auto gouvernement à un système politique plus ample, dans lequel seul ce que nous ne pouvons traiter et résoudre de nous-mêmes peut être abordé et résolu dans cette dimension supérieure.

Il existe la possibilité que les États soient plurinationaux, c'est - à - dire des États pour lesquels les différences géographiques, historiques, ethniques et enfin culturelles, de ceux qui les composent est une richesse. Cette dernière est à accroître harmonieusement dans le respect de tous et de chacun en proposant encore dans cette dimension les mêmes questionnements qui se posent - dans une dimension macro - quand il s'agit d'envisager un gouvernement unique du monde. L'autonomie, notre autonomie, donc, ne peut être vécue comme une concession que les Valdôtains ont réussi à arracher à l'État italien, parce que s'il en était ainsi, il faudrait confirmer qu'il existe un conflit et une situation conflictuelle entre la Vallée d'Aoste et l'Italie, qui au contraire n'auraient pas lieu d'être.

En réalité les Valdôtains sont conscients des particularités géographiques, historiques, ethniques et enfin culturelles de la Vallée d'Aoste et ils sont arrivés à la conviction suivante: Dans une dimension plus ample de l'organisation institutionnelle de la vie des citoyens européens, l'Europe, il ne serait pas logique que les peuples - comme le peuple valdôtain - tout en étant fortement caractérisés dans un sens national, invoquent le droit à l'autodétermination. Cela constituerait une myriade d'États dès lors que la forme de l'État nation est dépassée. Si l'autonomie ne veut donc pas dire seulement décentraliser des pouvoirs de l'État, mais aussi exercer de façon responsable, dans un sens fédéral, des pouvoirs et des compétences exercés "comme si" il y avait un État, toute interprétation différente devient réductrice et met en crise l'autonomie elle -même. Si en effet nous oublions les raisons qui sous - tendent l'autonomie, si nous nions même qu'elles ont une valeur et que nous les contestons, l'autonomie perd tout son sens.

Aujourd'hui nous voyons le gouvernement italien se proposer de réaliser un plan de grands travaux en Italie et les présenter en faisant du Piémont et de la Vallée d'Aoste une seule Région. Quand par ailleurs tel ou tel gouvernement organise la représentativité des citoyens italiens au Parlement Européen en identifiant des macro régions et en mettant ensemble le Piémont, la Lombardie, la Ligurie et la Vallée d'Aoste, cela veut dire que cet État ne respecte pas les caractéristiques de la Vallée d'Aoste et ses particularités, donc qu'il ne respecte pas l'autonomie. Bruno Salvadori s'opposa fortement à cette façon de réduire l'autonomie à l'exercice sous une forme bureaucratique d'un pouvoir qui reste toujours dans les mains de l'État. Ceci n'est pas grave politiquement, parce que les forces politiques peuvent trouver l'inspiration dans des principes autres que ceux de l'autonomie et du fédéralisme, mais c'est institutionnellement grave, car l'État italien a donné à l'autonomie de la Vallée d'Aoste une signification constitutionnelle.

Les particularités géographiques, historiques, ethniques et enfin culturelles de la Vallée d'Aoste sont parfaitement reconnues dans la Constitution de l'État italien. Tout parti qui va contre ces principes va contre la Constitution. C'est en vertu de cela que Bruno Salvadori lutta contre l'hégémonie des partis: il pensait en substance que les partis étaient au service du centralisme, même quand ils s'opposent les uns aux autres. Défendre l'autonomie de la Vallée d'Aoste, n'est donc pas pour Bruno Salvadori un pur exercice électoral; comme cela ne peut pas seulement signifier défendre l'autonomie financière contre de féroces attaques comme celles qui ont été portées récemment en mettant en mettant discussion la répartition fiscale entre la Vallée d'Aoste et l'État, objet de toute son attention et son engagement.

Défendre l'autonomie de la Vallée d'Aoste n'est pas seulement insister sur la valorisation des éléments culturels et ethniques, comme on a pu penser à tort que c'était ce que faisait l'Union Valdôtaine en défendant la langue française. Défendre l'autonomie est un devoir de toute la communauté. Certes cela devrait être une obligation de toute la Communauté valdôtaine qui, en tant que nation, a renoncé à radicaliser la revendication de l'autodétermination, droit qu'il serait pourtant légitime d'exercer. La Vallée d'Aoste, dans l'esprit fédéraliste, veut respecter avec l'État un pacte d'unité dans la diversité et une optique démocratique, en affirmant précisément que la démocratie ne se fait pas seulement avec les nombres (120 mille Valdôtains seront toujours une minorité), mais qu'elle doit se faire en représentant les droits collectifs et les capacités d'auto gouvernement.

Les problèmes ne peuvent pas être affrontés partout de la même façon. Le système de coordination des diverses autonomies en Italie et en Europe peut être différent. Le pouvoir central ne devrait jamais suffoquer les autonomies, mais plutôt il devrait en créer de nouvelles et les respecter. Bruno Salvadori pensait qu'il était très dangereux d'affirmer que les germes de l'autonomie ne sont pas ce qui a rendu possible l'autonomie elle-même. Si les principes de l'autonomie ne sont pas géographiques, historiques, ethniques et enfin culturels, ils ne seraient même pas liés à la Communauté, au peuple, à la nation valdôtaine; ce serait le fondement d'une pratique de décentralisation servant seulement à une meilleure organisation de l'État. Or, l'État en devant se réorganiser par rapport aux problèmes et aux besoins, ses pouvoirs et ses institutions priment toujours sur tout.

Il faut donc se méfier des autonomismes qui se perdent dans la tentative de chercher de nouvelles raisons pour l'autonomie ou de contester certaines de ses raisons historiques. Si nous entravons la culture et les caractéristiques ethniques de la Vallée d'Aoste, ce n'est certes pas mettre en cause simplement la langue française ni comment la valoriser, mais c'est nier que la langue française a une raison d'être. Ceci signifie nier à un peuple le droit à l'existence. Peut-être voulons - nous arriver à dire que seule une partie de Valdôtains se reconnaît désormais dans l'autonomie et que, en conséquence, ses nouvelles caractéristiques présumées devraient être représentées de manière organisée et structurelle. Ceci est faux: les nouvelles motivations avancées sont les mêmes partout en Italie ou en Europe, à tel point qu'elles ne justifient même pas une décentralisation, si ce n'est en passant par la construction de nouvelles régions sur le papier.

C'est là la façon dont Bruno Salvadori veut être Valdôtain: affirmer également qu'être Valdôtain n'est pas une question de race; il explique ultérieurement qu'en Vallée d'Aoste nous ne pouvons pas parler de Valdôtains d'origine, de Valdôtains d'adoption et d'Italiens, mais il existe des Valdôtains tout court, vu que ce n'est pas une question de race. (esprit de Genève) La responsabilité de l'U.V. face à l'autonomie est vraiment grande. L'U.V. est parvenue à modérer ses principes déclarés, même si parfois de façon apparemment contradictoire, et elle peut enfin se présenter comme le mouvement / parti qui, plus que tout autre, semble avoir les papiers en règle pour administrer la Vallée d'Aoste. Pour le faire, le mouvement doit insister sur les valeurs de l'autonomie, même au nom de ceux qui bien que ne les reconnaissant pas veulent bénéficier de ses fruits. C'est l'exercice éclairé d'une real politik qui nous fait courir uniquement un risque: finir par croire, nous aussi, que ces valeurs n'existent plus mais qu'il faut faire semblant qu'elles existent encore. C'est pourquoi nous les agitons comme un drapeau, sans même savoir pourquoi il a ces couleurs - là.


Materiali per la versione in lingua italiana del libro di François Stévenin

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Come si concilia il fatto apparentemente contraddittorio di considerare la Valle d'Aosta una "Regione", difendendone strenuamente l'autonomia, e - al tempo stesso - di definirla una "Nazione", auspicando conquisti la sua piena sovranità? In realtà la contraddizione è meno sostanziale di quanto appaia: una stessa terminologia in contesti e in epoche diverse assume un diverso significato e, addirittura, può assumere significati opposti. Un esempio: la parola "nazionalismo" evoca i guasti e le nefandezze del fascismo e del nazismo, ma nei Paesi Baschi e in Catalogna furono proprio il nazionalismo basco e quello catalano a contrapporsi al fascismo e al nazismo.

Nel dopoguerra, in Europa definirsi "regionalisti" significava essere rivoluzionari, pronti a rovesciare la democrazia costituita degli Stati. In seguito esser regionalisti ha assunto il significato che ha ancora oggi: ritenere che lo Stato centrale, per conservare ed esercitare meglio i propri poteri, debba decentrarsi, attribuendo alcune competenze alle Regioni, pure e semplici entità amministrative. Bruno Salvadori fu regionalista quando il termine aveva un significato rivoluzionario. Nel dopoguerra essere "autonomisti" equivaleva a dare al proprio regionalismo una particolare prospettiva istituzionale: la conquista di un'autonomia regionale che prevedesse l'esercizio esclusivo, da parte della Regione, di alcune competenze non soltanto amministrative, ma anche e soprattutto normative. Bruno Salvadori fu autonomista difendendo lo Statuto di Autonomia della Valle d'Aosta.

Nel dopoguerra essere "federalisti" significava pensare alla costruzione dell'Europa; mentre, però, gli Stati miravano ad aggregarsi, forte era la spinta tesa a creare non l'Europa degli Stati, ma l'Europa dei Popoli. Bruno Salvadori fu federalista quando il federalismo mirava a trasformare gli Stati in senso federale, per render poi possibile l'edificazione dell'Europa dei Popoli. L'azione di Bruno Salvadori fece i conti anche con altre dinamiche: ad esempio quella legata al riconoscimento della Valle d'Aosta come "minoranza etnica", o come "minoranza linguistica", o come "minoranza etno-linguistica"; nel dopoguerra la tutela di queste "minoranze" fu la sola rivendicazione che gli Stati ammisero per evitare che la loro sovranità fosse messa in discussione. Bruno Salvadori difese strenuamente le peculiarità della Valle d'Aosta come "minoranza".

Sostanzialmente una parte dell'azione politica di Bruno Salvadori è portata, quindi, all'interno del quadro istituzionale esistente, assumendone il linguaggio. Ma, dice Bruno Salvadori, la Valle d'Aosta è una Nazione... L'autonomia della Valle d'Aosta poggia su una serie di caratteristiche (geografiche, storiche, linguistiche, etniche, ecc.), le stesse che hanno permesso all'Italia di legittimarsi come Nazione sovrana e di diventare uno Stato. Nella stessa condizione della Valle d'Aosta si trovano molte altre Nazioni comprese e compresse da Stati che si definiscono "nazionali" ed alle quali può essere applicata questa analisi. Come è possibile, allora, che stesse caratteristiche non legittimino uno stesso diritto? I cosiddetti Stati nazionali, costituiti a seguito di vicende belliche legate alla spartizione del territorio per ragioni economiche e strategiche, si sono arrogati il diritto di negare alle altre Nazioni diritti più ampi di quelli attribuibili alle Regioni e alle minoranze.

E' comprensibile, allora, come i movimenti separatista, annessionista, indipendentista, autonomista che scossero la Valle d'Aosta nell'immediato dopoguerra, possano esser considerati come il complesso movimento di una Nazione senza Stato che rivendicava il proprio legittimo diritto all'autodeterminazione. Bruno Salvadori studiò a fondo questi passaggi chiave della storia valdostana. Quando l'U.V. si costituì, fece una scelta di realismo politico ed accettò un'autonomia che parve dimezzata perfino a coloro che la consideravano come l'opzione preferibile tra le tante possibili, grazie all'esercizio dell'autodeterminazione; costoro attribuirono allo Statuto la valenza di un patto sottoscritto con lo Stato, anche se fu subito chiaro che lo Stato, invece, non lo considerava affatto tale. Con il tempo l'autonomia rese possibile alla Valle d'Aosta un positivo passo in avanti dal punto di vista sociale ed economico e diventò un valore riconosciuto da tutti i valdostani. Contro gli attacchi che lo Stato mosse all'autonomia, Bruno Salvadori fu sempre attento e determinato.

Come, tuttavia, è possibile andare oltre l'autonomia? Prendendo ispirazione dal federalismo di Emile Chanoux, Bruno Salvadori concepì l'idea che questa svolta fosse possibile grazie alle dinamiche di costruzione dell'Europa: volle, quindi, che l'U.V. partecipasse alle prime elezioni dirette del Parlamento Europeo (alle quali molte formazioni delle Nazioni senza Stato in Europa presero parte) per portarvi la vera voce delle Nazioni senza Stato, o come comunque altrimenti definite. Gli Stati europei unendosi, tuttavia, si legittimarono l'un l'altro anche contro le rivendicazioni anticentraliste e da allora, chiunque in Europa osi parlare di autodeterminazione è criminalizzato. Bruno Salvadori, tuttavia, rilanciò ulteriormente la questione. Quando teorizzò la conquista del 51% dei consensi in Valle d'Aosta, questa non raffigurò solo il sogno di una U.V. fortissima, capace di governare la Valle d'Aosta senza il condizionamento di partiti che prendevano ordini da Roma, ma anche definitivo passaggio della "question valdotaine" da faccenda legata ad una minoranza a questione politica legata ad un Popolo intero. Ecco perché Bruno Salvadori difende l'identità valdostana e spiega che "essere valdostani non è una questione di razza"; l'identità collettiva è frutto di un percorso storico compiuto da un insieme di persone, trovando comuni modi e stili di vita confacenti con il territorio, lingue che servano per comunicare all'interno e - prima di tutto - con i vicini, memoria e progettualità storiche per condividere tradizioni e progetti di progresso. Il che cancella ogni possibile equivoco terminologico legato al significato negativizzato di parole come Etnia e Nazione. Che cosa è, allora, il Popolo per Bruno Salvadori? E' l'insieme delle persone che condividono un dato territorio e nel quale vivono, eredi e continui costruttori di un'identità collettiva. In barba a tutte le vicissitudini della storia, un Popolo esiste in questa terra già da 4 mila anni prima di Cristo, anche se dirsi "valdostani", sembra ricordare solo l'esser stati "abitanti della Valle di Augusto", quindi evoca la romanizazione. Invece passano i secoli, si susseguono le dominazione e le epoche di libertà, ma resta il Popolo. Un Popolo che prenda coscienza dei propri diritti, nel consesso di una storia fatta da Stati nazionali, è una Nazione. Chi può negare, allora, ad un Popolo che si scopre Nazione e che raccoglie al proprio interno l'intero consenso dei cittadini ad una proposta di autodeterminazione, il diritto di esercitarla? Una minoranza dovrà pur sempre accontentarsi di forme più o meno ampie di tutela, ma un Popolo no. Ecco come e perché il progetto di Bruno Salvadori legato alla conquista del 51% dei consensi non è solo un progetto valdostano, ma una nuova apertura di credito rispetto all'autodeterminazione. In una costruzione istituzionale ideale, Bruno Salvadori si immagina il superamento degli Stati, ma se nella realtà contingente sono gli Stati a detenere il diritto, allora diventa inevitabile far riferimento a quella sola forma istituzionale. Anche perché all'interno dell'Europa, gli Stati hanno costruito per le Nazioni senza Stato forme di rappresentatività puramente consultiva sia a livello politico (con il Comitato delle Regioni), sia a livello culturale (con il Bureau per le lingue meno diffuse... ecco un'altra invenzione terminologica...), sia a livello economico (con i progetti Interreg e con la Cooperazione transfrontaliera). E allora va riletto, infine, un ulteriore contenuto rivoluzionario nel disegno di Bruno Salvadori: dare alla Valle d'Aosta, Nazione senza Stato, le prospettive di conquistare non una sovranità interna, ma la riaggregazione della "Nation Savoyarde", sparsa in tre Stati diversi. (Appunti di François Stévenin e Claudio Magnabosco)


25 ANNI FA MORIVA BRUNO SALVADORI

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A Bruno Salvadori piaceva il fatto che, occupandoci di cultura e di politica, noi - suoi collaboratori - avessimo nella nostra sigla uno specifico riferimento all'AZIONE, eravamo, infatti, l'Equipe d'Action Culturelle. Non fu un ideologo, ma rispetto a tante problematiche seppe dare un impulso particolare, infastidendo gli intellettuali che faticavano a far passare idee che, manipolate da lui, diventavano immediatamente popolari, e pestando i piedi ai politici che non capivano dove lui volesse arrivare e non volevano arrivasse da nessuna parte.

A noi mancano le sue contraddizioni, la sua voglia di far carriera, i suoi limiti ed i suoi difetti, tutte quelle cose che fecero di lui un uomo vero e non un leader dal carisma rigido ed inamovibile. Oggi vorremmo proclamare il suo sciopero linguistico, andare in giro per l'Italia a costruire i suoi partiti regionali, preparare per lui una nuova lista europea, litigare con Bossi, spaccare l'U.V. e poi riunificarla... e molte altre cose che fece o lasciò incompiute. Vicini alla sua famiglia ed attenti alle vicende della sua U.V. e del suo S.A.V.T., lo ricordiamo con affetto.

Equipe d'Action Culturelle


LE MIE QUATTRO VERITÀ
Appunti per un corretto ricordo di Bruno Salvadori e della sua epoca storica

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Molti contatti tra le forze politiche autonomiste in Italia risalgono all'attività di padre Egidio Guidubaldi.

Piaccia, oppure no, ma è verità storica: Guidubaldi arrivò ad Aosta, chiamato da Lanivi, allora assessore comunale D.C./D.P., presentato a Cesare Dujany, capo della Giunta regionale, da esponenti degli ambienti cattolici progressisti di Milano, dove Guidubaldi insegnava all'Università Cattolica, attuando manifestazioni presso il prestigioso Centro San Fedele. Siamo a cavallo tra gli anni '69/'70 e Guidubaldi si diede da fare per l'Università in Valle d'Aosta, quella della quale parlavamo noi del Gruppo Giovanile (poi diventato E.A.C.), quella di cui parlava Bruno Salvadori del C.U.V. Si confrontò (e c'eravamo anche noi, giovinetti) con il Groupe de recherche socio-linguistique, dove stavano, insieme, gli intellettuali Alexis Bétemps e Tullio Omezzoli, anche loro (ma più di tutti Omezzoli) impegnati per l'istituzione di un'Università in Valle d'Aosta. Guidubaldi gestiva i centri estivi di formazione per insegnanti a Gressoney Sain-Jean, attivati con l'appoggio di Clément Alliod, Sindaco del Comune stesso. Fece suoi i problemi e l'identità dei walser. L'università valdostana avrebbe potuto aver sede a Gressoney e già c'erano le planimetrie di una struttura che l'avrebbe ospitata.

Nel 1972 Guidubaldi svolse a Milano seminari e conferenze sull'Europa, poi nel 1973 e nel 1974 promosse convegni sulle minoranze creando il M.E.M. (Movimento Europeo Minoranze); in seguito portò in Valle d'Aosta, a Milano, in Sardegna e in altre regioni il Sergio Salvi che aveva pubblicato le Nazioni Proibite. Salvi venne ad Aosta, dove all'incontro che rientrava in un Progetto per la creazione di una università valdostana, interveniva quello che sarebbe diventato il più noto sociologo valdostano, Lorenzo Gillo, e anche a Chatillon dove a gestire il dibattito c'era, ancora e di nuovo, Tullio Omezzoli. Nel 1973 io partecipai ad un Convegno sui problemi linguistici a Villasimius, insieme a molti grandi intellettuali della Sardegna e del sardismo, in particolare insieme ad Antonello Satta, lettore di Jaca Book ed amico di Francesco Tassone (leader del Movimento Meridionale) ed Eliseo Spiga (leader sardista).

Nel '74 Guidubaldi cominciò a parlarci di un Centro Internazionale che stava nascendo a Milano e noi incontrammo a Milano il giornalista Carlo Alberto Delfino il quale ci voleva coinvolgere in una pubblicazione, "Minoranze", concepita da esuli antifranchisti. L'ambiente era quello del Sindaco socialista di Milano Aldo Aniasi e dell'estrema sinistra demoproletaria o giù di lì, con appendici anarchiche e libertarie. Ma a Milano, con noi c'era anche Padre Davide Maria Turoldo, friulano e c'erano gli esponenti culturali del movimento lombardo-veneto, con Agostinetti e De Carlo, che svolgevano un lavoro culturale parallelo a quello dell'organizzazione Civiltà Mitteleuropea, fatta soprattutto da friulani, semplicisticamente definiti "nostalgici" di Francesco Giuseppe. A Milano ci andammo più di una volta e più di una volta c'erano, con noi, Cesare Dujany e Pierino Daudry, leader del movimento arpitano; più volte io raggiunsi Milano con mia moglie, con Bruno Salvadori e con sua moglie Gisella.

Veniva talvolta anche Gustavo Buratti, amico di Tassone, esponente dell'A.I.D.L.C.M. Incontrai e conobbi in questo periodo, Andrea Pamparana (oggi giornalista di Canale 5) con il quale scrissi articoli su Critica Sociale, periodico culturale di area P.S.I.., riguardanti l'U.V. e l'Europa; e Toni Capuozzo, allora piccolo free lance che venne ad Aosta e mi fece un'intervista. Nel 1975 padre Guidubaldi portò Aureli Argemi ad Aosta e noi ci legammo subito al CIEMEN, iniziando fin dall'estate 75 a partecipare alle giornate di Cuixà (Catalogna Nord), alle quali parteciparono, in anni seguenti, anche Tassone ed altri, meridionali e sardi, amici di Eliseo Spiga. Stringemmo i rapporti con Salvadori. Guidubaldi era stato inviato ad insegnare a Sassari e benché tentasse ancora, anche da lì, operazioni di collegamento proponendo l'Università sardo-sloveno-valdostana: (aveva, infatti, agganciato anche gli sloveni e, tra questi, Andrej Bratuz), la sua voce si affievolì.

A me non interessano i primati, però fatico ad accettare che si neghi l'evidenza: Guidubaldi aveva fondato il M.E.M. (Movimento Europeo Minoranze), con poca fortuna, forse, ma certamente anticipando tutti e, sicuramente, suggestionando persone che. come Bruno Salvadori, erano capaci di succhiare idee e proposte ovunque. Oggi Sergio Salvi non ricorda Bruno Salvadori e anche Eliseo Spiga non lo ricorda: forse è giusto dimentichino, perché per loro Bruno Salvadori non significò altro che un contatto, mentre per altri, per me ad esempio, mantenere i rapporti è sempre stata una scelta umana prima che politica, quindi da tutti i contatti che ebbi nacquero delle amicizie. Un giorno ebbi un complimento da Emile Proment, l'intellettuale valdostano scomparso da pochi anni e che venne sempre considerato il simbolo della coerenza: mi disse che aveva notato con quale trasporto ed affetto io accogliessi, ricambiato, gli ospiti internazionali dell'U.V.

Il vero problema delle diverse "minoranze" è sempre stato quello di non intrattenere mai veri rapporti, veri rapporti di amicizia tra i protagonisti delle battaglie portate avanti per difenderle. Quando, oggi, Ghizzi Ghidorzi (leader del Partito Federalista in Italia) dice che Bruno gli propose di costituire una federazione di movimenti autonomisti, mi vien da sorridere perché quella idea era già realizzata nel Parlamento Europeo (non ancora eletto direttamente) dove Mauritius Coppieters, fiammingo, (lo avevo contattato perché stavo studiando l'atteggiamento filonazista di alcune minoranze europee in chiave antistatale), già aveva creato l'A.L.E., coinvolgendo addirittura il vallone Paul Henri Gendebien; era anche una proposta C.I.E.M.E.N. che pensava ad una sorta di Parlamento ombra, dove gli esclusi dal P.E. e quelli in clandestinità antifranchista, potessero confrontarsi; ed era, inoltre, una proposta di Guidubaldi con il suo M.E.M.

Non sono fantasie, ci sono documenti, articoli, pubblicazioni... Salvadori prese a piene mani un po' qui, un po' li, questo è evidente e non mi importa più di tanto precisare dove e da chi prese; anche con la F.U.E.V l'U.V. aveva contatti storici e l'U..V riceveva pubblicazioni delle minoranze varie: le idee circolano liberamente e tutti possono coglierle; è certo che non sarebbe male studiare davvero la storia. Salvadori attinse anche a queste. Ne verrebbe fuori che anche la F.U.E.V. fu importante, ma lo divenne meno proprio a partire dalla Presidenza Caveri, troppo preso dalle sue cose interne e troppo ambiguamente (a mio avviso) preso a fare il contrario di quel diceva Chanoux: se è vero che Chanoux proponeva di portare avanti una action autonomiste ouverte ed una action séparatiste cachée, Caveri fu autonomista, solo minacciando e tuonando come un separatista.

Nei rapporti internazionali, inoltre, l'U.V. non riuscì mai a sciogliere la contraddizione del suo appartenere alla Ethnie Française o alla communauté francophone e, al tempo stesso, battersi per le minoranze. Solo Salvadori (e poi io, se mi è permesso prendermi dei meriti), fece un passo per dire queste cose, quando una riunione di francofoni si tenne in Corsica.... Michele Columbu, eletto al Parlamento Europeo nel 1984 in una lista di partiti rappresentanti le minoranze che nacque proprio dall'esperienza di Bruno Salvadori, fu accusato di non aver favorito la rotazione e l'acceso al soglio europeo di un valdostano in sua sostituzione. Nessuno mi toglie dalla testa quel che so: la prima cosa che Michele fece dopo aver partecipato alla prima seduta del Parlamento Europeo, fu venire ad Aosta: fui io a riceverlo e ad accompagnarlo; Lèonard Tamone, Presidente dell'U.V. si preoccupò di riceverlo in sede e a chiedergli bruscamente quando e come intendesse dimissionare per far posto al valdostano; poi lo ospitò in un Hotel a quota 2000, gestito da Pierino Danna, un bel personaggio di valdostano serio e coerente, anch'egli scomparso in giovane età. Michele era già avanti con gli anni, non era al massimo come salute ed era accompagnato dalla moglie che desiderava visitare un po' la Valle d'Aosta; si ritrovò, invece, relegato in alta montagna, in una località disabitata, montagna vera, gente zero, negozi zero, comunicazioni zero... e Michele viaggiava in treno.

Ho voluto bene a Pierino, ma Michele non fu entusiasta della scelta di essere ospitato lassù ed anzi fu offeso e questo contribuì a render meno positivi i rapporti che, per quanto mi concerne, sono sempre stati amichevoli e cordiali, pieni di stima e di rispetto, tanto che quando nacque Gabriele, il mio terzogenito, la cui mamma è sarda, io volli informare Michele. Ed è anche vero che quando al P.E. fu eletto il sardista Mario Melis, la rotazione a favore dell'U.V. non scattò di nuovo , ma l'UV prese dei soldi con i quali, credo, pagò lo stipendio per un po' di tempo ad un funzionario. Queste cose non si possono dire? Queste ed altre cose non possono esser sottaciute. Come quella che racconto in una pubblicazione e che riguarda Pierre Grosjacques, grande intellettuale nazionalitario valdostano, il quale partì per andare a Lovagno e partecipare ai lavori di un'internazionale delle minoranze: peccato che molti partecipanti caddero nella trappola di aderire, senza sapere che il movimento organizzatore, il Were Di fiammingo, era filonazista.

Ritrovai la citazione di questo fatto, nel libro di un ex agente segreto spagnolo, pubblicazione da me recensita per La Stampa, nel quale si raccontava di alcune riunioni non dell'internazionale nera, ma dell'internazionale nazi-maoista (gli estremi insieme) che si tennero in giro per l'Europa ed anche ad Aosta. François Stévenin mi prende in giro, perché - dice - da giovanissimo ho fatto il fascistello, ma ignora che non era un superficiale neanche allora. Se mi prende in giro, allora deve prendere atto delle biche dei cosiddetti padri della patria, Grosjacques per primo, e altri... Come gli unionisti ai quali negli anni 90, sottoposi in lettura alcune pagine del filosofo fascista Julius Evola, le cui ceneri sono celate in un ghiacciaio delle montagne di Gressoney, i quali ritennero che a scrivere quelle pagine fossero stati o Emile Chanoux o Bruno Salvadori... E che dire del presunto capo dell'E.T.A. Krutwig Sagredo che tutti in Euskadi conoscono, senza però riconoscerlo come un capo dell'ETA e, al più, ammettendo che fu un intellettuale un po' originale che parlò della Vasconia (un Guidubaldi basco, insomma!). Tanti in Valle d'Aosta lo ricordano, dichiarando con questo di esser stati vicini all'ETA; ma Sagredo nei Paesi baschi viene ricordato anche per una qualche ambiguità ed i valdostani che lo ricordano non hanno conosciuto nessun altro vero leader basco.

Gli equivoci sono sempre stati all'ordine del giorno nelle dinamiche internazionali, fino all'episodio di Crevelle e di Francité che, ad un certo punto, poté riunire un centinaio di persone valdostane, disposte ad ascoltarlo, ... perché non si sa mai. Crevelle tentò di innescare una rivolta popolare in Valle d'Aosta, sulla base della sua francofonia, ritenendo che la difesa dell'identità contro gli attacchi presumibili, mossi da un governo di destra come il primo Governo Berlusconi, avrebbe portato i valdostani in piazza. Francité avrebbe messo insieme una force di frappe ed avrebbe potuto scapparci qualche incidente abbastanza grave da scatenare una nuova querelle internazionale, infiammare gli animi e, magari, provocare una vera e propria ribellione e guerriglia. Ed equivoche furono le scelte di certi indipendentisti (oggi stanno nell'U.V.) che si avvicinarono ai post-leghisti che avevano dato l'assalto al campanile di San Marco. Non perché questi fossero indegni di attenzione, tutt'altro, ma perché la battaglia nazionalitaria dovrebbe essere diversa dagli scontri estemporanei..."campanilisti".

Ora sarebbe utile confrontare le esperienze internazionali di altri, ma purtroppo credo che per alcuni si sia sempre trattato di cose episodiche e senza continuità e che pochi abbiano costruito rapporti veri, limitandosi a partecipare ad un convegno, un congresso, un incontro, ecc. Diverso il discorso che riguarda la F.U.E.V. Che ne è? Diverso il discorso che riguarda la Conférence des Communautées de langue française. Che ne è? Diverso il discorso che riguarda il Jura. Che ne è? Ecco perché C.I.E.M.E.N. ed A.P.M. sono importanti, perché sono contesti nei quali la collaborazione, lo scambio, sono continui e si fa davvero rete in modo continuativo. E' l'eterno problema che divide politica e cultura, ideologia e filosofia e - cioè -, l'uso strumentale del pensiero o il pensiero puro, la strumentalizzazione o la creatività.

Mi vengono in mente altre cose: quando, in occasione delle seconde elezioni del Parlamento Europeo, a Roma era discussa la legge, l'U.V. fu invitata a partecipare ai lavori di una Commissione parlamentare che aveva funzione deliberante e che doveva decidere alcuni dettagli della legge elettorale europea. La Commissione era diretta da un socialista di cui non ricordo il nome e doveva discutere - tra l'altro - quanti voti sarebbe stato necessario che un piccolo partito delle minoranze raccogliesse per poter far scattare a proprio favore i meccanismi dell'apparentamento con un partito maggiore. Non si dimentichi che, in quegli anni, il socialista Arfé aveva portato il P.E. ad approvare una Carta sulle lingue e sulle minoranze e che si creava il Bureau Europeo per le Lingue meno diffuse, chiamato a gestire i fondi europei per la tutela delle Lingue. I socialisti crearono una struttura italiana per gestire quei fondi, il CON.FE.MI.LI, diretta dal socialista Ardizzone.

L'U.V. inviò a Roma per la discussione di quella legge, due persone, Ugo Voyat e me, senza precise indicazioni, poiché sembrò forse che la nostra dovesse essere una pura presenza di facciata; all'idea di portare la quota di aggregazione a 30 mila, io che per rispetto tacevo per lasciare fosse Ugo a parlare, mi limitai a precisare brevissimamente che i valdostani ritenevano che la legge elettorale dovesse prevedere un collegio valdostano, mentre l'apparentamento poteva essere utile ad aggregare e coinvolgere solo quelle minoranze che, essendo prive di una specifica territorialità o di uno specifico riconoscimento istituzionale, potevano ugualmente trovar voce solo attraverso altri dispositivi legislativi. Affermai che, come par la Valle d'Aosta era indispensabile che anche sardi, friulani e sudtirolesi potessero accedere al P.E. direttamente.

Torno al CON.FE.MI.LI che convocò una riunione a Roma per coinvolgere tutte le minoranze. I socialisti vi avevano già collocato i propri portavoce sardi, friulani, occitani (una donna, attrice del cinema, amante di Craxi). Mi presentai con altri della rete del C.I.E.M.E.N. (c'erano Matteodo, Columbu, Rossi, ...) e della LE.LI.NA.MI. (Ceschia, Corraine, Giordana, ...), per dire che il CON.FE.MI.LI. era stato costituito solo per prendere fondi europei, mentre solo le altre erano organizzazioni storiche. Per il CON.FE.MI.LI , però, c'era - oltre ad Ardizzone - un valdostano, il professore Pezzoli, ex socialista, che potè affermare di avere sostanzialmente un mandato dell'U.V. (da parte di Tamone e di Andrione) a seguire quella dinamica linguistica. Poiché Presidente del Bureau era Aureli Argemi, segretario generale del C.I.E.M.E.N., riuscimmo a far convocare una riunione di un Comité de créance, che avrebbe dovuto armonizzare le tensioni createsi, ma non ebbi alternativa: o scontarmi con Pezzoli o lasciar perdere. Presi una posizione intermedia, ma avevo già verificato che l'U.V. faceva affidamento su Pezzoli e tutte le organizzazioni storiche della difesa delle lingue e delle minoranze vennero spazzate via.

Perfino Columbu passò, infine, al CON.FE.MI.LI, e Bétemps andò a Roma alla riunioni del CON.FE.MI.LI senza neppure porsi il problema della sua rappresentatività, e un leader sloveno che al Congresso di Saint-Vincent aveva firmato l'appello a Bruxelles contro il CON.FE.MI.LI, ne divenne Presidente... Questo perché troppo spesso le cose sono fatte senza un Progetto. Poi se ne fa la lettura storica e ciascuno, per opportunismo/per l'età o per altro, ricorda ciò che vuole, me compreso - ovviamente. Ma non sono paranoico e ciò che è avvenuto è storia dentro alla quale io sono stato: la ricordo, la racconto ed è la storia delle contraddizioni anche dell'U.V. Contraddizioni gravi poiché, allora, la voce dell'U.V. era importante tra le minoranze/nazionalità/nazioni senza Stato, come lo era quella del P.S.d.Az

Tutti abbiamo contraddizioni. Anche Spiga che con Melis al governo ed al P.E: gestì un Congresso a Cagliari al quale partecipò Miglio, lasciando intuire fossero in corso grandi manovre per riavvicinare sardismo e Lega. Così non era, ma Eliseo giocò il gioco che Melis voleva giocare. Ora che cosa dovremmo scrivere nella storia, forse che Eliseo Spiga era in contraddizione o che - strumentalmente - si valutarono continuamente strade e controstrade? Anche io elaborai per Grimod, Presidente dell'U.V., un progetto elettorale europeo nel quale, poiché mi si diceva che erano in corso nuovi inevitabili confronti con la Lega, proponevo non si raggiungesse nessun accordo organico, ma alla peggio, si desse corpo ad un apparentamento; non era certo un'idea mia, era solo una scappatoia, una ricerca del meno peggio in ordine al quale proposi che mediatore e simbolo principale fosse il Partito Federalista Europeo, sostanzialmente cercando la meno contraddittoria tra le soluzioni che l'U.V: stava cercando.

Propongo questo breve elenco di verità nascoste, come omaggio a Bruno Salvadori, auspicando che l'anniversario della sua morte non sia un pretesto celebrativo, ma l'occasione per un confronto sereno e aperto sulle dinamiche internazionali. Quello dei rapporti internazionali (tra Nazioni, tra Nazioni senza stato) fu un suo pallino e fu una sua intuizione.


LETTERA APERTA A ENZO BETTIZA

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Caro Bettiza, su La Stampa ha scritto un commento ai risultati del referendum svoltosi in Francia sulla Costituzione Europea. Traggo spunto da questo per risponderle, se pur a grande distanza di tempo e per parlarle di Bruno Salvadori. Se davvero, come Lei ha affermato su "La Stampa", le ragioni del NO all'Europa sono così complesse e diverse da rendere impossibile un'univoca spiegazione dei risultati del referendum in Francia ed in Olanda, pare assolutamente evidente che anche la ragioni di un SI sarebbero state diverse e complesse. Il che vuol dire che l'Unione non si sarebbe rafforzata neppure con un SI che avrebbe consolidato soltanto le strategie politiche ed economiche che hanno bisogno di un'Unione e di questa Unione.

Il testo della cosiddetta Costituzione Europea non riesce a rappresentare le diversità della nostra Europa per il semplice fatto che l'Unione Europea nasce come Europa dei mercanti e degli Stati, troppo egoisti per creare qualcosa in cui credere davvero e troppo pragmatici per consentire che alla costruzione dell'Unione partecipino davvero tutte le diversità. L'Europa nasce con un progetto economico neoliberista: sappiamo bene che le politiche comunitarie applicate, ad esempio, all'acciaio ed al latte, hanno prodotto effetti devastanti in alcune aree, creando picchi di disoccupazione e di crisi. Sappiamo anche bene che le disuguaglianze economiche tra gli Stati membri sono considerevoli e rendono inspiegabili le ragioni per le quali alcuni Stati debbano rispettare parametri di sviluppo che comportano ed impongono sacrifici inusitati alle classi lavoratrici e non sono richiesti a tutti i nuovi membri.

Se i lavoratori devono pagare il prezzo della costruzione di un'economia di mercato europea, riesce loro difficile riconoscersi in una Costituzione che del lavoro e del welfare dice così poco. La Costituzione, inoltre, parla di Popoli ed usa questo termine per indicare solo gli Stati costituiti. Equivoco da poco? Non direi, poiché i cittadini europei che appartengono a veri popoli (non parlo di piccole minoranze), vere Nazioni senza Stato, sono circa 80 milioni! Nella Costituzione costoro non esistono poiché non solo la Costituzione confonde popoli e stati, ma quando parla di cultura e di lingue, fa - di nuovo e soltanto - riferimento alle culture dominanti ed alle lingue di Stato. Gli europei che non sono riconosciuti in questa Costituzione sono almeno 80 milioni. Quindi da un lato ci sono cittadini europei che non si possono riconoscere in una Europa che sembra nascere contro i loro interessi e dall'altro ci sono cittadini europei che l'Europa non riconosce costruendo istituzioni che vanno contro le loro identità.

Credo che queste siano, sostanzialmente le ragioni per le quali la costruzione dell'Europa sta incontrando tante difficoltà: non sono certo le diversità rispetto al modo di affrontare talune emergenze sociali (eutanasia, aborto, liberalizzazione delle droghe, politiche di integrazione degli immigrati, ecc.) a pesare come elemento ostativo. E non credo neppure sia così rilevante il fatto che la Costituzione riconosca formalmente, oppure no, le proprie origini cristiane che valgono, al più nell'evidenziare che oggi l'Europa è un crogiolo di fedi e di religioni che devono imparare a vivere insieme ed a rispettarsi, evitando che la fede entri nella sfera squisitamente politica delle decisioni politiche. Credo, piuttosto, che ci siano molteplici tipologie di diversità delle quali tener conto, ma che due siano quelle sostanziali: quelle legate all'economia e quelle legate all'identità. Non è possibile costruire un'Unione nella quale il numero degli esclusi sia così rilevante, come quello della nostra Unione Europea; i lavoratori e i popoli sono esclusi e non potendo far valere il loro specifico identitario come strumento di contrapposizione politica, lasciano che altre siano le resistenze concretamente frapposte.

In Europa ci sono troppi esclusi e questo non è sicuramente democratico e se questo alimenta gli egoismi degli Stati e le paure degli esclusi, non vedo come se ne possa negare l'evidenza e la legittimità. Che, poi, piaccia oppure no c'è ed è di grande rilievo, la questione degli immigrati: sono milioni e stiamo scrivendo una Costituzione nella quale essi non esistono. Contribuiscono alla crescita economica, si insediano in Europa, costruiscono le loro famiglie imprimendo spinte considerevoli anche alla crescita demografica e noi scriviamo una Costituzione che, tempo una generazione, sarà completamente estranea a milioni di nuovi europei: non più immigrati clandestini e no, ma persone nate in Europa ed inserite in Europa con tutte le componenti di una loro diversità che o sappiamo integrare o si ghettizzerà. Non credo che il progetto di costruzione dell'Europa fallirà perché in Olanda sono facilmente permesse le unioni gay e la libera circolazione degli spinelli e in Italia no. Credo piuttosto che quando gli esclusi troveranno un denominatore comune, inevitabilmente giungeranno alla conclusione che o nascerà una Europa diversa, oppure l'Europa non nascerà affatto o - peggio - nascerà in Europa la dittatura democratica del mercato e dei mercanti.

Oggi tutto il bene e tutto il male sembrano legati all'Europa; ogni governo accolla all'Europa le responsabilità dei fallimenti e delle difficoltà. Mi sorprendo sempre di trovare, soprattutto tra immigrati africani, il senso di appartenenza all'Africa, che ha dato loro così poco che hanno dovuto andarsene, eppure si sentono e si definisco tutti profondamente africani. Eppure se c'è nel mondo un crogiolo di profonde diversità questo è proprio l'Africa. L'Europa non è sentita allo stesso modo dagli europei. Probabilmente stiamo costruendo una falsa identità europea, così come abbiamo costruito una falsa identità stato-nazionale, negando le vere identità, quelle dei popoli e delle nazioni senza Stato. Se una soluzione va, quindi cercata, è quindi alla cultura che bisogna guardare davvero come strumento di costruzione di una vera unità nella diversità. Venticinque anni or sono moriva in un incidente stradale un giovane leader valdostano che si impegnò a fondo per costruire l'Europa dei Popoli. Si chiamava Bruno Salvadori e sono certo che il nome non le sia sconosciuto: se lo è valga questa lettera a indicarlo a lei, così attento alle dinamiche europee.


Il libro 'AKARA-OGUN E LA RAGAZZA DI BENIN CITY', 2002Vedi anche di Claudio Magnabosco:
> Una lettura strumentale delle identità
> "Sono nessuno o sono una nazione", > su evolutionbook.com, versione .rtf zip 55KB
> Akara-Ogun e la ragazza di Benin City
> La ragazza di Benin City
> Decine di africane sono state assassinate in Italia. Le altre Amina: ogni giorno le africane sono "lapidate" in Italia
> Identità nazionale e minoranze nello Stato italiano
> Indipendentismo sostenibile, Nazione inclusiva, moltiplicatore. Tre teorie tra storia del federalismo e attualità del dibattito sul micronazionalismo
> Celtismo, New Age, Sindacalismo: Tre problematiche a confronto con l'idea di nazione e con il rischio di fascistizzazione delle nazionalità
> Nazioni senza Stato e diritti collettivi
> Per una storia della Valle d'Aosta dal 1945 al 2000
> Le chemin du S.A.V.T. 1952-2002

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